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Il ministero petrino nel dibattito ecumenico contemporaneo

di Mario Florio (18 luglio 2006)

Il successore di Pietro è la roccia che, contro l'arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo primato.

-- Congregazione per la dottrina della fede, "Considerazioni Nell'attuale momento circa Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa", 31 ottobre 1998, § 7

1. Introduzione

Nell'enciclica Ut Unum Sint (25 maggio 1995) Papa Giovanni Paolo II si è rivolto ai pastori, ai responsabili ecclesiali e ai teologi della Chiesa cattolica e delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali per invitarli ad un dialogo fraterno al fine di "trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova" (§ 95).1 Alla base di quest'invito sta la consapevolezza che tale dialogo vuole rispondere sia all'aspirazione ecumenica "della maggior parte delle comunità cristiane" (ibid), sia alla acuta consapevolezza della responsabilità che il Papa avverte in ordine ad un più efficace esercizio del suo ministero quale ministero di unità a vantaggio di tutta la Chiesa di Cristo (cf ibid).

La comunione reale, sebbene imperfetta, già esistente tra la Chiesa cattolica e le diverse Chiese e Comunità ecclesiali rappresenta il terreno fecondo nel quale lo Spirito, anima della Chiesa (cf LG 8), sta suscitando la possibilità di cercare insieme tale forma di esercizio del primato petrino. «Dopo secoli di aspre polemiche, le altre Chiese e Comunità ecclesiali sempre di più scrutano con uno sguardo nuovo tale ministero di unità» (Ut Unum Sint § 89). Tale comune ricerca costituisce un chiaro segno dei tempi che interpella tutta la Chiesa! Ne va della sua missione e in essa della missione pastorale affidata al Vescovo di Roma, quale successore di Pietro. Ed è proprio a Pietro e alla sua triplice professione di fede che il Papa rinvia per trovare quella prospettiva unificante dalla quale attingere luce e ispirazione per il discernimento:

Ricollegandosi alla triplice professione d'amore di Pietro che corrisponde al triplice tradimento, il suo successore sa di dover essere segno di misericordia. Il suo è un ministero di misericordia nato da un atto di misericordia di Cristo. Tutta questa lezione del Vangelo deve essere costantemente riletta, affinché l'esercizio del ministero petrino nulla perda della sua autenticità e trasparenza

A questa ricerca in un clima di dialogo paziente e fraterno, facendo seguito all'esplicito invito pontificio (cf ibid 96), hanno già dato il loro significativo contributo diverse Chiese, Comunità ecclesiali e autorevoli organismi ecumenici di vario livello. Con lo studio di sintesi di queste risposte presentato alla riunione plenaria del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani nel maggio 2001 si è arrivati come alla conclusione di una prima fase del comune lavoro di dialogo e di ricerca.2 Prima di esaminare alcune di queste risposte (valdese-metodista, anglicana, luterana e presbiteriana) è utile rimettere a fuoco i termini fondamentali della questione del primato petrino, cominciando dal Codice di diritto canonico per passare poi ad alcuni passaggi salienti della sua evoluzione storica e sondarne infine il fondamento biblico neotestamentario.

1.1 Il quadro offerto dal Codice di Diritto Canonico

Forse l'approccio giuridico non sembra il più appropriato per avvicinare un tema del quale lo stesso Papa ha voluto offrire nell'enciclica un approccio e una definizione di tipo biblico e pastorale.3 È vero tuttavia che il linguaggio del diritto canonico ha una sua luminosa essenzialità capace di andare con efficacia al nocciolo della questione. Al canone 331 il CIC afferma:

Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l'ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente.4

La prima impressione suscitata dalla lettura attenta di questa formulazione giuridica è quella di una traduzione sintetica, densa e straordinariamente complessa della elaborazione teologica che si è sviluppata su questo punto nel corso di due millenni di storia del cristianesimo.

Per una più adeguata lettura di tale canone è utile tenere presente il contesto più ampio e più immediato nel quale esso viene a collocarsi all'interno del Libro II del CIC intitolato De populo Dei. La partizione interna del Libro II riprende lo schema ecclesiologico della Lumen Gentium nella quale la trattazione della costituzione gerarchica della Chiesa (cf LG cap III) è preceduta dal capitolo sul popolo di Dio (cf ibid cap II). Accogliendo tale prospettiva di fondo il Libro II si struttura in tre grandi parti: quella sui fedeli (canoni 204-329), quella sulla gerarchia (canoni 330-572) e quella sugli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica (canoni 573-746). La Parte II si articola in due sezioni: la prima sulla suprema autorità della Chiesa (canoni 330-367), la seconda sulle Chiese particolari e i loro raggruppamenti (canoni 368-572). A sua volta la sezione prima si suddivide in cinque capitoli nei quali è trattata la diversa espressione giuridico-canonica della suprema autorità della Chiesa: il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi (canoni 330-341), il Sinodo dei Vescovi (canoni 342-348), i Cardinali di Santa Romana Chiesa (canoni 349-359), la Curia Romana (canoni 360-361), i Legati del Romano Pontefice (canone 362-367). Il canone 331 apre la trattazione sul Romano Pontefice (canoni 331-335) ma è preceduto dal canone 330 che, introducendo tutto il capitolo I, esplicita in chiave giuridico-canonica la dottrina ecclesiologica sull'autorità della Chiesa mettendo in evidenza lo stretto rapporto tra il Papa e il Collegio dei Vescovi:

Come, per volontà del Signore, san Pietro e gli altri Apostoli costituiscono un unico Collegio, per la medesima ragione il Romano Pontefice, successore di Pietro, ed i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra di loro congiunti

Questo rapido sguardo sul contesto più ampio e immediato del canone 331 dà modo di riconoscere come l'ufficio petrino (lat.: munus) e la relativa potestà (lat.: potestas) hanno il loro fondamento nella volontà del Signore e sono ordinati al bene del popolo di Dio. Ugualmente importante è il rilievo dato al rapporto tra il Romano Pontefice e il Collegio episcopale: essi formano un unico Collegio come Pietro e gli altri Apostoli. Di tale Collegio il successore di Pietro è il capo (cf canone 336). Come sottolinea il Chiappetta nel suo autorevole commento al CIC, tutto il capitolo primo, sia per l'art. 1 dedicato al Romano Pontefice come per l'art. 2 riguardante il Collegio dei Vescovi, è ispirato «in gran parte al cap III della Costituzione conciliare Lumen Gentium e al n. 1 della Nota esplicativa previa».5

In particolare, tornando al dettato del canone 331, si deve riconoscere come la formidabile lucidità di sintesi lascia trasparire sullo sfondo un complesso e lungo iter di elaborazione sia sul piano teologico come giuridico. Cosa si deve dunque affermare del primato? Il Vescovo di Roma "possiede "iure divino" la pienezza del potere pastorale, indicato teologicamente con la voce "primato": un primato che non è solo di onore né di carattere "presidenziale", ma in senso proprio di giurisdizione e di governo sulla Chiesa intera".6

1.2 Lo sviluppo storico: alcuni cenni

Per promuovere il dialogo ecumenico sul primato petrino e sulla forma del suo esercizio da parte del Papa più di una volta si è stati sollecitati a riconsiderare la storia cristiana del primo millennio per farne emergere un volto del primato radicato nella tradizione della Chiesa 'indivisa' e tale da permetterne una riformulazione attenta a recepire le sfide poste dal dialogo ecumenico contemporaneo.7

Per l'attenzione positiva che ha ricevuto sia nell'ambito specialistico della ricerca storica come nel più ampio contesto della pubblicistica ecumenica lo studio monografico di Klaus Schatz, Der päpstliche Primat: seine Geschichte von der Ursprüngen bis zur Gegenwart, pubblicato nel 1990 (cinque anni prima della Ut Unum Sint), rappresenta un valido punto di riferimento dal quale poter attingere alcune coordinate storiche fondamentali.8 Nella introduzione all'edizione italiana L. Sartori pone in evidenza come

solo una visione molto storicizzata può permettere di cogliere la sostanza evangelica del dono divino del primato, dentro la complicata rete di contesti storici che ne hanno contrassegnato il cammino.9

Dal suo punto di vista lo Schatz ripercorrendo la storia della Chiesa del primo millennio deve liberare il campo da una visione un po' troppo semplificata dell'unità che in essa si è venuta realizzando tra Occidente e Oriente: "A partire da Paolo VI viene continuamente usata, tra gli altri dal cardinale Ratzinger, l'espressione secondo la quale nel rapporto con le chiese ortodosse si tratta di ristabilire quell'unità che sussisteva nel primo millennio. L'unico problema è che questa unità del primo millennio non costituisce un concetto univoco. [...] Una questione di non facile risposta è quindi la seguente: la chiesa orientale nel suo insieme ha mai riconosciuto al papa qualcosa di più di un "primato onorifico", per il quale al vescovo di Roma spetta, fra gli altri patriarchi, la posizione di un "primus inter pares", ma niente di più?".10

I primi secoli in particolare mostrano come nella communio ecclesiarum una funzione importante è assolta dalle chiese "apostoliche".

Al di sopra dell'organizzazione metropolitana, i vescovi delle tre sedi principali di Roma, Alessandria ed Antiochia, e poi, dalla fine del IV secolo, anche di quella di Costantinopoli, cominciano a esercitare una certa funzione di controllo sulle grandi aree soggette alla loro influenza; a partire dal V secolo essi sono chiamati patriarchi. La prima a conquistare una tale funzione centrale è Alessandria, già per la sua posizione naturale di unica grande città in un'area, per il resto, puramente agricola; poi viene Antiochia ed infine Roma, anche se, in un primo momento, soltanto per l'Italia centrale e meridionale.11

Si deve alla disputa intorno al canone 28 del Concilio di Calcedonia (451 d. C.) l'entrata in scena di Roma come sede che si presenta dotata di una speciale autorevolezza sulle altre grandi sedi patriarcali a partire dalla rivendicazione del fondamento petrino. In base alla deliberazione del canone 28 alla sede della Chiesa di Costantinopoli, quale città imperiale e dunque nuova Roma, sono accordati dai 150 vescovi riuniti in Concilio uguali privilegi di quelli accordati all'antica città imperiale di Roma. Costantinopoli quale nuova sede imperiale deve apparire grande non solo sul piano civile in quanto le sono attribuiti «privilegi civili uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma» ma deve «apparire altrettanto grande anche nel campo ecclesiastico essendo la seconda dopo Roma» (COD p.100). La concezione politico-religiosa della chiesa imperiale ha qui la meglio sia sul principio petrino come sull'antica centralità della sede alessandrina.

Leone comunque protestò contro questa deliberazione, ed al principio politico-governativo nella struttura della chiesa contrappose quello apostolico-petrino, affermando che non l'importanza politica di una città doveva determinare la sua importanza nella chiesa, ma piuttosto la sua fondazione apostolica: Roma derivava la sua dignità ecclesiale da Pietro e Paolo e non dal suo rango di capitale dell'impero (allora alquanto ideale). Ma secondo Leone anche la seconda e la terza posizione erano già fissate per l'eternità. A Roma segue Alessandria, e poi Antiochia. [...] È la teoria delle tre sedi petrine, secondo la quale oltre a Roma anche Alessandria ed Antiochia ricoprono un rango particolare nella Chiesa perché risalgono a Pietro in modo particolare.12

Nei confronti della chiesa imperiale, alle cui sorti alterne è legata la sede di Costantinopoli, Roma è destinata a difendere più volte l'autonomia del potere della Chiesa non solo nell'ambito più strettamente dottrinale ma anche in quello della disciplina e legislazione ecclesiastica. Nelle dispute e nei conflitti interni alla Chiesa di Costantinopoli rimane sempre la possibilità per la fazione perdente di potersi appellare a Roma. In tale contesto la sede romana viene assumendo una posizione che si fa sempre più chiaramente autonoma. «È vero che essa non si afferma subito, ma rafforza l'opposizione in Oriente, impedendo così una decisione in senso opposto. In ogni caso continua ad apparire evidente che l'Oriente non trova requie e che, per riacquistare la pace, non può fare a meno di Roma e della communio».13

Con il VI secolo nella communio ecclesiarum si assiste al consolidamento della cosiddetta pentarchia. Essa comprende in successione i cinque patriarcati di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.

A partire dal Costantinopolitano III (680/681 d. C.) un concilio era considerato ecumenico quando vi partecipavano rappresentanti di tutti e cinque i patriarchi. Col passare del tempo (VIII-IX secolo) la pentarchia viene sempre più ideologizzata: i cinque patriarchi sono le cinque colonne su cui è costituita la chiesa: su loro poggia l'infallibilità della chiesa: essi non possono sbagliare tutti insieme: persino se quattro di loro si distaccano dalla vera fede, il quinto resterà nell'ortodossia e vi ricondurrà poi gli altri.14

Nell'ambito della pentarchia è a Roma che si riconosce il primo posto anche se tale posizione di primato si esplicita in modi diversi a seconda della situazione del momento e delle questioni trattate: primus inter pares, primo patriarca della serie dei cinque, primo a ragione di una funzione qualitativamente diversa ed eminente rispetto alle altre sedi.

Nell'arco delle complesse vicende politico-religiose del primo millennio è possibile stabilire se la chiesa orientale nel suo insieme ha mai riconosciuto "al papa qualcosa di più di un "primato onorifico", per il quale al vescovo di Roma spetta, fra gli altri patriarchi, la posizione di un "primus inter pares", ma niente di più?".15 No, se il "qualche cosa di più" dovesse intendersi nel senso di un primato giurisdizionale. Le cose cambiano se esso consiste nel riconoscere a Roma la funzione di ultima norma della communio ecclesiale: una serie di testimonianze delle chiese d'Oriente documentano tale consapevolezza, occorre tuttavia riconoscere che ve ne sono anche altre che attestano tutt'altra impostazione. Le prime parlano della chiesa romana o del vescovo di Roma "come del capo e della realtà ecclesiale che presiede a tutte le chiese".16

Alla conclusione della prima e della seconda parte della sua monografia l'Autore, dopo aver preso in esame le tante testimonianze che possono fondare e illuminare la comprensione storica del primato della Chiesa di Roma e del suo Vescovo, ritiene di poter affermare, quasi a titolo di sintesi parziale della situazione storica del primo millennio:

Vi sono tuttavia dei momenti in cui questa unità diviene problematica, come ad esempio nella lotta iconoclasta. Specialmente in questi periodi, anche in Oriente si presenta con evidenza, negli autori di quella corrente che si affermerà più tardi come "ortodossa", la consapevolezza che le controversie ecclesiastiche di portata universale, soprattutto se riguardano questioni di fede, possono essere risolte definitivamente soltanto in unione con la sede romana e non senza di essa.17

Il grande salto in ordine alla comprensione del primato della sede di Roma si ha molto più avanti quando al Concilio Vaticano I (1870) si arriva alla definizione dogmatica del primato romano come primato nella giurisdizione e nel magistero (cf. Costituzione dogmatica Pastor aeternus: DS §§ 3053-3075). In base alla sua ricerca lo Schatz osserva come

da un punto di vista puramente storico, pertanto, si deve dire che il Vaticano I ha imposto e portato alla vittoria una determinata linea tradizionale e tendenza, che si può far risalire fino alla tarda antichità. [...] Anche per il primato giurisdizionale, così come per l' "infallibilità papale", non si può indicare un inizio preciso, esattamente determinabile nel tempo. Ogni nuova manifestazione è a sua volta ancorata, con cento radici, in precedenti motivi, idee, formule e massime giuridiche.18

1.3 Il fondamento neotestamentario

L'evoluzione storica della questione del primato romano, della quale si è offerta una breve sintesi con particolare riguardo al primo millennio, ha una sua base nel Nuovo Testamento? Quanto concerne il riconoscimento di ciò che essenziale alla realtà costitutiva della Chiesa non dovrebbe trovare innanzitutto nel Nuovo Testamento la sua prima e radicale legittimazione?

È chiaro che tutta una prima fase della ricerca teologica deve confrontarsi con il dato biblico, avendo ben presente che è a questa comune sorgente che in modi e con esiti diversi attingono le molteplici voci del dialogo ecumenico. Tra gli ultimi studi esegetici quello di R. Pesch, elaborato in vista del Simposio organizzato dalla Congregazione per la dottrina della fede nel dicembre 1996 sul tema "Fondamenti del primato e della sua trasmissione", rappresenta un valido punto di confronto per un dialogo aperto sulla comprensione neotestamentaria del primato.19

La considerazione della questione del primato di Pietro emerge dal contesto della prassi prepasquale di Gesù e della successiva articolazione della Chieda apostolica. L'approccio ai testi biblici non può che restituire una fisionomia di Pietro e del suo ministero particolarmente viva: la persona incarna una funzione, un ufficio (cf Gv 21, 15-19) che la sequestra ad una forma di vita completamente nuova. Il calco di questa forma sta tutto in quella proesistenza pasquale del buon Pastore che dona (non solo ha donato) la vita per il gregge. Dentro questo dare la vita per pascere le pecore (il testo parla di pecorelle) a lui affidate dal Risorto sta tutto il ministero di Pietro! Rimane da comprendere in che termini tale ministero sia unico (solo di Pietro) e nello stesso tempo possa, anzi debba, a partire dalla stessa volontà di Gesù essere trasmesso ad altri. Pesch osserva:

Il Nuovo Testamento non formula ancora una concreta struttura ministeriale che prevederebbe un successore di Pietro. E non parla nemmeno di un preciso successore nel suo ministero. Ciò assodato sul piano storico, bisogna poi convenire che, se lo inquadriamo nella tradizione biblica e teniamo conto della figura che il Nuovo Testamento delinea di Pietro e soprattutto i testi classici sul primato, con le relative ottiche in cui essi ci vengono proposti, questo ministero si apre effettivamente alla successione, quella di una persona deputata a svolgere il ruolo di mediatore e testimone impegnato a conservare la tradizione e a mantenere la chiesa nell'unità.20

Quale sarebbe dunque la conclusione possibile che si può trarre dal punto di una esegesi non influenzata da pregiudizi anti-ecclesiali o anti-cattolici:

Il Nuovo Testamento non dice nulla sul successore di Pietro. Che il primato debba essere trasmesso, lo si potrà ricavare allora soltanto dalla descrizione del ministero petrino, dalle intenzioni degli autori, dal senso racchiuso nel testo finale.21

Lo sviluppo di questa necessità implicita di un successore di Pietro nel quale perdurano lo stesso ministero e il relativo primato si articola in tre momenti. Il primo emerge dalla confessione messianica di Pietro (Mt 16, 16-19) situata nella previsione degli eventi pasquali di Gesù. Il secondo si evidenzia nel contesto dell'ultima cena pasquale e della disputa tra gli apostoli sul primo posto: "Gesù guarda oltre la propria morte, al futuro dei "fratelli" che egli radunerà e che Pietro dovrà confermare (Lc 22, 31s.)".22 Il terzo si dà quando nella sua ultima apparizione «il Risorto si mostra preoccupato per le sorti del gregge nel tempo della chiesa (Gv 21, 15-17), anche dopo la morte di Pietro».23

Questi tre passaggi portano R. Pesch ad una conclusione. La riprendiamo perché come una luce preziosa possa accompagnare il lavoro di ricerca sui frutti recenti del dialogo ecumenico che andremo esaminando nei prossimi articoli.

I primi due detti sono promesse che riguardano il futuro del tempo postpasquale e che s'intrecciano con il terzo detto del mandato: il "pastore supremo" (1 Pt 5, 4) ha fatto di Pietro il suo vicario. Quello di raccogliere e guidare è un ministero permanente, se il "gregge" non dovrà venire nuovamente disperso.24

2. La presa di posizione del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste

L'appello pontificio in ordine ad una rivisitazione della forma di esercizio del primato petrino per un suo rinnovamento nel contesto delle nuove relazioni ecumeniche venutesi a creare dopo il Concilio Vaticano II pone in primo piano l'esigenza di confronto tra le Chiese cristiane e la Chiesa cattolica romana sulla concezione di unità e comunione dalla quale si parte e alla quale si vuole pervenire.25 Nella presa di posizione delle Chiese valdesi e metodiste tale questione rappresenta il vero nodo della risposta all'appello di Ut Unum Sint.26 Nel documento, approvato a larghissima maggioranza dal Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste in Italia (agosto 1995), gli estensori sottolineano che «si tratta, a nostra conoscenza, della prima presa di posizione ufficiale di un sinodo sull'enciclica» (Introduzione, 441). Verso la fine del testo si afferma:

Conformemente alla propria natura e alla tradizione, la futura comunione delle chiese cristiane non potrà che avere in un'assemblea rappresentativa di tutte le chiese (Concilio ecumenico) la propria suprema istanza terrena. Allo stato attuale della discussione, non sembra invece possibile prevedere quale tipo di struttura rappresenterà e coordinerà l'ecumene tra un Concilio e l'altro, anche se siamo profondamente convinti che tale struttura dovrà essere collegiale (§ 7, 244-245).

L'intonazione collegiale di tale comunione, desiderata e attesa, risponde pienamente ad un'istanza basilare anche per la chiesa cattolica romana. Ciò che sembra costituire un problema, prima che la stessa funzione del vescovo di Roma nell'ecumene cristiana, è l'articolazione di tale principio collegiale, di cui è espressione particolarmente efficace l'istituto sinodale secondo la particolare forma tipica che esso ha assunto nella tradizione delle chiese riformate, con quello gerarchico legato al ministero ordinato. Le chiese valdesi e metodiste in Italia "sono inoltre consapevoli del fatto che il problema del papato non può essere isolato da quello della struttura gerarchico-sacramentale della Chiesa cattolica romana" (ibid).

Sul piano organizzativo all'interno della Chiesa valdese si devono contemperare due principi: quello dell'autonomia dei credenti e quello della loro unità nell'opera della comune testimonianza. In base al primo

ogni comunità ha perciò una sua vita autonoma essendo retta dall'assemblea dei suoi membri, che si pronuncia su tutte le questioni di interesse vitale per l'opera della zona in cui vive; all'assemblea spetta la responsabilità di eleggere il consiglio degli anziani e il pastore a cui vengono affidati specifici incarichi.27

Nell'ottica della tutela e promozione della testimonianza comune prende figura la struttura sinodale: «L'assemblea annua composta di delegati di tutte le chiese e di pastori (detta Sinodo) ha appunto il compito di esaminare e risolvere i problemi di ordine generale: la predicazione, l'attività delle opere di assistenza, l'insegnamento della Facoltà di teologia, la costruzione di stabili, ecc. Al termine dei suoi lavori il Sinodo elegge un comitato direttivo di 7 membri, di cui due "laici", presieduto da un "moderatore" con il compito di dare esecuzione alle decisioni dell'assemblea».28

Ed è a questa fisionomia della disciplina comunionale della Chiesa che si guarda quando si pensa alla futura comunione delle Chiese cristiane. Questa natura 'assembleare' della ekklesia vuole riprendere lo stile della primitiva vita apostolica. L'autorità all'interno dell'assemblea è esercitata unicamente dal Signore Gesù e si manifesta «quando i credenti si raccolgono nella meditazione e nella preghiera».29 Questo tratto, insieme alla natura elettiva delle cariche (a termine e aperte sia a laici come a pastori), lascia scorgere una somiglianza molto forte con ogni organizzazione regolata dal principio democratico. In realtà il principio non è socio-politico ma spirituale. All'azione di Cristo si unisce quella dello Spirito. «Il dono e la guida dello Spirito Santo sono stati promessi infatti alla comunità radunata».30 In base a questa ecclesiologia e al relativo concetto di autorità

i valdesi non accolgono perciò il principio episcopale secondo cui la presenza di Cristo è garantita dalla successione dei vescovi. Essi affermano che fra Cristo e la Chiesa non ci sono forme di autorità intermedia; il popolo dei credenti è chiamato a vivere la sua fede avendo la certezza che il Signore lo guida mediante il suo Spirito.31

Nella Confessione di fede valdese (1662) tali verità di ordine ecclesiologico si trovano affermate in forma sintetica (come brevi 'Articoli', seguiti ciascuno da una silloge di testi biblici probatori) e determinano nel loro insieme l'orizzonte di comprensione dal quale partire per confrontarsi con la questione del ministero petrino e della struttura gerarchico-sacramentale della Chiesa (cf Articoli XXIV, XXV, XXVI, XXVII e XXXI).32 In particolare all'Art. XXIV si dice: "Che Iddio s'è raccolta una chiesa nel mondo per la salute degl'huomini, e ch'ella non ha se non un solo Capo e fondamento, cioè Jesu Christo". Tra i testi addotti come prove anche Mt 16, 18 e come commento ai testi biblici un paio di domande: "Come dunque non ha vergogna il Papa di vantarsi d'esser capo e sposo della Chiesa? Come si può creder quella essere la casta sposa di Christo, che riconosce un altro sposo? ".33 E più avanti nella raccolta di prove a sostegno dell'Art. XXVII -- "Che ognuno a quella (cioè alla Chiesa) deve congiungersi e tenersi nella sua comunione" -- tra i criteri per discernere la 'vera Chiesa' dalla 'falsa' si dice: "San Paolo tra li ministri ordinati da Dio per l'edificazion della Chiesa non mette mai ne Pontefici, ne Cardinali, ne sacerdoti: Onde vengono dunque? ".34 Per quanto riguarda il ministero pastorale nella comunità esso è necessario tanto per la predicazione come per l'amministrazione dei sacramenti "e vegghiare sopra la greggia di Christo, secondo le regole d'una buona e santa disciplina, insieme cogli Antiani e Diaconi, conforme all'usanza della Chiesa antica".35 La designazione del Pastore nella comunità non deriva dal fatto che "è mandato e approvato dal vescovo Romano, ma s'egli insegna la dottrina di Christo"36

In questo quadro si può comprendere come nella presa di posizione rispetto alla questione del ministero petrino si arriva a dire che "per quanto concerne il vescovo di Roma, può essere utile ripetere che il modo in cui è stato definito dottrinalmente ed esercitato praticamente il suo ministero in seno al cattolicesimo lo rende, come già si è accennato, inidoneo a svolgere una funzione ecumenica" (§ 7, 245).

Discorso dunque chiuso? Sembra di sì. Nel documento si pone infatti in questione non tanto la pertinenza di una forma di esercizio del primato petrino piuttosto che un'altra, quanto la sua stessa sostanza o natura. "Le nostre chiese ritengono che un reale mutamento dell'istituzione papale debba invece riguardare la sostanza del primato" (§ 7, 245).

Già dalle prime righe del testo si avverte come le chiese valdesi e metodiste attraverso il loro Sinodo si trovino su una lunghezza d'onda completamente diversa.

L'idea è che esista una forma di primato che tutti i cristiani possano accettare. Per trovarla, il papa invita gli altri cristiani a dialogare direttamente con lui, senza tuttavia mettere in discussione la natura del proprio ministero, ma semplicemente la forma del suo esercizio (§ 2, 242).

Questa novità, unita al riconoscimento positivo della comunione già esistente tra i cristiani sulla base del battesimo (cf § 2, 241-242), «per quanto importanti e suscettibili di sviluppi positivi nel prossimo futuro, non modificano tuttavia l'assetto fondamentale dell'ecumenismo cattolico, dominato da una visione dell'unità che ha in Roma il suo centro visibile e che è l'estensione a tutte le altre chiese dell'unità cattolica, "con Pietro" e "sotto Pietro"» (ibid, 242).

La tesi cattolica romana sul primato petrino è oggetto di due fondamentali obiezioni che toccano la natura stessa di tale ministero in seno alla Chiesa di Cristo. La prima si situa sul piano del fondamento biblico e della tradizione apostolica e la seconda su quello della storia della Chiesa. Riprendiamole per esteso per dare modo di valutare oggettivamente il peso delle obiezioni: a) La tesi tradizionale della teologia romana, ribadita dall'enciclica, secondo la quale il primato papale risponde alla volontà di Dio stesso così come si esprime in Cristo e nella Scrittura che lo testimonia, non resiste al confronto con i testi biblici; quanto all'opinione che vuole Pietro primo vescovo di Roma, è anch'essa (per esprimersi prudentemente) lungi dall'incontrare il consenso degli storici. Semplicemente, il papato è uno dei frutti della storia cristiana, uno dei modi mediante i quali la chiesa si è organizzata e, in quanto tale, è argomento di diritto umano, non divino. b) Su questo piano è utile ricordare che la funzione svolta dal vescovo di Roma è stata, nella storia, fattore di divisione, più che di unità: nei confronti delle chiese d'Oriente, di quelle della Riforma e, non raramente, all'interno dello stesso cattolicesimo romano. In base a queste motivazioni di fondo, che naturalmente sottoponiamo alla discussione e alla critica, le nostre chiese non ritengono costruttivo per il movimento ecumenico un modello di unità cristiana incentrato sull'affermazione del primato del pontefice romano. È vero quanto rileva l'enciclica, che cioè il tema è spesso proposto come centrale anche al di fuori dei dialoghi bilaterali con Roma; si tratta però, a nostro giudizio, di una tendenza pericolosa che rischia di condurre a uno stallo che si rivelerebbe poi arduo superare" (§ 5, 244; cf anche § 3, 243).

Dunque sarebbe meglio lasciare cadere la discussione su tale tema per la sua potenziale portata anecumenica? Le cose non stanno proprio così, anzi uno spiraglio di positività ecumenica viene riconosciuto all'appello dell'enciclica auspicando che "le nuove "forme di esercizio del primato" che potranno essere elaborate all'interno della Chiesa cattolica romana possano essere dettate da una comprensione non autoritaria dei rapporti intraecclesiali" (§ 7, 245). Se si procede in questo senso allora "ogni ipotesi atta a sbloccare la situazione attuale, e a crearne di diverse da quelle sin qui conosciute, va salutata infatti con favore, confidando non in calcoli e strategie suggerite dalla sapienza umana ma nell'azione dello Spirito di Dio" (ibid).

Stando queste obiezioni di fondo che arrivano al cuore della stessa natura del "primato papale" -- definito come "argomento di diritto umano e non divino" -- rimane importante fare emergere dal documento la comprensione dell'unità della Chiesa, senza un tale ministero e primato (cf § 3, 242-243). I richiami vanno al Documento sull'ecumenismo frutto del Sinodo del 1982 e a partire da qui si ricorda che l'impegno ecumenico delle Chiese valdesi si sviluppa nella direzione di quel modello che è testimoniato nel NT e che può essere definito "delle diversità riconciliate" o "dell'unità nella diversità" (cf § 4, 243).

Tale comunione nella diversità si sviluppò senza alcun "ministero di unità" esercitato da esseri umani; la nozione di "ministero di unità" non è presente, nel Nuovo Testamento, quanto alla terminologia; quanto poi al contenuto, è esercitata dallo Spirito Santo (ibid).

E questa unità non ha reclamato per attuarsi nessun ministero con «un significato primaziale (e men che meno fondativo dell'unità); proprio questo fatto, vorremmo sostenere, ha permesso l'unità nella diversità»! (ibid).

Se tale unità nella diversità è possibile senza un "ministero d'unità" che non sia quello esercitato dallo Spirito, come si viene a configurare tale azione pneumatica generatrice di comunione?

Rifacendosi a questo modello, le nostre chiese propugnano una visione dell'unità cristiana costituita non intorno a un particolare luogo geografico promosso a "centro visibile", né intorno a un particolare "ministero dell'unità", ma fondata sulla comunione nella fede, nella speranza e nell'amore. In altre parole, l'unità è una creazione dello Spirito Santo realizzata e attuata là dove, pur nella diversità dei linguaggi, dei riti, delle tradizioni e delle strutture, vi è una comune comprensione dell'Evangelo, una comune confessione di fede nel Dio trinitario, il reciproco riconoscimento dei ministeri e la condivisione dei modelli base di comportamento cristiano verso il prossimo e di culto reso a Dio, nell'ascolto della sua Parola attraverso la Sacra Scrittura, nella preghiera e nella condivisione del battesimo e della cena del Signore (ibid; il corsivo è mio).

Né un soggetto portatore di un ministero di unità per tutta la Chiesa (il papa), né un centro visibile attorno al quale si costituisce l'unità della Chiesa (Roma quale sede del vescovo di Roma, successore di Pietro): tutto si tiene per la comunione generata dallo Spirito. In tale comunione trova allora posto anche il riconoscimento reciproco dei ministeri (cf sopra i testi citati dalla Confessione di fede valdese). Anche quello del vescovo di Roma? Sì, ma limitatamente al suo ministero in quella Chiesa.

Nella nostra visione dell'unità il vescovo di Roma non occupa un posto particolare. Il ruolo particolarissimo che egli ha svolto nella storia del cristianesimo, di cui siamo perfettamente consapevoli, a noi non pare essere stato fino ad oggi un servizio all'unità cristiana. Consideriamo perciò, fino a questo giorno, il papato romano una istituzione propria della Chiesa cattolica romana, non una struttura potenzialmente ecumenica appartenente in prospettiva a tutta la cristianità (§ 4, 243-244).

Anche se la considerazione storica del ministero del vescovo di Roma, quale servizio all'unità cristiana, pur essendo oggetto di una valutazione -- certamente discutibile e opinabile -- che depone a sfavore della sua utilità in prospettiva ecumenica ("non pare essere stato fino ad oggi"), non esclude tuttavia in modo assoluto la possibilità che possa darsi in futuro un'attestazione di segno contrario, una tendenza nuova rispetto a quella avvertita per il passato come autoritaria e quindi potenzialmente anecumenica o addirittura antiecumenica.

L'unità dei cristiani che deve essere attesa come frutto dello Spirito e alla quale guarda il cammino ecumenico viene descritta come bisognosa di riconoscere una suprema istanza terrena: è questa è data dal Concilio ecumenico. Ma in che senso? "Conformemente alla propria natura e alla tradizione, la futura comunione delle chiese cristiane non potrà che avere in un'assemblea rappresentativa di tutte le chiese (Concilio ecumenico) la propria suprema istanza terrena" (§ 7, p. 244). E tra un Concilio e il successivo? "Allo stato attuale della discussione, non sembra invece possibile prevedere quale tipo di struttura rappresenterà e coordinerà l'ecumene tra un Concilio e l'altro, anche se siamo profondamente convinti che tale struttura dovrà essere collegiale" (ibid, 244-245). È dunque avvertita con chiarezza l'esigenza di prospettare quale tipo di struttura collegiale avrà un ruolo interinale (nel periodo tra un Concilio e il successivo) di rappresentanza e coordinamento. In tale contesto il Sinodo si sbilancia in avanti e avverte che "per quanto concerne il vescovo di Roma, può essere utile ripetere che il modo in cui è stato definito dottrinalmente ed esercitato praticamente il suo ministero in seno al cattolicesimo lo rende, come già si è accennato, inidoneo a svolgere una funzione ecumenica" (§ 7, 245). La chiarezza e perentorietà di tale presa di posizione che sembra essere completamente a sfavore di un futuro ecumenico per il ministero petrino come servizio all'unità dei cristiani, si lascia controbilanciare dal fatto che essa si misura con due limitazioni, di carattere dottrinale l'una e storica l'altra, le quali hanno esse stesse una dimensione storica e tali dunque da non impedire una nuova comprensione dottrinale e una versione riformata della stessa prassi di esercizio del ministero petrino da parte del vescovo di Roma.37

Se, si dice da parte valdese-metodista, "Roma si considera, come abbiamo visto ribadire nell'enciclica, l'unica chiesa alla quale gli attributi del Credo siano riferibili in senso pieno" (§ 6, p. 244), allora ne viene che la maggior parte delle comunità sorte dalla Riforma non possono neanche essere chiamate 'chiese'. Questa ermeneutica ecclesiologica così restrittiva ed esclusiva nuoce al progresso del cammino ecumenico e si rivela essere pregiudizialmente unilaterale da parte della Chiesa cattolica romana. Non è così infatti per le chiese della Riforma, ognuna delle quali "considera se stessa una espressione, tra altre, della chiesa una, santa, cattolica e apostolica, ... " (ibid; il corsivo è nel testo).

Dov'è allora l'unità della Chiesa? È già presente o ancora da venire?

Mentre per Roma l'unità della chiesa, in fondo, c'è già, ed è quella realizzata nella Chiesa cattolica romana (occorre certo perfezionarla e completarla, ma non cercarla altrove) per le nostre chiese l'unità cristiana esiste in Gesù Cristo ("Voi tutti siete uno in Cristo Gesù", Galati 3, 28) e nell'opera creatrice dello Spirito Santo, e la sua manifestazione terrena non coincide con nessuna unità confessionale esistente, ma va cercata insieme lungo le vie di una crescente comunione conciliare (ibid).

Dal punto di vista valdese-metodista che cosa dire del papato nel contesto della chiesa pellegrinante e dunque della unità della chiesa nella "sua manifestazione terrena"? Un primo suggerimento di carattere ecclesiologico è quello di rileggere il papato tenendo debitamente conto della categoria della sinodalità come elemento portante della chiesa. Il ministero petrino ritrova in tale contesto il suo nativo riferimento collegiale e di servizio all'unità dei cristiani (l'espressione 'primato' non sembra così opportuna per dire tale diaconia).38 Un altro consiste nel restituire al papato la sua natura di struttura emersa nel corso della storia e priva quindi di un fondamento divino.39 Su questo secondo punto si avverte tutta la difficoltà del dialogo con la Chiesa cattolica romana. La forma di esercizio del "primato" petrino è certamente debitrice della storia e come tale è suscettibile di modificazioni ma il suo fondamento divino, senza fare del papato stesso "un'entità, per così dire metafisica, assoluta",40 non è in nessun modo in questione. Altra cosa è invece la riconsiderazione della questione del "potere papale" in termini di servizio. Se per diventare un bene di tutte le chiese e non restare "una cosa soltanto cattolico-romana, come è adesso",41 il papato come istituzione vuole impegnarsi nell'elaborazione di una forma ecumenicamente condivisa di esercizio della sua funzione originaria e irrinunciabile, ciò deriva dalla profonda autocoscienza che ha della sua necessità per la chiesa a partire dalla volontà esplicita di Gesù Cristo stesso. Bisogna riconoscere a Giovanni Paolo II l'esplicitazione ferma e chiara di questa tersa ed univoca autocoscienza nel dover rispondere, anche mediante l'appello dell'enciclica, non solo ad una congiuntura storica ecumenicamente promettente ma soprattutto alla vocazione sorgiva del suo ministero pastorale di successore di Pietro.

3. La presa di posizione della Camera dei vescovi della Chiesa d'Inghilterra

Il 30 maggio 1995, solo cinque giorni dopo la pubblicazione dell'enciclica Ut Unum Sint, la Chiesa d'Inghilterra attraverso l'arcivescovo di Canterbury e il proprio Consiglio per l'unità dei cristiani interveniva "sollecitamente e con calore" (§ 1) nell'offrire una prima risposta e una prima reazione all'autorevole testo pontificio, riservandosi di elaborare "una risposta più meditata a tempo debito" (Prefazione) nella quale affrontare più dettagliatamente i problemi sollevati dall'enciclica.

Questa prima risposta, articolata in cinque brevi paragrafi, sottolinea come un fatto del tutto positivo l'incoraggiamento e l'invito pressante da parte del papa a proseguire nella comune ricerca della unità visibile (cf Appendice, § 4) della Chiesa. Tra i punti con i quali «gli anglicani possono essere perfettamente d'accordo» (ibid, § 3) si sottolineano:

l'insistenza sul primato della preghiera comune; il bisogno di pentimento e di conversione; la ratifica di ciò che è stato che è stato raggiunto attraverso l'azione congiunta e il paziente dialogo teologico; il riconoscimento del nostro comune battesimo e il fatto che da esso deriva un certo grado di comunione e, non ultima, la convinzione che l'unità è necessaria per una missione autentica (ibid.)

Tra le questioni ancora aperte nelle quali è dato di riscontrare il permanere di divergenze emerge in modo particolare quella relativa al ministero dell'unità del vescovo di Roma. "In particolare, siamo ansiosi di esaminare più approfonditamente il ministero dell'unità che appartiene al vescovo di Roma, alla luce dei lavori che vengono annualmente svolti dalla II Commissione internazionale anglicana-cattolica romana (ARCIC II)" (ibid, § 4).

È nel contesto di questo impegno "ad affrontare insieme alla Chiesa cattolica romana i restanti punti di divergenza" (ibid) che si colloca la risposta ufficiale della Camera dei vescovi della Chiesa d'Inghilterra del giugno del 1997, May They All Be One.42

L'autorevole intervento, siglato nella prefazione dall'allora primate di Canterbury, G. Carey, e dall'arcivescovo di York a nome dei vescovi della Chiesa d'Inghilterra, arriva a trattare della specifica questione del "ruolo del vescovo di Roma" (cf Testo, ibid, §§ 44-54) solo dopo aver preparato il terreno attraverso una presentazione di una ampia serie di tematiche di diretta rilevanza ecumenica. Dopo una sintesi dei lavori promossi dall'ARCIC (I e II) con la puntualizzazione dell'appello rivolto dal papa nella enciclica Ut Unum Sint (cf Introduzione), il testo si snoda infatti attraverso dieci brevi capitoli -- Un benvenuto all'enciclica; La fede e le sue formulazioni; L'ufficio di insegnamento della chiesa; Il processo decisionale nel tempo della separazione delle chiese; Unità piena, visibile; Settori che richiedono ulteriore studio; Il magistero; Il posto di Maria; Implicazioni del nostro comune battesimo; Apostolicità e successione -- per arrivare a trattare esplicitamente la quaestio disputata (gli ultimi due capitoletti: Il ruolo del vescovo di Roma; "Una comunione reale, sebbene imperfetta"). Il tutto si chiude con una conclusione davvero succinta dove si ricorda che il testo della risposta viene presentato "nella speranza che il papa e i capi e membri delle altre chiese saranno capaci di rispondere positivamente agli interrogativi sollevati in questo documento" (Conclusione, p. 130).

Questa rapida ricognizione della struttura del documento spinge ad una prima immediata riflessione: non si può affrontare la questione del primato senza un previo confronto sulle premesse di carattere ecclesiologico. Dalla ecclesiologia o meglio dalle ecclesiologie si arriva alla configurazione del ministero petrino e non viceversa. Se si fa eccezione per il capitolo che dà il benvenuto all'enciclica, i restanti nove non sono che una succosa e articolata contestualizzazione del dibattito sul primato petrino nell'alveo della impostazione ecclesiologica ed ecumenica della tradizione anglicana. Questo tracciato offre indirettamente una indicazione ermeneutica particolarmente rilevante per il discernimento sulla nuova fisionomia che tale ministero potrebbe assumere in avvenire: occorre distinguere tra la dimensione storica di esercizio di tale ministero in rapporto alle molteplici figure di autorità e di esercizio del potere tipiche dei diversi contesti socio-culturali nei quali esso si è venuto esplicitando e sviluppando e la dimensione propriamente essenziale e irrinunciabile che tale ministero possiede in ragione del suo peculiare posto nella struttura fondamentale della Chiesa di Cristo. Questa indicazione metodologica viene detta in modo molto chiaro quasi ad esergo della trattazione dei diversi punti ecclesiologici discussi quando, dopo il benvenuto rivolto all'enciclica, si ricorda il complesso rapporto tra la fede e le sue formulazioni.

La nostra comune metodologia ecumenica opera in base alla regola che le stesse verità sono state variamente espresse in tempi e culture diverse; essa riconosce sia che le nostre storie hanno dato origine a un linguaggio emotivo e radicalizzato, cosa che spesso ha giocato un ruolo importante nel perpetuare la separazione delle nostre chiese, sia che il nostro futuro sta in una generosità che si lascia di buon grado alle spalle il linguaggio di passate polemiche nella ricerca di una comprensione comune nella fede. Essa nota che l'inesauribile ricchezza del mistero di Dio non solo permette, ma rende necessari modi diversi di guardare la stessa realtà, e di esprimere questa realtà nella vita e nel culto della chiesa (Testo, ibid, § 16; cf anche ibid, § 14).

Occorre imparare gli uni dagli altri attingendo dalla fede della chiesa attraverso i secoli, valorizzando la ricchezza delle formulazioni mediante le quali tale fede è stata espressa e superando gradualmente quelle letture che oggi appaiono chiaramente ai cristiani separati «letture parziali» del depositum fidei.

In tale prospettiva si colloca una fondamentale riconsiderazione della ecclesiologia nell'ottica della comunione nella diversità. E questa diversità chiama in causa anche l'attuazione di una riconciliazione laddove essa è stata espressa non come fattore di autentica promozione della riforma della chiesa ma come fattore di divisione e disgregazione. E questo stato di cose si è prodotto e si produce quando la diversità mette in questione l'unità visibile della chiesa. Questa unità si colloca infatti sul piano delle note essenziali della chiesa quale è voluta da Dio in vista del compimento dell'opera della salvezza (cf Testo, ibid, § 13). "L'unità visibile della chiesa, pertanto, non è una questione interna delle chiese cristiane stesse, ma è un segno e uno strumento della volontà di Dio per l'unità dell'umanità divisa e di tutto il creato, a cui il Vangelo della grazia di Dio è rivolto" (ibid). Ed è proprio in questa ottica della unità visibile che prende rilievo l'ufficio di insegnamento della chiesa quale risposta al "bisogno di essere in grado di parlare con autorità e con una sola voce, specialmente negli ambiti in cui la fede non può ammettere divergenze" (ibid, § 17).43 Al servizio di questa peculiare esigenza strutturale (l'esse della chiesa), e dunque non solo funzionale alla buona organizzazione della vita interna della chiesa (il bene esse della chiesa), "c'è stato sin dagli inizi, e c'è nel tempo presente, un organismo formato da coloro che sono designati in modo definito e ufficiale a svolgere questo ufficio [l'ufficio di insegnamento] come rappresentanti della chiesa". Costoro vengono presentati "come ministri del Vangelo, come ministri di Cristo: e anche se l'ufficio di insegnamento non può e non dovrebbe essere limitato a essi, dipenderà in larga parte dalla loro efficienza se la chiesa sarà capace di adempiere in modo proprio alla sua opera" (ibid, § 17). Entrando più direttamente nel merito della questione sollevata dalla Ut Unum Sint la considerazione dell'ufficio magisteriale viene a toccare tre ambiti di "particolare e immediato interesse" (ibid, § 19): il primo riguarda il fondamento del magistero della Chiesa cattolica romana (in particolare il rapporto tra il vescovo di Roma, il collegio dei vescovi e il sensus fidelium e la relazione tra il papa e la curia), il secondo concerne la modalità di esercizio di tale magistero (in particolare il rapporto tra potestas e officium connessi al primato del papa), il terzo tocca la concezione del deposito della fede (in particolare il rapporto tra tradizione e scrittura nel determinare ciò che appartiene alla rivelazione già data).44

L'orizzonte odierno deve poi, e non è piccola cosa, fare i conti con una storia segnata da lacerazioni e divisioni durante la quale le decisioni prese a livello magisteriale (fino al livello delle definizioni dogmatiche) si sono prodotte in un contesto di separazione delle chiese. Queste posizioni unilaterali assunte dalle chiese hanno spesso procurato un approfondimento della situazione di divisione. Da qui il problema di individuare quali siano "i criteri e gli organi in base ai quali, quando le chiese sono separate, le questioni debbano essere considerate come parte del deposito della fede ... " (ibid, § 24; cf anche ibid, §§ 31-33 sui dogmi mariani) e in seconda battuta quale modalità di recezione debba attivarsi in ordine alle decisioni prese nel tempo della separazione delle chiese, specialmente quando esse non hanno raggiunto uno status di reciproco riconoscimento. Se si accoglie quanto sancito nel dialogo cattolico-ortodosso nella Dichiarazione di Monaco a proposito dell'allargamento alle chiese sorelle del principio della comunione tra le chiese locali, si deve poter pensare -- come si evince dal documento -- che sia questo lo status riconosciuto alle altre chiese che il papa ha invitato a discernere con lui la volontà di Dio circa l'esercizio del suo ministero (cf ibid, § 25; cf però §§ 34-40). Saremmo allora, per la prima volta su esplicito intervento del vescovo di Roma dopo le grandi divisioni che hanno attraversato la chiesa nel secondo millennio e le decisioni dottrinali attuate nel tempo della separazione (tra queste il dogma dell'infallibilità al Concilio Vaticano I), davanti a una comune opera di discernimento in vista di una decisione condivisa e tale così da poter dar luogo ad un processo di recezione davvero universale!?

King-in-Parliament (Queen-in-Parliament) è l'espressione politica che connota il sistema monarchico-costituzionale del Regno Unito per sottolineare come l'autorità sovrana del re (o della regina) si esercita sempre nel contesto della prassi democratica di tipo parlamentare e a partire da questa. La figura del monarca assoluto che accentra in sé ogni potere è un retaggio del passato e non risponde allo spirito democratico della cultura moderna. Nell'ambito ecclesiale anglicano si è venuta realizzando una analoga ristrutturazione parallela dell'esercizio dello stesso ministero episcopale con il passaggio dall'episcopato di tipo monarchico a quello in cui la responsabilità di guida è condivisa con gli altri vescovi della regione (sul modello delle antiche metropolie) e con tutto il popolo di Dio: è la figura del Bishop-in-Synod.45 Nell'attuare tale ristrutturazione non si è voluto in linea di principio riprendere in sede ecclesiastica un canone fondamentale che ispira le moderne democrazie ma si è voluto rivitalizzare un principio particolarmente fecondo della prassi ecclesiale della chiesa antica: il principio della sinodalità.

Applicato al ministero ordinato, in particolare al ministero episcopale, tale principio guida determina una concezione e una prassi nelle quali si attualizza quanto affermato dal Documento di Lima (Battesimo, Eucaristia, Ministero, Lima 1982): "Il ministero ordinato dovrebbe essere esercitato in un modo personale, collegiale e comunitario" (ibid, § 26). Quello collegiale e quello comunitario sono i due livelli nei quali l'applicazione del principio della sinodalità modula il tratto gerarchico con quello comunionale tipico sia del ministero come della chiesa. Usando un linguaggio di tipo socio-politico si potrebbe parlare di un salutare decentramento del potere in vista della condivisione delle responsabilità per il bene comune. Solo se si tiene conto di questo duplice retroterra dal peso e dal significato diverso, ecclesiale da una parte e socio-politico dall'altra, si può comprendere il punto prospettico di osservazione della Chiesa d'Inghilterra in rapporto al ministero petrino quale si è venuto configurando nell'istituzione papale della Chiesa cattolica romana. Ed è a è partire da qui che la Camera dei Vescovi propone all'attenzione dell'interlocutore alcune osservazioni critiche sul concetto di autorità nel breve capitolo su Il magistero. Riconosciuto il fondamento scritturistico dell'autorità connessa all'insegnamento quale cardine "essenziale per l'autentica proclamazione del Vangelo a ogni generazione", si prosegue sottolineando come essa "appartenga al corpo della chiesa nel suo complesso e che il discernimento della fede una volta concesso ai santi è una funzione dell'intero corpo in cui tutti i fedeli di ogni chiesa particolare hanno un ruolo da svolgere a ogni livello". Per quanto concerne i vescovi essi "con i loro sinodi hanno una responsabilità particolare nell'agevolare e guidare questo processo". A questo proposito una sottolineatura: "Gli anglicani credono che il loro caratteristico modello del "vescovo-in-sinodo" rappresenti un principio conciliare in cui l'autorità è esercitata in un modo costituzionale" (Testo, ibid, § 28).

I lavori dell'ARCIC (I e II) hanno costantemente ricordato l'equilibrio che deve esserci tra il primato da una parte e la conciliarità dall'altra. L'enfatizzazione di uno dei due poli a scapito dell'altro compromette la vita interna della chiesa e di fatto questo pericolo «è aumentato nel tempo in cui le chiese sono state separate l'una dall'altra» (ibid, 29). Anche nell'enciclica Ut unum sint si può rilevare questa carenza di equilibrio tra i due principi: «C'è da rammaricarsi che l'enciclica faccia così poco riferimento ai concili ecumenici e ad altre forme conciliari di consultazione e di discernimento nella chiesa» (ibid). L'equilibrio tra i due principi trova nell'istituzione sinodale e soprattutto nella vita sinodale la modalità più adeguata per la sua realizzazione, essa è «la forma principale con cui i vescovi durante la storia della chiesa hanno praticato la comunione» (ibid).46 Ed è sempre questa sinodalità che oltre all'espressione collegiale di esercizio del ministero episcopale permette l'effettiva esplicitazione del livello comunitario di coinvolgimento nel processo decisionale (cf sopra il citato testo del BEM) ovvero «la partecipazione responsabile dell'intero popolo di Dio» (ibid). Una chiesa sinodale risponde più pienamente alle esigenze dell'ecclesiologia di comunione. La tradizione delle chiese della Comunione anglicana rappresenta a questo proposito una vera ricchezza alla quale poter attingere.

Nella Chiesa d'Inghilterra e nelle altre chiese anglicane il principio della conciliarità è impresso saldamente in forme costituzionali in cui i vescovi, il clero e i laici hanno tutti un ruolo nel governo della chiesa a ogni livello. I vescovi mantengono un'autorità speciale nelle questioni di dottrina e di culto

In un contesto di comunione reale sebbene ancora imperfetta esistente tra le chiese e in particolare tra la Chiesa cattolica romana e la Comunione delle chiese anglicane47 ciò che manca alla piena unità visibile può essere conseguito attraverso un processo che, come afferma Giovanni Paolo II, «può giustamente essere descritto come "unità per gradi"» (Testo, ibid, § 55). Nell'ordine di questa crescita, anche attraverso un cammino di mutua recezione dei risultati del dialogo bilaterale, è fondamentale che si rilevi come «anglicani e cattolici sono d'accordo nella loro concezione dell'episcopato come un ministero che comprende non solo la supervisione di ogni chiesa locale, ma anche la cura della comunione universale di cui ogni chiesa è membro» (ibid, § 44). A partire da questo accordo viene evidenziato il passo ulteriore in base al quale si afferma chiaramente il al ministero petrino:

L'ARCIC I considera l'ufficio del primate universale come un caso speciale e particolare di questa cura della comunione universale che è propria dell'ufficio episcopale stesso. Gli anglicani quindi non sono affatto contrari al principio e alla pratica di un ministero personale a livello mondiale nel servizio dell'unità. In realtà, la loro esperienza della Comunione anglicana li sta portando sempre più ad apprezzare la giusta necessità, accanto a ministeri comunitari e collegiali, di un servizio personale dell'unità della fede.48

Il valore di un ministero/servizio personale a livello mondiale per l'unità visibile della chiesa è dunque riconosciuto ed appare ben radicato, accanto a ministeri comunitari e collegiali, nella natura stessa dell'ufficio episcopale. Da qui il passaggio a riconoscere nel vescovo di Roma il luogo qualificato di espressione di tale ministero/servizio e dunque di uno speciale primato al servizio della comunione universale richiede tutta una serie di riflessioni che gli estensori della risposta propongono in modo serrato nell'arco di una decina di paragrafi dedicati appunto a Il ruolo del vescovo di Roma. Di seguito vengono passate in rassegna quelle prerogative del primato del vescovo di Roma che rappresentano al presente (anche per come sono state formulate dalla Chiesa cattolica romana) punti di non piena convergenza o anche di dissenso: il dogma dell'infallibilità, l'istituzione divina del primato di giurisdizione (ordinaria, immediata e universale), la necessità della comunione visibile con la Chiesa di Roma quale requisito essenziale della comunione piena e visibile, la struttura del papato sviluppatasi nel secondo millennio, la riproposizione in nuovi contesti di strutture ecclesiastiche tipiche del primo millennio, l'assenza della comunione visibile in rapporto alla realtà essenziale delle chiese, il rapporto tra papa e vescovi, il parallelo con la Chiesa ortodossa in relazione al principio regolatore per un riconoscimento del primato petrino. Sullo sfondo non viene celata d'altra parte una preoccupazione attuale interna all'anglicanesimo:

È ampiamente riconosciuto che all'interno della nostra Comunione anglicana c'è il pericolo che l'"autonomia provinciale" possa essere intesa nel senso dell'"indipendenza". Alcuni ritengono che un ministero primaziale con un'appropriata struttura collegiale e conciliare sia essenziale se si vuole evitare questo pericolo (ibid, § 53).49

Si può partire proprio da quest'ultimo punto per riconoscere un principio guida che, essendo già attivo nel dialogo cattolico-ortodosso, potrebbe essere applicato anche sugli altri fronti del dialogo ecumenico. Gli estensori del testo ricordano infatti come pur non essendovi ancora una comunione visibile tra le Chiese ortodosse e il vescovo di Roma la stessa comunione sia descritta da parte cattolica romana «come quasi perfetta» (ibid, § 54). A fondamento di tale prospettiva sta un'affermazione, più volte richiamata anche in altre discussioni ecumeniche, del teologo J. Ratzinger:

Per quanto riguarda la dottrina del primato, Roma non deve pretendere dall'Oriente più di quello che è stato espresso e vissuto durante il primo millennio ... La riunificazione potrebbe avvenire su questa base: da parte sua, l'Oriente dovrebbe rinunciare ad accusare l'evoluzione occidentale del secondo millennio come eretica, e dovrebbe riconoscere la Chiesa cattolica [sic] come legittima e ortodossa nella forma che ha trovato attraverso questa evoluzione, mentre dal canto suo, l'Occidente dovrebbe riconoscere la Chiesa d'Oriente come ortodossa e legittima nella forma che essa ha mantenuto (ibid).50

Si attende dunque un'applicazione analoga di tale principio da parte della Chiesa cattolica romana anche nei confronti della Comunione delle chiese anglicane? Il punto di convergenza sarebbe il modello petrino quale è stato elaborato e vissuto nel primo millennio per non pretendere più di questo? Nel primo millennio, diversamente dalla situazione dell'Oriente dove un ruolo notevole è stato interpretato dalle grandi sedi patriarcali, Roma ha esercitato un primato su tutto l'Occidente con implicazioni sia sul piano della dottrina come anche della giurisdizione: tali prerogative potrebbero essere riconosciute ancora valide anche da parte della Chiesa d'Inghilterra, oggi? Sembra importante accogliere in tale principio guida il riferimento, essenziale per il discernimento, al patrimonio comune (cf ibid, § 49) precedente le grandi separazioni, anche se le strutture sviluppatesi nel primo millennio non possono essere riprese come tali (cf ibid, § 50). «Pur restando fedeli al passato, dobbiamo anche essere fedeli al contesto presente e alle esigenze di vita comune, testimonianza e servizio oggi. È nella misura in cui cresceremo insieme nell'unione fraterna ecumenica che saremo in grado di discernere le appropriate strutture di supervisione a ogni livello, compresa la questione della comunione con il vescovo di Roma» (ibid, § 50).

4. La posizione della Chiesa luterana di Svezia e della Chiesa presbiteriana degli USA

La rassegna si completa ora con l'analisi di queste due importanti risposte. I "due interlocutori" presi in considerazione offrono un'ulteriore opportunità di approfondimento della comprensione del ministero petrino in ambienti confessionali fortemente radicati nella tradizione luterana e riformata.51 Per un quadro più esaustivo del dibattito ecumenico si deve tenere conto che, anche se al presente manca una risposta ufficiale da parte delle Chiese ortodosse, singoli teologi e membri autorevoli della gerarchia delle Chiese ortodosse hanno offerto loro personali contributi al dialogo in corso.52

4.1 La Chiesa luterana di Svezia

L'approccio alla risposta ufficiale della Chiesa luterana di Svezia richiede ovviamente di essere contestualizzato nel percorso del dialogo ecumenico che, anche a livello teologico, ha conosciuto nel periodo postconciliare tappe e momenti particolarmente significativi.53 Come osserva H. Meyer l'orizzonte ermeneutico per ricomprendere il primato petrino alla luce della tradizione luterana dovrebbe tenere conto non solo dell'approccio fortemente polemico del tempo della Riforma ma anche degli elementi di positività insiti in tale approccio:

Al patrimonio teologico luterano non appartiene solo la identificazione polemica tra il primato papale e l' "Anticristo", ma anche l'idea di un primato esercitato nei modi dovuti. Questo positivo punto di avvio è il fatto che, secondo la tradizione teologica luterana, il primato papale può, nelle parole di Melantone, essere al servizio de "la pace e l'unità di tutti i cristiani.54

A partire da qui e in sintonia anche con alcune solenni affermazioni dello stesso magistero del Vaticano I (cf Pastor Aeternus, in DS 3051) spicca la rilevanza teologica del ministero petrino come perpetuo principio e visibile fondamento di unità, sia in seno al collegio episcopale come nel e per l'intero popolo di Dio.55

Posta in questi termini la questione può essere oggi riformulata come la specificazione del ministero petrino quale momento chiave del ministero universale per l'unità del popolo di Dio da intendersi come ministero di presidenza della comunione delle chiese (cf Ut Unum Sint § 89).56

Il dialogo cattolico-luterano ha già aperto una strada in questa direzione. Occorre riprendere in particolare due documenti, il primo denominato Rapporto di Malta del 1972, "Il Vangelo e la chiesa", elaborato dalla Commissione di studio evangelico luterana -- cattolica romana, il secondo frutto del dialogo promosso dalla Commissione cattolica-luterana negli USA, "Primato pontificio e Chiesa universale" (1974).57 Nel primo si evidenzia la "importanza di un servizio ministeriale per la comunione delle chiese" (cf § 66 in EO 1, 1193). Nel secondo si parla di "funzione petrina" (EO 2, 2574-2575) come di funzione "necessaria" (ibid 2570), quale ministero al servizio dell'unità della Chiesa universale. Se poi si entra nello specifico del dialogo bilaterale cattolico-luterano in Svezia non si può non tenere conto del documento del 1988 su "L'ufficio del vescovo".58

Il principio guida che anima tale dialogo potrebbe essere rappresentato da un'enunciazione relativa al dialogo con la Chiesa ortodossa proposta da J. Ratzinger in una conferenza del 1976: "Roma non deve richiedere dall'Oriente riguardo alla dottrina del primato più di quanto sia stato formulato e vissuto durante il primo millennio".59

Il testo offre un percorso abbastanza articolato: ad un'ampia introduzione fanno seguito tre paragrafi e una conclusione. Nell'introduzione si presenta una scheda del dialogo cattolico-luterano in Svezia nei suoi momenti salienti, sottolineando il buon clima ecumenico che lo ha caratterizzato fin dall'inizio (cf R 59-60). Il primo paragrafo, "Indispensabili requisiti ecumenici", sottolinea la positiva accoglienza dell'enciclica nel suo insieme ponendo in rilievo i progressi compiuti e condivisi. Non si manca di richiamare come il papa "riconosce chiaramente le altre Chiese e denominazioni e parla spesso in modo positivo dei contributi del Consiglio ecumenico delle Chiese, soprattutto attraverso la commissione Fede e costituzione" (R 61). Nel secondo paragrafo si evidenziano le difficoltà che emergono a partire dalla lettura dell'enciclica. Fondamentalmente sono due: il riduttivo riconoscimento della natura ecclesiale del partner ecumenico coinvolto nel dialogo, l'applicazione in senso pieno della nota di cattolicità alla sola Chiesa cattolica romana (cf R 61). Legata ad esse è inoltre la questione del mutuo riconoscimento della validità del battesimo, con le sue ricadute sul piano della condivisione eucaristica (cf R 62). Segue il terzo paragrafo centrato su "Il ministero di Pietro" (cf R 62-64).

Una breve rilettura dei passaggi nodali di Ut unum sint nei quali il papa delinea i tratti del ministero petrino è seguita, come per contrappunto, da un breve quadro della visione dello stesso ministero nella tradizione luterana. In questo contesto è la voce di Lutero ad essere posta in rilievo non tanto per il suo dire fortemente polemico sul papato, quanto per il principio che egli enuncia in vista di un riconoscimento condizionato del ministero petrino (cf R 62-63).60 "Lutero espresse questa convinzione anche nella sua ultima opera contro il papato, "istituito dal diavolo" (1545). Si sarebbe potuto accordare autorità al papa e riconoscere la sua episkopé, se avesse riconosciuto la parola di Dio come sua suprema autorità" (R 63).

La questione si porge oggi sotto un'angolatura che riprende certamente quell'enunciato ma può inserirlo in quadro nuovo dovuto non solo agli sviluppi dell'ecclesiologia del Concilio Vaticano II, attenta a collocare il primato petrino nell'orizzonte della collegialità episcopale ma anche ai progressi recentemente intervenuti sul tema della giustificazione nel dialogo cattolico-luterano. "Ciò offre una base nuova e più promettente per la continuazione del dialogo, anche sui temi dell'ecclesiologia e del ministero ordinato, in particolare il ministero del successore di Pietro" (R 63).

È possibile scrivere insieme anche una ricomprensione del primato del papa alla luce del primato per eccellenza, quello del Vangelo? È poi la questione del primato una questione essenziale alla Chiesa nella sua dimensione costitutiva (l'esse)? Nel caso la risposta sia positiva, in che modo? Nodi difficili quali il rapporto con il collegio dei vescovi, la concezione del primato papale quale istituzione divina, la dottrina dell'infallibilità e il potere di giurisdizione annesso a tale primato come potrebbero essere reinterpretati nella luce del primato del Vangelo?

La problematica perviene ad un'ulteriore approfondimento se si pone la questione del rapporto di tale ministero/primato non solo con l'essere della chiesa ma con la sua missione di salvezza: è necessario sotto il primo aspetto e non sotto il secondo? Una corretta ecclesiologia potrebbe essere sviluppata senza contemplare tale necessità per relegare tale nota al bene esse della Chiesa, alla sua unità interna? "In altri termini, il papato potrebbe non essere necessario per essere Chiesa, poiché si devono riconoscere anche altre Chiese, ma potrebbe essere considerato necessario per l'unità fra le Chiese" (R 63).61

Il punto di svolta per una ecclesiologia in grado di rimodellare il ministero e il primato petrino in chiave ecumenica è costituito dal superamento di una prospettiva fortemente "monarchico-gerarchica" (quella cattolica romana) in vista di una visione «più democratica e sinodale» (R 63).62

Questo tipo di ecclesiologia pone l'accento sulla partecipazione di ogni cristiano alle strutture canoniche della Chiesa e sul ruolo del laicato, accanto e insieme a quello del ministero ordinato. In tal modo si sottolinea il primato di ogni battezzato, se si desidera un qualche collegamento con questo vocabolario. La concezione del ministero ordinato e del ministero del successore di Pietro deve quindi includere la relazione con la totalità del popolo di Dio (R 63).

In base a questo approccio ecclesiologico l'impostazione (cattolica romana) del ministero/primato petrino che prevedesse una posizione di esclusività rispetto allo stesso collegio episcopale rappresenterebbe un punto di divergenza e di vera difficoltà per il progresso del dialogo ecumenico (cf R 63). Questa esclusività, pur implicando "l'inclusione del collegio dei vescovi della Chiesa riunita" (ibid), viene infatti a richiedere che"tutte le Chiese devono essere soggette a Roma e al suo vescovo affinché si realizzi un'unità dei cristiani piena e visibile" (ibid). A questa possibile ermeneutica dell'enciclica che si può denominare petrino/esclusiva se ne può tuttavia accostare con ragione, secondo gli estensori di parte luterana, un'altra più aperta che lo stesso papa indica quando richiama l'appartenenza del vescovo di Roma al collegio dei vescovi e la comunione che lega tutti i vescovi nel ministero a favore dell'unità della chiesa (cf R 63). Come declinare insieme queste due linee che attraversano dall'interno la concezione che la chiesa cattolica romana ha del ministero/primato petrino, senza rinunciare in nessun modo all'essenziale della missione del successore di Pietro? Quali possono essere le coordinate possibili per una situazione nuova?

Se questo è lo status quaestionis che emerge dall'enciclica, si arriva allora da parte luterana alla formulazione di una proposta teologica per provare a descrivere i contorni possibili della "situazione nuova". Essa è fondamentalmente centrata su un ulteriore rafforzamento del principio della collegialità «sia in seno alla Chiesa cattolica romana sia a livello ecumenico» (ibid). L'attuazione di una tale visione dovrebbe comportare «un continuo decentramento, [...] una maggiore indipendenza locale, ma anche una maggiore reciproca uguaglianza, per esempio attraverso patriarcati autonomi o autocefali» (R 64). Ne potrebbe in tal modo risultare quella espressione di novità auspicata per l'esercizio del ministero/primato petrino.

Questa è la nostra visione in una prospettiva ecumenica ricca di speranza. Essa conduce verso il modello di una comunione conciliare, con Chiese in stretta consultazione e ampia comunione sacramentale fra loro, il che evidenzia più chiaramente l'apostolicità della Chiesa; una comunione conciliare manifestata in vari modi, fra cui la dottrina del ministero, che crea dinamicamente spazi per il pluralismo ecumenico, avente una funzione di episkopé, che consente al suo vertice anche una simbolica funzione petrina, intesa in senso ecumenico e realizzata in base alle possibili interpretazioni sia della Bibbia sia delle tradizioni ecclesiali universali (ibid).

Si potrebbe concludere questo accostamento al testo e alla interessante proposta formulata recependo la formulazione luterana del principio di comunione che unisce il successore di Pietro con gli altri vescovi:

Come il ministero dell'apostolo Pietro non era separato dagli altri ministeri, come abbiamo appreso dalla testimonianza del Nuovo Testamento, così anche quello del suo successore non dovrebbe essere isolato da quello degli altri vescovi. Esso deve essere esercitato in comunione con tutti gli altri nel contesto del popolo di Dio. E deve essere anche interpretato in modo ecumenico. Questa è l'unica possibile strada per progredire (ibid).

4.2 La Chiesa presbiteriana degli USA

Questa Chiesa, radicata nella tradizione delle Chiese riformate (Svizzera, Germania, Paesi Bassi), si sviluppò come presbiterianesimo prima in Scozia ed Inghilterra distinguendosi dal modello ecclesiale di tipo congregazionale per passare poi alle colonie britanniche del Nordamerica e anche agli altri continenti.63 Per essere Chiesa, in base alla confessione di Westmister (1647), devono ricorrere alcune caratteristiche fondamentali tra le quali:

Non vi è altro capo della chiesa se non il Signore Gesù Cristo, il papa di Roma non può esserlo in alcun senso, ma egli è quell'anticristo, quell'uomo di peccato e figlio della perdizione che si è innalzato da se stesso, nella chiesa, contro Cristo e tutto ciò che viene chiamato Dio.64

L'ordinamento ecclesiale della Chiesa presbiteriana non è né di tipo episcopale, né di tipo congregazionale ma di tipo presbiteriano: «I presbiteriani hanno sviluppato un modello repubblicano per la leadership della Chiesa, soprattutto per difendersi dalle conseguenze della fallibilità umana, e conciliare. Noi rifiutiamo generalmente la gerarchia e l'episcopato, da un lato, e la pura democrazia congregazionalista, dall'altro. [...] Noi affidiamo la responsabilità del governo e della disciplina -- sotto l'autorità di Gesù Cristo, delle Scritture e delle nostre confessioni -- ai pastori e agli anziani riuniti in organi conciliari che vanno, in forma ascendente, dalla riunione locale al presbiterio, al sinodo e all'Assemblea generale» (S 711). Oggi la Chiesa presbiteriana fa parte dell'Alleanza Mondiale delle Chiese Riformate. Già da tempo sono stati avviate significative ed importanti relazioni di dialogo ecumenico tra la Chiesa presbiteriana (USA) e la Chiesa cattolica romana (cf S 712-713).65

Il documento "Il successore di Pietro. Un documento per la discussione" si sviluppa in sei capitoli (compresa l'introduzione). Gli estensori del testo sono costituiti da una delegazione della Chiesa presbiteriana (USA) (cf S 708). Essi non sono "formalmente autorizzati -- in quanto partecipanti a questo dialogo" a parlare a nome della loro chiesa ma possiamo immaginare che la PCUSA, date le debite condizioni e assicurazioni, potrebbe desiderare di avviare "un dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche, avendo a mente soltanto la volontà di Cristo per la sua Chiesa"." (S 716)66

Il primo e il secondo capitolo, mentre descrivono il contesto delle relazioni ecumeniche in corso (cf S 708-710), rimarcano la centralità della questione del ministero petrino.

Possiamo sforzarci di definire e vivere ciò che l'unità significa in mille situazioni particolari. Ma quando è in gioco l'unità di tutta la Chiesa, il dato fondamentale è, in definitiva, la nostra comune comprensione del ministero del successore di Pietro. Qualunque sia il nostro atteggiamento verso l'istituzione del papato, non possiamo prescindere dalla sua importanza per l'idea stessa di unità, perseguita così a lungo da tante persone (S 708).

Prima di affrontare tale nodo delicato -- i capitoli III, IV e V -- si torna con spirito di franchezza, analogamente al documento luterano, alla questione aperta del mancato riconoscimento da parte della Chiesa cattolica romana dello status di Chiesa sorella (cf S 709, nota 1). In modo dettagliato si presenta inoltre la procedura da seguire per permettere alla Chiesa presbiteriana di poter recepire e sancire eventuali nuovi passi nel dialogo con la Chiesa cattolica romana a proposito del ministero petrino: il processo della recezione costituzionale.67 Stando all'attuale status del rapporto ecumenico tra la Chiesa presbiteriana e quella cattolica romana la modalità delle relazioni instaurate non si colloca né sul piano dell' "essere in comunione" (primo livello ove si suppone un accordo di piena comunione, cf ibid 712), né su quello dell' "essere in corrispondenza con" (secondo livello ove si suppone una sorta di riconoscimento diplomatico, ibid). «La Chiesa cattolica romana, come è noto, non è ancora una Chiesa con cui siamo "in corrispondenza" poiché, pur essendo membro a pieno titolo della Commissione Fede e costituzione del CEC e di quella del Consiglio nazionale delle Chiese di Cristo, non è membro né del Consiglio ecumenico delle Chiese né del Consiglio nazionale delle Chiese di Cristo in quanto tali» (ibid). Per permettere alla Chiesa cattolica romana di accedere a tale status di partnership occorrerebbe un emendamento del Book of Order (cf S 709), passo che per parte loro gli estensori del documento raccomandano ed auspicano (cf S 712-713).

Nel terzo capitolo viene tematizzata la questione dell'autorità nella chiesa dal punto di vista della teologia riformata (cf S 710-713). Il quarto capitolo affronta invece da un punto di vista storico la concezione del papato secondo le Chiese riformate (cf S 713-715). Con il capitolo quinto si arriva al cuore del documento e si esamina più analiticamente l'appello di Ut unum sint in merito al ministero/primato petrino (cf S 715-718). L'ultimo capitolo traccia alcune concrete linee di lavoro per il futuro (cf S 718).

In che termini è possibile parlare di una situazione nuova (cf S 715) per ciò che concerne il dibattito sul papato? La delegazione presbiteriana sente di dover prendere la parola per rispondere all'appello dell'enciclica dal momento che, pur non essendo ufficialmente autorizzata dalla propria Chiesa, considera l'enciclica come "troppo importante per passare inosservata" (S 715).

Si dà in realtà una situazione nuova in primo luogo perché al di là delle differenti posizioni ecclesiali si avverte la necessità di trascendersi verso una prospettiva più ampia quale è la comune causa della presenza e della diffusione del Regno di Dio (cf S 716). In secondo luogo occorre riconoscere la grande sfida rappresentata dal proliferare delle cosiddette free Churches e al conseguente incremento di frammentazione delle Chiese (ibid). In terzo luogo non può sfuggire il crescente sviluppo del fenomeno della globalizzazione che interpella in modo pressante le chiese a riformulare la loro presenza nella storia e il loro senso di cattolicità (ammesso che ve ne possa essere uno formulato in modo univoco e valido per il mondo intero, cf ibid).

In questo contesto l'accento del dialogo ecumenico viene a cadere in modo nuovo sulla stessa modalità di espressione di un ministero di unità a livello universale (come si era già anticipato nella Conferenza di Santiago, cf ibid). Cosa è dunque essenziale a un tale ministero? Il principio di un'eventuale riforma della forma di esercizio di questo ministero deve procedere da una Chiesa che prevede al suo interno "meccanismi di riforma secondo la parola di Dio" (S 717, il primato della Parola di cui si è detto anche per il documento luterano). Il libero esame della Scrittura dà tuttavia diritto alla possibilità di interpretazioni molteplici e non sempre in accordo che pretendono di avere ciascuna una propria autorità nella Chiesa. "Poiché la cosa sembra inevitabile, i cattolici possono chiedere perché anche noi non conferiamo l'autorità a qualche interprete autorevole, sia esso un organo di governo o un individuo" (ibid). Diversamente non si va verso "le divisioni e le confusioni che caratterizzano attualmente la nostra comunione" (ibid)? Come poter allora dare spazio ad un tale ministero? "A nostro avviso, un tale ministero rappresentativo dell'unità richiede un alto grado di visibilità, ma non richiede un collegamento con il potere gerarchico o con una pretesa di infallibilità" (S 717).

Cosa si richiede per un tale ministero?

In circostanze del genere un ministero dell'unità richiede si saper individuare dove lo Spirito è veramente all'opera. Ciò significa identificare e far risuonare la vera voce del Pastore, Gesù Cristo. A nostro avviso, non significa pretendere di parlare in nome di Gesù Cristo. È piuttosto, come indicano i passi neotestamentari relativi a Pietro, il ministero di conservare la Chiesa fedele alla voce di Gesù Cristo così come la ascoltiamo nella Scrittura interpretata nella Chiesa dalla presenza dello Spirito Santo (ibid).

Il passaggio saliente:

Secondo noi un ministero dell'unità nella Chiesa è un ministero che promuove il riconoscimento della vera voce del Pastore fra i suoi discepoli (Gv 10, 3; Ap 3, 20) mediante la "risonanza" dello Spirito di Dio fra gli esseri umani. Un tale ministero dell'unità non richiede necessariamente la forma "petrina" e neppure di essere affidato a una singola persona. E tuttavia l'Una sancta può richiedere una sorta d'esercizio rappresentativo di questo carisma di discernimento spirituale e di riconoscimento a livello mondiale (ibid).

Da parte presbiteriana non si accetterebbe tale ministero se ciò comportasse "il riconoscimento dell'autorità episcopale diretta di una tale persona, invece della partecipazione a un consiglio che si riunisce periodicamente sotto la guida di una figura carismatica scelta con il coinvolgimento di tutti noi" (S 717-718). Per gli estensori sarebbe auspicabile anzi necessario pervenire almeno a "qualcosa del genere per l'ufficio del vescovo di Roma affinché possa pretendere in modo credibile un ministero universale a servizio dell'unità cristiana" (ibid).

5. Prospettiva per il futuro

A dieci anni di distanza dall' enciclica Ut Unum Sint il dibattito ecumenico sul ministero petrino nella Chiesa sollecitato dall'intervento solenne di Giovanni Paolo II rappresenta un chiaro segno dei tempi attraverso il quale lo Spirito vuole indicare alle Chiese e Comunità cristiane sparse nel mondo un passaggio essenziale del comune impegno di discernimento per il ristabilimento dell'unità dei cristiani. Sull'orizzonte, l'indicazione pontificia lo attesta con singolare precisione (cf Ut Unum Sint § 93), il ministero petrino svela nuovamente la sua nota essenziale: è un ministero di misericordia nato da un atto di misericordia di Cristo.

A partire da qui si avverte come particolarmente positivo il fatto che tutte e quattro le risposte prese in considerazione, pur riproponendo in modo più o meno accentuato le secolari questioni relative allo sviluppo storico del 'Papato', collochino il tema del ministero petrino nell'ambito più ampio e comprensivo della ecclesiologia di comunione e della missione della chiesa nel mondo. Si potrebbe dire che il ministero petrino sta già nell'intenzionalità del Risorto di raccogliere l'umanità dispersa nell'unico popolo di Dio e come tale esso è un ministero permanente "se il "gregge" non dovrà venire nuovamente disperso" (R. Pesch).

Ed è proprio per ritornare insieme a questa intenzionalità salvifica del Cristo, inclusiva del ministero petrino, che occorre pazientemente riprendere il filo di un dialogo interrotto per riannodare le diverse voci a ciò che è essenziale. In questa prospettiva la ricerca della "sostanza evangelica del dono divino del primato" (L. Sartori) richiede certamente un accurato vaglio delle diverse figure storiche in cui esso è venuto a prendere forma. Un elemento essenziale che spicca dall'analisi dei quattro testi è l'appello, spesso ricco anche di indicazioni concrete, a cercare insieme una figura dell'esercizio del ministero petrino rinnovata in chiave sinodale e pertanto più idonea a presiedere all'unità della chiesa nella diversità delle sue espressioni.

Nell'operare tale rinnovamento va tenuta presente un'indicazione di fondo che emerge dal già citato documento della Congregazione per la dottrina della fede nel quale si segnala il carattere estremamente impegnativo del discernimento in corso. Ne riprendiamo il contenuto quale conclusione di questo itinerario di ricerca e orientamento per ulteriori sviluppi.

I contenuti concreti del suo esercizio [dell'esercizio del primato del successore di Pietro] caratterizzano il ministero petrino nella misura in cui esprimono fedelmente l'applicazione alle circostanze di luogo e di tempo delle esigenze della finalità ultima che gli è propria (l'unità della chiesa). La maggiore o minore estensione di tali contenuti concreti dipenderà in ogni epoca storica dalla necessitas ecclesiae. Lo Spirito santo aiuta la chiesa a conoscere questa necessitas e il romano pontefice, ascoltando la voce dello Spirito nelle chiese, cerca la risposta e la offre quando e come lo ritiene opportuno. Di conseguenza, non è cercando il minimo di attribuzioni esercitate nella storia che si può determinare il nucleo della dottrina di fede sulle competenze del primato. Perciò, il fatto che un determinato compito sia stato svolto dal primato in una certa epoca non significa da solo che tale compito debba necessariamente essere sempre riservato al romano pontefice; e, viceversa, il solo fatto che una determinata funzione non sia stata esercitata in precedenza dal papa non autorizza a concludere che tale funzione non possa in alcun modo esercitarsi in futuro come competenza del primato.68

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Note

  1. Il tema è trattato nel III e ultimo capitolo dell'enciclica, intitolato Quanta est nobis via? (§§ 88-96). Si veda inoltre il documento della Congregazione per la dottrina della fede, "Considerazioni Nell'attuale momento circa "Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa"" (31 ottobre 1998), in EV 17, EDB, Bologna 2000, 1197-1207. Tale testo, presentato a margine del simposio di carattere dottrinale svoltosi in Vaticano su "Il primato del successore di Pietro" (2-4/12/1996), vuole "solo ricordare i punti essenziali della dottrina cattolica sul primato come grande dono di Cristo alla sua chiesa in quanto servizio necessario all'unità e che è stato anche spesso, come dimostra la storia, una difesa della libertà dei vescovi e delle chiese particolari di fronte alle ingerenze del potere politico", in ibid, 1198 (§ 2). Gli atti del simposio sono stati pubblicati dalla LEV, Città del Vaticano 1998 (il documento della Congregazione per la dottrina della fede è stato inserito in appendice al volume degli atti). Testo

  2. Tale studio, già pubblicato in inglese in The Pontifical Council for Promoting Christian Unity -- Vatican City, Information Service N. 109 (2002/I-II) 29-42, è pubblicato in traduzione italiana: Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, "Il ministero petrino", in Il Regno Documenti XLVIII (2003/13) 431-440. Testo

  3. Cf Ut Unum Sint §§ 88-96; cf "Il ministero petrino", 1. 1, in Il Regno Documenti XLVIII (2003/13) 431. Testo

  4. Cf F. COCCOPALMERIO, "Il primato del romano pontefice nel Codice di diritto canonico", in G. ANCONA (a cura di), Dossier. Chiesa e sinodalità, Associazione Teologica Italiana, Ed. Velar, Gorle (Bg) 2005, 67-106. Testo

  5. L. Chiappetta, Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, Vol. I, ED, Napoli 409. È dunque quanto mai utile rileggere con calma sia il cap. III della Lumen Gentium come la Nota esplicativa previa. Per il recente dibattito ecclesiologico sul rapporto tra chiesa universale e chiesa locale, cf: K. McDonnel "The Ratzinger/Kasper Debate: the Universal Church and Local Churches", in Theological Studies 63 (2002) 227-250; M. Schulz, "L'ecclesiologia attuale: la sua tendenza filosofica, trinitaria ed ecumenica", in Rivista Teologica di Lugano VIII (2003/3) 451-469. Testo

  6. Ibid 410. Gli altri titoli del Papa sono: Patriarca d'Occidente, Primate d'Italia, Metropolita della provincia ecclesiastica romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, cf ibid 411. Testo

  7. Per uno sguardo sintetico alla recente letteratura su questo tema, cf M. Faggioli, "Note in margine a recenti contributi per una riforma ecumenica del papato", in Cristianesimo nella Storia, XXII (2001/2) 451-472. Testo

  8. Verlag, Würzburg 1990. Seguiamo la traduzione italiana con introduzione a cura di L. Sartori: Il Primato del Papa. La sua storia dalle origini ai nostri giorni, Queriniana, Brescia 1996. Testo

  9. Ibid 7. Testo

  10. Ibid 103. Testo

  11. Ibid 61. Testo

  12. Ibid 87. Testo

  13. Ibid 89. Tale situazione si ritrova in tutti i maggiori conflitti ecclesiali dal V al IX secolo. Testo

  14. Ibid 90. Testo

  15. Ibid 103. Testo

  16. Ibid Testo

  17. Ibid 104. Testo

  18. Ibid 232. Testo

  19. R. Pesch, I fondamenti biblici del primato, Queriniana, Brescia 2002 (orig. ted.: Freiburg im Breisgau 2001). Testo

  20. Ibid 81. Testo

  21. Ibid 82. Testo

  22. Ibid 83. Testo

  23. Ibid. Testo

  24. Ibid 83. Testo

  25. Cf Th. F. Best, "Unità, modelli di", in Dizionario del movimento ecumenico, EDB, Bologna 1994, 1151-1153. Testo

  26. Per il testo del documento, cf: Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste in Italia, "Il papato e l'ecumenismo", in Protestantesimo L (1995/3) 241-245 (nel corso dell'articolo citiamo il § e la p. di riferimento). Per l'iter della sua elaborazione, cf ibid, 241 (Premessa). Il documento si suddivide in otto paragrafi (senza titoli). La bozza del documento era stata predisposta dal Prof. P. Ricca e dal past. dr. Fulvio Ferrario. Testo

  27. Chi sono i valdesi? , Ed. Claudiana, Torino (senza indicazione di anno), 4. Testo

  28. Ibid. Cf anche P. Ricca, "Valdismo -- Protestantesimo italiano", in Dizionario del movimento ecumenico, 1159-1161. Per la discussione sul 'ministero petrino', cf P. Ricca, "Il primato petrino oggi: una prospettiva protestante", in Firmana n. 24 (2000) 39-47. Testo

  29. Chi sono i valdesi? , 5. Testo

  30. Ibid. Testo

  31. Ibid. Testo

  32. Cf Confessioni di fede delle chiese cristiane, a cura di R. Fabbri, EDB, Bologna 1996, 1006-1013. Testo

  33. Ibid, 1007. Sul tema del papato nella ecclesiologia valdese dai suoi primi sviluppi fino alla Riforma, cf A. Molnar, Storia dei Valdesi, Vol I: Dalle origini all'adesione alla Riforma (1176-1532), Ed. Claudiana, Torino 19892, 310-321. Testo

  34. Confessioni di fede delle chiese cristiane, 1007. Testo

  35. Ibid, 1011-1012. Testo

  36. Ibid, 1013. Cf ibid, 1012-1013 (prove bibliche e commento sul ministero pastorale nella Chiesa). Testo

  37. Il Sinodo ha ben chiaro quale sia il contenuto dottrinale essenziale del ministero petrino secondo la Chiesa cattolica romana, ivi compresa la definizione dogmatica della infallibilità pontificia, cf § 3, 243. Testo

  38. Cf Ricca, "Il primato petrino oggi: una prospettiva protestante", 42-43. 46. Testo

  39. Cf ibid, 45-46. Testo

  40. Ibid, 46. Testo

  41. Ibid, 43. Testo

  42. Per il testo seguiamo la traduzione italiana pubblicata in Il Regno Documenti XLIII (1998/3) 121-130. Nel corso dell'articolo si fa riferimento ai due testi: quello breve del 1995 indicato come Appendice e quello ampio del 1997 indicato come Testo (segue il rimando al § e dove necessario alla p.). Per una comprensione più adeguata e completa della risposta non possono non essere tenuti presenti i diversi studi dell'ARCIC (I e II) sul tema dell'autorità (cf le note al testo). Dopo tale risposta ufficiale della Camera dei Vescovi della Chiesa d'Inghilterra il tema è stato ripreso alla Conferenza di Lambeth del 1998 (cf Testo, § 8), cf: "Comunione anglicana, XIII Conferenza di Lambeth", in Il Regno Documenti XLIII (1998/17) 588. Per un commento all'evento, cf Il Regno Attualità XLIII (1998/16) 509-512. Nel frattempo proprio nel settembre del 1998 l'ARCIC II approvava il documento The Gift of Authority, Authority in the Church III, reso pubblico nel maggio 1999. Per il testo in trad. it.: cf Il Regno Documenti XLIII (1999/11) 370-381. Per alcuni interventi sul tema del ministero petrino nel contesto teologico ed ecumenico recente, cf: "Non sono in disaccordo con Roma. Intervista a H. Chadwick", in Il Regno Attualità XLIII (1998/16) 505-508; T. Galligan, "Il servizio petrino nella Chiesa secondo la prospettiva anglicana", in Firmana n. 24 (2000) 19-28; H. Chadwick, "Ministero papale e unità dei cristiani dal punto di vista anglicano", in P. Hünermann (a cura di), Papato ed ecumenismo. Il ministero petrino al servizio dell'unità, EDB, Bologna 1999, 63-70. Si veda inoltre l'ampio dossier di studi teologici (anche di parte anglicana) sul tema del ministero petrino pubblicati a cura di J. Puglisi in Studi Ecumenici XVII (1999/1); in particolare: J. Hind, "Primato e unità. Un contributo anglicano a un dialogo paziente e fraterno", in ibid, 47-72. Testo

  43. Per il contenuto dottrinale di ciò che forma il fondamento della unità visibile secondo l'enciclica e anche per ciò che è già condiviso dalla Comunione anglicana delle chiese, cf Testo, ibid, § 26. Testo

  44. Cf Testo, ibid, §§ 19-21. Testo

  45. Per una comprensione sintetica e aggiornata della struttura sinodale nella Chiesa d'Inghilterra così come si è venuta sviluppando ed è organizzata al presente, cf P. A. Wesby, How the Church of England Works, CIO Publishing, London 1985 (in particolare 50ss). Testo

  46. Si deve notare che nel proporre tale richiamo alla sinodalità il Testo fa esplicito riferimento a un documento del dialogo cattolico-ortodosso: la Dichiarazione di Valamo (cf Testo, ibid, p. 126 nota 36). Sul tema della sinodalità, cf P. Vallin, "Figure di sinodalità oggi", in Concilium XXXVII (2001/3) 140-155. Al tema della 'Sinodalità' sta dedicando il suo lavoro di ricerca l'Associazione Teologica Italiana in vista del Congresso nazionale del 2005, cf R. Battocchio, "La sinodalità come forma di chiesa", in Rassegna di Teologia XLV (2004) 915-920. Cf G. ANCONA (a cura di), Dossier. Chiesa e sinodalità, Associazione Teologica Italiana, Ed. Velar, Gorle (Bg) 2005. Testo

  47. Si apprezza che il papa riconosca questo stato di cose, pur facendo alcuni osservazioni critiche sul modo cattolico-romano di intendere il subsistit in di LG 8, cf Testo, ibid, §§ 55-60. Testo

  48. Per il contributo anglicano all'appello di Ut unum sint, cf la sintesi presentata alla plenaria del Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani del 2001, "L'esercizio del primato", in Il Regno Documenti XLVIII (2003/13) 438-439. Testo

  49. Sul significato e i contenuti del ministero del primate nelle province della Comunione anglicana delle chiese e in particolare sul ruolo dell'arcivescovo di Canterbury quale primate della Comunione, cf Wesby, op cit, 1-8. 75-78. All'arcivescovo di Canterbury è riconosciuto un primato di onore al quale è connessa un'autorità che si esplica sull'intera Comunione anglicana solo in senso spirituale e morale. Tale primato non comporta dunque né una particolare autorità vincolante sul piano del magistero, né un potere di giurisdizione sull'intera Comunione anglicana. Il modello sinodale conferisce un'ampia autonomia a ciascuna delle province che fanno parte di tale Comunione. Testo

  50. Si rimanda ad un testo del 1982 (dunque precedente alla nomina di Ratzinger a Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede), cf Testo, ibid, p. 129, nota 75. L'inclusione in parentesi si trova nel testo in trad it a cura della redazione del Regno. Testo

  51. Per un'introduzione alla realtà di queste chiese nella situazione mondiale contemporanea, cf Johann-Adam-Mœhler-Institut (ed.), Le chiese cristiane nel duemila, Queriniana, Brescia 1998, 177-254 ("Le chiese luterane e riformate", di H. Wagner). Testo

  52. Cf Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, "Il ministero petrino" (2001), in Il Regno Documenti XLVIII (2003/13) 433. "Non vi sono state risposte ufficiali da parte delle Chiese ortodosse", in ibid. Vi sono state però prese di posizione di autorevoli esponenti della gerarchia ortodossa, per la consultazione di tali interventi si vedano le indicazioni bibliografiche riportate in: Congregazione per la dottrina della fede, "Considerazioni Nell'attuale momento circa "Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa"" (31 ottobre 1998), in EV 17, EDB, Bologna 2000, 1197 (nota 1). Un prezioso contributo per gli sviluppi di questo dialogo bilaterale è stato certamente rappresentato dal Simposio accademico sul tema del ministero petrino convocato a Roma nel maggio 2003 su iniziativa del Card. W. Kasper. Al Simposio hanno preso parte eminenti studiosi sia cattolici come ortodossi con interventi di carattere biblico, storico, teologico e canonistico: cf W. Kasper (ed.), Il ministero petrino. Cattolici e ortodossi in dialogo, (Atti del Simposio promosso dal Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani -- Roma 21/24 maggio 2003), Città Nuova, Roma 2004. Nel concludere la Presentazione il Card. Kasper ricorda: "I partecipanti, nel considerare una possibile continuazione dello studio e della riflessione comune sul tema del Ministero petrino, sono stati concordi nell'affermare l'importanza che esso sia affrontato nel quadro della "Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa Ortodossa nel suo insieme", ed hanno auspicato che la Commissione riprenda quanto prima la sua ricerca", in ibid 9. Cf anche EV 17, 1197 (nota 1). Per un approccio alla ecclesiologia ortodossa, cf Y. Spiteris, Ecclesiologia ortodossa. Temi a confronto tra Oriente e Occidente, Presentazione di L. Sartori, EDB, Bologna 2003. Testo

  53. Cf Chiesa luterana di svezia, "Risposta all'Ut unum sint" (2002), in Il Regno Documenti XLVIII (2003/1) 59-60 (seguiamo questa traduzione italiana dall'inglese; citiamo il testo con la sigla R seguita dall'indicazione del n. di pagina). Testo

  54. H. Meyer, "Suprema auctoritas ideo ab omni errore immunis. Il punto di vista luterano sul primato", Studi Ecumenici XVII (1999/1) 32. Per una rilettura del dogma dell'infallibilità pontificia secondo l'ecclesiologia del Concilio Ecumenico Vaticano II, cf H. J. Pottmeyer, "Vatican I in the Light of Vatican II", in semi-annual Bulletin (a cura del Centro Pro Unione) N. 65 (2004) 20-24. Testo

  55. Cf H. Meyer, art cit, 32-33. Cf anche CIC can. 333 § 2 e can. 336. Testo

  56. In questi termini si era già espressa nel 1993 la Commissione Fede e Costituzione del CEC nella conferenza mondiale di Santiago di Compostella, cf. H. Meyer, art cit, 33. Testo

  57. Per il primo documento: cf EO 1, 1127ss, cf anche il documento "Autorità magisteriale e infallibilità nella Chiesa" del 1978, in EO 2, 2611ss. Per il secondo: cf EO 2, 2568ss; cf anche G. Cereti, Per un'ecclesiologia ecumenica, EDB, Bologna 2003, 254-255. Per i dialoghi internazionali cattolici-luterani, cf M. Root, "Dialogo cattolici-luterani", in Dizionario del movimento ecumenico, EDB, Bologna 1994, 365-367. Testo

  58. "Quest'ultima dichiarazione rappresenta l'accordo cattolico-luterano più avanzato sul tema dell'episcopato", M. Root, "Dialogo cattolici-luterani", in ibid 367 (l'A. presenta anche una breve rassegna dei temi trattati nel dialogo cattolico-luterano in Svezia). Testo

  59. Ho ripreso questo testo come riportato da H. Meyer, art cit, 38 (nota 36). Testo

  60. " ... se il papa accettava di sottomettersi alla parola di Dio, poteva essere riconosciuto e il farlo non comportava l'accettazione di dottrine non cristiane" (R 62); cf anche H. Meyer, art cit, 27-29 (ove si richiamano i testi salienti nei quali Lutero mostra questa apertura condizionata). Si veda il quarto articolo di Smalcalda (1537) fortemente pessimista sulla possibilità di un papato rinnovato secondo le esigenze della Riforma, in R. Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, EDB, Bologna 1996, 342-346. Per la posizione più aperta e mitigata di Melantone, cf H. Meyer, art cit, 29. Testo

  61. H. Meyer distingue nel primato papale una necessità per la salvezza ormai non più proponibile e una necessità ecclesiale che, per quanto rappresenti una rivendicazione più moderata rispetto alla precedente, risulterebbe comunque difficilmente accettabile da parte luterana. Si dovrebbe allora convergere verso una necessità intesa come necessità per l'unità della chiesa e non come necessità per essere chiesa? La prima alternativa pare potersi meglio coniugare con lo specifico della funzione petrina in quanto riferita all'unità della chiesa universale (il piano non quello dell' esse ma del bene esse). Cf H. Meyer, art cit, 40. Testo

  62. Analoga posizione si è riscontrata sia da parte valdese come anglicana. Testo

  63. Per il testo del documento seguiamo la trad. it. dall'inglese: Chiesa presbiteriana (usa), "Il successore di Pietro. Un documento per la discussione" (2000), in Il Regno Documenti XLVI (2001/21) 708-718 (citiamo il testo con la sigla S seguita dall'indicazione del n. di pagina). Per alcune notizie storiche e per un quadro sintetico dei principi dottrinali, cf: Johann-Adam-Mœhler-Institut (ed.), Le chiese cristiane nel duemila, 200-207. 213-216. 226-229; M. H. Cressey, "Chiese riformate/presbiteriane", in Dizionario del movimento ecumenico, 181-183. Per gli sviluppi del dialogo ecumenico, cf: A. Blancy, "Dialogo cattolici-riformati", in Dizionario del movimento ecumenico, 374-376; Johann-Adam-Mœhler-Institut (ed.), Le chiese cristiane nel duemila, 250-253. Per l'ordinamento ecclesiale di tipo presbiteriano, cf. E. Glenn Hinson, "Ordinamento ecclesiale", in Dizionario del movimento ecumenico, 800. Per un contributo teologico al dibattito ecumenico sul ministero petrino, cf W. Pannenberg, "Riflessioni evangeliche sul ministero del vescovo di Roma", in P. Hünermann (a cura di), Papato ed ecumenismo. Il ministero petrino al servizio dell'unità, EDB, Bologna 1999, 39-53. Testo

  64. R. Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, EDB, Bologna 1996, 979 (cf anche ibid 978). Cf anche introduzione, ibid 938. Testo

  65. Per le fasi di questo dialogo, cf A. Blancy, "Dialogo cattolici-riformati", in Dizionario del movimento ecumenico, 374-375. Per il rapporto finale della seconda fase "Verso una comprensione comune della chiesa", cf EO 3, 961ss. (in particolare per la discussione sul vescovo di Roma e sul suo ministero per l'unità dell'intera chiesa, ibid 1018-1020). Testo

  66. Solo l'Assemblea generale può parlare con piena autorità a nome della Chiesa presbiteriana, cf S 709. Testo

  67. Cf S 710. Cf anche ibid 709 (si presenta una scheda riassuntiva dei documenti costituzionali della Chiesa presbiteriana tra i quali innanzitutto le Scritture). Testo

  68. Congregazione per la dottrina della fede, "Considerazioni Nell'attuale momento circa "Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa"" (31 ottobre 1998), in EV 17, EDB, Bologna 2000, 1205-1206 (§ 12). Testo