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Eucaristia e fenomenologia

di Paola Mancinelli (31 agosto 2004)

1. Genealogia di un connubio insolito

L'accostamento di eucaristia e fenomenologia può apparire insolito. Che cosa, infatti, avrebbe a che fare un'istanza filosofica intesa come strenge Wissenschaft, come fondazione trascendentale a sanzionare l'intentio originaria del ritorno zu den Sachen selbst, con il nucleo più intenso, nevralgico dell'annuncio cristiano? E inoltre, si tratta forse di una svolta teologica in filosofia atta a capovolgere l'Aufhebung hegeliana, coniugando nella fede il climax del sapere, o forse si apre dinanzi a noi l'orizzonte impensato di un reciproco avvicinamento teoretico di filosofia e teologia1 atto a chiarificare fino in fondo il senso della fenomenologia espresso da Heidegger,2 come la condizione di sviluppo di ogni potenzialità del pensiero e a manifestare al campo dell'adesione credente una delle questioni più fondamentali, ovvero l'esplicitazione di senso dell'annuncio?

Abbiamo posto questa serie di interrogativi per cercare di delineare via via la portata dell'indagine, ma anche per sottolineare l'istanza particolare della stessa filosofia fenomenologica, una volta decantato l'aspetto di idealismo trascendentale, nonché di solipsismo, quale è ravvisabile nelle Meditazioni husserliane,3 in altre parole il problema del senso. Secondo le affermazioni di Ricœur, infatti,

la riduzione opera «a partire dall'atteggiamento naturale»: la fenomenologia trascendentale presuppone quindi, in un certo modo, ciò che essa supera e che ripete come il medesimo anche se in un altro atteggiamento. La differenza quindi non sta quindi nei tratti descrittivi, bensì nell'indice ontologico, nella validità d'essere; bisogna perdere la validità als Reales, in una parola distruggere il realismo psicologico.4

Ciò che emerge da questa affermazione è la radicale messa tra parentesi dell'atteggiamento naturale tipico dell'empirismo per poter risalire all'essenza più pura della res, che in quanto tale deborda dall'aspetto meramente descrittivo. In altri termini la perdita del reale implica un guadagno del fenomeno di realtà, ovvero del come della sua manifestazione. Qui, tuttavia, tale manifestarsi viene ricompresso nell'ambito di un'ontologia da intendersi come conoscenza prima dell'essere, coniugabile, perciò, secondo un'accezione metafisica, ma riconducibile all'istanza della validità d'essere. La riduzione praticata dalla fenomenologia esige da un lato il ritorno alle cose stesse, dall'altro permette di attingere l'eidos della loro fenomenicità procedendo ad una donazione di senso (Sinngebung). Risulta chiaro che tale Sinngebung si sviluppa da una donazione ancora più originaria attagliandosi su di una differenza, che si può definire come l'apertura entro cui il fenomeno si manifesta in quanto tale.

Da questo punto di vista ci sembrano importanti le affermazioni di Michel Henry, secondo cui la questione del come della manifestazione scandisce il reciproco richiamarsi di fenomenologia e teologia.5 Quest'ultima disciplina ruota attorno al concetto di Rivelazione, che funge da apertura trascendentale, in quanto permette un accesso razionale e ragionevole all'evento divino; razionale quanto alla possibilità di comprendere l'atto del rivelarsi ed il revelatus stesso nella loro datità storica, ragionevole in quanto tale comprensione che si articola nell'atto di fede non può che avere come condizione l'originaria manifestazione divina, la quale, tuttavia, necessita di un'esplicitazione da parte dell'uomo nel mondo. Come osserva Heidegger,6 si tratta di quell'evento a cui si aderisce credendo, per cui il credere sottende ed attraversa il comprendere.

D'altra parte, la teologia non può non essere implicata sul come della manifestazione, e questo le permette di elaborare un'ermeneutica della Rivelazione che sfocia in un'ermeneutica del credere, operando via via un'Auslegung del senso. In altre parole essa dovrà esplicitare il senso che il già dato del mondo, così come il già dato dell'esserci assume nell'ambito di questo evento rappresentato dalla Rivelazione. Secondo quanto afferma Ricœur:

La riduzione non avviene quindi tra noi e il mondo; tra l'anima e il corpo, tra lo spirito e la natura, bensì attraverso il già dato, l'esistente, i quali non sono più ovvi, smettono di essere presi nella Seinsglaube (fede nell'essere) cieca, per diventare Senso, senso del già dato, senso dell'esistente, senso dell'ente.7

Tuttavia, il come della manifestazione viene contrassegnato dalla teologia biblica attraverso due connotazioni fondamentali: la parola ed il gesto. Non solo, il gesto che -- specie nelle Scritture ebraiche -- sottende sempre l'azione relazionale di Dio verso Israele, nel Nuovo Testamento implica la possibilità di individuare un soggetto di imputazione, per usare un linguaggio tipico dell'ermeneutica narrativa, di lasciarlo vedere in quanto vivens persona, in altri termini il gesto diviene modo della manifestazione della Parola, così come la Parola manifesta l'Immanifesto, ma necessita di una gestualità per dare un corpo al suo stesso venire nel mondo. Ed in questo intreccio di Parola e corpo, di manifestazione e di in apparenza, di sottrazione del reale e di nuova presentificazione nella sua fenomenalità, che potremo via via individuare il senso di questa singolare connessione, che coniuga la teologia nel versante fenomenologico del pensiero secondo un orizzonte affatto nuovo, e che permette altresì alla filosofia fenomenologica di chiarificare un'istanza fondamentale caratterizzante la sua vocazione epistemica: la donazione.8

Per evidenziare questo singolare intreccio possiamo accostare due testi, rispettivamente di un teologo e di un filosofo, al fine di convergere sulla natura fondamentale del rapporto intercorrente fra donazione e manifestazione. Il primo testo, tratto dal Prologo di Giovanni di Giovanni Scoto, recita come segue:

Tutto ciò che si comprende e si sente non è altro che apparizione del non apparente, manifestazione dell'occulto, affermazione della negazione, comprensione dell'incomprensibile, parola dell'ineffabile, accesso dell'inaccessibile, intelletto dell'inintelligibile, corpo dell'incorporale, [...] fisicità dello spirituale, visibilità dell'invisibile.9

Il passaggio lascia supporre una distanza, una sorta di interruzione fra il dato visibile, dunque manifesto, e ciò che permette la manifestazione stessa. Quasi si desse un'apertura entro cui l'apparire ha accesso nel mondo. Una metafora adeguata potrebbe ravvisarsi nel rapporto che intercorre fra la luce e ciò che, in virtù di essa, si dona alla percezione in quanto colore. Il colore, in effetti, rinvia alla luce come a quella fonte originaria di manifestazione che resta, tuttavia, immanifesto, perché il fenomeno del colore abbia luogo.

Il secondo testo, tratto da Phénomenologie materielle di Michel Henry, recita come segue:

Il Verbo che viene in questo mondo non è il logos greco, la venuta al mondo stessa in quanto tale. Ciò che viene nel mondo vi si sottrae molto prima, è la vita nascosta. La comprensione greca del logos, fondata sulla verità della percezione, traversa il Medioevo e determina il pensiero occidentale nel suo insieme. Così Jacob Boehme interpreta la Saggezza divina come la prima oggettivazione dell'essenza divina identica alla prima manifestazione, pensando in questo modo di legittimare l'esistenza del mondo a partire da quella dell'assoluto.10

Si coglie, qui, una prima e fondamentale divaricazione fra la comprensione greca e quella ebraico-cristiana del logos, nonché la particolare attenzione del fenomenologo francese alla connessione fra il Verbo e la vita che in lui si manifesta. Nel mondo greco la venuta al mondo è il logos, così come la phýsis richiama il pháinesthai. La vita che pure è il Verbo, secondo il prologo di Giovanni, è ad un tempo sfondo sottratto, invisibile. Ragione per cui nessuno ha mai visto la vita, come ama evidenziare Henry,11 ma essa si automanifesta nel vivente, in ogni vivente. Il Verbo da questo punto di vista è l'essenza della manifestazione della vita, ma è, ad un tempo, la Parola che lascia vedere l'immanifesto. Tuttavia, questo è coglibile a partire dalla stessa radice della parola fenomenologia. Ci sembra necessario riferirci alla preziosa analisi heideggeriana contenuta in Sein und Zeit.12 Il filosofo di Meßkirch afferma in effetti che l'apparire è l'annunciarsi come ciò che non si manifesta, dall'altro è l'annunciante stesso che rinvia a qualcosa di non manifestantesi.13

Se trasponiamo teologicamente tali asserzioni possiamo pervenire alla conclusione secondo la quale il Verbo è annuncio di un originario invisibile (Il Padre in quanto vita-luce), d'altra parte non è mera parvenza: è a condizione del suo manifestarsi che l'immanifesto si annuncia. Per questo il Verbo è rivelazione di un Rivelante originario che abita pienamente nel Rivelato. Come infatti recita la lettera agli Ebrei: «Questo Figlio [...] è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola» (Eb. 1,3). È necessario, tuttavia, riapprodare ora all'orizzonte filosofico e riflettere ulteriormente sull'istanza fondamentale della fenomenologia. Husserl sostiene un'identità di essere e apparire che recita come segue: so viel Schein so viel Sein. Questo ci permette di evidenziare che il fenomeno (Erscheinung) non è mera parvenza, ma modalità stessa del darsi dell'essere. In questo senso, il fenomeno lascia vedere ciò che nella sua manifestazione è annunciato. Risulta, allora, plausibile una connessione con la radice etimologica di lógos in quanto discorso, se è vero, secondo l'analisi heideggeriana, che lógos si richiama a légein, la cui corrispondenza tedesca è sammeln, raccogliere, e per questo lógos indica il raccogliente dell'essente, ciò che lascia vedere, raccogliendo, l'essente, nel suo differire da questo.

Da un punto di vista teologico, ancora una volta, la Parola è ciò che lascia vedere, annunciando e comunicando l'immanifesto. Se, da un lato, dobbiamo pervenire ad una conclusione secondo cui ciò che si manifesta è invisibile, dovremmo però, dall'altro, evidenziare come, nel caso del Cristianesimo, la Parola è rivelazione della Rivelazione, e quindi verità; come osserva giustamente Michel Henry: «la sua fenomenicità è la fenomenizzazione della fenomenicità stessa».14 Tale fenomenizzazione tuttavia avviene nel linguaggio, attraverso cui Dio si designa agli uomini.

Il linguaggio è intrinseco alla Rivelazione, così come viene attestato in un luogo fondamentale dell'ermeneutica, quale Verità e metodo di Gadamer, e la natura della rivelazione in quanto linguistica è altrettanto fenomenologica. Questo può essere facilmente attestato dalla radice ebraica del termine parola (dabar) che significa anche cosa, fatto. Il motto della fenomenologia è pertanto zu den Sachen selbst, alle cose stesse; ma in che senso? Nel senso della loro manifestazione, fenomenalità, che è altresì rivelativa della cosalità. Si dà, dunque, un gioco di visibile ed invisibile, che il linguaggio stesso può esprimere indicando. Come osserva Heidegger, in effetti, sagen (dire) è implicato in zeigen (mostrare). In tal senso la filosofia che si coniuga nell'accezione della fenomenologia, vuole portare ad espressione le cose stesse.

Altrettanto il Verbo che esprime la verità del Cristianesimo porta ad espressione il nucleo invisibile, il fondo del silenzio che è originariamente autorivelazione. In entrambi i casi, rispettivamente quello della teologia e quello della filosofia accomunate dal versante fenomenologico, la manifestazione/rivelazione sottende un incontro, una partecipazione carnale alla verità che esprime l'essenza della manifestazione; per questo motivo ci sembra che la fenomenologia francese, nello specifico di Michel Henry, esprima molto appropriatamente questa istanza ricorrendo al termine di páthos; autoaffezione patica, dunque, è l'evento stesso della rivelazione in quanto partecipazione di sé al mondo.15

Vi è, tuttavia, un altro orizzonte significante che distende fenomenologia e teologia lungo un asse di comunicazione-interruzione grazie a cui esse si chiarificano: si tratta del corpo. Sarà proprio il corpo, questa origine delle cose, nonché presenza pura che si manifesta nel fondo del mistero, a guidarci verso una comprensione filosofica dell'Eucaristia. D'altro canto la presenza del corpo, la sua ek-sistenza è terminus ad quem dell'autoaffezione patica entro cui la rivelazione è possibile. Del resto, il Verbo si è fatto carne. Chair è la traduzione francese di corpo, e intende carne come corpo vivo, non solo Nullpunkt della percezione e quindi inoggettivabile, ma condizione stessa dell'incarnazione in quanto modalità dell'esserci, della percezione, della vita. Certamente è presenza, ma in quanto prae-sentia, manifesta cioè ciò che sta dietro, dunque in sé irraggiungibile, addirittura mistero. Dunque il corpo è quel misterioso legame con la persona, come insegna l'istanza marceliana dell'avere un corpo. Opacità, in quanto inoggettivabilità, il corpo è altrettanto il nodo misterioso della manifestazione della vita nel mondo, della vita, come si diceva, in quanto autoaffezione propria nel vivente. Così, quanto vi era di più opaco ed inoggettivabile, diviene per la fenomenologia la luminosa evidenza di ciò che è proprio, di quel punto primordinale della percezione che si apre al riconoscimento dell'alterità. Molto giustamente osserva Silvano Petrosino:

Se dunque ciò che la fenomenologia ricorda è l'evidenza del corpo in quanto proprio, allora ciò ch'essa non può fare a meno di ricordare e portare all'evidenza (questo mi sembra essere il suo stesso rigore) è che la luminosità di tale evidenza -- quella che potrebbe essere definita come la verità dell'evidenza -- risplende come qualcosa di «oscuro», di mai oggettivabile o dominabile, di sfuggente nella sua stessa inconcussa stabilità, di irraggiungibile nella sua originaria compiutezza; è a questa insituabilità proprio dal corpo proprio [...] è a questo topos che non è affatto una pura assenza o semplice rinvio utopico che rinvia lo zero del punto o del centro in cui il corpo in quanto proprio è già da sempre situato.16

Si coglie qui l'intreccio fra luce ed oscurità, fra l'avere un mondo del corpo e l'insituabilità che dice di una impossibile reductio ad un fenomeno del mondo riportando invece ad una radice di trascendenza. Certamente, il corpo appare, innegabile è la sua evidenza alla vista, ma ciò che lascia vedere è di altro ordine; l'ineluttabilità del proprio dice ad un tempo l'impossibilità che il corpo sia appiattito su di una apprensione strumentale. D'altra parte la differenza fra Körper e Leib ci sembra eloquente ad esprimere la condizione di incarnazione come quella condizione in virtù della quale l'uomo vivente si scopre donato a sé ed attraversato dal mistero dell'essere, nonché ad evidenziare la carne come metafora di un invisibile: donde l'atopia di cui parla Petrosino che contrassegna un altro modo del dimorare.

D'altra parte nello stesso Vangelo di Giovanni, il Cristo presenta se stesso come il Figlio dell'uomo che non ha un posto ove posare il capo, sottolineando ad un tempo il suo essere nel mondo senza essere del mondo, anticipando in tal senso il mistero della presenza del Suo corpo, che, proprio nel climax sommo della manifestazione, l'eucaristia fa evidente in un apparire puro, dietro il cui silenzio la Parola scompare, anch'essa pervenuta al suo vertice. Tuttavia, ciò che è massimamente evidente, l'essenza della manifestazione suggellata dall'assoluto dono, è ad un tempo nascosto dietro l'opacità di un frammento di materia, il pane in quanto fenomeno del mondo.

Ancora una volta, quindi, è la Parola ad istituire nell'ambito dello spazio-mondo visibile la sfera indicibile dell'invisibile dischiuso nella manifestazione, e anche in questo caso -- come già nella prima tappa della fenomenologia -- è necessario l'abbandono di qualsivoglia atteggiamento naturalistico. La perdita della fede ingenua nell'essere per ritrovare la fenomenalità del reale nel proprio eidos, e così l'evento teologico più autentico, ovvero la Rivelazione della vita, manifesta la propria originalità nella pura specie di quello che secondo l'atteggiamento naturalistico sarebbe un frammento di materia, ma che la stessa gestualità del Verbo trasforma, attraverso l'efficacia performativa del linguaggio umano, nella stessa presenza divina, così che Dio diviene totalmente presente all'adorazione.

Per questo motivo è necessario riconsiderare le cose stesse, o meglio la cosalità delle cose stesse come eventi dell'apparire dell'invisibile, senza dimenticare il locus privilegiato della carne, la sua potenza metaforica, la sua forza rivelativa.

2. Manifestazione e donazione

La dialettica di manifesto ed immanifesto pone necessariamente ed in modo radicale la questione della fenomenologia. In effetti, non solo di recuperare la fenomenalità del fenomeno si tratta, ma anche di domandarsi circa la condizione di possibilità di ciò che si manifesta. Si dà, in questo caso, un differire: il dato (Gegebenheit) della fenomenologia significa un altrove, per questo motivo esso si presenta come quod aliunde tenemus.17 Per questo motivo non ci si può attestare solo sull'istanza del dato della coscienza; se pur è vero che ogni coscienza è sempre coscienza di qualcosa, donde la natura intenzionale, il dato, in quanto pura manifestazione, nonché segno di un altrove che contrassegna il suo giungerci, è oltre ogni possesso e lo esclude; ciononostante resta sia la natura relazionale e la sua condizione di essere dato. In altri termini il dato stesso e la sua recezione si inscrivono nell'ambito di una gratuità originaria, tanto che il ricorso alla traduzione donazione18 sembra opportuno, così che da attestare una maggior pregnanza di senso.

Sarebbe, in ogni caso, non appropriato ridurre ad un principio causale il dono-manifestazione e la donazione intesa come altrove della stessa fenomenalità di ciò che si dona. Da questo punto di vista ci sembrano importanti le osservazioni di J.-L. Marion:

Il sorgere nell'apparire di ciò che qui si dà, porta infatti sempre il segno di una salita al visibile: questa salita come avvento libero e autonomo, si dispone allo sforzo per sorgere a partire da un «altrove». Ma questo altrove non indica necessariamente un'origine, una causa o un attore dello scambio, poiché esso può sempre [...] farsi sentire anche senza designare l'uno di essi e, al contrario, essi possono imporsi per caso solo a partire da un'interpretazione posteriore dell'«altrove» come trascendenza.19

L'altrove contrassegna una sorta di seconda riduzione. Non v'è traccia, infatti, di un donatario o di un donatore, epochizzati, per l'appunto così da attestarsi sulla pura fenomenalità del dono. Viene escluso qualsivoglia principio di scambio, così come qualsiasi interpretazione che voglia risalire ad un'origine. Piuttosto permane la dialettica visibile-invisibile che contrassegna l'ingresso di ciò che si dà nel mondo. Il da dove che il dono lascia vedere più che indicare provenienza contrassegna il carattere intrinseco del fenomeno irriducibile. Come osserva Marion nel prosieguo del testo:

L'«altrove» indica, così, la prima proprietà radicale del fenomeno dato -- darsi, mostrarsi --, quella di compiersi indipendentemente dal nostro scambio, dalla nostra efficienza e dalla nostra previsione; dunque di pesare su ciò a cui accade.20

Si può ravvisare una svolta fondamentale; la fenomenologia perseguita lungo questo cammino si concentra infatti sul come della manifestazione piuttosto che su ciò che si manifesta, ovvero il dato-donato è messo in rilievo in quanto indicazione del carattere intrinseco della donazione: quello di compiersi al di là di ogni scambio. In tal senso la manifestazione traguarda verso l'a-topia della donazione, che, coniugata nel paradigma teologico, sottende ad un tempo l'irruzione del mistero nel mondo. Il mistero della carne del Cristo e, ad un tempo, quello della sua donazione nella specie sacramentale è al di là di ogni previsione, inaudito, traccia di una trascendenza quoad nos che inerisce invece alla sua pura immanenza, ovvero al carattere indelebile della donazione, al di là dello scambio, che -- per altro -- non renderebbe affatto ragione di questa gratuità originaria: il mio corpo è vero cibo, il mio sangue vera bevanda per la vita del mondo.

La specie sacramentale è pura manifestazione della vita donata di Dio in virtù della parola che, in quanto vox significans rem, istituisce il frammento di materia come signum efficax della Rivelazione, istituendone altresì la libera dimensione della donazione. Se pur non sia possibile superare la dimensione dello Sprachereignis, che -- al contrario -- è fondamentale, essa emerge però in quanto portatrice di una fenomenalità irriducibile che non consente di considerare la corporeità come un fenomeno oggettivabile fra i fenomeni del mondo. Michel Henry sottolinea con forza come:

L'azione, il fare, la pratica, il corpo sono strappati all'assurdità del positivismo che crede di ridurli a un fenomeno oggettivo analogo a tutti i fenomeni dell'universo, strappati anche all'assurdità delle filosofie classiche, che vi vedono un passaggio o, per meglio dire, un salto incomprensibile fra due ordini irriducibili.

E ancora:

Dire paradossalmente che l'azione è invisibile significa assegnarle un modo di rivelazione radicale, lo stesso della vita, in ultima istanza di Dio stesso.21

L'eucaristia è azione dello Spirito che è il rivelatore dell'essenza universale della creazione, l'archirelazione del Padre con il Figlio e del Figlio con il Padre. Essa è infatti invisibile, ma insieme manifesta nella specie sacramentale che la significa, significando allo stesso tempo la vita donata di Dio nel Figlio, nonché quella dei viventi in Lui per e nella Sua carne. Si tratta altresì di un passaggio misterioso, ma non incomprensibile. Il corpo di Cristo eucaristico non è la Sua umanità storica; si tratta di un frammento di materia, ma essa non è riducibile alla scomposizione fisico-chimica nelle sue molecole. È ancora Leib, carne nel gesto più alto del suo donarsi, sintesi del gesto kenotico di un Dio che scompare come semplice presenza per essere manifesto nel qui e nell'ora dell'evento memoriale della Sua storia con gli uomini.

Si tratta, ancora, di un'azione che è al principio stesso dell'automanifestazione della Vita, di Dio come assoluto dono che precede ogni atto d'essere, e che, anzi, convoca all'essere per lo stesso Suo dono: ha dato il potere di divenire figli di Dio a coloro che non da carne né da sangue, né da volere di uomo ma da Dio sono stati generati recita il Prologo del Vangelo di Giovanni. La manifestazione del Figlio, nel corpo prima, nel sacramento poi lascia vedere tale azione invisibile che è la donazione. Da un punto di vista strettamente teologico-esegetico, l'azione stessa è, per converso, la condizione della possibilità di manifestazione della Parola in quanto verità. Pregnanti a questo riguardo sono le affermazioni di Dodd a proposito del Vangelo di Giovanni:

Il nostro autore ha una percezione vivissima dell'efficacia della parola detta, in quanto espressione razionale del pensiero articolato, specialmente perché chi parla qui è uno che «conosce» la aletheia in massimo grado ed è in realtà la aletheia. Una tale parola è intimamente legata alla forza del pensiero creante di Dio. È questa una delle ragioni per cui il logos è per lui un termine perfettamente appropriato ad esprimere la manifestazione della divinità nella creazione, nella storia e nell'esperienza dell'umanità. Simultaneamente egli è immune da quella tendenza alla astrazione che è caratteristica del pensiero ellenistico. La parola, o la verità incorporata alla parola raggiunge la sua piena efficacia solo quando si esprime nell'azione concreta come la parola di Dio si esprime nell'atto creativo. Cristo pronuncia parole di vita; ma le sue parole sono sempre correlative alle azioni: in queste il loro significato trova l'espressione effettiva. [...] Ma la parola definitiva sarà pronunciata solo nell'atto supremo di Cristo: la sua morte e resurrezione. Solo allora, quando darà la sua sárx kai háima, «carne e sangue» per il mondo, si potrà constatare in tutta l'ampiezza fino a che punto la Parola si è fatta carne.22

L'eucaristia è dunque il segno che riassume e rivela tutti i segni, secondo il principio dell'analogia dell'esperienza; possiamo evincere come essa sia il vero segno che permette di interpretare come salvifici tutti i segni di Gesù, che sono, a loro volta, continua manifestazione del Verbo nel mondo. Altrettanto, l'evento eucaristico in quanto manifestazione della Verità permette di giungere al nucleo stesso, in altri termini al come della manifestazione che è l'autorivelazione di Dio come donazione. Riteniamo che la teologia biblica qui sottesa possa essere efficace affinché la filosofia stessa porti nuovamente alla centralità della riflessione la vita ed il corpo. Tale fenomenologia del corpo, tuttavia, implica, come visto, una reinterpretazione della fenomenologia tout court.

Una riflessione importante è, da questo punto di vista, quella che conduce Marcel sull'avere un corpo.23 Nell'istanza marceliana, infatti, possiamo subito notare come il corpo non sia il termine di un'oggettivazione, né tantomeno il verbo «avere» sottenda l'atto dell'appropriazione oggettivante. Il corpo (chair) è la sfera del proprio per la quale io sono dato a me stesso nel gioco dialettico di ipse-idem, in modo tale che posso parlare di una fattualità, o finitudine, attraversata dal mistero dell'essere; in egual misura l'avere sottende questo scambio con il mondo, nonché quella corrispondenza al mistero che ci comprende in quanto carne vivente, cosciente. Il corpo è altresì la manifestazione con cui la Vita autoaffetta se stessa, secondo quanto afferma Michel Henry. Questo risulterà tanto più efficace se si tiene presente, da un punto di vista teologico, che, la stessa frase di Cristo «questo è il mio corpo» può essere tradotta altrettanto propriamente come «questo sono io», ovvero la mia identità vivente, pensante, con-sofferente, l'identità finita che si rivela nel suo nodo essenziale con il mistero dell'essere, e che, soprattutto nel caso del Verbo consostanziale, manifesta la radice ontologica della relazione trinitaria.

Possiamo parlare di una sorta di potere ontologico del corpo, per parafrasare Merleau-Ponty, costituito dal fatto che, se -- da un lato -- esso costituisce il Nullpunkt di ogni percezione, dall'altro è la nostra stessa condizione di attingimento alla fonte del radicalmente altro che ci costituisce. Se questo è vero, il corpo è manifestazione della sua stessa trascendenza che risale all'azione in sé immanente della donazione, avanti qualsivoglia metafisica ontica. Per converso non si può eludere la questione dell'avere legata al corpo, al fine di evidenziare quello che Marcel denomina il mistero metafisico dell'indisponibilità.24 Se avere un corpo potesse ridursi sic et simpliciter a poter disporre di esso come di un oggetto del mondo, non si potrebbe che pervenire alla conclusione che il passaggio mortale dal corpo come carne vivente al corpo come cadavere, non sarebbe soltanto una mera devitalizzazione, ma, molto di più, una privazione dell'essere. Al contrario, il corpo è luogo della stessa misteriosa relazione fra l'idem e l'ipse della mia identità, nonché il rimando simbolico vivente a quella che Marcel definisce come co-presenza di Dio, intesa come la condizione per la quale ci si apprende come tu inoggettivabile, come libertà affidata. Da questo punto di vista la corporeità assume la più ampia semantica della creaturalità attraverso cui si è capaci di testimonianza, in quanto costituiti testimoni di una verità a cui si aderisce esistenzialmente, perché orizzonte della propria condizione incarnata, nonché di fedeltà a sé, ma -- allo stesso modo -- tale fedeltà sottende la memoria di un'origine fontale. La pagina marceliana risulta pertanto pregnante:

Un corpo è una storia, o più esattamente il realizzarsi, il fissarsi di una storia. Io non posso dunque dire di avere un corpo, almeno propriamente parlando, ma la misteriosa relazione che mi unisce al mio corpo è alla base di tutte le mie possibilità di avere.25

Avere un corpo è in qualche modo avere un mondo inteso come istituzione di relazioni che sono possibili in quanto il primo atto d'esistenza creaturale è relazione, rispettivamente auto- ed eterorelazione, e solo per questo motivo la corporeità coincide con la storicità. Ma avere un mondo ed una storia non implica in alcun modo una disposizione obiettivante, quanto invece l'apertura che, a partire dalla partecipazione carnale alla verità del mondo donato, consente un sempre ulteriore dono di senso. Per questo motivo, Marcel prosegue:

L'avere come indice di un'indisponibilità possibile. Il morto come colui che non ha più niente (almeno se prendiamo la parola «avere» nelle sue accezioni specificabili). Tentazione di pensare che non avere più niente equivalga a non essere più niente; e di fatto l'inclinazione della vita naturale è di tendere a identificarsi con ciò che si ha; in tal modo la categoria ontologica tende ad annientarsi. Ma la realtà del sacrificio è là a dimostrarci in qualche modo l'effettiva possibilità per l'essere di affermarsi come trascendente l'avere. Qui è il significato più profondo del martirio in quanto testimonianza; esso è la testimonianza.26

La categoria della testimonianza non indica soltanto un'indisponibilità nel senso dell'assenza di qualsivoglia oggettivazione della vita in quanto principio di trascendenza che custodisce e contrassegna la corporeità, essa sottende anche la possibilità di trascendere l'avere un corpo, rivelando così la vita irriducibile al mero aspetto naturale, quella stessa vita invisibile che i viventi, nella loro condizione di Leib, manifestano. Ma il potere ontologico di tale manifestazione ruota attorno al nucleo della condizione di incarnazione, per cui è possibile parlare di una vita creaturale animata dallo Spirito; questa stessa azione pneumatologica sostiene infatti la Parola e l'opera del Cristo in quanto manifestazione nella stessa carne dell'autogenerarsi della Vita come donazione originaria. Egli potrà quindi dire Le mie parole sono Spirito e vita fino a testimoniarlo nel proprio corpo, che, come recita il Salmo 40, indica il dono originario che sospende definitivamente i sacrifici rituali. Un corpo mi hai preparato, si dice nel versetto 7b del Salmo citato, e questo ne evidenzia il contrassegno ontologico del dono sovrabbondante, del per-dono originale che re-istituisce in integrum quanto era stato deformato nel senso di un'originale rapina, benché tale re-institutio in integrum sottenda una protologia che traguarda verso un'escatologia e solo nella stessa azione teandrica del Figlio rivela il mistero del Padre come archi-relazione e come vita donata.

L'eucaristia significa tale sovrabbondanza originaria in modo da essere sia evento memoriale sia evento prolettico. In questo senso si può comprendere in che senso la teologia cristiana abbia sempre sottolineato la presenza reale e misteriosa del Cristo nella specie eucaristica, anche se ci sembra che il ricorso, in una delle preghiere eucaristiche della liturgia, del termine scambio per intendere l'evento soteriologica del Cristo sia poco adeguato a dar conto della donazione manifestata nel memoriale celebrato. Prae-sentia indica ciò che sta dietro, ma ad un tempo il plesso ontologico che sostiene il fenomeno della specie nella sua stessa fenomenalità; essa sottende la verità manifestata nel gesto dell'incarnazione fino alla kénosis, e dice attraverso l'efficacia performativa della parola capace di liberarne l'essenza l'evento paradigmatico con cui l'incarnazione era già donata prima che il mondo fosse, secondo quanto recita il già citato versetto del Salmo 40, legittimamente interpretabile come una sorta di dialogo cristologico: «un corpo mi hai preparato». Tuttavia la stessa performatività del linguaggio dice anche di un istituirsi del reale ex novo, ed in virtù di questa istituzione il Cristo è sempre di nuovo il rivelatore del Padre, Figlio e Dio ad un tempo nell'ostendere l'azione soteriologica del dono. Il pane diventa ed è corpo per il fatto di portare alla parola ed ai gesti, la Parola ed il gesto della donazione imponderabile, che, in quanto tale, non si lega ad alcuno scambio, essendo la donazione il suo constitutivum immanente, né tanto meno avviene in una sorta di rito umano o di celebrazione sacrificale. Il Gesù storico che rivela la pienezza della divinità essendone impronta della Sua sostanza e manifestazione della gloria, assume la natura umana e l'attraversa, la sua umanità non è mera sembianza, potremmo anzi dire che è la stessa incarnazione a sancire la fenomenalità del dono. Il mangiare la sua carne è essere assimilati alla sua vita e, convocati dal gesto salvifico della Parola scomparsa nel gesto del supremo abbandono, essere costituiti suo corpo, incorporati alla sua sostanza in modo che la natura umana diventi capace di produrre e creare in qualche modo colui dal quale dipende in tutto e per tutto.27

Se è vero che si tratta in qualche modo di uno scambio, il termine latino commercium non ci sembra molto adatto a dire il mistero dell'incontro e la grazia di questa nuova realtà (il Cristo eucaristico come presenza dell'azione salvifica della Chiesa), altrettanto capace di manifestare, nei segni e nei simboli la gloria che il Figlio aveva presso il Padre prima che il mondo fosse (Gv. 17,5).

Il corpo di Cristo, parabola originaria della rivelazione di Dio, è completamente manifesto nella specie sacramentale, senza più scissione fra parola e gesto. Così come l'Io sono, è scandito a indicare nella carne la prossimità di Dio, allo stesso modo l'inaudita espressione questo è il mio corpo rivela la Sua pura presenza. Tuttavia, proprio sul concetto di presenza è necessario sostare a riflettere riconducendo le fila della connessione che abbiamo individuata all'inizio fra l'eucaristia e la sua ricaduta filosofica. In effetti il concetto di presenza ha dominato la scena filosofica del moderno, ma ha generalmente inteso indicare il darsi dell'oggetto come stare di contro al soggetto, nonché la sua costituzione mediante le categorie intellettuali, o, ancora, il contenuto rappresentativo conseguito mediante l'attività gnoseologica. Per questo motivo, la presenza, o meglio la semplice presenza come la chiama Heidegger,28 concerne la disponibilità dell'ente all'intelletto che lo rappresenta. Questo, però, fa sì che si operi soltanto in modo ontico, attestandosi sic et simpliciter sul presente dell'oggetto, procedendo così all'oblio della differenza grazie a cui l'ente viene all'essere. Procedere a questo oblio, in ogni caso, implica anche una diversa coniugazione della verità secondo il modello scientifico di certezza ed evidenza, attestandosi quindi sulla mera oggettivazione. A questa stessa oggettivazione è stato sottoposto il concetto di Dio secondo la metafisica, che, in quanto Summum ens, ha subito una ricaduta nella cattura delle determinazioni rappresentative, tanto più evidente e fuorviante quanto più si è elaborato l'ulteriore concetto di causa sui.29 In tal caso viene escluso ogni spazio di rivelazione, quasi si trattasse, come giustamente osserva J.-L. Marion di una sorta di idolo30 che annulli ogni distanza capace, invece, di aprire il campo della donazione. Questa è la traduzione francese del termine tipico della fenomenologia husserliana Gegebenheit, che implica propriamente il fatto che il fenomeno si dà come incontro, e in questo modo è possibile restituire dignità filosofica alle cose stesse, superando l'atteggiamento naturalistico che le riduce alla loro condizione ontica.

L'eucaristia offre, in tal senso, la possibilità di un ripensamento del progetto della modernità e il suo definitivo superamento, e fornisce la possibilità di ripensare lo stesso concetto di presenza, coniugandolo nel senso di dono donato, per sottolineare con vigore l'irriducibilità ad un'oggettività troppo umana, nonché alla causalità ed alla prevedibilità Per comprendere questo, tuttavia, è necessario richiamare l'analisi che Marion31 fa circa i gradi del fenomeno, recuperando le categorie kantiane della quantità, della qualità e della relazione.

Secondo la quantità il fenomeno è imponderabile; il suo donarsi, infatti, non può sottostare agli assiomi dell'intuizione kantiani, per cui il tutto può essere compreso attraverso la sintesi successiva delle sue parti, in modo da essere sempre prevedibile. L'intuizione donatrice, infatti, oltrepassa ogni somma delle parti. Allo stesso modo, la specie eucaristica non può essere interpretata secondo la somma dei suoi quanta, ma, soprattutto, essa si dona come indisponibile. Tale indisponibilità sottende l'antecedenza a qualsiasi oggettivazione umana. In tal modo essa non è disponibile neppure alla semplice presenza della rappresentazione secondo la connotazione metafisica.

Secondo la qualità il fenomeno è insopportabile, esso non permette alcuna anticipazione della percezione per cui si possa fissare al fenomeno stesso un grado di realtà. La donazione del fenomeno eccede ogni grado di realtà, in modo tale che lo sguardo non può sopportare ciò che vede. Questo avrà un significativo sviluppo quanto alla Sinngebung in quanto fa saltare qualsivoglia costituzione a partire da un orizzonte di senso delimitato dalla coscienza intenzionale.

Secondo la relazione il fenomeno è assoluto, libero quindi da ogni analogia, indeducibile come incondizionato dalla serie delle sue condizioni. Dal punto di vista della modalità, il fenomeno è inguardabile. Questa istanza rimette in gioco il nucleo cristologico della teologia che riguarda la manifestazione messianica come un evento indicibile; si veda l'episodio della Trasfigurazione, e sottratto all'onnipotenza del visibile. Laddove lo sguardo è ridonato alla sua impotenza che mette decisamente in crisi la forma ontica della realtà, nonché la possibilità di una semplice presenza dell'Oggetto immenso è lo stesso fenomeno del Cristo a costituire il soggetto come testimone, attraverso la Voce del Padre che comanda l'ascolto. Allo stesso modo l'episodio di Emmaus esclude la possibilità di una presenza di tipo ontico. È lo stesso gesto eucaristico ripetuto in azione quasi liturgica che dice il memoriale e la venuta di Dio fra gli uomini; quando il Cristo si dilegua nel compimento del gesto, i testimoni della Resurrezione possono confessare la presenza. Questo implica, naturalmente, che l'eucaristia, nella sua valenza sacramentale va letta nell'ambito della Rivelazione e della fede nella stessa Rivelazione in modo da comprenderla nel senso di una istituzione affatto nuova della manifestazione di Dio secondo lo Spirito e conseguentemente legando insieme liturgia ed incarnazione.

In altri termini occorre sottolineare la necessità di una riflessione sul senso di questa presenza, nonché sulla connotazione del tutto nuova che il tempo assume nella celebrazione eucaristica. Ci sembrano pregnanti le osservazioni di Nicola Reali che nella sua opera Fino all'abbandono sottolinea al valenza temporale-storica, evidenziando che

lo sforzo è diretto a recuperare il nesso che l'eucaristia possiede con il duplice riferimento al passato e al futuro, intesi come l'aspetto di differenza entro il quale iscrivere il presente della manifestazione di Dio. Il presente del dono eucaristico non si temporalizza affatto a partire dal qui ed ora, ma come memoriale (temporalizzazione a partire dal passato), poi come annuncio escatologico (temporalizzazione a partire dal futuro), e alla fine, soltanto alla fine, come quotidianità e viatico (temporalizzazione a partire dal presente).32

Riteniamo sia necessario sottolineare qui il ricorrere, con un'intenzionalità del tutto nuova, dei termini «presente» e «presenza». Non si tratta infatti di una coniugazione secondo l'aspetto cronologico, quanto di un essere prossimo secondo la modalità spazio-temporale, quasi di una presenza umana nella stessa stanza. Al contrario troviamo un qui ed ora scandito da un riferimento hápax: l'incarnazione che il memoriale liturgico rinnova. Dunque un qui ed ora metastorico nel suo essere storico e sacramentale in quanto capace di costituire lo spazio in cui si manifesta il dono di Dio. Il presente è dunque segno di questo dono. Potremo quasi dire che l'eucaristia è lo stesso presente inteso nel senso dell'avvento trinitario di Dio che costituisce nell'eucaristia il tempo della gloria futura (in questo senso l'eucaristia è segno efficace del Regno) rinviando all'evento fondatore del Verbo fatto carne.

L'evento della donazione di Cristo è il senso svelato dell'oggi del credente; essa continua a dire della manifestazione originaria, rivelando nell'atto del dono il rendersi presente di Dio secondo la sua stessa vita. D'altro canto si tratta di un fenomeno che fa saltare ogni accezione temporale della semplice presenza metafisicamente intesa. L'eucaristia infatti antecede ogni tempo umano e sancisce in modo inequivocabile l'iniziativa indisponibile di Dio, orientando nella distanza entro cui l'uomo si trova storicamente nella sproporzione e nella inadeguatezza, la sua libertà ed il suo libero atto di fede, inteso come riconoscimento del dono per cui egli stesso si riceve, donato, nonché convocato nell'apertura al prossimo alla testimonianza di questo presente di Dio che è prima di ogni presente, nonché di questa Rivelazione che è prima dell'essere, che permette di individuare l'essere stesso come dono donandosi come amore e perdono originale.

Se l'eucaristia istituisce una singolare figura di filosofia fenomenologica, la connessione di essa nell'ambito liturgico permette di ripensare una nuova figura della soggettività oltre il mero riferimento alla res cogitans, che è appunto quella dell'essere costituita in un dativo irriducibile alla cosificazione (a me/mi) nell'irrecusabilità della testimonianza, ma questo è possibile solo per l'evento misterioso del verbum efficax che osa dire, nell'oggi liturgico, «questo è il mio corpo» e che ripete nel segno sacramentale la memoria di un dono nel quale è già e non ancora svelato ciò che saremo.

3. Realtà e transignificazione

Una tale riflessione sull'eucaristia non può non implicare la consapevolezza di una mutata riflessione sul concetto della realtà. Ancora una volta sembra fondamentale far convergere il pensiero sul problema del senso. È vero che la sacramentarla classica è da sempre stata attenta, nell'individuazione delle fasi dell'istituzione sacramentale alla res senza la quale il sacramentum non poteva essere un signum efficax, fino a sottolineare che l'accesso della parola all'elemento permetteva di riconoscere il sacramento come tale. Tuttavia, un altro luogo della tradizione teologica, quale quello espresso da Ugo di San Vittore secondo cui l'istituzione del sacramento è la sua efficacia, sembra a nostro avviso sottolineare che l'eucaristia nel suo aspetto sacramentale attinga la sua efficacia non certo dalla res, quanto invece dall'evento mistico per il quale sta. Ci sembra importante sottolineare ciò perché riteniamo che sia la teologia che la filosofia possano e debbano riflettere sulla Parola rivelata in quanto gratuità originaria che sottende la libera iniziativa di Dio, ma anche perché conferisce all'intelligenza della fede e al suo carattere storico la capacità di rendere ragione di un'esperienza altrettanto originaria come quella dell'Incarnazione, e su questo evento conformare la riflessione sui sacramenti. D'altra parte, se è vero che il sacramento sottende sia l'efficacia del segno, sia l'incontro sempre avvenuto nell'oggi e con l'oggi di Dio, non ci sembra possibile scindere tale riflessione da quella sul Verbo fatto carne. La centralità cristologica che esprime altresì una modalità originaria di manifestazione su cui attagliare ogni altra possibile risulta altrettanto pregnante per la teologia che per la filosofia. Essa offre alla seconda la capacità di elaborare una riflessione sulla carne in quanto condizione dell'homo viator che rimanda oltre sé al mistero che lo connota, ma permette alla prima di approfondire ulteriormente l'essenza di tale manifestazione riconoscendosi come indicazione e testimonianza di un annuncio sempre smisurato quanto a se stessa e ai suoi mezzi.

Questo per mettere in luce che la realtà eucaristica nella sua forma di res trascende assolutamente la cosalità, in quanto è innanzi tutto azione della Parola e dello Spirito, inoltre perché inerisce ad una realtà che non si costituisce nel mero orizzonte dell'elemento, ma che, al contrario, dona senso all'azione che ha luogo in ogni tempo, ovvero l'Incarnazione. Quindi la questione quanto alla realtà sarebbe come il Verbo incarnato hápax nella storia, come la sua manifestazione originaria come carne vivente, e infine, come il gesto immenso nel quale la Parola tace e si consuma, giunta al climax della sua stessa rivelazione, sia capace di compiere ogni volta nella liturgia il mistero di questo dono fino all'abbandono.

La risposta della teologia è, da questo punto di vista, inequivocabile. La realtà dell'eucaristia, in quanto realtà misteriosa del Cristo offerta nella definitiva alleanza, è tale perché scaturisce dalla croce, suprema rivelazione del corpo offerto e squarciato a segno della nuova creazione nello Spirito che unisce nell'intensità della comunione trinitaria dono ed abbandono. Non solo, il racconto della Cena riporta una frase altrettanto inequivocabile: «fate questo in memoria di me», e ciò significa che l'eucaristia si realizza non tanto ogni volta che il gesto e la parola si ripetono, quanto ogni volta che quell'evento liturgico sancisce come in Cristo l'identità dei suoi discepoli viene costituita eucaristicamente, ossia nella capacità di testimoniare nella propria vita il dono della Parola nello Spirito che rivela interiormente la propria somiglianza con Dio in Cristo e la costituzione di ogni creatura, salvata dalla Croce, come corpo mistico di Cristo. Non possiamo quindi dimenticare, nell'orizzonte cristologico qui proposto, l'aspetto ecclesiologico, richiamando una simbologia della Chiesa in quanto sponsa Verbi e capace per questo di realizzare nello Spirito il dono unico ed ogni volta ripetuto come eterno e sempre nuovo del Cristo a tutta l'umanità.

La posizione di un teologo come Edward Schillebeeckx33 risulta particolarmente suggestiva. Conseguente alla svolta conciliare che sancisce la necessaria intelligenza della fede attraverso l'ermeneutica biblica, Schillebeeckx mette in evidenza come la stessa incarnazione di Cristo abbia un carattere sacramentale, ovvero nella carne del Verbo Dio è presente nella pienezza del Suo mistero, e Gesù rappresenterebbe la prima e perfetta esegesi del Padre. Dall'Incarnazione che ha il suo climax nella rivelazione, attraverso la croce della consustanziale divinità del Figlio con il Padre, segue l'atto di nascita della Chiesa, che è all'avviso del grande teologo olandese la continuazione di questa sacramentalità, nonché il luogo rivelativo nel quale possiamo incontrare l'umanità di Dio; per questo motivo il nucleo fondamentale è l'eucaristia.

La svolta cristologica che Schillebeeckx propone è certamente importante perché riporta l'eucaristia alla sua centralità biblica e permette di configurare l'ambito liturgico nel quale viene celebrata come il segno tangibile della realtà salvifica istituita dalla Parola e dallo Spirito e, in ultima analisi, come anticipazione del kairós del Regno. Sotto questo aspetto è altrettanto possibile parlare di transignificazione. La realtà ecclesiale stessa, precipuamente nel suo aspetto liturgico, custodisce il dono di una Sinngebung che le viene dall'incarnazione e dalla croce; in questa donazione di senso essa è costituita e la sua compagine viva, ovvero i suoi membri singoli vengono chiamati (tale è la radice di Ekklesia) a costituire una realtà che trascende la loro individualità storica, ma che in essa si incarna, per il fatto che ogni membro è chiamato ad essere per l'altro il testimone della vita del Cristo, ed in questa re-instaurata solidarietà originaria, che rimanda alla comunione fontale con il Padre nello Spirito, ogni membro non vive senza l'altro e tutti sono il corpo mistico di Cristo. Pertanto l'eucaristia fa la Chiesa così come la Chiesa vive dell'eucaristia, ma tale realtà sacramentarla risulta imprescindibile dal corpo vivo in virtù del quale il corpo di Cristo è realmente presente. È chiaro dunque che si possa parlare di presenza reale, a patto che però non si dimentichi l'orizzonte trinitario-cristologico da cui essa di fatto scaturisce. Cristo è realmente presente nel memoriale della Parola e della cena che costituiscono il significante nell'ambito del quale si realizza il significato della Chiesa e della liturgia. La sua presenza è inoggettivabile, in quanto fenomenologicamente deborda dalla presa dell'oggetto fenomenico-coscienziale, ma anche per il fatto di incarnare una verità sempre ulteriore e smisurata rispetto a qualsivoglia adeguazione, che è la Verità del mistero di Dio. Essa pertanto si affida al simbolo per soccorrere la debolezza del visibile e per costituirlo nell'invisibile pienezza della Sua significazione. Tuttavia essa non dipende dall'intenzionalità soggettiva; anzi la capovolge totalmente, ed istituendo la realtà del Corpo mistico di Cristo, istituisce altresì una nuova figura soggettiva, quella dei testimoni.

Convocati nel nome di Cristo essi vengono istituiti come il segno vivente del Suo corpo, custodi della donazione che manifesta l'invisibile, essi si ricevono l'un l'altro nell'annuncio della Verità manifesta nel gesto sacramentale, radicato nell'originale sacramentalità della manifestazione del Verbo.

In questo senso l'eucaristia è signum efficax che dà senso a tutti i segni salvifici fatti da Gesù e che permette di testimoniarlo come il Vivente. Tale testimonianza dice altrettanto di una manifestazione di ogni sé umano in quanto Figlio nel Figlio in virtù dell'intimità con quella Vita che era in Lui. Se la Vita era la luce degli uomini, come recita il Prologo di Giovanni, essi non possono che giungere nel mondo per l'autodonazione della Vita stessa che esprime nella carne il mistero della sua immanenza trinitaria. Per questo c'è un solo Figlio nei figli chiamati a essere testimoni della Verità invisibile nonché ad accrescere il Corpo mistico.

L'azione eucaristica è ad un tempo opera immanente del Verbo nel suo essere presso Dio ed opera dello Spirito che rende manifesta questa Parola come vita, ma essa è anche azione di grazia da parte della Chiesa intesa nella sua istituzione di soggetto mistico che rende presente il mistero dell'incarnazione. Per questo motivo si può parlare di presenza reale del Cristo e, sebbene proposta in una ri-presentazione nel rito, essa si manifesta come quell'hápax della salvezza che sancisce l'edificazione del Cristo tutto in tutti. Come osserva Michel Henry:

Così il corpo mistico del Cristo si accresce indefinitamente di tutti coloro che sono santificati nella carne del Cristo. In tale estensione potenzialmente infinita il corpo mistico di Cristo si costruisce come «la persona comune dell'umanità» e perciò è chiamata il «Nuovo Adamo». Poiché tale costruzione non procede per accumulo di elementi addizionali, come «pietre» vere e proprie in un edificio costruito da mani d'uomo, ma, al contrario, avviene nel Cristo, nel Verbo si produce come l'edificazione di Sé trascendentali, ciascuno dei quali, dato a sé nel Verbo, uno con Lui, si trova ad un tempo dato a se stesso, nella stessa Vita dell'unico Sé nel quale tutti gli altri Sé sono dati a se stessi. È quindi uno con tutti loro nel Cristo.34

Emerge chiaramente l'istanza fenomenologica della manifestazione del Verbo in quanto autodonazione della Vita invisibile che appare nei viventi chiamati dalla Parola e li dona a se stessi nello stesso dono del Verbo. Essi sono l'unico corpo in virtù di questa stessa donazione che è l'incarnazione di Cristo. La carne nella quale Dio si manifesta prima che il mondo fosse e che sancisce, da un punto di vista fenomenologico, il pathos della Vita in ogni sé sottende l'intimità stessa di ogni uomo con Cristo nonché la sua riedificazione in virtù di questa stessa appartenenza. Ciò che, secondo i Padri, era da sempre restaurato in Dio nella creazione originaria, si ripete nel misterioso edificarsi del Corpo di Cristo che attesta l'opera del Verbo e dello Spirito, la loro trascendenza nell'immanenza stessa della vita di coloro i quali sono da sempre chiamati alla salvezza.

Per questo motivo la riflessione sulla realtà sacramentarla della presenza divina necessita di essere compiuta nell'ambito di una più ampia comprensione liturgica, la quale a sua volta non può non attingere all'evento trinitario. Uno spunto interessante in questo senso ci viene da Sergio Ubbiali, il quale osserva acutamente:

L'essenza relazionale qualifica intrinsecamente la divinità di Dio e la reciprocità delle persone identifica la caratteristica interiore di Dio. Questa rappresenta propriamente la res del sacramento, e la sua significazione costituisce ciò a cui la figurazione del simbolo sacramentale corrisponde. La realtà del sacramento e il segno del sacramento vanno nominati e specificati nella loro struttura interattiva e nel loro radicamento comunitario. Il motivo sul quale si regge questo suggerimento consente alla spiegazione di contrastare l'idea di una chiusura radicale del sistema della comunicazione, giacché la chiusura renderebbe improponibile l'interrogativo attorno alla verità dell'uomo, ed escluderebbe l'introduzione dell'interrogativo teologico in quanto tale.35

Due campi di significato si intersecano qui; il primo riguarda il nucleo trinitario della Rivelazione divina, che attraverso l'Incarnazione del Verbo attesta la natura relazionale di Dio e configura la donazione come l'atto della vita immanente di Dio in Dio. Poiché l'eucaristia compiuta nell'ambito liturgico rinnova il mistero salvifico della carne, che è protologicamente l'iniziativa inattendibile di Dio per mezzo dell'azione dello Spirito, è proprio questo evento la res sacramentale e, a nostro avviso, questo recupero trinitario permette una ricomprensione teologico-filosofica dell'eucaristia superando quell'istanza sostanzialistica oggettuale, a vantaggio di una comprensione della realtà teandrica che inerisce al dono e che implica un radicamento comunitario per rivelarsi pienamente come mistero della comunione di Dio in Dio e con l'umanità intera.

Il secondo aspetto è quindi liturgico tout court; l'azione comunitaria della liturgia implica il riferimento all'azione salvifica di Cristo, nonché all'alleanza in virtù di cui la carne donata sancisce l'evento della nuova umanità. Tuttavia questa stessa azione non si comprende se non nell'ambito dell'ecclesia, che, secondo quanto fa notare Karl Rahner, è Grundsakrament. A questo aspetto è naturalmente connessa anche un'istanza di antropologia teologica che concerne non solo la verità della Rivelazione, quanto anche la sua efficacia salvifica nella vita dell'uomo; dunque l'autocomunicazione di Dio non può che assumere l'aspetto di una comunicazione ab extrinseco che costituisce una definitiva economia soteriologica.

In tal senso non si può trascurare il ruolo del corpo di Cristo che si fa presente nel mistero della Chiesa significando la stessa umanità redenta. In altri termini è impossibile prescindere dall'incarnazione al fine di una comprensione più profonda della presenza reale di Cristo e di un'incorporazione di ogni sé trascendentale nel Sé del Verbo, che non solo attesta l'originaria donazione, ma sottende altresì un riceversi da parte dell'uomo come dato a sé nell'altro in virtù del suo essere con il Verbo.36 Su questo presupposto fenomenologico si gioca la possibilità di una comprensione dell'interconnettersi di Chiesa ed eucaristia in virtù della mediazione del Verbo incarnato che apre l'accesso al mistero del Dio trinitario ma anche la possibilità di un'intima appartenenza reciproca di ogni sé, in quanto generato non da carne né da volere di uomo ma da Dio. Occorre pertanto attestarsi sulla realtà della carne di Cristo per comprendere l'eucaristia come dono salvifico, ma anche come la carne stessa sia la condizione di questa salvezza, secondo quanto asserivano i Padri: caro salutis cardo. Non solo, una tale riflessione fenomenologica permette di individuare il senso di una realtà transignificata, ovvero ricondotta al nucleo invisibile nel quale essa è costituita nel Verbo della vita. Da questo punto di vista l'eucaristia sottende una manifestazione dell'invisibile percepito non già in un'adaequatio intellectus et rei o ancora in un processo di astrazione, ma istituito nel Verbo per mezzo di cui tutto ciò che esiste è stato fatto, e che istituisce nell'ambito liturgico l'evento sempre nuovo dell'Incarnazione.

Vi è implicata la stessa verità della carne che offre una ulteriore possibilità di riflessione alla filosofia quanto alla connessione fra corpo e spirito, nonché fra istituzione della realtà spirituale sul cardine della materia corporea. Su questa base è possibile infatti ripensare in modo affatto nuovo una filosofia del cristianesimo partendo dal presupposto di tipo cusaniano della carne di Cristo in quanto universale concreto. Ancora una volta ricorriamo ad un testo di Michel Henry:

In ogni in-carnazione umana, ogni volta che una vita viene in un corpo per farne una carne, non è una vita ordinaria a poter fare questo, a incarnarsi, poiché vita ordinaria tutto sommato non esiste. Una Vita capace di dare la vita a un corpo per fare di esso una carne, è una Vita capace innanzi tutto di dare la vita a se stessa nell'eterno processo della propria autorivelazione nel proprio Verbo. Ogni carne proviene pertanto dal Verbo.37

Il testo in questione prelude al senso del corpo mistico che è la Chiesa, costituita nella memoria e nella testimonianza del Risorto. Il concetto chiave è la carne nella sua stretta connessione con la Vita e, di conseguenza, la sua capacità di rivelazione. Il cardine di questa connessione è il Verbo, tuttavia già nella sua origine, prima che il mondo fosse il suo essere, presso Dio preludeva già alla condizione dell'Incarnazione. Senza cadere nella cattura modalisitica si può certamente evidenziare come il Verbo, il Detto ed il Dire di Dio ab aeterno era presso Dio ed era Dio nella condizione della carne, e per questo poteva restaurare la condizione di somiglianza dell'uomo ponendosi come suprema possibilità della rivelazione del Padre e come volto rivelato dell'uomo. Ogni carne dell'uomo che reca in sé la vita conosce pertanto una generazione trascendentale e reca il Sé di Cristo. Se l'eucaristia è nutrirsi della carne e del sangue di Cristo, questo nutrimento misterioso sancisce e riedifica, con un valore assolutamente paradigmatico, la condizione di Figlio. Tuttavia ricevere la vita divina di Cristo nella memoria dell'Incarnazione implica la coscienza di riceversi nell'accusativo dell'irrecusabile responsabilità che apre all'annuncio della propria appartenenza con ogni altra carne in Cristo nel vincolo dello Spirito che rende presente il dono originario del Verbo.

La carne di Cristo sancisce la realtà eucaristica della Chiesa sancendo anche, quindi, la nuova e definitiva realtà dell'uomo, sacramentalmente ripresentata come quella del Cristo totale sempre riedificato. È quindi fondamentale il tempo liturgico inteso come kairós, in quanto capacità di istituire nello spazio dell'assemblea designato dalla Parola la realtà di questa generazione trascendentale di ogni uomo nel Cristo. Per questo stesso motivo la comprensione eucaristica non può che passare attraverso il rapporto fede-rivelazione da un lato e dall'altro attraverso la connessione di sacramento e liturgia, che sottende il senso del Corpo mistico di Cristo edificato in ogni credente ed in ultima analisi la realtà eucaristica della vita umana nel suo esserci nel mondo. Dunque si coglie la necessità imprescindibile di interpretare la presenza reale come un atto dinamico originato dalla libertà di Dio nella sua autodonazione ed efficacemente operante nell'azione sacramentale, che istituisce lo spazio dell'incontro con la libera decisione dell'uomo convocato dalla Parola e costituito testimone nello Spirito. D'altra parte essa si attesta nell'ambito di questo riconoscimento collegandosi al suo carattere di dono, come attesta l'episodio di Emmaus, capace di rendere presente qui ed ora l'evento salvifico dell'Incarnazione e della Croce.

Se la res sacramentale, rispettivamente il frammento di pane sancisce, con la teologia classica, la presenza reale per cui viene invocata l'istanza della transustanziazione, occorre a nostro avviso specificare che tale presenza ha la sua ragione d'essere nell'originarietà del dono compiuto nel Verbo che invita ad un'adesione credente. La presenza reale vive quindi della confessione di fede e dell'adesione con la propria vita alla Vita di Cristo che, fenomenologicamente si manifesta, nella sua invisibilità, in ogni vivente assunto nel Verbo.

Nell'ambito di questo contesto fede-rivelazione è possibile collocare l'evento del simbolo rituale nell'ambito che gli è proprio, ovvero in quello di un riconoscimento della trascendenza assoluta di Dio che manifesta il dono della salvezza per ogni uomo attestatosi nel consenso esistenziale alla Verità di Cristo come verità della sua vita. Qui il carattere individuale della decisione, che è la più alta testimonianza del dono, incontra l'istanza comunitaria che permette di riconoscere ad un tempo come questo dono sia rivolto a tutti e come nel suo stesso donarsi sia edificato il Corpo di Cristo. Come giustamente osserva Nicola Reali:

C'è simbolo rituale solo in un'azione che si origina dalla differenza assoluta di Dio colta nella decisione che l'uomo pone a proposito di sé. Il rito sacramentale deve dare effettivamente consistenza all'aspetto tipico della vicenda umana, per questo la trascendenza di Dio e l'autodeterminazione libera dell'uomo ne costituiscono gli elementi da dover continuamente implicare in un'unità pur mantenendola distinzione.38

L'eucaristia compresa nell'ambito liturgico-sacramentale sancisce un agire teandrico che è lo stesso operante nell'Incarnazione. Per questo essa sottende il dinamismo fra la trascendenza di Dio e la libera decisione dell'uomo, ed è qui che si ri-presenta l'unità fra Dio e uomo come simbolo significante la natura teandrica del Verbo. Ciò naturalmente non esclude, anzi potenzia la differenza teologica che permane pur in questa unità a sancire ancora una volta l'indisponibilità del dono e l'agire della grazia per cui, come ben osservava Blondel è possibile che l'uomo generi la vita che lo ha generato. C'è pertanto un altro passaggio del testo di Reali che ci sembra assolutamente pregnante:

L'insieme degli elementi che il rito sacramentale prescrive in ordine al riconoscimento che la trascendenza assoluta di Dio ha salvato l'uomo nell'evento cristologico, e pertanto ne ha anticipato definitivamente la figura autentica, costituiscono così in maniera eminente gli aspetti entro i quali il sacramento manifesta la differenza teologica come ciò che sola può legittimamente rendere effettuale l'atto della fede e con esso la salvezza dell'uomo come tale indeducibile dalla struttura della libertà umana.39

La liturgia in quanto azione dello Spirito si rivela nella sua centralità sacramentale ripresentando l'evento incarnativo in quanto originario progetto di salvezza. Esso risulta altresì indeducibile da ogni intenzionalità, che, al contrario, è costituita hic et nunc dall'orizzonte di senso della Parola e dall'atto di fede con cui attesta l'adesione al Verbo. Tale costituzione che, come si diceva, rinvia al dativo del riconoscimento e dell'eucologia -- essendo l'eucaristia azione di grazia -- è tuttavia anticipata nell'incarnazione del Verbo, che sottende la trascendenza assoluta di Dio intesa come differenza teologica, per cui l'iniziativa soteriologica nasce da questa misteriosa assunzione nel Verbo dell'umanità. L'eucaristia è, da tale punto di vista, il riconoscimento ex post di questo dono originario, confessato nella lode e nell'invio della testimonianza.

Solo sulla base di questo riferimento, totalmente irriducibile ad ogni deduzione, si comprende il senso del sacramento eucaristico come attestazione della presenza di Cristo per lo Spirito nel corpo vivo della Chiesa. Di conseguenza si evince il senso comunitario che, a sua volta, attesta l'origine trinitaria e relazionale della rivelazione di Dio e della sua permanenza attraverso il suo dono. L'eucaristia ha dunque il climax nella celebrazione liturgica in quanto confessione dell'unico donatore nonché riconoscimento del proprio essere costituiti da questo dono nel legame reciproco, nel corpo mistico, attraverso il Verbo e lo Spirito. La ripetizione liturgica dell'eucaristia non è che un rendere ragione di questo solo evento fondatore. Segno e simbolo del mistero teandrico, essa lo ripropone, attualizzandone il senso, rinnovando la sua presenza nella realtà. Non si tratta dunque, nella liturgia di una mera rappresentazione, o di una presentazione ripetuta di un dramma. Essa è, al contrario, partecipazione alla stessa manifestazione di Dio e attestazione dell'unicità di tale rivelarsi, capace quindi di rinnovare e re-istituire questa realtà in virtù della singolarità della chiamata riconosciuta come appello hic et nunc del Verbo.

Stando così le cose, l'eucaristia che dà senso all'evento liturgico sancisce non solo lo spazio soteriologico e il luogo nel quale il Regno viene anticipato ed invocato nella memoria del Crocifisso-Risorto, ma istituisce anche una temporalità sottratta alla cronologia ed al continuum del commercio con il mondo, una temporalità che si pone come metafora dell'oggi di Dio e che, in ultima analisi, scandisce la Presenza nel senso della donazione chiamando ad una decisione la libertà umana.

Riteniamo importante sottolineare quest'ultimo punto, perché è possibile individuare qui una ricaduta filosofica, specie per quanto attiene l'analisi heideggeriana. Di certo l'eucaristia, interpretata sotto questa luce, è assolutamente sottratta all'onnipotenza del visibile e dell'idea che contraddistingue l'epoca delle immagini del mondo. L'orizzonte della semplice presenza, così come quello gnoseologico del giudizio basato sul tempo presente viene totalmente cancellato in virtù della donazione. Anche in Heidegger, l'uso di es gibt, tradotto con «si dà», ma non senza recare come attesta la lingua tedesca la radice del dono, permette di attestarsi su di un'apertura che interpella l'esserci al quale si dona ad una decisione ogni volta presa (Jemeinigkeit), la quale è indicazione di un eventuarsi di un già stato, nuovamente prossimo all'apertura stessa dell'esserci.

Altrettanto nel rito liturgico, l'evento del dono viene sancito come hic et nunc, nel momento in cui la liturgia riedita ciò che la fonda, ma questo non potrebbe avvenire senza la confessione nell'oggi della celebrazione che il dono dell'assoluta trascendenza è ciò per cui ne va della propria vita e che istituisce la capacità di decisione per questo stesso evento. Si tratta di un riconoscere Cristo katá pnéuma, sottratto quindi al visibile, ma attestato come presente nell'evento eucaristico. Qui si gioca l'aspetto simbolico dell'agire e del linguaggio umani, la capacità di fondare un altrimenti essere nel dono al di là dell'essere; ma si tratta pur sempre di una capacità che rinvia ad un più originario, ad un immanifesto ed invisibile che pure apre lo spazio della rivelazione come fondamento della realtà.

In questo senso la differenza teologica si riconnette ad una differenza antropologica che può senza dubbio aprire ad una ontologia come mistero della donazione. Tuttavia ci sembra necessario l'approfondimento di questa istanza metaforica che riproponga, in questo riferimento filosofico alla liturgia una riflessione sul corpo.

4. Metafora del corpo e avventura dell'invisibile

L'incarnazione consiste nell'avere una carne, forse più ancora nell'essere carne. Gli esseri incarnati non sono dunque corpi inerti che non sentono nulla e non provano nulla, non avendo coscienza né di sé né delle cose. Gli esseri incarnati sono esseri sofferenti, attraversati dal desiderio e dalla paura, che sentono tutta la serie di impressioni legate alla carne poiché costitutive della sua sostanza, una sostanza impressionale dunque che inizia finisce con ciò che prova.40

L'incarnazione è una condizione, anzi meglio la condizione per cui l'uomo si prova come tale, in una identità spezzata e percorsa dall'infinito, che, come già insegnava Descartes nelle Meditationes de prima philosophia, è un'idea che rovescia il criterio di autoevidenza del soggetto, in quanto eccede la capacità rappresentativa del cogito, nonché quella oggettiva. Tale rovesciamento, tipico di un cogito brisé, ferito da questa interruzione profonda della medesimezza, rappresenta però il senso di un rapporto ontologico che prelude all'inoggettivabilità della stessa esistenza incarnata, nonché al suo cosciente coinvolgimento nel mistero che la convoca e la supera, che ne spezza le pretese totalitarie e nello stesso tempo la costituisce originariamente in quell'apertura al radicalmente altro per cui può sperimentare la trascendenza come senso eccedente del proprio agire e comprendersi, e riceversi come dativo irrecusabile della verità.

Se, dunque, l'incarnazione è di per sé un'interruzione nel gioco dell'idem e dell'ipse che non conclude mai ad una soluzione in sé, essa è in tal senso apertura e metafora, in quanto capacità di lasciarsi convocare all'esistenza. Per questo essa sottende l'ek-sistere come rinvio all'alterità che la attraversa; in tal senso la confessione di Agostino dell'interior intimo meo, che però rimane domanda aperta e conferma della veritas semper maior, ci sembra assolutamente ineludibile. All'interruzione non può che seguire una corrispondenza, che è un modo diverso di dire auto- ed eterorelazione. Quindi la carne è istanza fenomenologica per rendere ragione filosofica dell'esserci, nonché possibilità di un altrimenti dire la creaturalità la cui Sinngebung prelude ad una donazione originaria.

Risulta pertanto molto pregnante l'affermazione di Michel Henry secondo cui la carne, ogni carne, proviene dal Verbo, non soltanto per quanto concerne l'automanifestazione della vita nel pathos di se stessa, ma proprio perché è nella trascendentalità del Verbo che l'incarnazione è condizione di un universale concreto per cui ne va dell'esperienza originaria della vita come verità. In altri termini, senza la condizione di incarnazione sarebbe precluso qualsiasi rapporto con una trascendenza data in persona, per usare un'espressione che inerisce egualmente al nucleo eucaristico della nostra analisi filosofica, nonché ogni possibilità di apertura ad un senso oltre l'essere per cui ne va tuttavia dell'essere stesso nel suo commercium con il mistero.

La carne dunque è condizione imprescindibile della propria esistenza donata, nonché possibilità di riconoscersi adonné, per far ricorso ad un termine di Jean-Luc Marion.41 Essa è altresì metafora della relazione per cui ne va del proprio essere un io storicamente connotato a partire dalla propria volontà, dalla possibilità di riconoscersi fonte di un'azione e, ad un tempo, dalla consapevolezza che anche questo agire rimanda sempre ad altro, un altro inizio, un altro senso che mette in questione e che è interrogato. Questa stessa carne, intesa come esistenza incarnata, ha una forma nel corpo che la attesta come esserci più proprio dell'uomo, e per questo ancor più inoggettivabile. Donde il rinvio dialettico fra la coscienza di essere corpo in quanto finitudine sia pur salvificamente interrotta e quella di avere un corpo intesa nel senso di un ricever-si e di un essere affidato al mistero di un evento di verità che ha nella carne l'originaria manifestazione. Certamente io non sono il mio corpo, ma paradossalmente è nell'essere dato ad un corpo che la mia identità emerge come libertà affidata e apertura relazionale. Dunque, d'altro canto, io sono il mio corpo, se si sottrae definitivamente questa frase da ogni cattura sostanzialistica che lo ridurrebbe a mera res extensa, oggettivata nell'evidenza di un attributo estensione, e si intende il nodo esistenziale-teoretico attraverso cui si gioca l'interazione fra l'essere donato e la testimonianza di questo dono.

Il Logos divino stesso assume l'incisività di una presenza, entra nel mondo come corpo, figura trascendentale di ogni carne che viene dal suo manifestarsi, e pure trasparenza dell'invisibile celata dietro il suo sottrarsi (come nel racconto di Emmaus), volto imprendibile nella cui traccia ogni volto è rivelante della sua prossimità manifestata nell'offerta estrema per cui il corpo, sfigurato e nascosto nell'abbandono, rivela il da dove misterioso della carne come destinazione ultima della gloria avanti che il mondo fosse. Per questo resta il mistero non solo dell'uomo, ma anche di Dio, così come l'incarnazione attesta la passione della verità dell'infinito nel suo provarsi dentro la vita di ogni esistenza.

«Cristo imparò l'obbedienza dalle cose che patì», dice la lettera agli Ebrei; questo asserto si coniuga con il verso del Salmo che recita «un corpo mi hai dato». Tuttavia questo è vero della natura teandrica del Verbo così come è vero dell'uomo nella condizione di incarnazione. Il corpo è spazio della conoscenza, nonché possibilità di attestare la prospettiva sul mondo in quanto corrispondenza ad una verità la cui efficacia passa per il nodo della carne, ribadendo il signum efficax della carne che viene da Dio e nella quale Dio si manifesta come donazione assoluta. È pure vero, tuttavia, che sottrarlo all'evidenza dell'oggettivazione significa riconoscere al corpo un'opacità irresolubile; tuttavia essa è il segno della sua inoggettivabilità, nonché della coscienza della sua capacità epifanica in quanto è sede di quel sé trascendentale che incarna la presenza dell'invisibile come vita originariamente donata. Il corpo è quindi sede dell'idem e dell'ipse, mistero della propria presenza a se stessi in quanto relazione ad un mistero più originario, in questo senso è metafora, avventura dell'invisibile. Per questo motivo, esso si presenta già nella sua gloria,42 manifestando in un rinvio oltre sé ciò che non solo lo manifesta a sé, ma lo rivela a sé stesso in quanto dono. Non può quindi trattarsi di un principio biologico sic et simpliciter, dall'essere una forma desertificato dallo spirito, il corpo è l'inizio sempre nuovo del verbo dell'anima43 e la promessa della gloria pienamente rivelata nell'eschaton, ma già presente nell'anticipazione del gesto liturgico che, più di ogni altro, sancisce il carattere metaforico dell'agire umano, punto nodale fra visibile ed invisibile. In esso e presso la sua apertura accade la verità inesauribile del mistero, per questo stesso motivo è nel corpo che la coscienza d'essere soggetto della verità si lega a quella di essere stato iniziato dalla prima e indeducibile manifestazione. Esso è altrettanto il nodo di esistenza ed incarnazione. Merleau-Ponty osserva a riguardo:

Né il corpo né l'esistenza possono essere considerati l'elemento originale dell'essere umano, poiché entrambi si presuppongono a vicenda, il corpo è un'esistenza cristallizzata e generalizzata e l'esistenza un'incarnazione perpetua.44

Il corpo così come è stato finora inteso si attua nell'ek-sistenza come apertura, dunque è segno di un più originario; l'esistenza, a sua volta, in quanto progetto necessita di incarnarsi; solo come incarnazione, infatti, è metafora di un incessante corrispondere all'evento che lo costituisce e l'appella. L'incarnazione è compito incessante del poter essere più proprio nonché dono che attesta in essa non l'affermazione inospitale del medesimo, quanto invece il rinvio all'Altro che originariamente ospita ogni sé nel legame misterioso del suo corpo offerto. Sotto questo aspetto si dà un legame fra corpo e celebrazione sacramentale, essendo il corpo stesso spazio della rivelazione della Parola salvifica, intendendo tale genitivo in senso soggettivo ed oggettivo; in senso soggettivo in quanto il corpo rinvia, per la sua essenza creaturale, alla sua incessante nascita dal Verbo, in senso oggettivo per il fatto che rinvia alla transitività della vita manifestata nel Verbo, facendosi altresì segno di questo dire mediante cui si riceve iniziativa iniziata.

Ecco dunque affacciarsi una ragione rituale che permette di comprendere il carattere teandrico dell'esistenza incarnata e che inerisce alla capacità di metaforizzare e rammemorare, di anticipare e rinviare. Il rito non è affatto una coazione a ripetere, quanto invece testimonianza di un evento che interrompe il tempo e spezza la chiusura in sé del soggetto. Per questo lo stesso significante liturgico-rituale rinvia ad un significato teologico ed entrambi sono collegati dal principio di incarnazione. Su questo orizzonte è importante compiere una riflessione filosofica, come giustamente ha cercato più volte di mettere in evidenza Elmar Salmann:

Il rito ricrea ed esegue lo scarto tra le dimensioni e la possibilità del loro intrecciarsi, è il trapasso tra il destino subito e una vita accolta e data in libertà e grazia. L'evento corporeo si tramuta in un gioco fra dare e ricevere, tra realtà e rappresentanza, tra sfera divina e cosmo umano. La necessità opprimente e opaca si apre, almeno per un attimo e nella forma di uno spiraglio, alla logica del dono in un evento di libertà e spirito. E viceversa, verità, libertà, e spirito, autoscoperta e autorealizzazione dell'uomo avvengono tramite il rito, perché in lui il destino si tramuta in una storia del prestarsi, mostrarsi, dirsi e darsi, tutti poi accolti nel gesto altrettanto elementare e sottile del ricevere, del prestare l'orecchio, del tendere la mano, dell'elevazione dei doni, dell'occhio contemplante, della parola emessa e assunta.45

Si può intendere il rito nella sua forma liturgica come una sorta di schematismo sulla base del quale evincere il carattere di apertura della finitudine nella possibilità di anticipare la parusia, in quanto essa stessa diviene soggetto e promessa e permette di istituire nel non-luogo della liturgia un frammento del mondo redento. D'altra parte, però, il rito permette di far sorgere nella stessa percezione che l'uomo ha di sé attraverso il corpo la coscienza di una relazione originaria con l'Assoluto.

Risulta altresì necessario sottolineare il nodo che sussiste fra rito e corporeità, in quanto la realtà del corpo si pone come una sorta di metafora viva che scandisce, attraverso una connessione vitale con il mondo, nella quale viene ricondotta alla propria identità relazionale, la memoria e la tensione rinnovata verso la Parola che è manifestazione della gloria. Per questo la corporeità è eletta ad evento epifanico; ogni volta, nella liturgia, essa rinvia all'azione originaria dello Spirito che ne edifica la verità della condizione umana nel suo essere situata al limite e nel suo essere convocata al superamento. In questa interazione fra autoscoperta in quanto relazionalità e autorealizzazione in quanto riconoscimento di un inizio con se stesso come promessa di un dono sempre rinnovato, si esplica l'anticipazione sacramentale dell'eschaton. Per questo si può evincere fenomenologicamente come il corpo sia il luogo dello spirito e rinvii all'originaria donazione della vita. Pur connotato come essere nel mondo (In der Welt sein) in virtù della corporeità, l'uomo è ad un tempo orientato al mistero che lo dona a se stesso e lo invia nel mondo stesso come testimone dell'invisibile. Indiscutibile è quindi la sua valenza simbolica, nel senso di legare insieme la sua esperienza percettiva e cognitiva e la capacità di intenzionare un significato spirituale perché situato nell'apertura stessa del mistero che lo convoca. In ogni caso è attraverso il corpo, inteso come carne vivificata, che ne va della stessa storicità dell'uomo. Se la carne è storica, ovvero se si presenta con lo stigma dell'esserci nel mondo, la sua storicità è di tipo spirituale e ha autentico valore nella testimonianza dello Spirito che sottende la condizione stessa del suo manifestarsi. Il luogo della liturgia è questo annuncio e questa promessa, sancendo non solo l'impossibilità di una realtà di Dio senza mondo, in virtù dell'Incarnazione, ma anche l'impossibilità di una manifestazione dell'invisibile senza corpo. Testimone dello Spirito, il corpo attesta altresì la gloria e lo splendore della luce taborica, a cui partecipa da sempre grazie all'assunzione ipostatica nel Verbo.

Se il corpo è il limite che connota esistenzialmente l'uomo, non già di una barriera si tratta (Schranke di kantiana memoria) che riconduce alla medesimezza, alla ripetizione dello stesso, quanto invece un orizzonte, un confine (Grenze) che apre all'assoluto come rapporto vitale e connettivo ontologico, ponendolo in relazione a sé, e riconoscendolo come il mistero sottratto della propria esistenza. In questo senso si può concludere circa il carattere rivelativo del corpo. Per quanto l'assoluto divino resti l'inaccessibile, esso resta tuttavia la prossimità più autentica al proprio sé grazie all'originaria manifestazione della vita nella propria carne vivente.

Non siamo più dinanzi ad una res cogitans astratta della storicità dell'esserci; per quanto cogito brisé, ferito dall'alterità misteriosa che sostiene la propria irrevocabile e irripetibile libertà, l'esserci umano è parabola di verità e di trascendenza. Se, come dice Ricœur elaborando la propria ermeneutica narrativa, il racconto determina la possibilità di una comprensione di sé nel lungo détour che riconduce il sé all'apertura verso l'altro, la liturgia costituisce altrettanto un racconto vivo ed una trascrizione memoriale di una Scrittura che vive e si ricostituisce ogni volta dell'attualità della Parola; essa, infatti, rinvia ad un hápax legómenon, quello dell'Incarnazione in quanto epifania e dono dell'invisibile. La liturgia è in sé questo grande racconto, ad un tempo orizzonte di senso nel quale la sacramentalità dell'evento ecclesiale prelude ed anticipa, annuncia e proclama la presenza del Corpo di Cristo; tuttavia questa memoria e questa prolessi non potrebbero mai farsi manifeste se non per il carattere simbolico e sacramentale del corpo. L'Incarnazione è il senso inerente al gesto liturgico che ne testimonia altresì il carattere teandrico e la capacità di dare forma al mistero grazie alla dialettica di recezione e azione per cui lo Spirito rivela e fonda la verità dell'uomo e del mondo, la verità del Verbo ed il dono del corpo che è insieme invisibile e manifesto, consegnato alla memoria attualizzante della Parola e proclamato come promessa e presenza nella testimonianza. Il che conferisce alla liturgia un carattere ermeneutico che getta una luce affatto nuova sulla finitudine e recupera antropologicamente il rito come capacità umana di rinviare ad una gratuità originaria e ad un'esperienza irriducibile a qualsivoglia reificazione, grazie alla quale la dimensione del corpo, nella pluralità del suo darsi, dal contatto alla relazione, dal tatto, all'udito e alla vista, rinvia ad un evento di senso che antecede il visibile ontologicamente e logicamente, ma che del visibile vuole necessitare, dalla sua eccedenza per rivelare e rivelar-si nella sua immanenza di dono.

Si può certamente evincere che il rito visto nel dinamismo della celebrazione svela un nuovo paesaggio antropologico, ma ad un tempo recupera la dimensione simbolica alla teologia. In effetti, la natura teandrica dell'azione rituale sancisce da un lato la presenza di Dio non sotto il sembiante della disponibilità oggettiva (Zuhandenheit), ma come evento che suscita la libera determinazione della libertà umana convocata al suo essere per Dio nell'apertura all'alterità. D'altro canto esso sancisce questa particolare presenza dal momento in cui dà nuova luce alla dimensione della carne e del corpo che, nel preciso istante kairologico, viene recepita come la via attraverso cui il divino si rivela, nonché come il percorso storico-ontologico che rinvia all'ulteriorità della trascendenza. L'azione liturgica apre in tal senso un mondo, designando lo spazio-tempo nel quale l'universalità della presenza di Dio si manifesta nella particolarità dell'azione umana sostenuta da un evento fondatore che da un lato sancisce la trascendenza divina, dall'altro il suo dono che permette all'uomo il suo nuovo essere nel mondo davanti a Dio che non è mai un Dio senza mondo. In altri termini, la celebrazione liturgica sancisce la via dell'Incarnazione che permette di preservare la differenza teologica, ma che attesta nello stesso tempo un nuovo modo di dimorare il mondo e la storia nell'apertura al dono della presenza, che supera qualsiasi separazione fra sacro e profano. Lo stesso mondo della liturgia nel quale si edifica il Corpo di Cristo nella sacramentalità ecclesiale anticipa certo l'evento escatologico nel quale Dio sarà tutto in tutti ed in Cristo attraverso lo Spirito tutta la creazione sarà ricapitolata; tuttavia essa si radica nella storia come kairós a sancire un nuovo senso dell'essere con l'altro e per l'altro che dà sempre nuova forma all'evento eucaristico come condizione di riconoscimento dell'universalità della presenza di Dio nel gesto di servizio umano. Non è affatto casuale che un filosofo come Emmanuel Levinas recuperi nell'originarietà del volto, che rimette in discussione la tradizione ontologica in nome di un altrimenti che essere, l'istanza di diaconia in cui l'essere per l'altro significa porsi sulla traccia di Dio, laddove per traccia si intende non già un frammento appena percettibile, ma lo stesso passaggio della trascendenza. L'essere per l'altro levinassiano costituisce un altro modo dell'esser-ci liturgico; il volto rinvia infatti ad un'arrière-pensée fuori presa,46 più originaria del suo testimone, costituendo ad un tempo il soggetto come accusativo non ricusabile: ecco-mi; questo stesso rispondere rinvia già al Nome della Presenza che manifesta se stessa come dono e costituisce il soggetto nell'apertura di questo dono, conferendogli il potere del dono. Allo stesso modo la liturgia che ha il suo climax nell'evento eucaristico significa l'assoluta trascendenza sancita dall'Incarnazione stessa, nonché la possibilità ineludibile di porsi in questa originaria apertura rivelativa, in una sorta di de-posizione del proprio per sé che ponga l'accento sul dono in quanto manifestazione della gloria, altra e più originaria di ogni intenzionalità costituente.

In questo senso il corpo, inteso come connotazione esistenziale e tonalità emotiva supera ogni concezione meramente fattuale, rinviando a questa avventura dell'invisibile che è la stessa Vita del Verbo avanti l'apparire nel mondo ma nello stesso tempo presente nel mondo a partire dalle esistenze incarnate, corpi vivi, sacramenti del Corpo.

5. Conclusione

Questo itinerraio singolare, atto a mettere in luce nodi inediti fra eucaristia e le sue implicazioni filosofiche, più propriamente fenomenologiche, si inserisce nell'ambito di una elaborazione ermeneutica dell'esperienza religiosa che ritiene importante gettare una luce sulla valenza teoretica ed esistenziale del dato rivelato. Inoltre, nonostante essa sosti sul dato più importante del Cristianesimo, ovvero l'Incarnazione, non si può escludere che essa riconduca un'esperienza universale in quanto tratteggia un percorso dall'incarnazione alla carne come condizione ineludibile dell'uomo su cui basare la sua gnoseologia come la sua logica, così come il suo esserci nel mondo.

Indubbiamente vi è un altro aspetto non trascurabile che sancisce ulteriormente il collegamento fra evento cristiano ed esperienza filosofica. L'Incarnazione, da un punto di vista teologico, in quanto manifestazione del Verbo che era in principio e della luce che era la stessa luce degli uomini, sgombra il campo da ogni equivoco di tipo gnostico o docetico e si presenta come manifestazione della Vita nel suo stesso automanifestarsi. Per questo l'essere assunti in quella che Henry chiama Archi-vita, condizione della stessa manifestazione nei viventi, non solo sancisce l'appartenenza a questa origine cristologica di ogni vivente, ma anche la possibilità di ogni conoscenza. La cosa non può non avere una ricaduta filosofica; non solo essa può finalmente elevare la vita a teoresi e ridarle una dignità filosofica, ma è in grado di partire dalla vita stessa come fenomeno originario. Se il programma della fenomenologia è zu den Sachen selbst, alle cose stesse, la vita rappresenta certamente la Hauptsache della filosofia, in quanto datità originaria, che molta parte delle fenomenologia francese traduce opportunamente con donation. La donazione qui implicata, procedendo ad una riduzione trascendentale che faccia spazio alla sua fenomenalità nuda, prima di ogni intenzionalità che, al contrario, subisce qui un rovesciamento, permette alla filosofia fenomenologica di sostare sulle condizioni di possibilità del fenomeno della rivelazione, pur prescindendo dal positum della rivelazione stessa che aprirebbe ad un diverso campo di indagine. Tuttavia, se la donazione sottende la condizione di possibilità del dono inteso come dato originario, essa inerisce all'atto della manifestazione che epochizza il donatore ed il donatario e rivela il dono come fenomeno saturo quanto alla capacità di visione e di relazione, sottolineando la sua venuta nel mondo nella sua irriducibile alterità. Si può concludere con l'istanza fondamentale della fenomenologia di Henry, che quanto si mostra è invisibile. La donazione, allora, implica da un lato la destituzione del soggetto in quanto autoponentesi o in quanto intenzionalità datrice di senso, ma dall'altro essa sottende anche una destituzione dell'oggetto, in quanto essa si manifesta come l'indisponibile. L'oggetto non risulta da alcuna sintesi costitutiva, né tanto meno si risolve in una presenza alla coscienza. Il darsi-a che sottende l'originarietà della donazione, infatti, pur attestandosi come un «darsi a qualcuno», non permette di desumere che questo «qualcuno» possa essere il soggetto costituente; egli sarà, invece, il testimone e l'attributario del dono. L'evento eucaristico è un notevole paradigma in quanto la specie sottende il mistero di una presenza donata che rinvia alla donazione invisibile; tuttavia il suo dono è tale perché rinvia al circolo rivelazione-testimonianza di fede, ovvero per il fatto che necessita della libera accoglienza tipica del testimone. Per questo la celebrazione eucaristica non solo fa saltare la semplice presenza dell'oggetto, dilatando il tempo del suo donarsi, ma si dà a vedere come originale donazione nella testimonianza celebrante, rammemorante ed anticipante del dono di Dio. Potremmo in altri termini dire che nella celebrazione eucaristica l'evento della Presenza nel corpo mistico si manifesta nella testimonianza in quanto essa rinvia alla recettività di ogni attributario del dono che, riconoscendolo nel valore salvifico indisponibile alla sua intenzionalità, dà forma alla sua manifestazione invisibile. Il circolo rivelazione-fede deve quindi espandersi a quello di Incarnazione-celebrazione, nella quale appare altresì la manifestazione del corpo come forma dello Spirito. D'altra parte tale celebrazione, climax della testimonianza, rende presente solo rispondendo l'originarietà del Verbo che entra nel mondo e l'invisibilità della chiamata ad essere figli nel Figlio, riconoscendo nella carne la possibilità e la novità della nascita originaria nella carne di Cristo.

Se la filosofia può riflettere meglio, in virtù di questo nucleo eucaristico, sulla possibilità di un'ontologia che connota l'essere come mistero e più ancora come dono, riproponendo in modo inequivocabile quella che Heidegger ravvisava come differenza ontologica (il dono che manifesta l'essere è irriducibile all'essere stesso che si manifesta, permanendo l'apertura invisibile della stessa manifestazione nel mondo), anche la teologia ha, però, un'occasione fondamentale di ripensare il nucleo eucaristico che lega Incarnazione e Chiesa. Sancire l'ex opere operato del sacramento costituisce l'altro modo di evidenziare l'indisponibilità del dono alla mera azione umana, che, al contrario, ha la sua ragione d'essere nell'azione stessa di Dio libera ed originaria, nonché la possibilità di attestare l'efficacia performativa della Parola di Dio che istituisce ex novo la realtà salvifica della carne di Cristo. Crediamo però che una tale prospettiva ermeneutica possa aiutare la teologia a liberarsi sempre di più dal rischio di una possibile reificazione, che potrebbe conseguire se ci si attestasse meramente sul binomio species-presenza reale senza inserirlo e comprenderlo sia nell'ambito del dinamismo trinitario, sia nell'aspetto relazionale della stessa liturgia, in cui convocazione alla chiamata e interpellazione del Verbo si interpolano istituendo il mondo del sacramento come nuova modalità di attestazione della presenza di Dio nella storia, sottraendolo quindi ad una cattura del sacro, ma inserendolo nella storia a testimoniare una trascendenza assoluta di Dio, capace però di donarsi assumendo ed elevando la stessa carne umana fino a farne il segno incontrovertibile dell'incontro con lui e luogo in cui la Scrittura può e deve farsi sempre Parola viva.

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Note

  1. Si veda su questo l'opera di G. Ferretti, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. I: Questioni, vol. II: Figure, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002, il cui intento è quello di un ripensamento del rapporto fra le due discipline, grazie al prezioso apporto dell'ermeneutica e della fenomenologia. Testo

  2. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer Verlag, Tübingen, 1986, trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1986, specie il § 7. Testo

  3. Cfr. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Nijhoff, Haag 1963, trad. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane con l'aggiunta dei discorsi parigini a cura di R. Cristin, Bompiani, Milano 1989. Testo

  4. P. Ricœur, Du texte à l'action. Essais d'herméneutique II, Du Seuil, Paris 1986, trad. it. a cura di D. Iannotta, Dal testo all'azione, Jaca Book, Milano 1989, p. 41. Testo

  5. In particolare si vedano: M. Henry, Phénomenologie materielle, PUF, Paris 1990, trad. it. di E. De Liguori, Fenomenologia materiale, Guerini e associati, Milano 2001, nonché M. Henry, C'est moi la verité. Pour une philosophie du Christianisme, Du Seuil, Paris 1996, trad. it. di G. Sansonetti, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997. Qui il filosofo recentemente scomparso conduce un'interessante analisi fenomenologica sull'automanifestazione del Verbo in quanto manifestazione della Vita invisibile nel suo pathos in ogni vivente. Testo

  6. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a.M., 1976, trad. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 3-33. Testo

  7. Cfr. P. Ricœur, ibidem. Testo

  8. Su questo termine, che traduce in francese la Gegebenheit della fenomenologia husserliana, si vedano in particolare J.-L. Marion, Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la Phénomenologie, PUF, Paris 1989, nonché Étant donné, PUF, Paris 1997, trad. it. di R. Caldarone, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001. Testo

  9. G. Scoto, Periphyseon, III 4, 633b, p. 58. Testo

  10. M. Henry, Phénomenologie..., trad. it. cit., p. 166. Testo

  11. M. Henry, C'est moi..., trad. it. cit. Rinviamo sopratutto al cap. dal titolo «Fenomenologia del Cristo». Testo

  12. M. Heidegger, Sein und Zeit, trad. it. cit., in particolare il § 7. Testo

  13. Ibidem. Testo

  14. M. Henry, C'est moi..., trad. it. cit., p. 45. Testo

  15. Ivi, p. 78. Testo

  16. S. Petrosino, L'astrazione del corpo, postfazione a G. Sala, La Parola si fa gesto, Ancora, Milano 2002, p. 233. Testo

  17. J.-L. Marion, Étant..., trad. it. cit., p. 149. Testo

  18. Ivi, p. 150. Testo

  19. Ibidem. Testo

  20. Ibidem. Testo

  21. M. Henry, C'est moi..., trad. it. cit, p. 210. Testo

  22. C.H. Dodd, Interpretezaione del quarto Evangelo, cit. in R. De Zan, Il linguaggio della carne, in AA.VV., Liturgia e Incarnazione, Messaggero, Padova 1997, p. 79. Testo

  23. G. Marcel, Être et avoir, Éditions Universitaires, Paris 1991, trad. it. di I. Poma, Essere e Avere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999, p. 63. Testo

  24. Ibidem. Testo

  25. Ivi, p. 64. Testo

  26. Ibidem. Testo

  27. M. Blondel, L'Action, trad. it. di S. Sorrentino, L'azione, Paoline, Milano 1993, pp. 513ss. Testo

  28. Specie il saggio L'epoca dell'immagine del mondo, in Holzwege, trad. it. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997. Testo

  29. Si veda Lettera sull'umanesimo in Wegmarken, trad. it. cit., p. 203. Testo

  30. Si veda la pregnante analisi fatta da J.-L. Marion in L'idole et la distance, trad. it. L'idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1987. Testo

  31. J.-L, Marion, Étant..., trad. it. cit., specie le pp. 246-261. Testo

  32. N. Reali, Fino all'abbandono. L'eucaristia nella fenomenologia di J.-L. Marion, Città Nuova, Roma 2001, p. 96. Testo

  33. Su questo si veda soprattutto E. Schillebeeckx, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, Paoline, Roma 1972. Testo

  34. M. Henry, Incarnation. Une philosophie de la chair, Du Seuil, Paris 2000, trad. it. di G. Sansonetti, Incarnazione. Una filosofia della carne, SEI, Torino, 2001, p. 288. Testo

  35. AA.VV., Liturgia e Incarnanzione, cit., p. 27. Testo

  36. Ibidem. Testo

  37. Ivi, p. 267. Testo

  38. N. Reali, op. cit., p. 273. Testo

  39. Ibidem. Testo

  40. M. Henry, Incarnation..., trad. it. cit, p. 5. Testo

  41. J.-L. Marion, Etant..., trad. it. cit., specie il libro V. Testo

  42. J.-L. Chrétien, La voix nue. Phénomenologie de la promesse, Minuit, Paris 1990, pp. 13-30. Testo

  43. Ivi, p. 16. Testo

  44. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 26. Testo

  45. E. Salmann, L'evento intercorporeo tra verità e rito, in AA.VV., Liturgia..., cit. p. 38. Testo

  46. E. Levinas, Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, Jaca Book Milano, 1983, p. 187. Testo