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Dalla Riforma necessaria alla Riforma non sufficiente.
Il Movimento Liturgico come «effetto» del Concilio Vaticano II?

di Andrea Grillo (13 ottobre 2006)

Infelice umano orgoglio! diabolica superbia della mente, che crede di aver ogni bene compiuto in sé sola, e che ignora come il conoscer non è altro che un principio tenue ed elementare del bene, e come il bene vero e compiuto appartiene all'azione reale, alla volontà effettiva e non al semplice intendimento! E pure quest'arroganza dell'intelligenza è la perpetua seduzione dell'umanità...

-- A. Rosmini1

Le speranze che la Riforma liturgica ha suscitato da almeno 40 anni nel corpo della Chiesa sono state giudicate fin dall'inizio, sia pure da sparute minoranze, come forme di una «pericolosa illusione»; oggi, a poco più di 40 anni da quegli inizi, tali speranze restano ancora troppo poco evidenti, spesso appaiono incerte e così precipitano più di qualcuno in forme di delusa depressione o di cieca ostinazione. Viene spontaneo chiedersi: avevano forse ragione quei profeti di sventura?

Per rispondere a tale questione cruciale non voglio sottrarmi ad un genere di discorso che -- persino per un obiettore di coscienza al servizio militare come me -- suona necessariamente come «discorso militante». Ma la «militanza in difesa della Riforma» che qui mi propongo -- per quanto corretta e calibrata da tutte le necessarie formalità accademiche -- ha soltanto l'intenzione di riaccendere la speranza laddove merita ancora di essere alimentata e di smorzarla dove invece era stata e continua ad essere mal riposta.

Il percorso che vorrei seguire è in sé molto semplice, quasi lineare.

Esso muove dalla considerazione articolata del titolo di questa mia lezione: la Necessità della Riforma non ha mai inteso essere, né prima né poi, la sua Sufficienza. Il fatto che noi tutti siamo caduti nella tentazione di identificare il necessario con il sufficiente, ci ha condotti a perdere il senso della misura e delle proporzioni, affidando tutto il peso della svolta alle spalle troppo strette di modifiche formali, e non valorizzando dimensioni e aspetti sostanziali che oggi non possono più attendere. Così siamo caduti tutti vittime di quel formalismo che pure volevamo a tutti i costi superare.

Di qui la precisazione del sottotitolo: se è importante distinguere la necessità dalla non sufficienza della Riforma, ciò può essere fatto soltanto sulla base di una profonda riconsiderazione della «questione liturgica» come fondamento e motivo del Movimento Liturgico. Proprio questa riconsiderazione ci porterà a rileggere il rapporto tra Movimento liturgico e Riforma liturgica in un senso che oserei definire inverso o capovolto: non più dal Movimento liturgico come causa alla Riforma liturgica come effetto, ma piuttosto -- e sorprendentemente -- dalla Riforma liturgica come causa al Movimento liturgico come effetto! Questo Movimento liturgico non sta più dietro di noi, alle nostre spalle, ma davanti a noi, nel nostro presente e nell'avvenire promettente dell'ecclesia cui apparteniamo.

Ecco allora il nostro piccolo itinerario, nella forma di quattro brevi movimenti musicali: comincerò col chiarire che cosa sia la questione liturgica dimenticata -- perchè bisogna ricordarla e come mai è così facile e ragionevole dimenticarla (1: allegro ma non troppo); così capiremo perché il Movimento liturgico sia nato proprio per dare risposta alla questione liturgica e si sia trovato nella necessità di elaborare un nuovo metodo per la teologia e per la pastorale. Ciò ha portato a individuare in una nuova struttura liturgico-spirituale (la «actuosa participatio») il centro di una conversione pastorale che necessitava di due movimenti: quello di una nuova «iniziazione/formazione liturgica» e quello di una «riforma liturgica». Il secondo doveva essere lo strumento del primo, e il primo risultava primario rispetto al secondo. La nostra analisi di oggi si scontra invece con una evidenza incontestabile: ci si è dedicati moltissimo alla recezione della Riforma e poco o pochissimo alla recezione della formazione/iniziazione. Di qui dedurremo sia il conmpito di una nuova comprensione della classica «triade identificatrice del sacramento (forma-materia-ministro)» (2: adagio cantabile a tre voci), come pure l'oscillare della speranza liturgica tra disperazione e presunzione, non appena è sorta una incomprensione del rapporto tra questione liturgica e Movimento liturgico (3: scherzo).

Infine, dovremmo comprendere il Movimento liturgico non più come la premessa del Concilio e della Riforma, ma come il grande contenitore teorico e pratico, al cui interno il Concilio e la Riforma costituiscono «soltanto» un momento -- la II fase -- a suo modo sintetica ma anche con qualche inevitabile effetto unilaterale. Recuperare oggi, nella III fase del Movimento liturgico, la integralità degli interessi del Movimento liturgico (e soprattutto della sua I fase) potrà condurci con maggior sicurezza a tirare qualche sommaria conclusione, sia pur venata da quelche riflesso di ironia (4: rondò un poco capriccioso).

1. La difficile memoria della questione liturgica: ovvero la rimozione di una profezia (Allegro, ma non troppo)

Come ci ha insegnato ormai da anni la più avvertita storia della liturgia, gli schemi con cui ricostruiamo la storia della celebrazione cristiana dipendono profondamente dalle tesi che il XX secolo ha elaborato circa il culto cristiano. Che nella storia liturgica vi siano secoli bui (dal basso medioevo all'altro ieri) e secoli solari (l'età dei padri e la nostra) costituisce un autentico «scandalo» per la coscienza storiografica almeno degli ultimi 50 anni.2 Ora, se la recezione della Riforma liturgica ha vissuto ampiamente di queste false evidenze, ciò ha profondamente compromesso il modo di comprendere la Riforma liturgica stessa, l'atto liturgico e la sua funzione nella vita della chiesa, portando le tentazioni di archeologismo e le conseguenti «ecclesiologie nostalgiche» a livelli di guardia.

Per rimediare a questo difetto grave e ancora troppo vistoso, bisogna recuperare l'orizzonte teorico originario che ha motivato il Movimento liturgico come risposta alla questione liturgica e al cui interno trova spazio anche il processo di Riforma/Formazione della Chiesa rispetto ai riti.

Il punto di attacco del ragionamento che voglio esporre muove da una prima duplice evidenza. Di per sé -- lo abbiamo già notato -- sembra che la Riforma Liturgica abbia raggiunto effetti troppo esili rispetto alle intenzioni di quasi 50 anni fa. D'altra parte, questo primo giudizio appare tanto più fragile quanto più dimentica che la Riforma liturgica è solo una parte della risposta alla questione liturgica. Proprio su questo livello si accumulano oggi false opinioni e gravi fraitendimenti. La grande stagione del Concilio Vaticano II ha recepito più di 40 anni di Movimento liturgico per poter determinare la stagione delle Riforme. Ma questa relazione tra «receptio» e «institutio» è stata dimenticata troppo presto. Ciò ha prodotto un duplice equivoco.

Da un lato, ha illuso molti che la Riforma, di per sé sola, avrebbe risolto la questione liturgica: sarebbe sufficiente «difendere la Riforma» e il gioco sarebbe fatto! D'altra parte lo stesso abbaglio ha indotto altri a ritenere che, contro la Riforma liturgica, si dovesse negare la questione liturgica stessa: solo una «riforma della riforma» sarebbe in grado di ristabilire il vero senso del culto cristiano. Si noti bene: in questi giudizi non si fronteggiano tanto opzioni liturgiche e ecclesiologiche diverse, bensì due letture che si incontrano e quasi coincidono sul piano di un medesimo e deleterio pregiudizio: ossia l'idea che non vi sia una questione liturgica a giustificare il Movimento liturgico prima e la Riforma liturgica poi. Che quindi il rapporto tra fede e culto rituale «vada da sé», nel 2006 come nel 1947 o nel 1870!

In tal modo, tuttavia, si fa torto non soltanto alla esperienza ecclesiale contemporanea -- che ha un bisogno che oserei dire fisiologico di ritornare alla «liturgia come fonte» -- ma anche alla stessa disciplina liturgica, che per dare risposta a questa questione è nata e si è sviluppata nel secolo scorso in modo assolutamente determinato.

Per questo a me sembra che vedere la questione liturgica nella sua dimensione pastorale abbia bisogno di una Scienza Liturgica accurata e attrezzata; ma per aver cura e attrezzi in Scienza Liturgica occorre lasciarsi accompagnare da una domanda pastorale forte e urgente, da un ripensamento profondo della fede alla luce del rito e del rito alla luce della fede e da strumenti adeguati per impostare una risposta efficace.

Il Movimento liturgico si è mosso precisamente su questi due versanti: ha ripensato profondamente e originalmente il ruolo del culto simbolico-rituale nell'economia della pastorale e della teologia contemporanea, ma ha dovuto utilizzare nuovi strumenti proprio per poter lasciare davvero la parola al rito. Il Movimento liturgico è stato quindi, ad un tempo, capace di ripensare il «metodo teologico» e di recuperare competenze «aliene» come quelle della «antropologia», per metterle al servizio del nuovo metodo, al fine di favorire l'accesso ad una nuova comprensione dell'oggetto. Questa svolta non l'ha inventata né K. Rahner, né L. -M. Chauvet, né G. Bonaccorso, ma l'hanno introdotta uomini come M. Festugière, R. Guardini, O. Casel ecc. Essa ha introdotto in teologia ciò che M. Merleau-Ponty ha così ben definito come il compito di «ampliare la nostra ragione». Ascoltiamo questa sua bella definizione:

Una antropologia non si propone di aver ragione del primitivo o di dargli ragione contro di noi, ma di insediarsi su un terreno dove siamo entrambi intellegibili, senza riduzione e senza trasposizione temeraria... Il compito è quindi ampliare la nostra ragione per renderla idonea a comprendere ciò che in noi e in altri precede e sopravanza la ragione.3

Ciò ha comportato per la teologia e per la pastorale un cambiamento profondo di ottica e di priorità. Questo era ciò che appariva già chiaro prima di SC, quando nell'inaugurare la II sessione del Concilio Vaticano II un Paolo VI fresco di elezione a Vescovo di Roma affermava:

È venuta l'ora, a noi sembra, in cui la verità circa la Chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa, non forse con quelle solenni enunciazioni che si chiamano definizioni dogmatiche, ma con quelle dichiarazioni con le quali la Chiesa con più esplicito ed autorevole magistero dichiara ciò che essa pensa di sé4

Alla luce di queste affermazioni possiamo allora comprendere come il Movimento liturgico abbia profondamente trasformato il modo di comprendere la teologia classica, recuperando il valore originario dell'azione simbolico-rituale per la coscienza ecclesiale nel suo atto di fede. La Riforma liturgica sarebbe venuta solo in un secondo momento, come strumento per conseguire tale scopo.

2. La Riforma della triade sacramentale: forma, materia, ministro (Adagio cantabile a tre voci)

Da quanto appena detto, risulta essenziale distinguere bene fra tre diverse dimensioni -- quasi tre rationes -- di approccio e di considerazione della liturgia, che stanno scritte nella nostra storia comune, si influenzano a vicenda e delle quali dobbiamo saper dar conto quando affrontiamo una questione come quella della Riforma Liturgica della Chiesa. Queste dimensioni sono diverse, talora alternative e spesso però si sovrappongono e prevaricano le une sulle altre. Proviamo a considerarle brevemente nella loro singolarità e in special modo per la particolare esperienza del tempo che esse ci consentono di vivere. Di fatto -- dovremo riconoscerlo -- risolvere la questione della Riforma liturgica della Chiesa comporta aver già risolto la più generale questione della consapevolezza di diversi rilievi e di diverse profondità che il tempo acquisisce in queste differenti modalità di esperienza della liturgia.

2.1. La dimensione spirituale-personale (soggettiva)

La prima dimensione -- o ratio -- che vorrei considerare è legata alla esperienza che il soggetto ecclesiale (laico, prete o monaco) ha della liturgia. Il tempo del soggetto -- tempo tutto suo, tempo da usare bene, da dedicare, da sacrificare -- si plasma in una adesione tendenzialmente estensibile ad libitum rispetto ad ogni celebrazione. È chiaro, tuttavia, che qui la totalizzazione del tempo (la tensione alla adorazione perpetua o alla celebrazione ripetuta e continua) deriva sostanzialmente da un evidente fenomeno di assimilazione del tempo liturgico al tempo soggettivo. La pretesa di una sintonia della celebrazione al tempo soggettivo (cosa mai del tutto priva di fondamento, s'intende, ma estremamemente pericolosa se assolutizzata) porta ad una inevitabile deriva che la comprende anzitutto come esercizio, ascesi, compito. È tempo «investito» e «quantitativamente calcolabile», dal quale si pretende -- sotto sotto -- una resa. Esso è piuttosto tempo del «labora» o dello «stude» che non tempo dell'«ora».

2.2. La dimensione giuridico-disciplinare (oggettiva)

Una delle ultime parole che abbiamo usato nel punto precedente -- quella di compito -- ci introduce anche alla seconda grande esperienza della liturgia, che potremmo chiamare giuridico-disciplinare. Qui la liturgia è presa di mira e considerata come istituzione, come istituto giuridico, come struttura ecclesiale, che impegna oggettivamente il singolo e che si pone (o meglio si impone) con un tempo oggettivo, omogeneo, quasi inesorabile, rispetto alla temporalità del soggetto. Posta la oggettività della forma, della materia, del ministro competente, ogni condizione temporale e spaziale, ogni carattere contingente dell'azione risulta risucchiato in una atemporalità insignificante. Se nel primo modello che abbiamo considerato, la temporalità soggettiva finiva con il risucchiare ogni tempo del sacramento, ora in questo secondo caso è il tempo oggettivo del rito a ridurre ad «adiaphoron» il tempo del soggetto. In questa visione il tempo o è imposto oppure è irrilevante, ma comunque sottoposto anche in questo caso ad una «contabilità», ad una «resa».

2.3. La dimensione liturgico-sacramentale (intersoggettiva)

Tuttavia, accanto a questi due versanti -- pur così diversi tra loro e però anche così simili nelle conseguenze -- esiste anche una importantissima dimensione simbolico-rituale della liturgia. Essa affonda la sua verità nella irriducibilità della celebrazione liturgica allo spazio-tempo comune. Vi è dimensione celebrativa di ogni liturgia in quanto venga assunta la sua simbolicità rituale come una diversa esperienza dello spazio e del tempo. Questa è dovuta essenzialmente alla fuoriuscita della esperienza credente da una logica della contrapposizione tra soggetto e oggetto,5 tra tempo soggettivo-libero e tempo oggettivo-imposto, dando figura ad una dimensione dell'intersoggettivo che non può mai essere ricondotta ad un tempo come «continuum omogeneo».

2.4. Il «nuovo paradigma» e le conseguenze sulla definizione del sacramento

Nessuno dei tre modelli che abbiamo considerato è privo di qualche buon fondamento, s'intende. Ma ciò che deve sorprenderci è come, nella inevitabile sovrapposizione di queste esperienze, si siano creati scompensi, abusi e gravi sfigurazioni della esperienza integrale del simbolo rituale:

2.5. Applicazione del modello alla triade forma/materia/ministro

La coscienza della «partecipazione attiva» nelle aspirazioni fondamentali e decisive che hanno caratterizzato la Riforma liturgica sembra condurre ad una nuova profondità -- fino quasi ad una sostanziale trasfigurazione e trasmutazione -- dei tre concetti cardine con cui erano stati intesi per quasi un millennio i sacramenti: ossia la forma, la materia e il ministro.6 Vediamo brevemente la loro trasformazione consequenziale:

Questa breve rilettura della triade «forma, materia e ministro» può ricostruire adeguatamente l'orizzonte del ripensamento sacramentale ed ecclesiale cui è chiamata l'attuale fase di declinazione del concetto di «liturgia partecipata» come obiettivo ultimo e portante della Riforma liturgica. La forma di tale partecipazione alla liturgia deve riscoprirsi rituale, la materia si ridefinisce anzitutto come storico-simbolica e il ministro si pone come costitutivamente plurale e articolato, strutturalmente comunitario, che trova nella «presidenza» un primato a favore (e mai contro) la articolazione ministeriale di tutta la Chiesa. Se ciò è chiaro, è evidente che la «assemblea celebrante» non è una minaccia, ma una garanzia del ministero ordinato, anzi il suo vero scopo.

3. La speranza, la disperazione e la presunzione circa la Riforma liturgica (Scherzo)

Come ogni esperienza ecclesiale, anche la Riforma liturgica nutre alcune sue speranze e ha ovviamente a che fare con duplici tentazioni, di disperazione e di presunzione.7 Anche se in fondo i due «vizi» tendono ad identificarsi nel negare spazio alla possibilità virtuosa della speranza, è bene soffermarsi solo un attimo sulla loro distinzione.

La speranza viene negata dalla disperazione poiché in questa condizione di sofferenza una evidenza assoluta del visibile cancella la possibilità di uno spazio di riserva per «ciò che non si vede». L'essere preda della disperazione significa non dare altra autorevolezza se non a ciò che pretende di imporsi come la totalità del senso, cui occorrerebbe arrendersi.

Contrario a questo è l'altro modo di negare la speranza, ossia la presunzione. In questo caso il futuro invisibile non è negato come impossibile, ma piuttosto in quanto facilmente assicurato e garantito dal soggetto stesso. Ritenere di poter dominare il futuro o pensare invece di essere dominati dal futuro (come fa rispettivamente il presuntuoso o il disperato) sono i due modi per non entrare nella logica delicata e sottile della iniziazione liturgica. Essere pietrificati dal futuro o pietrificarlo appiattendolo sul presente costituisce l'impedimento fondamentale ad entrare nello logica «salvata» e «scelta» delle «pietre vive», che varcano la soglia del tempo con la libertà dei figli di Dio, per i quali il passato non è più irreversibile e il futuro non è più imprevedibile.

Oggi infatti sembra mancare di speranza verso la Riforma liturgica sia qualche giovane che dispera dei nuovi riti e presume che riti più vecchi garantiscano meglio la chiesa (o almeno quello che lui ha in testa come vera chiesa), sia qualche anziano, uomo di poca speranza e profeta di molta sventura (che magari è anche prelato di non esigua influenza). Per entrambi questi «soggetti», sia pure a diverso titolo, è un difetto di memoria ad annebbiare la vista e a indebolire il cuore. Se i primi presumono cose che non hanno mai potuto conoscere «de visu», i secondi idealizzano la loro infanzia ecclesiale, senza alcun controllo né critico né sentimentale. Si cade così in nostalgie che costituiscono una grave forma di presuntuosa disperazione o più spesso di disperata presunzione, come quando si pensa che il profondo ripensamento dell'azione liturgica, avvenuto obiettivamente a partire dal Concilio Vaticano II, sia stato non la conseguenza, ma la causa delle difficoltà attuale. Ad ascoltare certe diagnosi -- che cadono quasi sempre nel paralogisma del post hoc ergo propter hoc -- sembra quasi che, se non si fosse fatta la Riforma liturgica tutto sarebbe andato per il meglio.

Ma in questo modo tanto i giovani quanto gli anziani -- e questi ultimi meno giustificati sia per la maggiore esperienza, sia per la maggiore responsabilità -- dimenticano che la Questione Liturgica esisteva da più di 50 anni quando il Concilio è stato indetto. Coltivare la speranza, oggi, significa non dimenticare che la «questione liturgica» è più vecchia di noi, della nostra generazione ma anche di quella dei nostri nonni e che risale ad almeno 4 generazioni fa!

Chiunque oggi parli in questo modo immemore e pericolosamente ingenuo a proposito di problemi così antichi e tanto delicati, dovrebbe sentire dire anche su di sé quello che il poeta Shelley disse una volta di un suo stretto congiunto:

Ha perso ogni arte di comunicare, ma non, purtroppo, il dono della parola.

Oppure potrebbe riferire a se stesso quella pagina mirabile in cui P. Beauchamp prende le distanze dal modo errato di leggere la Scrittura dicendo:

La Bibbia, quando si conosce male, si riduce ad uno schermo dell'infanzia sul quale si proiettano delle immagini.8

Esattamente così -- e forse anche peggio -- accade anche alla liturgia quando viene maneggiata e giudicata da queste mani maldestre e da queste teste immemori.

4. Conclusioni: l'elogio del camionista contro l'arroganza dell'intelligenza (Rondò un poco capriccioso)

La Riforma liturgica, se abbiamo visto bene, non è altro che uno strumento necessario -- ma mai sufficiente -- per far sì che la liturgia torni ad essere fons di tutta l'azione della Chiesa.

Solo diventando fons la liturgia sarà in grado di realizzare la aspirazione più grande della Riforma liturgica: di essere, cioè, non soltanto la pur necessaria «riforma che la Chiesa ha fatto e continuerà a fare dei suoi riti», quanto ultimamente e finalmente la «riforma che i riti sapranno fare della Chiesa». In questo sta la sua storica necessità e in questo si trova anche -- detto tanto seriamente quanto serenamente -- la sua attuale insufficienza.

Ora, dare ascolto alla domanda pastorale non è ciò che la scienza teologica non deve fare, in nome di un metodo astratto o di un contenuto «chiuso»: è piuttosto l'unico suo vero compito, purchè voglia tornare ad impararlo con contenuti e con metodi degni del suo ruolo così prezioso e così insostituibile per la vita della Chiesa. A questo compito credo che molto debba dedicarsi anche la ricerca liturgico-sacramentale che conduciamo a S. Anselmo. Non senza successi, anche quando sappiamo di dover fare ancora molto in questa direzione.

Perciò vorrei concludere in due modi: ad una cadenza d'inganno e semiseria farò seguire una conclusione effettiva e monumentale. Prima un piccolo consiglio al futuro liturgista, e poi, in extremis, un breve cenno alla «piaga della mano sinistra» della nostra Santa Chiesa, a quasi 170 anni dai lampi profetici di A. Rosmini:

a) Cadenza d'inganno: un modesto consiglio al liturgista del futuro. Dovrei dire che fa parte della esperienza che ci siamo fatti in questi 40 anni la coscienza che non si può ridurre la risposta alla questione liturgica ad una «esecuzione della Riforma», per quanto fedele essa possa essere. Abbiamo bisogno di progettare un «liturgista», un esperto di cose rituali, che sia a profondo contatto con le «cose della fede», con la materia del culto a Dio in Cristo, ma con entrambi i piedi ben piantati dentro l'esperienza viva della benedizione e della lode, della supplica e dell'azione di grazie. Per questo motivo desidero qui ricordare ciò che ho sentito dire qualche mese fa da un mite uomo di Chiesa, responsabile della formazione del clero in una grande diocesi del Nord Italia, il quale sosteneva, con bella ironia, di aver trovato un criterio formidabile nella formazione dei nuovi ministri del culto:

Farei studiare liturgia -- diceva -- soltanto a chi abbia alle spalle almeno 10 anni da camionista.

È ovvio che per parte mia non ho affatto l'intenzione di proporre l'introduzione di un ulteriore decennio propedeutico a S. Anselmo, che dovrebbe svolgersi non nelle aule scolastiche o in biblioteca, ma al volante, sulle autostrade e negli svincoli di mezzo mondo. Forse però un poco di esperienza «di strada» permetterebbe al liturgista -- ad ogni livello e di ogni provenienza -- di non stilizzare troppo la propria esistenza e il proprio pensiero, il proprio gesto e il proprio gusto, assumendo modelli troppo alti o astratti, troppo angusti o astrusi. Tale esperienza gli consentirebbe forse di tener conto di quale sia l'interlocutore da aver sempre presente, nel suo delicato ministero al riparo da ogni «cliché», per poter sempre terminare «non ad enuntiabile, sed ad rem».

E mi chiedo: che cosa diventerebbero le nostre sacrestie e le nostre Congregazioni, se un tale criterio lentamente si imponesse? Quanta vita entrerebbe nella liturgia e quanta liturgia nella vita? Ma niente paura: sto solo sognando.

D'altra parte, come avrete già capito, questo richiamo alla integrazione del camionista col liturgista vuole additare -- nella forma del paradosso -- non tanto un modello soggettivo di liturgista, quanto un metodo disciplinare veramente fedele all'oggetto «liturgia». Non aveva forse ragione M. Weber a ricordare che «in campo scientifico ha una sua personalità soltanto chi è capace di servire puramente il suo oggetto»?

E questo non vale forse per il Liturgiewissenschaftler di ieri come vale per quello di oggi? E quanto dovremo aspettare ancora per adeguare il nostro metodo alle esigenze di tale oggetto? Oppure continueremo a piegare l'oggetto alle aride sottigliezze del nostro metodo?

b) Conclusione profetico-monumentale: curare la «piaga della mano sinistra» della Chiesa. Allo stesso tempo mi pare di dover ricordare anche una tentazione costitutiva dell'uomo di fronte al culto. Quella stessa tentazione che circa 170 anni fa veniva lucidamente descritta da A. Rosmini, quando identificava la «piaga della mano sinistra della Santa Chiesa» con la «divisione del popolo dal Clero nel pubblico culto». Egli infatti, nel costatare la difficoltà con cui il culto veniva ridotto a questione di semplice conoscenza teoretica o morale, osservava:

Infelice umano orgoglio! diabolica superbia della mente, che crede di aver ogni bene compiuto in sé sola, e che ignora come il conoscer non è altro che un principio tenue ed elementare del bene, e come il bene vero e compiuto appartiene all'azione reale, alla volontà effettiva e non al semplice intendimento! E pure quest'arroganza dell'intelligenza è la perpetua seduzione dell'umanità...9

Ora, vi è una «arroganza dell'intelligenza» che minaccia anche la Riforma liturgica, quando essa non riesce più a uscire dalla logica di voler «trovar fonti» alla liturgia, senza ricordare che il vero ressourcement da realizzare è quello per cui la liturgia può oggi (e potrà ancor meglio domani) tornare ad essere fonte di vita cristiana, fondamento di pensiero e di azione credente, proprio in quanto sappia essere e rimanere azione simbolico-rituale.

A questa aspirazione di A. Rosmini -- che più di un secolo dopo sarà anche «il desideratum» della Riforma liturgica -- vorrei ridare animo e speranza. Ma tale speranza ha bisogno di tutta la nostra audacia e di tutta la nostra pazienza: per i liturgisti di domani, si tratta di agire nello stesso tempo con finezza da artisti e con sapienza da camionisti, con stile rituale e con apertura vitale, con senso acuto della trascendenza e con gusto autentico per l'umanità: con quella sintesi tra pensiero e vita che C. Vagaggini -- da queste nostre aule, in una prolusione accademica di 45 anni or sono -- identificava come l'aspirazione e l'«assillo» più nobile del pensiero moderno.

Proprio a questo proposito -- e lo dico quasi sottovoce, ma dovrei gridarlo dai tetti -- credo che sperare e sognare una liturgia aperta alla vita e alla modernità e una modernità sensibile alla liturgia viva e toccante non sia ancora da considerarsi un peccato, ammesso e non concesso che io abbia letto correttamente anche gli ultimi documenti magisteriali al riguardo.

In questo modo -- a prezzo di questa audacia e di questa pazienza -- noi tutti potremo veramente ricevere in eredità il Movimento liturgico dalle mani della Riforma liturgica, per rispondere con finezza ed efficacia alla questione liturgica, che non si è chiusa né con Mediator Dei, né con il Concilio Vaticano II, né con la Riforma liturgica, né si chiuderà con la nostra o con la prossima generazione. Il Movimento liturgico diviene così l'esito più grande e più importante della Riforma Liturgica: un Movimento liturgico nella sua III fase, la più delicata proprio perché la meno evidente, la più decisiva e perciò anche la più fragile.

È vero: «ci son cose in cui ogni generazione ricomincia sempre daccapo» (Kierkegaard); tuttavia in un vero «lavoro di generazioni» come la liturgia reformanda, ogni singola generazione deve sfuggire tanto alla disperazione dell'impotenza quanto alla presunzione di onnipotenza: deve fare solo quello che può, con grande pazienza, ma deve farlo tutto e fino in fondo, con somma audacia. In questo sta il bisogno di «militanza» cui alludevo all'inizio: nel sopportare la tensione insuperabile tra audacia e pazienza, che nobilita e caratterizza il lavoro teologico intorno alla liturgia, quello di ieri come quello di oggi e di domani.

Soltanto così ogni generazione -- anche la nostra -- può aver la speranza di restare davvero nella tradizione dell'«ecclesia Christi», consentendo alle generazioni future di gustarne ancora il succo in tutta la sua pienezza e potenza, con tutto il suo amaro, che tempra i cuori e mette a dura prova i corpi, e con tutto il suo dolce, che conforta e consola le vite degli uomini e delle donne, le speranze dei vecchi e le incertezze dei bambini, i pensieri dei sapienti e i sogni dei folli.

Di una tale ecclesia l'azione liturgica può essere realmente culmen solo se può restarne autentico fons. Questo è il fianco scoperto e la ferita aperta della questione liturgica: essa si colloca al di qua della Riforma liturgica, ma anche aldilà della Riforma liturgica, prima della sua necessità e oltre la sua insufficienza. Ma è solo qui che i liturgisti di oggi e di domani potranno trovare il loro specifico campo di lavoro, al servizio della Chiesa, certo, ma con tutta l'audacia possibile e non senza tutta la pazienza necessaria.

[Il testo qui presentato è la prolusione, tenuta il 10 ottobre 2006, dell'Anno Accademico 2006-2007 presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo.]

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Note

  1. A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Cinisello B., San Paolo, 1997 (ed. orig. 1848), 11, 125, il corsivo è mio. Testo

  2. Cfr. A. Angenendt, Liturgia e storia. Lo «sviluppo organico» in questione, Assisi, Cittadella, 2005. Testo

  3. M. Merleau-Ponty, Da Mauss a Claude Lévi-Strauss, in Id., Segni, Milano, il Saggiatore, 1967 (ed. orig. 1960), 154-168, qui 164. Testo

  4. Paolo VI, 29/09/1963 (Apertura II Sessione Conc. Vaticano II). Testo

  5. Cfr. G. Bonaccorso, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, Padova, EMP-Abbazia di S. Giustina, 2003, 19-26. Testo

  6. Cfr. J. Wohlmuth, Vorüberlegungen zu einer theologischen Aesthetik der Sakramente, in H. Hoping -- B. Jeggle-Mez (edd.), Liturgische Theologie. Aufgaben systematischer Liturgiewissenschaft, Paderborn, Schöningh, 2004, 85-106. Testo

  7. «Deinde considerandum est de vitiis oppositis (ad spem). Et primo de desperatione, secundo de presumptione» (Tommaso d'Aquino, S. Th., II-II, 20, Intr.). Testo

  8. P. Beauchamp, Salmi notte e giorno, Assisi, Cittadella, 2002, 16. Testo

  9. A. Rosmini, Delle cinque piaghe, 11, 125, il corsivo è mio. Testo