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La saggezza degli inermi. Vangelo e riscatto in La morte corre sul fiume di Charles Laughton

di Agnese Maria Fortuna (31 gennaio 2008)

La morte corre sul fiume (The night of the Hunter, 1955) unico film di Charles Laughton, misterioso e complesso capolavoro tra il noir e la favola, è per più rispetti estremamente attuale e provocatorio. Esso ci offre modo di riflettere, tra l'altro, sull'interazione tra educazione, anche religiosa, e formazione dell'identità di genere, e su quanto questa possa favorire o inibire i processi di affrancamento dai vincoli affettivi fondati sull'ansia di accettazione e dalla maniera convenzionale e mistificante di vivere la relazione tra i sessi. La nota si sofferma sulle figure femminili, in particolare su quella della madre naturale (Judith Harper) e quella della madre vicaria (Rachel Cooper) evidenziandone la maniera differente d'intendere e sostenere il ruolo materno nella chiave dell'imitazione di Cristo. Dar risalto al carattere parabolico dell'impianto narrativo di un film ricco di esplicite citazioni scritturali, consente di mettere in luce come la costituzione di un sano tessuto di relazioni affettive e sociali dipenda dalla capacità individiduale di non lasciarsi condizionare dai propri sensi di colpa, acquisendo autonomia senza pretendersi autosufficienti e prendendo posizione di fronte all'ingiustizia senza venire a patti con la violenza, materiale o psicologica che sia.

Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.1

In realtà, l'uomo si limita a subire la forza e non la padroneggia mai, qualunque sia la situazione. L'esercizio della forza è un'illusione. Nessuno la possiede; essa è un meccanismo. (...) La forza è puro concatenamento di condizioni. Ogni uomo è sottoposto al peso dell'universo intero. Solo l'altro mondo può fare da contrappeso. La Croce è la bilancia.2

La morte corre sul fiume è un film indubbiamente complesso. Per quante siano le interpretazioni proposte e per quanto differiscano tra loro, su questo c'è unanimità: si tratta di un film costruito fin nei minimi dettagli, la cui coesione deriva, a tutta prima paradossalmente, dalla convergenza di registri narrativi di per sé divergenti. La narrazione compendia in sé lo stile del thriller e quello della favola, costringendo lo spettatore a partecipare empaticamente al dipanarsi di una vicenda che non lascia scampo.3

La situazione da cui prende avvio la storia è tristemente ordinaria: di bambini minacciati da adulti senza scrupoli e circondati da persone che non soltanto non riescono a proteggerli ma non sanno neppure riconoscere il pericolo, sono piene le cronache. E il concatenarsi degli eventi segue la logica tragica che ben conosciamo, di delitto in delitto. In più, una storia ambientata sullo sfondo dell'America della Depressione non può che mettere a tema la questione dell'ingiustizia sociale: di fatto, è l'estremo tentativo di un padre di guadagnare riscatto e sicurezza per i figli a dar l'avvio alla vicenda. Non c'è nulla di favolistico in tutto ciò, eppure la storia ci viene narrata come una favola, dalla voce benevola di una nonna che si rivolge ai nipoti.4

Ma che genere di narrazione è quella che intreccia realtà o casi quotidiani a favola, che li presenta come una favola? Un apologo, si direbbe: ma del tipo ben caratteristico che incontriamo spesso nei testi evangelici.

Una parabola, dunque, il cui prologo si svolge, non a caso, nella più pura astrazione possibile a una realizzazione cinematografica concepita per rivolgersi al pubblico comune allo scopo di proiettarlo nell'orizzonte di senso, attuale e metastorico al tempo stesso, delle parabole evangeliche. E come molte delle parabole evangeliche, ciò che richiede innanzi tutto è di rinunciare all'atteggiamento d'ipocrisia faraisaica cui tutti incliniamo, chi più chi meno, e in specie collettivamente, alla ricerca di nascondimento e giustificazione. Rinuncia che è condizione previa per la comprensione non soltanto del messaggio della parabola ma anche dello stato del mondo e delle nostre responsabilità, il preludio all'unica metanoia umanamente possibile, quella che si realizza nella tensione all'onestà di sé e nella presa di posizione di fronte all'ingiustizia.

Di fatto il film funziona come un apologo/parabola, rivolgendo la nostra attenzione sull'esistenza di un messaggio puntualmente segnalato fin dall'inizio dalle molte citazioni scritturali:5 ma se si avverte che il messaggio che il regista vuole trasmettere è preciso, non è affatto facile delimitarlo, tanto più che ogni incongruenza, bizzarria e sfasatura risultano evidentemente significative.

La storia è lineare tanto quanto non lo sono i profili dei personaggi: tutti, grandi e piccini, rivelano infatti una notevole complessità psicologica pur restando, a volte artificiosamente ma volutamente, icastici. Ed è dall'interazione di psicologie tanto complesse, tutte più o meno gravitanti intorno al conflittuale rapporto a un qualche complesso di colpa mai esplicitamente riconosciuto, piuttosto che dalla storia, che prende forza il film e il suo messaggio intessuto da molteplici voci.

1. Padri omicidi

Uno dei moduli ricorrenti nel film è quello della relazione tra padri omicidi e figli (Ben Harper e i suoi figli, John e Pearl, il pastore Henry Powell e i figli adottivi, il boia Bart e i suoi figli; noto per inciso che si tratta sempre di due figli: un maschio e una femmina). Il primo uccide nel tentativo disperato di reagire all'ingiustizia sociale che destina gli inermi all'indigenza, il secondo per mestiere nell'esercizio della giustizia legale e punitiva che interpreta il compito di ristabilire l'equità attraverso il tragico paradosso dell'assassinio dell'assassino facendo leva sul miraggio dell'esempio deterrente, il terzo per mero interesse personale ambiguamente ammantato della retorica della missione. Tre padri tragici, ciascuno a suo modo, ciascuno giustiziere. Ma per quale giustizia? A quali visioni del mondo essi sono, per così dire, organici? Il denaro, e la sicurezza che promette, sembrano essere fattori determinanti, in netta contrapposizione al messaggio evangelico del prologo.6

Ma tornando al punto, il modulo della relazione tra padri omicidi e figli si presta, soprattutto nella concomitanza di simboli espliciti come quello del coltello del reverendo, a indurre lo spettatore sulla traccia dell'interpretazione psicoanalitica. Niente di più facile che risolvere il film in una parabola sulle problematiche edipiche legate al rapporto tra genitori e figli (ma gli omicidi sono i padri, non i figli): strategia elusiva, di fatto, perché se qualcosa di "freudiano" lavora nel film è qualcosa che riguarda piuttosto il rapporto tra ruolo e maniera di intendere e vivere la sessualità a prescindere dalla relazione parentale, dove il ruolo, che sia parentale o meno, appare come sostanzialmente strumentale, un mezzo efficace per accreditarla.

2. Il coltello

Il coltello e l'uso che ne viene fatto dicono infatti la maniera malsana con cui il sedicente pastore intende e vive il proprio ruolo in relazione alla sessualità nel rapporto con l'altro sesso, come alcune sequenza mostrano enfaticamente. E l'autorevolezza del ruolo convince anche gli altri della giustezza di questa maniera d'intenderla, sebbene non ce ne sia bisogno, perché il film mostra che la malsanità è largamente condivisa: si pensi alla desolante visione delle relazioni matrimoniali che traspare dalle battute della moglie del pasticcere, del tutto esplicite nella versione originale.7

In particolare convince la moglie, che ne subisce l'autorevolezza per il medio del doppio ruolo di marito e di pastore, come è evidente, per esempio, nella sequenza della prima notte di nozze e della conseguenza di questa, descritta nella sequenza della confessione pubblica di Judy.

La maniera d'intendere le relazioni sessuali del pastore è nella chiave della violenza, fondata sull'ossessione della deflorazione identificata con la sostanza reale delle relazioni sessuali, e che le rende immonde nella misura in cui esse sono intese come il luogo di connivenza di vittima e carnefice. L'impotenza del pastore, espressione di un'ansia di intangibilità radicata nell'orrore della mescolanza e della perdita della propria autosufficienza, diventa potenza della sua arma omicida, con la quale persegue lo scopo di eliminare ogni impurità sopprimendo le vittime virtuali prima che lo divengano, o meglio rendendole vittime una volta per tutte con il sopprimerne la presenza conturbante.

Ma il coltello, e non a caso, è anche un'immagine dell'attività di discernimento: la sua lama affilata è lo strumento simbolico di chi si arroga il diritto di distinguere giudicando inappellabilmente, esercizio di potenza ad extra fondato sull'assunzione di un diritto di proprietà e di giurisdizione della verità, intesa come distinzione tra un bene e un male sostantivato, perfettamente definito sulla base delle personali o collettive strategie di auto-assolvimento. La religione che professa il pastore è quella su cui lui e il suo Dio si sono messi d'accordo:8 una religione (dirimente, sezionante, imputante, amputante) che non aborrisce la violenza e l'eliminazione della vita tanto quanto ne aborrisce la supposta impurità.

3. Sensi di colpa

A proposito della sequenza della confessione pubblica di Judith vale la pena di notare che essa mette a nudo quanto sia profondamente radicato in lei il senso di colpa: e la cosa più notevole è che la colpa che si imputa non ha di fatto basi reali.9 Il primo marito, come sappiamo fin dall'inizio, non ha ucciso per soddisfare la vanità della moglie, ma per provvedere ai figli, come il figlio John oscuramente comprende facendone la sostanza del proprio senso di colpa. È infatti qualcosa di più del giuramento che lo vincola al mandato paterno: non a caso guadagnerà il proprio affrancamento soltanto nel momento in cui finalmente rifiuterà la ricchezza procuratagli, doppiamente a prezzo del sangue, dal padre, e preservata a costo della vita della madre.

Eppure Judith non ha il minimo dubbio sulla natura della propria colpa: e in questo si rivela drammaticamente l'ansia di adeguatezza, finanche all'immagine convenzionale della donna sedotta dalle futilità. Sui desideri inconfessati e le rinunce doverose lavora l'enorme forza dei condizionamenti di genere.

Se ripensiamo ai personaggi del film, colpisce il fatto che tutti siano ritratti come oscuramente alle prese con un qualche senso di colpa. Non soltanto i protagonisti, ma anche i personaggi di contorno: si pensi al boia Bart, al pasticcere Spoon, al vecchio amico ubriacone "zio" Birdie, per elencare soltanto i personaggi secondari maschili, nell'universo dei quali il femminile è sinonimo di argine ordinante, ma soprattutto di causa oscura e palese presenza giudicante delle proprie colpe.10

Il film è amaro. Il problema delle relazioni vincolanti tra i sessi e del limite che rappresenterebbero all'autosufficienza e alla libertà personale vi viene in luce in concomitanza alla questione del consistere della rete sociale, convenzionalmente, tradizionalmente intesa. Secondo il film, stare al mondo, così come lo intendiamo per convezione acquisita, significa fare quotidianamente i conti con i propri sensi di colpa e con la mortificazione della propria libertà che ne deriva.

L'inadeguatezza di cui soffrono profondamente i personaggi è imputabile, più che alla natura umana e alla fallibilità che la contraddistingue, alla convenzionalità artificiosa dei ruoli che sono chiamati socialmente a rivestire. Sono i ruoli tradizionalmente intesi a essere inadeguati. Affrancarsi dai sensi di colpa implica la messa in discussione delle traiettorie e delle strutture di vita che ereditiamo acriticamente dalla società di cui facciamo parte.

E se questo comporta la ridefinizione della propria identità di genere fino a sfumarne i contorni, tant'è. Se la vedova Cooper è l'esempio di donna che il film ci offre come colei che ha saputo metabolizzare positivamente il proprio senso di colpa, non sarà un caso che sia una vedova e che sappia imbracciare con fermezza e determinazione un fucile, tenendo l'uomo rapace, il nemico, bene a distanza. La sua spessa e robusta maternità più che di un essere donna dice di un essere umano tout-court.

L'unica a fare eccezione alla sudditanza al senso di colpa sembra forse Pearl:11 il personaggio della piccola pare del tutto risolto nell'invincibile tendenza ad acquisire istintivamente lo stereotipo della femmina, una replicante ingenua ed entusiasta della madre. Ma lei non ha vissuto abbastanza in società da maturare il radicamento di questo stereotipo menomante in un qualche senso di colpa. Ciò che Pearl è destinata a diventare, se qualcuno o qualcosa non interviene a sviarne la traiettoria convenzionale, è mostrato da Ruby, la ragazzina travagliata da precoci acquiescenze alle lusinghe interessate dell'altro sesso e che la vedova Cooper perdona in virtù dell'istinto materno che le riconosce (e del fatto che tutte le donne sono stupide: women is fool, incapaci di discernimento, propense ad aderire acriticamente, intimamente ansiose di concordia): perla e rubino, che il futuro contesto, come un castone, s'incaricherà di esaltare o di mortificare, a seconda che esso si riveli a misura di essere umano o di figurina dell'oleografia persistente in chiave domestica dell'american way of life, mercificante surrogato adatto all'esportazione della deriva corrente dell'utopismo puritano.

Ma la figura della signora Cooper sembra indicare che il destino e l'eventuale riscatto della donna non sono del tutto abbandonati alle circostanze: avversive o compiacenti che queste siano, se un riscatto è possibile, come per qualsiasi essere umano, esso passa attraverso l'esperienza individuale e la prova che ciascuno dà di sé nelle contravvenienze. Con un piccolo aiuto dagli amici.12

4. Logica della prevaricazione

Una delle sequenze che più colpiscono del film è senz'altro quella del pastore fasullo che sciorina la sua predica sull'odio e sull'amore: come se odio e amore appartenessero a una logica duale dominabile soltanto secondo la legge della prevaricazione. Il bene rimane bene se prevarica sul male? Seguire la legge della prevaricazione sembra inevitabilmente condurre a risultati funzionalisti: è la morale dell'utilitarismo condotta al suo esito finale. Ancora un film americano che mette a nudo la desolazione dell'America.13 Pensare che il bene resti bene anche se segue e si afferma secondo la logica della prevaricazione conduce alla propaganda dell'esportazione della democrazia: è colonialismo travestito da civilizzazione, una bestia antica ma sempre reviviscente per lo scodazzo di profitto che si porta appresso e che in realtà la incalza.

Esiste una vittoria del bene sul male? Oppure esiste quella mistura dei due di fronte alla quale siamo così inermi e con la quale abbiamo quotidianamente a che fare? Quotidianamente: fino a non poter ritenere che di fatto, realisticamente, possa essere altrimenti. Di qui l'ansia di purità di irreprensibilità, di conformità alla legge condivisa, infine di accettazione.

Se c'è una cosa che ci insegna il Vangelo è che il male siamo noi a seminarlo.14 In che senso? Il male proviene da noi perché siamo cattivi o siamo cattivi perché acconsentiamo a collaborare con il male? L'uomo è quello strano animale metà bestia e metà angelo che vorrebbe ogni ricorrente forma di prometeismo manicheo?

Allora cosa vuol dire la figura del falso predicatore (o meglio: del predicatore del falso vangelo: perché di predicare gli riesce benissimo, e con largo seguito di pubblico) che sfoggia la mano del bene e quella del male (in realtà la mano dell'amore e quella dell'odio, sentimenti o disposizioni di accettazione e repulsa incondizionati) come se fossero i segni sacramentali della sua missione? Non ha caso proprio le mani: l'indice della nostra capacitas, il segno della fattività, l'emblema del costruttore (e del distruttore). Possiamo "fare" il bene come possiamo fare il male: siamo capaci di entrambi, perché, come ritiene il falso pastore, in noi esisterebbe una parte buona e una cattiva. La predica continua: il male sembra vincere, ma il bene vuole e deve avere il sopravvento, e in fine lo ha. L'happy ending istintivamente sospirato, appaga gli ascoltatori e li convince della plausibilità e giustezza del messaggio del predicatore.

Eppure il bene ha vinto al prezzo di essersi tradotto in violenza, che è il volto più esplicito del male e della servitù che ingenera. Il desiderio del trionfo del bene non è sufficiente a fare dell'uomo un uomo libero, assolto da se stesso e dalla propria costituzionale tendenza ad affermarsi anche attraverso la sopraffazione.

Forse il problema sta nella volontà? Piuttosto nell'idea della necessità che assommiamo a quella della volontarietà. Lo si capisce meglio se si pone mente al fatto che il bene che noi vogliamo fare è sempre fin troppo identificato: è a un tempo il bene secondo i nostri parametri di giudizio e secondo i nostri interessi, parametri e interessi connessi all'ansia di accettazione sociale, perché nella maggiore misura possibile condivisi dalla società in cui ambiamo di essere riconosciuti come membri degni di considerazione. Quando noi vogliamo fare il bene (o il male, e l'ambivalenza è significativa) lo vogliamo fare sempre a partire dall'idea di bene che sostiene i nostri interessi, perché questi sono inevitabilmente collegati alla nostra capacità di significazione. Siamo infatti esseri sociali: il significato è una moneta che ha corso soltanto all'interno del mondo condiviso.

Infondo il punto di partenza è sempre questo: siamo e nasciamo come esseri affamati e assetati di riconoscimento, consistiamo e persistiamo nella misura in cui siamo in grado di trovare il modo di sfamarci e dissetarci, o almeno nella tensione a farlo. Allora l'esortazione a guardare ai gigli del campo, cui accenna il prologo del film insieme all'avvertimento a guardarsi dai falsi profeti/pastori, acquista un significato determinante: per quanto facciamo di tutto per sfamarci non potremmo mai fare di più o di meglio di quello che Dio comunque fa per noi. Perché soltanto Dio è in grado di avere a cuore, comprendere e tenere di massimo conto la fame e la sete di tutti, di prendere in considerazione ciascuno per quello che effettivamente è.

Detto in altre parole: è quello che facciamo nonostante l'altro che tende a rovinarci. Non contrastare il male è un altro difficile insegnamento evangelico. Ma qui s'insinua una tentazione ancora più subdola: dobbiamo perciò adeguarci a convivere con l'ingiustizia, affidando "piamente" ed esclusivamente a Dio, con il bene placito della non lesa maestà, l'onere della soluzione? Non è anche questo un comportamento farisaico?

5. Prese di posizione: madri

Il film invece parla di prese di posizione. Prese di posizione di fronte alla luce del cielo stellato. Nella storia, ma di fronte all'eternità. Non soltanto perché l'una e l'altra sono vasi comunicanti, ma soprattutto perché nell'ora, kierkegaardianamente, sono compresenti. E ne parla a partire da una vicenda che, come abbiamo già notato, la cronaca ci di-mostra come tristemente ordinaria.

L'una e l'altra madre, quella naturale e quella vicaria, del film assumono con forza una posizione: e la sostengono fino alle ultime conseguenze. Non si raccolgono in se stesse lontano dal frangersi degli eventi, ma l'una e l'altra li affrontano come possono, facendosi scoglio con tutto quello che sono per proteggere i bambini, come soltanto una madre può fare. E la metanoia che porta il figlio a comprendere che ci sono promesse o patti statuiti (e subiti, come il gravame di un passaggio del testimone: di una posizione precaria in un modo infelice e inospitale, innervato dall'etica del dovere e della parola data, indiscutibilmente) sull'ingiustizia e perciò ripudiabili, deriva dal concorso del loro doppio farsi scoglio.

La madre e la nonna/madre vicaria: due estremi, al di qua e al di là del fiume, a un capo e all'altro del tragitto degli orfani. Una nella morte e l'altra nella vita, conducono gli orfani ad affrancarsi dalla ragnatela di terrore che il pastore tesse per invischiarli, loro che volano via nella notte come le piccole mosche della nenia che canta Pearl alla bambola come una mammina, mentre la barca scende il fiume nella prima lunga notte della fuga.15

I bambini che sanno sopportare tanto.16 Perché soltanto chi ha fame e sete di giustizia senza volersi tramutare in giustiziere (perché è cosciente della propria inermità -- inermità che non è lo stesso che incapacità, piuttosto il riconoscimento del fatto che non si hanno credenziali in proprio per arrogarsi il diritto di giudicare; si pensi alla reticenza del bambino di fronte alle domande assillanti del giudice) trova la forza di perseverare e varca infine la soglia del Regno dei Cieli.

E il Regno dei Cieli è qui: la soglia stellata contro la quale o si è ombre insonni incalzate dalla sete e dalla fame che non dà requie17 o si è persone che possono riposare nella pace perché non si rapportano alla legge (o piuttosto all'umana maniera -- ineludibile -- d'interpretarla) ma al legislatore.

Soltanto nella pace -- ma ci vuole l'ordito di un ordinario, di un quotidiano che non la contrasti -- il tempo cronologico statuito dal succedersi delle posizioni delle lancette dell'orologio si dis-coagula e prende a scorrere, a ritmare una vita condivisa, come il tempo scandito proprio della vita sulla regola interna dell'appagamento senza prevaricazione.18

E la paura diventa vincibile, vinta. Perché è infine questo l'inganno più grande preparato dall'uomo per l'uomo: l'idea che l'appagamento possa derivare soltanto dalla prevaricazione, dall'affermazione di se stessi contro l'altro, a costo dell'altro, come se non ci fosse spazio bastante nell'universo, o dentro l'uomo. L'uomo è lupo all'uomo soltanto se dispera di essere altrimenti.

6. Tenebre e luce: lo spirito della narrazione

Una nuova affermazione dell'umanesimo? Può darsi, ma il film si dipana lungo il fiume, sulla falsa riga della storia di un trovatello/principe adottivo, la cui vita è minacciata e che le acque del fiume preservano fino all'approdo in una comunità più felice: un trovatello/principe che diventa (deve essere, come vuole il bambino) due trovatelli/principe -- anzi: re -- il bambino e la bambina,19 come a dire che ogni figura biblica dell'uomo è figura del genere umano e compendia entrambi i generi. Su questo il film è esplicito.

E il tragitto dei principi fuggiaschi è scandito dal triplice battito dei passi dei tre protagonisti: gli orfani, il pastore malevolo, la narratrice benigna. La storia procede al procedere dei tre tragitti intersecati. Se c'è una nonna (adottiva, o madre vicaria) buona che aspetta alla fine, c'è un lupo cattivo, ci sono i cacciatori, ci sono i cappuccetto rosso, e soprattutto c'è lo spirito della narrazione, quello stesso che fa cantare le campane di tutta Roma in L'eletto di Thomas Mann e che qui ha lo sguardo chiaro, mai mostrato durante la fuga perché necessariamente sempre fuori campo, della protettrice. Quel lucore è il punto di scaturigine della luce assoluta contro la quale le tenebre si rivelano tanto affilate e gravide, come prossime al parto di un mondo ostile. Tenebre avversive, maledette. Tenebre che partoriscono seduzione interessata e rumori bestiali.20 Ma noi sappiamo che neppure le bestie perseguirebbero con tanta tenacia la legge (la parola data -- a chi?) della propria insaziabilità, l'orgoglio della perfezione.

7. Le vigilanti

Le figure materne del film, Judith la madre e Rachel Cooper, nonna o madre vicaria, declinano con modalità diverse, a tutta prima opposte e forse complementari, la stessa figura, quella della vigilante: protezione e sostegno sorretti da costante attenzione. Nei confronti dei bambini dimostrano un atteggiamento del tutto rispettoso, senza rinunciare per questo all'impegno educativo. Ambedue profondamente credenti, iscrivono ogni propria azione nell'universo di senso religioso. Ogni loro atto educativo deriva direttamente dalla propria maniera di comprendere nell'ottica della fede le relazioni umane e la maniera adeguata di prendere posizione nel mondo.

A tutta prima, però, figure, opposte e complementari, l'una della debolezza e l'altra della forza. La donna inerme e un poco fatua, seducibile e docile, incapace di autonomia per educazione al ruolo della moglie arrendevole e sempre pronta perciò a consentire con la volontà del marito/padre o a seguire i consigli mondanamente saggi della conoscente/madre. L'insicurezza ne alimenta l'inclinazione a ritenersi inadeguata e quindi oscuramente colpevole. È il ritratto della vittima designata. E di contrasto, la donna piena di risorse, forte della propria autonomia, che ha saputo guadagnarsi un posto tutto speciale nella società con scelte non convenzionali che rispettano le proprie convinzioni profonde, maturate attraverso le vicissitudini della vita.

Judith, forse per inesperienza incapace di comprendere la vera natura delle persone e delle circostanze e di farvi fronte, non riesce a proteggere effettivamente i figli. Completamente succube com'è della suggestione del pastore Powell e delle convenzioni sociali, che concorrono ad alimentare il suo senso di colpa e di inadeguatezza, si dimostra arrendevole alla violenza fino al punto da offrirsi, verrebbe di dire spontaneamente se non addirittura volontariamente, come vittima sostitutiva.

Rachel, acuta e implacabile, sembra attingere da un patrimonio di esperienze amare una sapienza disincantata che dispensa generosamente a tutti quanti hanno a che fare con lei e che le consente di risolvere il fallimento della sua relazione con il figlio naturale attraverso la costruzione di relazioni affettive con i figli vicari e accolti. Una donna avanti negli anni, abbastanza mascolina da saper imbracciare con fermezza il fucile, con una vita non facile alle spalle, che si paragona a un albero robusto che può sostenere ancora molti nidi.

Eppure è la figura di Judith a uscire eccessivamente mortificata da questo schema. Per quanto il film effettivamente e puntualmente la presenti così, Judith resta enigmatica: certamente è un esempio di quanto il condizionamento dei ruoli legati al genere possano mortificare le nature generose, ma forse è proprio nel cercare d'intendere il senso della sua generosità che possiamo riscattarla. Di fatto, la sua totale disposizione a non venire meno nel rispondere a quanto le situazioni le sembrano richiedere, la conduce a farsi uccidere, con un scacco apparente nell'impresa di vigilare sui figli. Ma appunto apparente: la sua morte funziona come la recisione del cordone ombelicale. Insieme all'atto finale di repulsa del figlio John per il denaro ereditato dal padre, dimostrazione drammatica della separazione definitiva dalla dipendenza paterna, il (si direbbe) volontario venir meno della madre è l'evento più liberatore del film. Stornando su di sé la violenza del predatore, essa trasforma la violenza in dolore, ed è come se partorisse di nuovo. Per inciso, l'immagine della vittima sacrificale che traspare in maniera inequivocabile dalla sequenza dell'assassinio di Judith,21 la rende figura femminilmente cristica, e ci offre uno spunto di riflessione non banale sul significato del sacrificio vicario.22

Traspare così, ancora una volta, il carattere profondamente anticonvenzionale -- e perfino eversivo, se si pensa alla mentalità corrente negli anni '50 -- del film, e forse il suo ultimo messaggio. Una vita condivisa nel rispetto delle reali e positive esigenze umane, affrancata dai sensi di colpa a dalla paura, è possibile nella misura in cui si riesce a guadagnare autonomia dai condizionamenti della dipendenza parentale naturale e dalle convenzioni di una società succube del potere di fascinazione del denaro e della retorica morale e religiosa. Soltanto a queste condizioni è possibile stabilire quella rete di relazioni necessarie alla convivenza nella pace, una rete fatta di affetti elettivi sulla base della mutua onestà comprovata.

E questo è possibile nell'affidarsi a Gesù e al senso profondo del suo vangelo: il vero riscatto sta nell'aderire al suo messaggio con libertà interiore, senza timore né riserve, confidando che soltanto tra le sue braccia, che dall'albero della croce sostengono l'umanità sofferente, troveremo sicurezza, riposo, rigenerazione e fortificazione.23 I frutti di quest'albero sono a buon diritto dei nidi.

Rachel Cooper, cruciata com'è dalla propria sofferenza e dalla sincera e generosa empatia per quelle altrui, ma non per questo incline alla mera compassione, dice di sé la cosa più vera, che tutti vorremmo poter dire. A dispetto del suo disincantato cinismo, essa appare davvero come l'esempio (o l'exemplar) dell'essere umano redento. Complementare avversivo a un tempo del distruttore e dell'utopista, non a caso a lei è affidato il ruolo dello spirito della narrazione, come a dire che se la storia (questa come l'umana in generale, di cui questa è semplicemente una tra le possibili esemplificazioni) può trovare senso e infine sperare di essere rinvenuta come redenta a dispetto della pertinace reviviscenza del male,24 essa lo trova nella capacità individuale (ma non privata) di sostenerne l'onere sulla base della confidenza nell'irrevocabile accadimento della kenosi del Cristo, eminente espressione della sollecitudine divina. Fiducia che si traduce in sequela, in impegno mimetico per l'edificazione del Regno.

La luce che viene a rischiarare le tenebre del mondo assediato da negazione e sconforto25 orientando il nostro cammino, è quella che ci conduce al Bambino, quella del Bambino, come ci ricorda esplicitamente l'epilogo. Un inerme perseguitato come lo sono Pearl e John, e che viene alla luce nella notte del nostro gelido inverno con la dignità pienamente regale dell'assoluta penuria. Come a dire che se la sequela è possibile, se è possibile non soltanto sopportare per sé e per gli altri la croce senza che ci annichilisca ma rendendola albero in grado di compatire ancora molti nidi, essa è possibile nel riconoscimento della nostra comune condizione di creature che vengono al mondo senza mezzi in proprio per provvedere, di fatto, a se stessi.

L'immagine dei gigli dei campi del prologo, nella sua perfetta ambivalenza, a un tempo com'è indice di opulento splendore e di assoluta precarietà,26 parla per l'intera umanità.27 Messaggio idiosincratico rispetto a quello convenzionale: i primi abitanti della vera Nuova Gerusalemme non sono allora i «cupi», consapevoli, inflessibili, autosufficienti, giudici e omicidi adulti Padri Pellegrini di lawrenceiana memoria.28 La retorica della nazione è profondamente sconfessata.

[Contributo presentato a "Educare ingenere. Tre incontri e tre film sul tema: Definizione di genere ed educazione religiosa", organizzato dal Coordinamento teologhe italiane (CTI), sezione Toscana, in collaborazione con l'Istituto superiore di Scienze religiose Ippolito Galantini di Firenze (21 novembre - 5 dicembre 2007).]

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Note

  1. 2Cor 12,9-10. Testo

  2. S. Weil, Quaderni, III, Milano 1995, 198. Testo

  3. La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, USA 1955) è l'unico film diretto da Charles Laughton, celebre attore teatrale e cinematografico, inglese di nascita e di cultura, americano di adozione. La sceneggiatura di James Agee, scrittore e critico cinematografico, è tratta dal romanzo omonimo di David Grubb ma fu rivista con rilevanti aggiunte da Laughton. La fotografia, in un bianco e nero magistrale, è di Stanley Cortez. Ne sono gli interpreti Robert Mitchum (Harry Powell), Shelley Winters (Judy Harper), Peter Graves (Ben Harper), Lilian Gish (Rachel Cooper), James Gleason (zio Birdie), Evelyn Varden (Icey Spoon), Don Beddoe (Walt Spoon), Billy Chapin (John), Sally Jane Bruce (Pearl), Gloria Castillo (Ruby), Mary Ellen Clemons (Clary), Cheryl Callaway (mary), Paul Bryar (Bart). La vicenda è ambientata nella valle dell'Ohio, in West Virginia, negli anni della Depressione: in un paese sulle rive del fiume un padre, Ben Harper, commette una rapina, uccidendo incidentalmente due persone, per assicurare ai figli John e Pearl un futuro meno gramo; fa appena in tempo a consegnare il denaro a John, facendo giurare ai due bambini di non rivelarne a nessuno il nascondiglio, che viene catturato. Condannato a morte, si trova a dividere la cella con il carismatico reverendo Henry Powell, falso predicatore in carcere per il furto, si direbbe incidentale, di un auto, ma vero pluriomicida che giustifica la propria brama di denaro con la singolare missione di far fuori vedove inermi ritenute, in quanto donne, causa di ogni corruzione. Venuto casualmente a conoscenza della vicenda di Harper, Powell decide di impadronirsi del denaro sposandone la vedova. Con l'involontaria connivenza di una società che ragiona convenzionalmente ed è perciò facile preda della suggestione, convince la giovane e sprovveduta vedova Harper a sposarlo. Il suo piano trova un ostacolo inatteso nella resistenza di John, fedele alla promessa paterna: neppure il "rituale" omicidio della moglie riesce ad assicurargli il possesso del denaro. I due bambini, e con loro il denaro nascosto nella bambola di Pearl, riescono a fuggire, discendendo nella notte lungo il fiume. La lunga caccia si conclude con lo smascheramento e la cattura del cacciatore. John e Pearl vengono infatti raccolti da Rachel Cooper, anziana vedova piena di risorse che ha trasformato la sua casa in un asilo per gli "orfani" della Depressione cui dedica l'affetto e la cura vigilante che il figlio naturale ha rifiutato. L'acume del suo animo provato dalla vita, eppure generoso nella fedeltà alla messaggio evangelico e forte nella confidenza in Gesù, le consente di comprendere il pericolo in cui versano i bambini e di consegnare il falso pastore alla giustizia. Per la bibliografia sul film cf. B. Fornara, Charles Laughton La morte corre sul fiume, Torino 1999, 143-145; la monografia di Fornara, alla quale sono sostanzialmente debitrice, oltre ad essere ricca di informazioni sulla genesi del film e sulla personalità del regista e dello sceneggiatore, si segnala per l'acuta e rispettosa ricomposizione delle molte linee di senso, evidenti o implicite, che s'intrecciano nel film. Testo

  4. Il carattere favolistico è accentuato, nel corso del film, dal modulo ricorrente della richiesta di una favola; i tratti di stile che sottolineano il carattere quasi onirico del racconto sono molteplici: si pensi, per esempio, al gioco complesso di luci e ombre, agli animali che replicano le situazioni degli uomini, alle molte canzoncine che chiosano le vicende. Testo

  5. In particolare sono degne di nota quelle del prologo: «Dunque, bambini, vi ricordate cosa vi ho raccontato domenica scorsa di Gesù che sulla montagna parlò ai suoi discepoli e disse loro: "Beati i puri di cuore perché di essi sarà il Regno dei Cieli" [cf. Mt 5,8]. E disse ancora che il re Salomone in tutta la sua gloria non era splendido come i gigli del campo [cf. Mt 6,28-29; Lc 12,27]. E sono certa che non avrete dimenticato il suo ammonimento: "non giudicare, se non vuoi essere giudicato" [cf. Mt 7,1; Lc 6,37]. Poi Gesù parlò ancora: "Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi travestiti da pecora, ma di dentro sono lupi feroci: li riconoscerete dai loro frutti" [cf. Mt 7,15-16]». E che si concludono nella sequenza successiva a commento del rinvenimento del primo cadavere da parte dei bambini: «Un albero sano non può portare cattivi frutti, né può un albero corrotto portare buoni frutti, pertanto è dai loro frutti che li riconoscerete [cf. Mt 7,18.20]». Testo

  6. A più riprese nel film torna il motivo del denaro che corrompe: si pensi, per esempio all'atteggiamento di Judith nei confronti del denaro rubato dal marito e alla sua ansia di poterlo considerare come perduto, unica condizione per riacquisire secondo lei quella "purità" d'intenzioni cui desidererebbe fossero informate le nuove relazioni familiari. Una purità che sa di lavacro: si pensi alla sua enfasi sul sentirsi clean. Testo

  7. Dice la signora Spoon a Judith: «A husband's one piece of store goods that you never know until you get him home and you take the paper off»; e ancora: «I've been married to my Walt that long and I swear in all that time I just lie there thinking about my canning». Testo

  8. È quanto "candidamente" confessa il reverendo Powell ad Harper, giustamente insospettito da un predicatore armato di coltello. Testo

  9. Grida Judith, illuminata dalla luce delle torce, di fronte all'assemblea: «Avete tutti peccato: ma chi tra voi può dire di avere spinto un pover'uomo a uccidere ossessionandolo con la sua bramosia di profumi, di vestiti, di belletti? Egli sparse sangue umano, e venne da me, e disse: "Prendi questo denaro, e comprati i vestiti e i belletti". Fratelli, fu allora che il Signore parlò: "Tu", disse il Signore all'uomo, "prendi quel denaro e gettalo tutto nel fiume"». Testo

  10. Cf. in particolare quanto traspare del rapporto tra zio Birdie e la moglie, nella sequenza che lo vede alle prese con la fotografia della moglie. Testo

  11. La scelta del nome Pearl per la bambina adombra forse un riferimento alla Lettera scarlatta di N. Hawthorne? La coincidenza è suggestiva, considerato il carattere allegorico del capolavoro hawthorniano compreso come una complessa riflessione sul tema della colpa "originaria" americana. Il frutto adulterino della società puritana è un essere strano, inquietante, più prossimo a natura che a civiltà, un essere che nella sua eterogeneità non può che accentuare la convenzionalità farisaica della società che la guarda con sospetto marginalizzandola e facendone l'incarnazione della devianza della madre. Testo

  12. Il film sicuramente si presta a riflettere sull'interazione tra trasmissione e assunzione del ruolo e formazione dell'identità di genere, per concludere con un'acquisizione non mai sufficientemente ribadita: che i ruoli sono ambivalenti e onerosi in entrambi i sensi, e che nella misura in cui si sclerotizzano in ripetizioni di immagini codificate e codificanti trasformano le persone in personaggi e il mondo in teatro, con esiti mortiferi, perché ci sarà sempre chi riterrà di poter condurre senza scrupoli la storia a proprio esclusivo vantaggio, figurandosi un Dio e convincendosi di un'idea di giustizia e adeguatezza fatti a propria immagine e somiglianza. Testo

  13. Americano ma di un regista/attore inglese. Un film che potrebbe essere considerato una puntuale decostruzione degli ideali di convivenza civile che il cinema americano andava da tempo esportando, in un'opera di colonizzazione culturale che perdura ancora oggi. Testo

  14. Cf. Mc 7,20-23. Testo

  15. La canzoncina traduce nell'ottica di Pearl la vicenda dei due bambini e della loro famiglia: «Once upon a time, there was a pretty fly. / He had a pretty wife this pretty fly. / But one day she flew away, flew away. / She had two pretty children / but one night this pretty children / flew away, flew away into the sky, into the moon». Testo

  16. Sono parole del discorso che ci rivolge la vedova Cooper nell'epilogo. Testo

  17. Si pensi a quanto John riconosce, amaramente e quasi con dispetto, nel vedere, dall'alto del granaio in cui i due fratelli hanno trovato momentaneo rifugio nella lunga notte della fuga, profilarsi all'orizzonte la silhouette minacciosa di Powell a cavallo che procede sulle loro tracce canticchiando. Testo

  18. Due orologi in particolare sono significativi nel film, ed entrambi sono in relazione a John: il primo è quello che egli ammira con Pearl nella vetrina di un negozio nel loro paese natale; il secondo è quello che gli regala la vedova Cooper nella notte di Natale. Se l'orologio implica il poter fruire di un tempo ordinato e condivisibile perché misurato disinteressatamente, ciò che permette l'avverarsi del desiderio del suo possesso è la vita ordinaria guadagnata con la fiducia in relazioni rispettose e oneste. Il regalo adatto per un «ometto», come lo chiama la vedova Cooper, è un orologio: in quanto strumento di percezione della misura si potrebbe considerare antitesi del coltello, strumento dell'arroganza del discernimento interessato. La comprovata rettitudine di John, la sua costanza e resistenza lo rendono in grado di assumere un ruolo maschile sanato dalla dinamica della violenza («è utile avere qualcuno per casa che ti sa dire l'ora esatta», commenta ancora la vedova Cooper). Testo

  19. Cf. la storia di Mosé che la vedova Cooper racconta ai bambini. Testo

  20. Cf. il grido bestiale di Powell quando si vede sfuggire i bambini all'inizio della lunga fuga nella notte, e ancora i suoi grugniti e schiamazzi dopo essere stato ferito dalla vedova Cooper nella notte prima della cattura. Testo

  21. Cf. la sequenza dell'omicidio di Judith: l'impianto quasi espressionista della scena, dall'accentuata geometria cuspidale e con la luce che piove dall'alto, rende il letto su cui è distesa Judith analogo al piano di un altare. Il gesto di Powell che leva il coltello, estremamente stilizzato, risponde alla stessa logica. Testo

  22. Cf. S. Weil, Quaderni, III, Milano 1995, 206: «Il peccato che abbiamo in noi esce da noi e si propaga al di fuori, esercitando un contagio (...). Ma al contatto con un essere perfettamente puro c'è trasmutazione, e il peccato diventa sofferenza. L'essere perfettamente puro trasforma in sofferenza tutta quella parte del peccato del mondo che viene a contatto con lui. È questa la funzione del giusto di Isaia, dell'Agnello di Dio. È questa la sofferenza redentrice. Tutta la violenza criminale dell'impero romano (si agiva infatti per paura di Roma) ha cozzato contro il Cristo, e in lui è diventata pura sofferenza. Gli esseri cattivi, al contrario, trasformano una semplice sofferenza (p.es. una malattia) in peccato. Ne consegue che forse il dolore redentore deve essere di origine sociale. (...) Il dolore redentore deve essere ingiustizia, violenza esercitata da esseri umani. Deve consistere nel subire la forza. Nell'interiorità di un'anima, la preghiera e il sacramento devono trasmutare il peccato in sofferenza». Testo

  23. Cf. ciò che distingue la versione di Leaning che sovrappone Rachel Cooper a quella del reverendo Powell nel celebre finale: riposare in Cristo, trovare forza nella sua debolezza (cf. 2Cor 13,4: «Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio nei nostri riguardi») qualifica essenzialmente la confidenza nella provvidenza divina. Il dio a propria immagine e somiglianza di Powell non è altro che l'ipostatizzazione, tutto sommato impersonale, dei suoi interessi e della sua volontà di potenza Testo

  24. «Ogni epoca ha le sue brutture», constata amaramente la vedova Cooper mentre narra della fuga in Egitto ai bambini, nella notte dell'assedio. Testo

  25. Cf. la conclusione di W. H. Auden, September I, 1939, (in Poetry of the Therties, Introduced and Edited by Robin Skelton, Harmondsworth 1969, 283): «Defenceless under the night / Our world in stupor lies; / Yet, dotted everywhere, / Ironic poits of light / Flash out wherever the Just / Exchange their messages: / May I, composed like them / Of Eros and of dust, / Beleaguered by the same / Negation and despair, / Show an affirming flame». Testo

  26. Cf., tra gli altri, Is 28,4a; 40,6-8; Sal 90,5-6; 103,15-16; Gb 14,1-2. Testo

  27. E, per inciso, di un'arrendevolezza piuttosto seducente che seducibile. Al bisogno, Dio provvede. Testo

  28. Cf. D.H. Lawrence, «Lo spirito del luogo», in Id., Classici americani, Milano 1991, 17. Testo