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Pier Damiani e il problema dell'onnipotenza divina

di Gabriele Ciceroni (29 marzo 2006)

1. Pier Damiani: vita e contesto storico

La figura di Pier Damiani è stata fino ad oggi prevalentemente analizzata sotto il profilo storico per la grande importanza che egli ha avuto nel preparare la riforma ecclesiastica, e per le sue opinioni religiose e politiche nel rapporto tra potere temporale e spirituale. La sua opera è un continuo incitamento e incoraggiamento verso l'ascesi e il perfezionamento di se stessi: seguendo le tracce di S. Romualdo (952-1027), maestro spirituale di cui fu il biografo, il suo intento è quello di trasformare tutto il mondo in un eremo.1 Queste ottiche, che stanno alla base degli studi intorno al Damiani, non esauriscono tuttavia gli interessi che possono scaturire da un'attenta analisi del personaggio.

Di un Pier Damiani filosofo quasi nessuno ha affrontato lo studio. E in effetti non è possibile riscontrare nella sua opera un vero e proprio sistema razionale, egli non si occupa dei problemi filosofici più importanti del suo tempo (libertà umana e predestinazione divina, questione degli universali, problemi trinitari, ecc.), tuttavia è possibile ricavare dai suoi scritti pensieri e posizioni concettuali che gli permettono di essere inserito a pieno titolo nella storia della filosofia. La ricerca qui esposta è mossa da questo intento.

Non sembra inopportuno accennare alle vicende della sua vita, che permettono di conoscerne la statura personale e la proiezione di essa nel contesto storico. L'esistenza di Pier Damiani (1007-1072) è caratterizzata da quattro fasi principali che si possono ricostruire, benché in maniera frammentaria, in base ai dati autobiografici presenti in numerose lettere e alla biografia che del Nostro fa Giovanni da Lodi.2

1.1 La formazione

Nasce a Ravenna nel 1007 da una famiglia nobile ma ormai in decadenza. Secondo il racconto del lodigiano, la madre lo aveva abbandonato ed egli viene preso in affido dalla concubina di un prete.3 In seguito la madre lo riprende con sé dandogli tutto l'affetto che gli era mancato, ma ben presto la donna muore. Egli cade nelle mani di un suo fratello che lo tratta crudelmente, ma un altro fratello si impietosisce, lo adotta e gli fa da padre: si chiamava Damiano e da quel momento in poi sembra che Pietro unisse al suo nome quello del fratello.

Si dedica allo studio delle arti liberali nella città di Faenza dove dal 1022 al 1025 segue gli insegnamenti del grammatico Rainero. Successivamente apprende a Parma le discipline del Trivium e del Quadrivium, ed è forse proprio qui che ha come maestri due personaggi di grande interesse: Mainfredo e Ivo di Chartres.

Viene ordinato sacerdote da un Vescovo simoniaco, Gebeardo di Ravenna, ma sosterrà sempre che ciò non pregiudica la purezza di coscienza dell'ordinato: anche se il Vescovo è da deplorare, l'ordinazione rimane valida. Questo tema fu oggetto di continui dibattiti all'epoca; molti ecclesiastici, compreso il cardinale Umberto di Silva Candida, sostenevano l'invalidità delle ordinazioni conferite da Vescovi simoniaci. Contro questi ecclesiastici rigoristi nel 1051 il Damiani scriverà la sua opera dogmatica più importante, il Liber Gratissimus.4 Nelle scuole di arti liberali apprende la lingua latina e ha modo di estendere la propria cultura. Nei suoi scritti farà largo uso della dialettica appresa durante gli studi nel secolo, anche se a parole respinge la cultura profana.

1.2 Il priorato a Fonte Avellana

La seconda fase della vita è forse per lui la più importante: intorno al 1035, a ventotto anni, entra nel monastero di Fonte Avellana, situato alle pendici del monte Catria, tra le Marche e l'Umbria. Una personalità proveniente dagli studi secolari come quella di Damiani subito viene messa in risalto in una comunità religiosamente fervente ma di scarsa cultura. La sua fama comincia a diffondersi e l'abate di Pomposa lo chiama per istruire i monaci della sua comunità. Rimane per due anni in quel monastero e per qualche tempo in quello di S. Vincenzo al Furlo.

Attorno al 1043 viene nominato priore di Fonte Avellana e da questo momento ha inizio la sua vasta produzione letteraria. Pur essendo vissuto in molti monasteri, il suo interesse è senza dubbio rivolto prevalentemente alla vita eremitica: il suo primo scritto è infatti la Vita Sancti Romualdi, dedicata al grande eremita ravennate di cui si mette alla scuola.

Durante il periodo del priorato si dedica al consolidamento e alla fondazione di vari monasteri, ma soprattutto continua ad esortare monaci ed eremiti ad una vita austera e allo stesso tempo amorevole, che mai venga meno all'impegno di cui si sono fatti carico. Compila una vera e propria regola eremitica, e nell'opuscolo chiamato Dominus Vobiscum si abbandona a una vibrante lode della vita della cella.5

Pier Damiani tende a conciliare sempre in sé i due ideali del ritiro nella vita solitaria e dell'impegno nella Chiesa, anche se spesso soffrirà per l'intrusione di questo secondo aspetto nel primo. Anche in questa fase della sua vita il Nostro si impegna a mettere la sua penna a servizio della Chiesa, mantenendo rapporti con vari Vescovi, con Ildebrando da Soana e perfino con i Papi. Scrive lettere contro la simonia, il nicolaismo, l'incontinenza, l'omosessualità degli ecclesiastici (celebre su questo tema è il Liber Gomorrhianus) e l'ignoranza del clero, specie in questioni liturgiche.6

Nel 1046 Enrico III sale al trono imperiale: depone nel sinodo di Sutri Silvestro III e Gregorio VI, eleggendo al soglio pontificio Clemente II. L'imperatore applica una politica di riforma ecclesiastica antisimoniaca e antinicolaita, e questo fa cambiare atteggiamento al Damiani nei confronti del potere imperiale. Negli scritti giovanili egli aveva sempre appoggiato l'ideale romualdino che proponeva una divisione netta tra spiritualità e potere politico. Da questo momento, al contrario, l'avellanita vede Enrico III come incaricato da Dio al fine di porre ordine all'interno della Chiesa. Anche per questo l'atteggiamento di Pier Damiani sarà considerato da molti storici «conciliarista», cioè alla ricerca di un equilibrio tra potere spirituale e temporale per il bene della Chiesa, che allora era rappresentante dell'intera società.

Il priore è ormai considerato uno degli ecclesiastici di maggior spicco del suo tempo, specie per le sue doti di mediatore e consigliere, tanto che l'imperatore Enrico III gli impone di andare ad aiutare Clemente II; più tardi, nel 1049, avrebbe incontrato Leone IX al Concilio di Roma. Per questo raro carisma nel 1057 viene nominato vescovo di Ostia e cardinale della curia romana dal nuovo papa Stefano IX.

1.3 L'episcopato e l'impegno nel mondo

Ha inizio la terza fase della sua esistenza. L'avellanita è costretto ad abbandonare l'amato eremo per dedicarsi all'impegno nel mondo, e vive questo distacco con grande sofferenza. Appena un anno dopo la sua nomina, scrive al papa e ad Ildebrando di Soana per rinunciare all'episcopato, ma in cambio ottiene la medesima carica anche nella diocesi di Gubbio. Pur di non portare avanti il suo impegno dichiara di esser disposto a tutto, anche ad andare in carcere. Ma Ildebrando, consigliere dei vari papi che si avvicendavano in rapida successione, lo stima, vede nella sua persona un grande aiuto per la curia romana e spinge alla riconferma. Pur contro la propria indole, ma per amore della christianitas, il Damiani non perde tempo e si dedica senza risparmio all'impegno nelle questioni della Chiesa militante.

Stefano IX muore nel 1057 e i Tuscolani, famiglia che considerava la curia un proprio feudo, eleggono Benedetto X. Ma Stefano aveva ordinato che non si eleggesse nessuno dopo di lui finché non fosse tornato Ildebrando dalla missione in Germania presso la corte imperiale. Quando questo accade, Benedetto X viene considerato invalido e Pier Damiani insieme con Ildebrando propone un candidato che in seguito verrà eletto: Niccolò II (1059-1061). Questi riunisce a Roma un sinodo nel 1059 che promuove interamente il programma della riforma, cioè di quel movimento che dal 1012 al 1122 tenta di eliminare i mali che affliggevano la Chiesa, come la simonia e il nicolaismo, e di cui il Nostro è uno dei maggiori esponenti. È da questo sinodo in poi che l'elezione papale viene riservata ai cardinali.

Ancora nel 1059 è inviato a Milano con il vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio (il futuro Alessandro II), per la questione della pataria: si erano verificati scontri tra l'alto clero milanese antiriformatore e il popolo, che insieme al basso clero si era organizzato in un vasto movimento di opposizione. Il Damiani riesce a far accettare al clero milanese, benché riottoso, le disposizioni riformatrici della curia romana.

Alla morte di Niccolò II si presenta di nuovo il problema della successione: si contrappongono due papi, uno nominato dall'aristocrazia romana (Cadalo, con il nome di Onorio II), l'altro dal partito riformatore (Alessandro II). A causa degli interventi armati di Cadalo tutti i cardinali fuggono da Roma e si attende una scelta tra i due da parte dell'imperatore: ma Enrico IV era troppo giovane e in sua vece era reggente la madre Agnese (con la quale l'avellanita terrà sempre stretti contatti e di cui sarà padre spirituale quando ella entrerà in monastero a Roma). Attraverso un colpo di stato il vescovo di Colonia, Annone, assume la reggenza, fa un'inchiesta e infine decide che il papa dovrà essere Alessandro II (anche grazie a una lettera inviata ad Annone dal nostro monaco, la Disceptatio synodalis, che lo spinse ad optare per il provato vescovo Anselmo da Baggio7). In questo difficile scontro Pier Damiani scrive lettere a Cadalo, il quale aveva anche marciato su Roma con il suo esercito, usando toni duri e minacciosi: «Come un Vesuvio tu non cessi di vomitare fiamme d'inferno... Il tuo denaro tenta di distruggere i fondamenti della fede cristiana e di tutta la santa Chiesa». Colpendo la figura di Cadalo intende abbattere tutti gli abusi che la riforma vuole sopprimere.

Non solo, ma da buon diplomatico mantiene vivi i rapporti con tutti i personaggi più qualificati del tempo: scrive lettere a Niccolò II, ai cardinali lateranensi, al marchese Ranieri, al duca Goffredo di Toscana, a Ildebrando, e diviene il consigliere personale di Alessandro II. Fedele a se stesso, durante tutti i suoi impegni come legato papale non trascura mai quel monachesimo che considerava la via più sublime e diretta per giungere ai beni celesti. E anzi proprio in questo periodo inizia la sua corrispondenza con i monaci di Montecassino che manterrà con appassionata costanza fino al termine della sua vita.

Damiani si sente il rappresentante, il difensore e il garante della disciplina monastica. Tiene molto anche a chiarire i rapporti tra monastero ed eremo, che spesso anche fisicamente erano posti l'uno vicino all'altro: l'eremita si discosta dalla regola monastica benedettina, in quanto con la propria vita la rende più radicale, ma non la nega. Spesso si sofferma nel denunciare le mollezze del monastero confrontandole con la durezza della vita eremitica, non perché Benedetto avesse steso una regola poco efficace, bensì perché i monasteri si stavano abbandonando sempre più alla corruzione e al lassismo. Esigente e rigoroso nel promuovere penitenze e discipline per sé e per i propri monaci, tiene tuttavia a ricordare che non è stato il primo diffusore della flagellazione volontaria, già presente dall'VIII secolo.

1.4 Ritorno all'eremo: le ultime missioni e la morte

Quando nel 1061 Alessandro II (Anselmo da Baggio) sale al soglio pontificio, la vita del monaco Pietro peccatore, come amava definirsi nelle sue lettere, subisce una nuova e definitiva svolta: il papa, buon amico e confidente del Ravennate, nel 1063 gli permette di tornare a Fonte Avellana togliendogli il titolo di «conte di Ostia», e nel 1067 lo libera dalla carica episcopale. Ritornato nel suo caro eremo, non cessa di intessere rapporti epistolari, e si batte strenuamente ancora per la riforma ecclesiastica, contro la simonia, l'incontinenza e il nicolaismo. Ma non basteranno i suoi interventi scritti dall'interno del monastero: dovrà recarsi nuovamente, sotto forti spinte di Ildebrando, prima a Mantova ad una riunione di Vescovi, a Roma per un sinodo, e soprattutto a Cluny, la missione più importante che dovrà affrontare in questo periodo.

Per evitare l'ingerenza simoniaca dei laici, i monaci avevano posto quel cenobio sotto il governo diretto della Santa Sede, suscitando l'opposizione dei vescovi di Mâcon, gelosi della propria giurisdizione sul monastero. Il vescovo Drogone attacca addirittura il complesso monastico con forze armate, ma viene respinto. Ugo, abate di Cluny, porta il caso al sinodo di Roma del 1063: in quella sede viene stabilito che Pier Damiani sarà il legato pontificio inviato in Francia per risolvere la questione.

Egli parte con soli tre compagni e poco dopo l'arrivo stabilisce con Ugo di riunire un concilio a Chalon. Qui tredici vescovi (compreso Drogone) poco favorevoli a Cluny, e alla riforma di cui quel monastero era il baluardo, furono convinti da Damiani a sottoscrivere un documento che riconosceva i diritti cluniacensi. Il nostro legato può tornare in Italia da trionfatore, ma soprattutto trasformato nello spirito dall'esempio dei monaci di Cluny, di cui avrà sempre stima e con i quali manterrà fino alla morte contatti epistolari.

Gli ultimi viaggi di Pier Damiani sono molto impegnativi. Nel 1066 si dovrà recare a Firenze per difendere il vescovo locale accusato di simonia dai monaci di Vallombrosa. Successivamente dovrà affrontare una situazione molto più gravosa: la conquista dei Normanni a sud stava assumendo atteggiamenti politici preoccupanti e c'era bisogno che l'imperatore Enrico IV intervenisse a favore di Roma e del papato. Enrico ha 19 anni, da uno è sposato con Berta di Torino, ma minaccia di ripudiarla. Se l'imperatore facesse una simile azione romperebbe il legame con Dio, col papato e comprometterebbe la sua incoronazione. Nel 1069 Pier Damiani, visti i suoi ottimi rapporti con la madre dell'imperatore, Agnese, e con Annone, viene inviato in Germania dove mediante argomenti morali e politici riesce a convincere Enrico IV, il quale decide di non divorziare e anzi avrà un figlio da Berta.

L'ultimo viaggio dell'eremita, dopo essersi recato a Lucca e a Montecassino, sarà proprio a Ravenna, sua città natale. Qui il vescovo Enrico sosteneva Cadalo e per questo era stato scomunicato insieme con tutta la sua diocesi. Appena Enrico muore, Damiani si reca nella città per togliere la scomunica affinché il popolo possa accedere nuovamente ai sacramenti.

Sulla via del ritorno, nell'abbazia di Santa Maria a Faenza, si ammala e muore. È il 22 febbraio 1072. I faentini, nel timore che i suoi eremiti vengano a prenderne il corpo, dopo immediati e splendidi funerali, lo seppelliscono nella medesima abbazia. Le sue spoglie giacciono attualmente nella cappella a lui dedicata del Duomo di Faenza. Pier Damiani viene subito considerato santo nella stima del popolo, ma il suo culto è riconosciuto ufficialmente il 1º ottobre del 1828, quando Leone XII lo proclama anche dottore della chiesa.

2. Il pensiero e il contesto filosofico

Si è già accennato al fatto che Pier Damiani non può essere considerato un filosofo di professione. Egli rientra in quella grande tradizione teologica che affronta il pensiero cristiano partendo dall'esperienza e dalla storia. Attinge a piene mani alla concretezza della vita, e non pone troppa attenzione a problematiche ontologiche, che a lui sembrano astratte e eccessivamente slegate dalla quotidianità dell'esistenza. Un'eccezione a questo stile sempre incentrato su esperienze vissute lo si può trovare nella lettera 119, che contiene il trattato conosciuto come De divina omnipotentia: in quest'opera le opinioni dell'autore risultano legate in maniera più specifica al campo filosofico.

Qui anzitutto tenteremo di presentare un panorama più ampio del contesto del pensiero filosofico entro il quale si inserisce quello di Damiani. Gli scritti di Pier Damiani sono davvero numerosi. Egli compone 180 lettere, dirette a papi, imperatori, cardinali, vescovi, principi, parenti, discepoli, e altri ancora; inoltre sono annoverati nella sua opera 76 sermoni, varie vite di santi, preghiere e carmi. La vita e il pensiero del monaco devono aver inciso profondamente negli animi dei contemporanei e in quelli dei posteri se Dante inserisce la sua figura nel XXI canto del Paradiso facendogli pronunciare queste parole:

Tra' due liti d'Italia surgon sassi,
e non molto distanti alla tua patria,
tanto che' troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consacrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria".
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe' sì fermo,
che pur con cibi di liquor d'ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne' pensier contemplativi.8

L'avellanita è stato spesso visto dalla storiografia moderna come un personaggio austero, che spesso si abbandona all'invettiva. A volte viene presentato all'immaginario collettivo come un feroce antidialettico, privo di conoscenze e negatore del sapere. Ma tutto questo lo può dire soltanto chi non si è soffermato abbastanza sull'intera e copiosa opera del Damiani. Le sue parole fanno infatti continuamente richiamo alle opere classiche della cultura scolastica. Ma in effetti non è poi difficile cadere nel tranello in cui sono spesso incorsi i diversi commentatori. La figura del Ravennate è infatti divisa da dilemmi e contraddizioni, tanto che non è facile comprendere come questo personaggio possa far coesistere in se stesso tratti così diversi. Come fa notare Leclercq9 lo stesso Francesco Petrarca, che aveva molta stima del Nostro, notò che i suoi scritti erano continuamente divisi tra la vita eremitica e l'impegno nel mondo, tra la solitudine e l'attività ecclesiastica, tra la pace e il rumore.10

Probabilmente ciò che più evidenzia questa duplicità di atteggiamento si può riscontrare nei confronti dell'uso della dialettica. Il monaco-vescovo continuamente deplora coloro che si nutrono soltanto dell'arte del parlare e si dedicano a cavilli retorici o filosofici; allo stesso tempo, però, per confutarli utilizza il loro stesso metodo, adottando un linguaggio finissimo e degno delle scuole di cui era stato discepolo nel secolo. L'equivoca questione è stata brillantemente esposta e risolta da Paolo Brezzi nel suo volume di commento al De divina omnipotentia:

Occorre tenere presente il significato polemico e il valore autobiografico dell'opera di Pier Damiani.

Poiché invece nessuno studioso ha seguito tale metodo, non ci si è resi ragione della violenza di molte frasi e non si è avvertito il tormento personale di cui quelle pagine sono il frutto. Inoltre il problema è stato male impostato per l'addietro stabilendo un aut-aut che era fuori della mentalità del Damiani: la dialettica non ha valore, anzi è dannosa; la filosofia è da condannare perché va contro la teologia. Per lui invece una cosa sola aveva importanza, il trionfo della fede, il progresso spirituale; orbene, è certo che per queste cose non occorre tanto lo studio quanto la preghiera, non soccorre la scienza ma la contemplazione [...]

Che cosa sono ancora, per un asceta come Damiani, le conquiste della scienza se non vanità, le ricchezze del pensiero se non miseria? Ma questo solo se si usa il termine di paragone dell'amor divino. Che se poi le arti umane non si oppongono a quelle divine, ma le aiutano e si mettono ai loro servizi, come è dovere dell'inferiore verso il superiore, allora esse possono essere ben accolte e costituire utili sussidi.11

Il saggio del Brezzi ci consente di avere una visione più completa dell'autore. Egli non nega l'utilità della dialettica e delle arti umane, ma se queste, per il cattivo uso che se ne fa, diventano dannose o fine a se stesse, e non si rivolgono più all'aiuto della teologia e della vita spirituale, allora si rivelano pericolose. Per capire il valore di tali affermazioni occorre rivolgere lo sguardo al contesto culturale e filosofico in cui Damiani si muoveva.

1.1 Anselmo da Besate e Berengario di Tours

Al suo tempo ormai lo studio del trivium e del quadrivium era divenuto consuetudinario. Perfino all'interno della Chiesa alcuni chierici si dedicavano all'esercizio della sofistica e della dialettica in modo così entusiasta che spesso lasciavano in secondo piano la spiritualità e la teologia. In molte occasioni il monaco si lamenta perché nota che le sue lettere sono stimate e tenute in conto non tanto per i contenuti spirituali ma piuttosto perché suscitano ammirazione per lo stile, la finezza retorica e la dialettica. Alcuni perfino si arrovellavano per comprendere se Damiani dimostrasse le verità che metteva per iscritto con sillogismi ipotetici o categorici: questo non significava altro che trascurare il dogma in favore della deduzione sillogistica, e tale atteggiamento porterà alcuni a conclusioni davvero pericolose, attirando la violenta reazione dei teologi.

In questo quadro è già possibile notare il carattere fondamentale dello scontro tra dialettici ed antidialettici. Nella prima categoria possiamo inserire a pieno titolo due personaggi che incarnano perfettamente l'atteggiamento dialettico: essi sono Anselmo da Besate e Berengario di Tours.

Anselmo, detto il peripatetico, terminati gli studi nella città di Parma, effettuò un vasto giro per l'Europa intera, affrontando discussioni e presentando argomentazioni retoriche nelle varie città in cui si trovava a passare. Scrive un'opera il cui titolo fa già intuire i suoi metodi di argomentazione: la Rhetorimachia.12 Essa consiste in un insieme di procedimenti puramente retorici e formali, con cui l'autore tenta di persuadere chiunque gli si ponga dinanzi. L'eccessivo uso del principio di contraddizione lo porta a fare ragionamenti assurdi e sofistici. Scorrendo questo opuscolo, di carattere puerile anche per un profano, è possibile comprendere tutta la violenza con cui i teologi e gli antidialettici si scagliavano contro personaggi della specie di Anselmo.

Berengario di Tours lascia un'impronta ancor più profonda negli animi del suo tempo: egli è discepolo di Fulberto (a sua volta allievo di Gerberto d'Aurillac), il grande capostipite della scuola di Chartres che con il suo insegnamento l'aveva resa celebre tra la fine del X e l'inizio dell'XI secolo.

Mentre Fulberto era solito insegnare che la ragione va messa in secondo piano rispetto ai precetti della rivelazione divina, Berengario procede nella direzione opposta. Egli traduce i dogmi di fede in termini di ragione, e suscita scandalo quando, prendendo a prestito l'autorità di un trattato che allora si attribuiva a Giovanni Scoto Eriugena, nega la presenza reale del Cristo nell'Eucarestia, e di conseguenza respinge il concetto di transustanziazione. Nel De sacra coena porta le seguenti argomentazioni: tutto ciò che esiste è composto da materia e forma, da sostanza e accidenti. Se la sostanza del pane scomparisse al momento della consacrazione, non sussisterebbero nemmeno gli accidenti del pane. Ma poiché questi permangono significa che ne permane la sostanza stessa: dunque non c'è annientamento della forma del pane, né avviene la generazione del corpo di Cristo. Questo comincerebbe a prendere esistenza, ma soltanto come aggiunta alla forma del pane che sussiste. A conclusione Berengario sostiene che mantenendosi gli accidenti del pane e del vino anche dopo la consacrazione, deve pur conservarsene la sostanza, a discapito della presenza di Cristo.13

Berengario ritiene che la dialettica sia il mezzo di ricerca più efficace per un'indagine sulla realtà. Egli quasi è tentato di identificare la dialettica con la ragione, e poiché è proprio nella ragione che consiste la somiglianza dell'uomo con Dio, non utilizzarla significherebbe abdicare alla propria dignità e superiorità nei confronti delle altre creature. Inoltre sarebbe una rinuncia all'immagine di Dio che risiede in ogni uomo.

1.2 Gli Antidialettici

Non è difficile immaginare che queste posizioni assai audaci suscitassero dure reazioni contro la dialettica, la filosofia e più in generale contro le arti liberali, e che varie personalità, con a capo Pier Damiani, si impegnassero a scoraggiare gli spiriti dalla cultura secolare, in modo particolare dalla filosofia. Questa, agli occhi degli antidialettici, si presentava come l'ultimo baluardo della paganità che doveva essere sconfitto, in un'epoca tutta incentrata nell'acquisizione della salvezza. Molti sono i teologi impegnati nel corso dell'XI secolo ad ostacolare l'ambizione delle scienze secolari fine a se stesse, e ciò rende meglio comprensibile il clima culturale in cui Damiani svolgeva la propria attività.

Il vescovo di Czanad, Gerardo, sostiene che «quelli che sono discepoli di Cristo non hanno bisogno di dottrine estranee». Egli, avendo studiato le arti liberali in Italia e in Francia, non respinge la scienza in sé, ma deplora coloro che ritengono di diventare sapienti attraverso di essa e non fanno che diventare stolti praticandola. In modo particolare nella sua Deliberatio supra hymnum trium puerorum ad Isingrinum liberalem giudica negativamente l'applicazione della filosofia alla teologia, che non necessita di aiuti esterni.

Una simile linea di pensiero è rintracciabile in Manegoldo di Lautenbach. Egli scrive un Opusculum contra Wolfelmum Coloniensem, col quale aveva avuto una discussione. Wolfelmo ritiene che Macrobio, nel Commento al «Somnium Scipionis» di Cicerone, abbia introdotto molti punti compatibili con la teologia cristiana. Prontamente Manegoldo risponde, sostenendo che non è possibile posporre la teologia alla dialettica, e che i filosofi antichi sono inconciliabili col Cristo. Occorre perciò tenersi alla larga dagli studi secolari se questi si oppongono alla verità delle Sacre Scritture.

Otloh di Saint-Emmeran non fa che confermare questa tendenza di pensiero. La sua diffidenza nei confronti della filosofia e più in generale di tutto ciò che non è prettamente teologico è significativa. Nel Liber de temptationibus suis, varia fortuna et scriptis, di carattere autobiografico, ci informa che nel corso del suo passato egli aveva nutrito dubbi sulle verità rivelate, sulla Scrittura e sull'esistenza di Dio, perdendo in tal modo la pace interiore; ma ritrovata la luce della fede, Otloh rinnega tali perplessità e segue l'unico maestro, Cristo. Ora in lui non si trova più spazio per Platone, Aristotele o Cicerone, e nutre sospetti perfino a riguardo del cristiano Boezio. Riconosce che la filosofia si può rivelare utile e formativa per un laico, ma non per un monaco o un ecclesiastico.

Occorre non travisare: la dialettica era riconosciuta come una disciplina molto utile già ai tempi dei Padri della Chiesa; più tardi fu inserita nei programmi della riforma scolastica di età carolingia ed Alcuino scrisse addirittura un De dialectica. Anche Gerberto d'Aurillac (il futuro papa Silvestro II) e le scuole monastiche del suo tempo la tennero in grande conto. Le opposizioni erano più che altro alimentate dal fatto che, non essendosi ancora costituito un insegnamento teologico sistematico, avvenivano sconfinamenti da parte dei dialettici che portavano a non distinguere chiaramente i diversi campi di azione. Essi rischiavano di essere pericolosi non solo per gli avversari, ma per se stessi, spesso vittime delle loro stesse trappole. In particolare Damiani è molto duro contro il suo maestro Ivo (discepolo di Fulberto di Chartres), che non sappiamo bene come abbia conosciuto, e contro Gualtiero di Besançon, compagno di Ivo che rimase ucciso da un gruppo di invidiosi mentre stava per venire in Italia a fondare una scuola.

In realtà pochissimi sono i nomi dei dialettici presenti negli scritti a noi pervenuti. I loro nemici usano nei loro confronti titoli insolenti ma non li identificano mai. Questo ci fa pensare che non ci siano state davvero tra i dialettici figure rilevanti. Più che altro le critiche mosse a loro riguardo erano inviti dei teologi a trascorrere un'esistenza permeata da fede e carità.

In tale contesto Pier Damiani fa tesoro di ciò che ha appreso in gioventù presso le scuole di arti liberali. Egli confuta i propri avversari dialettici con le loro stesse armi, dimostrando con acuti ragionamenti i pericoli della loro arte retorica, anche se in questa materia sembra contraddire se stesso in quanto spesso aveva sostenuto che i monaci, una volta intrapresa la vita religiosa, non dovevano volgersi più indietro verso il loro passato trascorso nel secolo.

Nel De sancta simplicitate, rivolgendosi a un giovane monaco che rimpiangeva di aver abbandonato gli studi mondani, egli scrive:

Queste sono le prime parole del serpente alla donna: «Dio sa che in qualunque giorno ne mangerete (senza dubbio del pomo) i vostri occhi si apriranno, e sarete come dèi, poiché conoscerete il bene e il male». Eccoti, fratello: tu vuoi imparar la grammatica? Impara a declinare Dio al plurale. Poiché questo scaltrito maestro, nel momento stesso che getta le basi della nuova arte del disobbedire, introduce altresì nel mondo un'inaudita regola di declinazione, insegnando ad onorar molti dèi. Egli che s'adoprava a introdurvi le torme di tutti i vizi, mise alla loro testa, come condottiero di un esercito, la cupidigia del sapere... Qual meraviglia pertanto se l'antico avversario vibra ancora contro un figlio d'Eva quello stesso dardo che aveva scagliato nel petto della stessa Eva?14

L'opposizione tra scienze umane e divine è tuttavia superabile: queste parlano linguaggi diversi, ed è un errore tradurre in termini di logica razionale le espressioni dell'onnipotente volontà divina. Se possiamo comprendere la sua diffidenza nei confronti della dialettica, in quanto i dogmi di fede rischiano di essere prigionieri di cavillosi procedimenti dialettici, d'altra parte siamo consapevoli che lui stesso non disdegna l'uso della dialettica, e non nega, come nel De vera felicitate ac sapientia, che sia opportuna una buona base di cultura profana per chi vive nel secolo, purché questa rimanga entro i limiti che le competono.15 In fondo, egli sostiene, gli argomenti filosofici e retorici sono frutto dell'intelligenza, che è un dono di Dio. Il problema si presenta quando le regole delle scienze umane si pongono in contrasto con la rivelazione. Per questo il nostro priore sconsiglia ai propri monaci di occuparsi di tali questioni: esse sono secondarie per chi dedica la vita a seguire le verità celesti.

La filosofia, a suo giudizio, verte più che altro su questioni verbali e formali, e non riesce a cogliere l'essenza della realtà, la quale può essere raggiunta solo mediante l'approccio religioso. Celebri in questo senso sono le parole che ci lascia nel Dominus Vobiscum:

Non mi interessa Platone che scruta i segreti della natura; non tengo in alcun conto Pitagora che determina la misura delle orbite dei pianeti, calcola i movimenti degli astri e distingue in base al radiante tutti i climi della sfera terrestre. Rifuggo del pari da Euclide, curvo a studiare le complicate figure della sua geometria. Evito senza distinzione tutti i retori con i loro colori ed i loro entimemi; reputo indegni di tale questione tutti i dialettici, con i loro sillogismi e sofismi.16

Queste frasi, se lette nel contesto, non assumono quel valore di disprezzo che spesso si vuol mettere in evidenza. Esse si pongono nella linea di pensiero tracciata da S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi: «Dov'è il sapiente? Dov'è il letterato? Dove il sofista di questo secolo? Dacché, infatti, il mondo non seppe con la sua saggezza conoscere Dio nelle manifestazioni della sapienza divina, Dio si compiacque di salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione».17

Questo passo ripreso da Damiani respinge la sapientia mundi per esaltare la simplicitas Christi: proprio grazie a questa l'Apostolo, che conosceva solo Cristo e questi crocifisso, riuscì a superare i grandi sapienti di Atene.

Non è dunque possibile ridurre la teologia a filosofia, la fede ad elucubrazioni umane: Dio non procede con argomenti sillogistici; la razionalità umana, fatta di procedimenti logici, è spazzata via dal fatto che Dio, avendo creato la realtà, è anche in grado di sovvertirne l'ordine.

A buon titolo Ronca colloca Pier Damiani all'interno della tradizione patristica. Il monaco propone una visione di subordinazionismo gerarchico tra scienza profana e verità rivelata che risalirebbe al De Ordine18 di Agostino, ed avrebbe poi trovato consensi in molti pensatori medievali.19

In effetti Damiani oltre alla Scrittura, che è la sua principale fonte e di cui fa continua menzione, sembra seguire le orme di diversi pensatori a lui precedenti, in modo particolare di Agostino e dello Pseudo Dionigi. Il primo suggerisce al nostro autore spunti sia nel campo filosofico sia in quello della vita cristiana, il secondo offre idee fondamentali sull'argomento dell'onnipotenza divina, tema del principale scritto filosofico di Pier Damiani, qui presentato di seguito.

3. De divina omnipotentia

3.1 Contesto e stile letterario

L'opuscolo che vede maggiormente impegnato Pier Damiani nel campo filosofico è conosciuto sotto il nome di De divina omnipotentia. La copia più antica pervenuta fino ai nostri giorni porta però un titolo molto più ampio: «Disputa sulla questione in cui ci si chiede in che modo Dio, se è onnipotente, può far sì che, ciò che è già accaduto, non sia accaduto».20

Scritto dopo che il Ravennate era stato deposto dalla carica episcopale, non è difficile cogliere in lui la gioia di essere stato liberato da tale peso: «Io, pertanto, avendo rinunziato all'incarico episcopale, provo la gioia di aver raggiunto l'approdo su una spiaggia sicura». In base a tale affermazione la datazione dell'opuscolo, per il Cantin, si può fissare nella primavera o nell'estate del 1067, dopo la visita nell'autunno del 1066 al monastero di Montecassino, dove l'eremita era rimasto per circa venti giorni.21 Il Lucchesi invece ritiene più opportuno datare l'opera al 1065, poco dopo la prima visita del Nostro al suddetto monastero.22

Il componimento è presentato sotto forma di lettera diretta a Desiderio, abate di Montecassino (il futuro papa Vittore III), e ai suoi monaci. I due sono legati da una lunga e profonda amicizia, ma l'ultima volta in cui si erano trovati insieme nel cenobio benedettino non si erano intesi su una frase di S. Girolamo:

Un giorno, come senz'altro ricorderai, sedevamo a tavola entrambi, allorché, nel bel mezzo della conversazione, cadde la citazione di quella frase del beato Girolamo che dice: «Mi esprimerò con audacia: sebbene Dio possa ogni cosa, non potrebbe far ritornare vergine una donna che non lo è più. Senza dubbio ha il potere di liberarla dalla pena, ma non di restituirle la corona, una volta distrutta».

Mentre l'abate Desiderio aderisce all'affermazione del grande Padre della Chiesa riconoscendo che nemmeno Dio può restituire la verginità a una donna che l'abbia perduta, Pier Damiani contesta con fervore tale opinione, dimostrando che il criterio che egli segue non si basa tanto su chi abbia asserito una determinata questione, ma piuttosto sui contenuti della stessa:

Questo parere, dico, confesso che non è mai riuscito a piacermi; e infatti presto attenzione, non già a chi lo dice, ma a ciò che in esso si dice. Ora, senza dubbio, è una cosa, a me sembra, indecorosa, che a colui il quale può tutto si attribuisca con tanta leggerezza un'impossibilità.

L'avellanita, come si vede, considerava l'affermazione di Girolamo come una forte limitazione dell'onnipotenza divina. In questo modo, partendo da un episodio fortuito, Damiani trae occasione per affrontare un tema che era stato di fondamentale importanza nel passato e che sarebbe stato oggetto di molte discussioni anche in futuro. Tuttavia, essendo nato da un'occasione incidentale, il Ravennate non analizza in profondità tutti gli argomenti concernenti la questione dell'onnipotenza di Dio. Egli stesso ricorda che sta scrivendo una lettera e non un trattato filosofico: «In effetti, non ci siamo proposti di dare alla luce un libro, bensì una lettera».

Lo scopo dell'opuscolo consiste nel confutare, piuttosto che l'opinione del solo Desiderio, il pensiero di diversi filosofi che di recente avevano espresso idee pericolose. Lo scritto dunque può essere definito di carattere polemico, come emerge chiaramente dallo stile. Pur presentandosi sotto la veste formale del riassunto epistolare, esso si rivela come un esempio di disputatio che sembra riprendere certi atteggiamenti propri dell'antica diatriba. Damiani era molto esperto in tema di diritto, e addentrandosi nel testo, lo scenario evocato sembra essere quello di un tribunale, dinanzi al quale gli imputati non possono che essere i dialettici.

Di tutto il contesto filosofico e letterario spesso la critica non ha tenuto conto, ed estrapolando dal contesto singole frasi non ha colto che gratuite e insensate accuse proprio contro la cultura letteraria e filosofica. Invece, se si segue attentamente il testo, si può notare che a tutte le affermazioni del Nostro corrispondono pericolose teorie dialettiche dei suoi interlocutori. Non si può perciò analizzare il componimento senza tenerne conto.

Per quanto riguarda il carattere formale dell'opera, bisogna ricordare che l'autore stesso si propone di essere breve, in quanto si attiene al genere epistolare. Ma Cantin sostiene che sarebbe pura astrazione pretendere di determinare con estrema esattezza i generi a cui ricondurre questo scritto, ed è semmai una peculiarità del genere epistolare adottare le forme di tutti gli altri: infatti nello scritto vengono menzionate molte credenze tipiche dell'epoca riguardo oggetti, pietre, località, ecc., il tutto intrecciato con una serie di elementi autobiografici e di racconti a volte leggendari.

Il problema delle fonti a cui si ispira Pier Damiani, già accennato precedentemente, è particolarmente interessante. La Scrittura rimane sempre il punto di riferimento principale. È qui che il nostro monaco trova i più efficaci argomenti per dimostrare l'indubitabile onnipotenza divina. Abbiamo prima parlato dell'influenza di Agostino, il cui pensiero aveva del resto tanto permeato la filosofia occidentale che ormai si presentava come una forma di habitus per tutti coloro che si accingessero allo studio della teologia e della filosofia. In modo particolare Pier Damiani riprende dal vescovo di Ippona la concezione di male come privazione ontologica, come mancanza di esistenza.

Si pensa però che sia stato lo Pseudo-Dionigi Areopagita ad avere avuto la maggior influenza sulle idee che il Nostro esprime nel De divina omnipotentia. L'inventario dei codici posseduti dal monastero di Fonte Avellana nel XIII sec. non registra alcuna opera dello Pseudo Dionigi, ma Pier Damiani avrà sicuramente avuto modo di approfondirne il pensiero nei suoi studi presso le scuole di arti liberali, dal momento che da questo autore il Nostro ha tratto la maggior parte delle sue idee relative all'essenza e alla natura della divinità: «A lui è assolutamente coeterna la condizione di potere tutto, come anche di tutto conoscere, e di esistere sempre identico a se stesso. Così [...] egli abbraccia tutti i tempi, passato, presente e futuro, nel segreto della sua preveggenza». Egli è il luogo senza luogo, la coincidenza degli opposti, capace di abbracciare tutti i tempi e le creature; è l'infinito presente che regna in eterno e al di là.

Un ulteriore problema consiste nel metodo: come in tutti i suoi scritti egli fa continuo uso di citazioni tratte dalla Scrittura, e finisce per ricorrere in maniera forse eccessiva all'argomento di autorità, usando come postulati i diversi segni della potenza divina che formano invece argomento di dimostrazione.

Se l'esame formale del genere, dello stile e delle fonti risulta così complesso, ancor più lo saranno i contenuti.

3.2 L'onnipotenza divina

Nel prologo Pier Damiani, come abbiamo detto, rivela la gioia per esser stato liberato dal laccio dell'episcopato, e nutre sentimenti di compassione per Desiderio che si trova ancora esposto ai «flutti del mare in tempesta». Non è possibile infatti seguire l'ideale di vita monastica se si è immersi negli affari del secolo: «sbaglia, padre, sbaglia chi confida di potere, a un tempo, esser monaco e offrire alla curia i propri servigi». Bisogna dunque usare cautela nell'avventurarsi nelle cose esteriori, pena la rinuncia alla propria vocazione, al silenzio e alla disciplina. Forse sono assordanti per l'orecchio di quell'Ildebrando che continuamente aveva costretto il Nostro alla lontananza dall'eremo, queste parole: «così gli uomini provano affetto per noi, ma non per il nostro bene; se ci amano, è per se stessi, e anelano a fare di noi la loro delizia».

Subito dopo il prologo si introduce l'argomento della prima questione: se Dio possa far ritornare vergine una donna, quando non lo è più. Damiani contesta l'affermazione della Epistula XXII, ad Eustochium di Girolamo, e sostiene che non ci si può fermare alla lettera di un testo quando in gioco entrano temi così importanti come quello dell'onnipotenza divina. Occorre, e questo è il principio della sua esegesi di tipo spirituale, dirigere lo sguardo verso ciò che «si cela sotto il mistero di una comprensione più profonda».

Dio, nel pensiero dell'eremita, può senza dubbio far ritornare vergine una donna; ma mentre alcuni sostengono che egli possa restituirle soltanto la pienezza dei meriti qualora si sia pentita, Damiani crede che l'onnipotenza divina possa donare nuovamente l'integrità fisica. Infatti non potrebbe farlo soltanto se questo fosse un male, ma è evidente che questo intervento metterebbe in risalto, al contrario, lo splendore della bontà divina. La questione però è ben presto messa da parte e verrà ripresa soltanto più tardi quando il Ravennate dirà che Dio, avendo fatto nascere il Cristo da una vergine, tanto più sarà capace di restituire la verginità a una donna che sia stata violata.

L'argomento ha un risvolto più prettamente filosofico quando Desiderio, con una serie di deduzioni sostiene che Dio non fa tornare vergine una donna per il fatto che egli non può fare ciò che non vuole. Damiani prontamente ribatte:

Se dunque Dio non può fare niente di ciò che non vuole, e se d'altra parte non fa niente, se non ciò che vuole, allora non potrebbe fare nessuna cosa di quelle che non fa. Perciò Dio oggi non fa piovere perché non può. Ne consegue che qualunque cosa Dio non faccia, non la potrebbe assolutamente fare: affermazione palesemente così assurda che non solo non potrebbe accordarsi con l'onnipotenza di Dio, ma neppure saprebbe adattarsi alla fragilità dell'uomo, dal momento che ci sono molte cose che noi non facciamo e che comunque potremmo fare.

I punti cardine del pensiero damianeo non sono altro che quelli tipici del dogma cristiano e sono tutti presenti nel trattato, anche se in maniera sintetica. La volontà di Dio è, per tutte le cose, causa della loro esistenza. E se le cose sono come Dio le ha volute, esse di certo non possono avere una natura contraria a quella del loro creatore. Perciò loro caratteristica sarà quella di servire Dio, come l'ancella fa con il padrone.

Riprendendo la concezione agostiniana, Damiani afferma che Dio è ogni cosa più di quanto essa stessa non sia, poiché le creature vivevano già in Dio prima che assumessero visibilmente l'aspetto delle forme loro proprie: «Egli rimane all'interno di tutte le cose; egli, al di fuori di tutte, al di sopra di tutte, al di sotto di tutte: è superiore per la sua potenza, ed è inferiore perché le sostiene, ed esteriore per la sua grandezza, ed interiore per la penetrante sottigliezza». Dio non ha creato per necessità ma per amore. Perciò se Dio ha il pieno possesso di ciò che ha plasmato può anche agire contro il comune ordine della natura.

Entra in gioco ora la seconda questione di cui si occupa il Damiani, del resto estensione della prima: come è possibile che ciò che è accaduto non sia accaduto?

Se Dio, come asserisci, è onnipotente in ogni cosa, allora, può far sì che, ciò che è accaduto, non sia accaduto? Certamente può distruggere ogni esistenza, in guisa che non ci sia più, ma non si saprebbe vedere in che modo, ciò che è accaduto, non sia accaduto. Può senza dubbio accadere che, da ora e in futuro, Roma non sia più: in effetti potrebbe essere distrutta. Ma in che modo possa accadere che in antico non sia stata fondata, ciò risulta del tutto incomprensibile.

Così il Nostro espone l'opinione dei suoi avversari, gravida di sottili veleni. L'animo del monaco è interiormente preoccupato che il diffondersi delle idee di perversi sapienti possa nuocere a coloro che vivono in semplicità. Per questo non risparmia invettive contro i falsi filosofi che a suo parere «perfino nell'arte umana non hanno conseguito nessuna abilità». Infatti se si nega a Dio la possibilità di modificare un avvenimento passato, sarebbe necessario applicare questo ragionamento anche al presente e al futuro, riducendo così in maniera esponenziale la potenza divina: di qui la durezza dell'attacco. Damiani analizza in questo contesto anche il problema dei futuri contingenti:

Secondo le varie vicissitudini dell'ordine naturale, può accadere che oggi piova; può accadere anche che non piova. Ma per quanto concerne la successione logica del discorso, se è in procinto di piovere, è assolutamente necessario che piova e pertanto è assolutamente impossibile che non piova.

Questo sta a dimostrare che ciò che è valido per la successione delle parole e per l'ordine logico del discorso non è affatto valido in natura. Quindi tanto meno è possibile applicare a Dio le regole della razionalità dialettica:

Si renda conto, dunque, la cieca temerarietà di questi sapienti pieni di ignoranza, di questi cercatori di vanità, che, se applicano spudoratamente a Dio ciò che attiene all'arte del discutere, gli hanno bell'e sottratto, radicalmente, ogni potere e ogni facoltà, non solo sul passato, ma anche sul presente e sull'avvenire.

Preme ribadire che Dio non è sottoposto alle leggi della nostra ragione, ed essendo creatore della natura può anche sovvertirne la necessità. Questo non significa che Egli violenti la natura, ma soltanto che è capace di stravolgerne l'ordine comune. Dio è l'eterno presente e l'immutabile: entro il seno della sua presenza racchiude contemporaneamente tutti i tempi e tutti i luoghi: «Per Dio non c'è ieri o domani, ma un oggi sempiterno, dove niente trascorre e niente sopravviene, dove non c'è niente che vari, niente che sia diverso da sé». I mutamenti di tempo riguardano soltanto la natura creata, non Dio. Perciò per lui è possibile che ciò che è già avvenuto possa ancora mutare, e ciò che è stato, in realtà non sia stato.

Unica cosa impossibile a Dio è compiere il male. Infatti egli non lo può volere: è questa una verità che sta molto a cuore a Pier Damiani e più in generale all'intera speculazione filosofica in cui egli si inserisce. Secondo l'avellanita il fatto che Dio non possa compiere il male non deve essere avvertito come una mancanza che sancisce il venir meno dell'onnipotenza divina. Il male è una privazione ontologica, una mancanza di essere. Esso si alimenta di una confusione: nel momento stesso in cui sembra essere qualche cosa, in realtà si rivela come un non essere.

Senza dubbio per un uomo legato alla concretezza come Damiani il male non è qualcosa di astratto, esso sussiste e consiste in coloro che lo alimentano. Il male è la malvagità degli iniqui. E però anche questi, mentre sembrano essere, in realtà non sono:

Quanto ai mali di ogni genere, come per esempio azioni inique e delittuose, anche quando sembrano essere, in realtà non sono, perché non sono da Dio; e non sono niente per la ragione che, all'evidenza, non sono state fatte in nessun modo da Dio, senza di cui «il niente è stato fatto» (Gv 1, 3). [...]

Se un male è stato commesso, anche quando sembrava essere, non era niente. [...] Siccome è un male, o piuttosto non è niente, oscillare confusamente tra l'essere e il non essere, codesta condizione ambigua e confusa non può essere stata prodotta dalla bontà del creatore, che non ha fatto se non cose buone. Nei mali, invece, potrebbe in ogni caso apparire questa condizione confusa e ambigua, poiché, sicuramente, essi sembrano essere e non sono. A dir il vero, in superficie hanno il colore dell'esistenza, ma non reggono al giudizio della verità. Sebbene perfino ai mali non possiamo attribuire con rigorosa esattezza questa duplicità di natura, che li farebbe essere e non essere nello stesso tempo, poiché sembrano essere, ma non sono, e perciò è più vero dire che non sono assolutamente, piuttosto che dire che sono e non sono.

In questo passo, dallo stile fluente, si riscontra una citazione scritturistica tratta dal Vangelo di Giovanni che Pier Damiani interpreta in maniera singolare, e pone come fondamento della teoria della privazione ontologica del male: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui è stato fatto il niente» (Gv 1, 3).

Il male, dunque, che è il nulla, consiste nell'assenza di Dio. Pertanto alla questione iniziale, cioè in che modo Dio può far sì che ciò che è accaduto non sia accaduto, occorre rispondere che «se ciò che era accaduto era un male non era qualche cosa, ma niente, e di conseguenza bisogna dire che non c'è stato. Se invece ciò che si era prodotto era un bene, in ogni caso è stato fatto da Dio». Ma su di esso Dio può fare che, anche se fu, non sia perché per lui tutto è presente, e in lui non si verifica alcun cambiamento.

Questa posizione sull'onnipotenza divina, fondata più sull'argomento di autorità che su quello di ragione, si mostra comunque efficace contro i dialettici che il Nostro combatte. Essi escono sconfitti dalla disputa per vari motivi: innanzitutto la dialettica è presentata come del tutto inadeguata allo studio della Scrittura e inoltre non è capace di incidere sulla realtà, di dare una corretta interpretazione dei fenomeni naturali e della vita. Pier Damiani tenta sempre di dimostrare che i suoi avversari sono spinti da uno spirito di arroganza e presunzione, che li porta a un'interpretazione che travisa il vero senso delle realtà divine e della Scrittura:

In verità, la potenza di Dio, ha fatto sì che, ciò che egli ha stabilito una volta nell'essere, non possa più non essere stato, e ciò che ha stabilito nell'essere per il presente, per tutto il tempo che esso è, non possa non essere, e, tutto ciò che ha stabilito nell'essere per l'avvenire, non possa più, oramai, non essere sul punto di avvenire. Dunque, proprio a motivo di ciò per cui si può valutare che la virtù divina sia più potente e mirabile, questi sapienti, ma stolti, la giudicano impotente e senza forza. In effetti, se è da lui tutto ciò che è, egli ha conferito alle cose un impulso all'esistere così efficace che, una volta che sono esistite, non possono non essere esistite.

Il loro errore non consiste dunque nel fare uso del principio di contraddizione, ma nell'applicarlo a Dio, mentre esso rimane valido, sì, ma soltanto per la natura creata:

Quanto alla natura, certamente, ciò è vero, e il ragionamento si sostiene: così, che qualche cosa sia accaduta e non sia accaduta, non si può dare come una sola e identica cosa. [...] D'altra parte, è senza dubbio corretto parlare di questa impossibilità quando la si attribuisca alla povertà della natura; però, ci si guardi bene dall'applicarla alla maestà divina: poiché, chi ha dato origine alla natura, facilmente, quando vuole, toglie alla natura la sua necessità.

Questa ferma posizione di Pier Damiani riguardo l'onnipotenza divina trova secondo il Brezzi dei continuatori nei nominalisti, ma anche in Gilberto de la Porrée, in Guglielmo D'Auxerre e in Pietro Lombardo.23 Essi ammettono un'assoluta libertà di potere in Dio.

D'altra parte invece Anselmo d'Aosta giudica che la volontà di Dio, essendo immutabile, non può cambiare e quindi non può volere che una cosa avvenuta non sia più. Ugo di S. Vittore, Bonaventura e Tommaso in ugual misura si oppongono a una totale libertà della potenza divina, in quanto estendono anche a Dio il principio di contraddizione, ritenendo che Dio non può ammettere qualcosa contro se stesso e non può volere che una cosa allo stesso tempo sia e non sia.

Endres cita la soluzione di Tommaso: «A Dei potentia excluditur quod repugnat rationi entis, et hoc est simul esse et non esse, et eiusdem rationis est quod fuit non fuisse».24

Per quanto riguarda l'influenza di Pier Damiani sulla storia del pensiero filosofico ci troviamo in linea con l'opinione del Brezzi, secondo il quale la ripresa di molte affermazioni dell'avellanita, che furono riviste in modo particolare durante il rinascimento, fu compiuta con una consapevolezza filosofica del tutto diversa e senza alcuna diretta derivazione dai suoi scritti. Pensatori come Niccolò Cusano e Giordano Bruno avrebbero trovato diverse affinità con le idee di Damiani.

Al di là di tutto il ritorno ad una concezione di Dio come luogo di tutti i corpi e come «coincidentia oppositorum» resta uno dei casi più significativi di comunioni ideali al di sopra delle differenze d'età, di nazione e di convinzioni.25

Bibliografia

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Note

  1. Pier Damiani, Vita Sancti Romualdi, edizione critica di G. Tabacco, Istituto Storico Italiano, Roma 1957. Testo

  2. Tutte le notizie biografiche sono tratte da J. Leclercq, San Pier Damiano, eremita e uomo di Chiesa, Brescia 1972. Testo

  3. Giovanni da Lodi, Vita Petri Damiani., PL 144, 114 C. L'opera di Giovanni è mossa più da un intento agiografico che storico-biografico: pertanto le testimonianze, specie sul periodo giovanile di Damiani, vanno considerate con prudenza. Più veridica e storica è la sua testimonianza sugli ultimi anni del Nostro, in quanto i due si conobbero soltanto in questo periodo. Testo

  4. Pier Damiani, Liber qui appellatur gratissimus, lettera 40. Le lettere da 1 a 67 vengono riprese da Opere di Pier Damiani, a cura di G. I. Gargano e N. D'Acunto, Città Nuova 2000. Per le lettere successive (68-180), non ancora pubblicate in questa edizione, si rimanda a Reindel, Die Briefe des Petrus Damiani, 4 voll., München 1983-1993 (MGH, Die Briefe des deutschen Kaiserzeit, IV). Testo

  5. Pier Damiani, Liber qui appellatur Dominus Vobiscum, in Opere di Pier Damiani, cit., Lettera 28. Testo

  6. Pier Damiani, Liber Gomorrhianus, in Opere di Pier Damiani, cit., Lettera 31. Testo

  7. Pier Damiani, Disceptatio synodalis, Reindel, Die Briefe des Petrus Damiani, op. cit., lett. 89. Testo

  8. Paradiso, XXI, 106-117. Testo

  9. Leclercq, San Pier Damiano..., op. cit., p. 10. Testo

  10. Petrarca, De vita solitaria, citato in PL 144, pp. 183-184 Testo

  11. S. Pier Damiani, De divina omnipotentia e altri opuscoli, a cura di P. Brezzi, Vallecchi, Firenze 1943. Testo

  12. Anselmo di Besate, Rhetorimachia, edizione critica a cura di K. Manitius, in Monumenta Germaniae Historica, vol. II, Weimar 1958. Testo

  13. Berengario di Tours, De Sacra Coena, a cura di W. H. Beekenkamp, s'Gravenhagen 1941. Testo

  14. Pier Damiani, De sancta simplicitate scientiae inflanti anteponenda, Reindel, Die Briefe des Petrus Damiani, op. cit., lett. 117. Testo

  15. Reindel, Briefe, op. cit., lett. 23. Testo

  16. Vedi nota 4. Testo

  17. I Corinzi, I, 20-21. Testo

  18. Agostino, De ordine, libro II, in Agostino: ordine, musica, bellezza, Rusconi. Testo

  19. U. Ronca, Cultura medioevale e poesia latina d'Italia nei sec. XI e XII, 2 voll.Testo

  20. Per l'edizione in lingua italiana a cui si fa riferimento vedi Pier Damiani, Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book, Milano1987. Testo

  21. Pierre Damien, Lettre sur la toute-puissance divine. Introduction, texte critique, traduction et notes par André Cantin, Paris 1972 (Sources chrétiennes, N. 191). Testo

  22. G. Lucchesi, Per una vita di S. Pier Damiani. Componenti cronologiche e topografiche. Parte seconda. in S. Pier Damiano nel IX centenario della morte (1072-1972), II, Centro studi e ricerche sulla antica provincia ecclesiastica ravennate, Cesena 1972. Testo

  23. Brezzi, op. cit., p. 36. Testo

  24. J. A. Endres, Petrus Damiani und die weltliche Wissenschaft, in "Beiträge zur Geshichte der Philosophie des Mittelalters", vol. VIII, quad. 3, Münster, 1910. Testo

  25. Brezzi, op. cit. Testo