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Recensione a Robert Louis Wilken, I cristiani visti dai romani

di Laura Balestra (15 febbraio 2011)

Robert Louis Wilken, I cristiani visti dai romani, Paideia Editrice, Brescia 2007.

Gli studi sul Cristianesimo dei primi secoli, incentrati sul rapporto tra la nuova religione e l'Impero romano, hanno da sempre focalizzato l'attenzione sul modo in cui i Cristiani percepivano la loro relazione con l'autorità imperiale.1 Lo specchio di colui che era perseguitato riverberava le proprie immagini su quel vessatorio mondo antico, reo d'essergli carnefice. Ma ci si è mai chiesti in che modo concepissero invece i «persecutori» il loro rapporto con le «vittime»? In quale maniera i Romani percepissero i Cristiani? Scrive Wilken, docente di Storia del Cristianesimo alla University of Virginia, nella Premessa alla seconda edizione dell'opera:

Idea portante del libro era di raccontare la vicenda del sorgere del cristianesimo nel mondo romano dalla prospettiva degli osservatori romani e greci. [...] Quando scrissi I cristiani visti dai romani non era mia intenzione proporre teorie sulle ragioni del successo del cristianesimo e del declino della religione tradizionale [...] Fondamentalmente ero interessato a illustrare il mondo religioso in cui prese piede il movimento cristiano e a mostrare i modi in cui questo mondo plasmava la percezione che la società aveva del nuovo movimento.2

Pubblicato per la prima volta nel 1984 e successivamente riedito nel 2003 per la Yale University Press, il saggio di Wilken si apre con un interrogativo di natura esegetica e analitica: «Come si presentava il cristianesimo agli uomini e alle donne dell'impero romano? Quali sembianze aveva per chi ne era al di fuori, prima di diventare la religione ufficiale dell'Europa occidentale e di Bisanzio? ».3 Ogni studioso del mondo antico sa che qualsiasi analisi voglia delineare un profilo storico attendibile, corroborato da evidenze valide e veritiere, deve far ricorso allo spoglio delle fonti. In genere, le nostre conoscenze sul Cristianesimo provengono da fonti cristiane: i vangeli, le lettere paoline, gli acta martyrum e le opere degli autori di fede cristiana (Ignazio di Antiochia, Origene, Tertulliano, Clemente Romano, Giustino, Ireneo), ma esistono tuttavia altre fonti di prospettiva «opposta», di-versa, se così si possono definire, che costituiscono, anche a detta di Wilken, un prezioso patrimonio ermeneutico, contenente tutte «le considerazioni degli osservatori pagani del Cristianesimo (autori greci e romani) i quali, sia in osservazioni casuali contenute in opere che trattano di altri argomenti, sia in attacchi diretti al cristianesimo, ci forniscono una prospettiva unica sulla chiesa nascente». Ideato per un pubblico di non soli studiosi del settore, il saggio si struttura in sette capitoli, cinque dei quali si configurano attorno a figure di rilievo del mondo greco-romano (Plinio il Giovane, Galeno, Celso, Porfirio, Giuliano l'Apostata), attraverso le cui considerazioni Wilken illustra lo sviluppo dell'atteggiamento romano nei confronti del Cristianesimo. I capitoli II e III sono incentrati su una trattazione di carattere teorico relativa all'associazionismo a scopo funebre dei collegia cultorum, cui primariamente venne assimilato il movimento cristiano e alla definizione dei concetti di religio e superstitio nel mondo romano. Elaborato come una sorta di breve «commedia di carattere» ogni capitolo sciorina la biografia del personaggio in questione e il suo pensiero sulla società e sugli sconvolgimenti ad essa occorsi, all'alba del Cristianesimo nell'Impero. Il cap. I, intitolato Plinio: un gentleman romano, delinea la figura e la carriera politico-militare di un comune appartenente ai ceti più eminenti di Roma, il quale, percorsi i vari gradi del cursus honorum, nel 110-111 d. C., sotto l'imperatore Traiano, venne nominato legatus Augusti pro praetore provinciae Ponti et Bithyniae consulari potestate. La provincia di Bitinia e Ponto si trovava sulla costa settentrionale dell'Asia Minore ed era da tempo preda di agitazioni, rivolte politiche e disordini finanziari, il compito di Plinio fu quello di monitorare tale situazione per evitare che la situazione sfuggisse di mano all'autorità imperiale. È probabile che il timore maggiore per l'Impero provenisse dalla mancata regolazione circa la formazione di associazioni di mestiere o di mutua assistenza e gruppi, spesso con connotazioni spiccatamente politiche, che venivano denominati collegia o hetaeriae.4 Il forte legame che sovente veniva ad instaurarsi all'interno di tali forme di associazionismo poteva minare alla base i fondamenti del potere imperiale nei territori trans-marini ed è per questo che Traiano intimò con dei rescritti la regolamentazione di questi organismi che, da leciti, potevano mutarsi in qualsiasi momento in illeciti e complottare ai danni dello Stato. Visitate le città di Prusa, Nicomedia, Sinope, Amiso, Plinio si diresse ad Amastri e fu in occasione di tale viaggio che il legato scrisse all'imperatore la ben nota lettera sui Cristiani: l'epistola 10, 96. «Cognitionibus de Christianis interfui numquam; ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri».5 Nell'incipit della sua lettera all'imperatore il legato manifestò i suoi dubbi e la sua incertezza circa il modus operandi cui attenersi nelle inchieste sui Cristiani, nei riguardi dei quali non sapeva come agire. Le comunità cristiane venivano denunciate ai magistrati imperiali come colpevoli di flagitia (nefandezze, turpitudini) non meglio chiarite, forse cannibalismo o orge, di riunirsi in riti clandestini, di non venerare le immagini dell'imperatore. Di tali accuse fanno menzione anche Lolliano, Frontone, Minucio Felice, Clemente di Alessandria, Giustino Martire, Epifanio di Cipro,6 spesso testimoni lontani dall'epoca di Plinio, ma che ugualmente dimostrano quanto varie e, in alcuni casi, distorte fossero le percezioni dei Romani in merito ai Cristiani, i quali venivano considerati o assimilati a gruppi religiosi stranieri, come i druidi, le baccanti o i giudei.7 Ad ogni modo il comportamento tenuto dal funzionario imperiale fu il seguente

[...] Il suo primo passo, dopo aver ascoltato le accuse, fu di convocare i cristiani. Il gruppo comprendeva sia vecchi sia giovani, cioè intere famiglie, persone manifestamente legate al movimento cristiano, gente che in passato era stata cristiana ma non lo era più, persone di diverse classi sociali. [...] Plinio chiese da prima a ciascuno se fosse cristiano, avvertendolo al tempo stesso che se avesse risposto affermativamente sarebbe stato giustiziato. Dopo averlo chiesto una prima volta, fece la stessa domanda una seconda e poi una terza volta. Quando da alcuni membri del gruppo aveva ricevuto un assenso definitivo, Plinio li mandava a morte.8

Di alcuni punì pertinaciam et inflexibilem obstinationem nel professarsi Cristiani; di altri, qui cives Romani erant, venne messo in nota il nome per mandarli a Roma per il processo. Le delationes nominis, le denunce, specialmente anonime, proseguirono e Plinio dovette escogitare quello che Wilken chiama «un "test"9 della verità» per appurare che, quanti accusati, abiurassero o rinnegassero l'accusa in maniera sincera:

Coloro che negavano di essere Cristiani o di esserlo stati, se invocavano gli dei secondo la formula che io avevo imposta, e se facevano sacrifici ture ac vino (con incenso e vino) dinanzi all'immagine tua, che avevo fatto recare per tale intento insieme alle statue degli dei, e inoltre maledicevano Cristo, tutte cose che, mi dicono, è impossibile ottenere da coloro che sono veramente Cristiani, io ho ritenuto dovessero essere rilasciati.10

L'imperatore Traiano, in riscontro all'epistola di Plinio, rispose di approvare l'andamento del suo operato nella provincia, ribadendo che la prassi istituita e seguita nell'istruire i processi contro quanti erano stati deferiti al funzionario imperiale come Cristiani era quella cui attenersi. I Cristiani non dovevano essere ricercati, né doveva in alcun conto prendersi qualunque forma di denuncia anonima; qualora «denunciati e riconosciuti colpevoli», replica Traiano, «puniendi sunt» e quanti neghino d'essere Cristiani lo dimostrino coi fatti, sacrificando agli dèi di Roma.11 Il successivo «osservatore pagano» presentato da Wilken è il medico e filosofo Galeno. All'epoca in cui dalla natale Pergamo, Galeno giunse a Roma per divenire medico personale di Commodo, esisteva nell'Urbe una modesta comunità cristiana, che tendeva ad accrescere la sua preminenza, attirando proseliti e intellettuali da più parti dell'Impero. Galeno ebbe modo di osservare il nuovo fenomeno sociale e in alcuni suoi scritti ne fece menzione, riconoscendo al Cristianesimo la connotazione di scuola filosofica, pur non risparmiando ad esso, come afferma Wilken, la critica di «non essere all'altezza dell'ideale intellettuale consono a dei filosofi»12 e di manifestare un eccessivo fideismo. Tuttavia, «chiamando il cristianesimo scuola filosofica, anche se non di quelle che lo impressionavano per la loro abilità dialettica, Galeno fornì al cristianesimo una spinta sulla via della sua accettazione nel mondo romano».13 Ricerca della giustizia e della virtù, disprezzo della morte erano prerogative del comune modus vivendi dei filosofi non meno che del Cristianesimo ed è in ragione di ciò che esso venne definito dal medico di Pergamo, filosofia. Non dello stesso avviso era il giudizio espresso dall'imperatore Marco Aurelio, per il quale, strenuo fautore dello stoicismo, i Cristiani dovevano apparire «fanatici e pazzi -- si potrebbe anche dire superstiziosi», o il pensiero di un altro stoico, Epitteto, il quale riteneva il Cristianesimo privo di un qualsivoglia autentico atteggiamento filosofico.14 Wilken, nel capitolo ad esso dedicato, sostiene con forza come il giudizio positivo di Galeno sul Cristianesimo, la sua volontà di distinguerlo dai culti stranieri proibiti, dalle superstitiones, per farne una scuola di pensiero, seppur carente in molti aspetti, «aiutò gli apologisti cristiani a presentare agli estranei la persona di Gesù e lo stile di vita cristiano in maniera comprensibile e persuasiva», tanto che nella metà del II secolo Melitone di Sardi e Giustino Martire parlarono del Cristianesimo come «nostra filosofia» e della conversione ad esso come di una epistrophe o metanoia alla filosofia: la prospettiva, dai tempi di Plinio, stava mutando, ma forse solo in maniera minoritaria. Se Plinio e Galeno affrontarono la «questione cristiana» in maniera collaterale nei loro scritti, chi dedicò, al contrario, un'intera opera esclusivamente ai cristiani fu il filosofo greco Celso, che Wilken pone a seguire il capitolo su Galeno. Il Discorso di Verità ci è giunto in frammenti, ma la completezza del pensiero ivi esposto viene a costituirsi grazie alle citazioni contenute nei testi degli apologisti cristiani, in primis nell'opera del teologo e filosofo alessandrino Origene, il Contra Celsum.15 Pur non misconoscendo il pensiero «minoritario» a lui precedente, espresso da Galeno circa la definizione di scuola filosofica attribuita al Cristianesimo (Cels. 5, 61 s.), Celso critica l'eccessivo fideismo dei Cristiani, che credono nel loro mago perverso16 irragionevolmente: «Non indagare, ma abbi fede», questo, secondo Celso, il motto delle segrete associazioni cristiane.17 «I Cristiani fanno proprio come quelli che, contro i principi della ragione, prestano fede ai sacerdoti questuanti di Cibele, agli indovini, ai vari Mithra e Sabadii e al primo venuto, comprese le apparizioni di Ecate o di altra dea o di altri demoni» (Cels., 1, 9). Il Cristianesimo venne, dunque, nuovamente associato ad una superstitio, ad un culto straniero e i suoi fedeli considerati uomini semplici, stolti e ignoranti, proprio in virtù della s-ragione che caratterizzava il loro Credo, un Credo fondato sulla magia, i miracoli, le formule magiche, gli esorcismi, le guarigioni, la venerazione degli strumenti di morte di questo «presunto figlio di Dio», l'incarnazione mutevole di un essere per definizione immutabile,18 la capacità divina di invertire i processi naturali delle disgregazione organica dei corpi mediante la resurrezione, l'esaltazione unipersonale di Gesù a detrimento di quello che Celso chiama «il Dio che sta al di sopra dei cieli», venendo così a stabilire una dualità divina contro il pensiero fortemente condiviso da molti intellettuali pagani della prima età imperiale, circa l'esistenza di un solo Dio.19 Celso conosceva bene gli scritti cristiani e prestò, come scrive Wilken, un'attenzione accurata alla figura di Gesù, che andava criticata forse prima e in misura maggiore rispetto al comportamento o alla dottrina dei Cristiani. Apprendiamo da Celso il racconto di Maria e di Panthera, presunto padre di Gesù. I Vangeli sono la redazione scritta, operata in ambiente esclusivamente cristiano, di tradizioni orali, nuclei mitici e leggende, dunque, si chiese il filosofo, che attendibilità veridica possono avere? Il Cristianesimo, per Celso, assumeva i tratti di una bella menzogna, un'apostasia dal Giudaismo, una trasgressione del nomos giudaico, un movimento illegittimo e perciò vulnerabile sotto vari aspetti. Wilken sostiene che l'attacco di Celso ai Cristiani segua un disegno organico e mirato a demolire il settarismo che le comunità cristiane perpetravano ai danni dello Stato, escludendosi dalla dimensione civica, rifiutando, in maniera sediziosa, «di partecipare in qualsiasi modo alla vita pubblica e civile delle città dell'impero romano»:20 socialmente essi costituivano un pericolo.

Celso si opponeva alle tendenze «settarie» operanti nel movimento cristiano perché vedeva nel cristianesimo una «privatizzazione» della religione, un trasferimento dei valori religiosi dalla sfera pubblica a un'associazione privata. I cristiani non solo rifiutavano il servizio militare, m non accettavano cariche pubbliche né assumevano responsabilità alcuna nel governo delle città. Non solo creavano disordine nelle città col loro rifiuto di partecipare alla vita civica, ma minavano le fondamenta delle società in cui vivevano. Innalzando il fondatore della loro comunità alla condizione divina, introducevano un rivale dell'unico sommo Dio che vegliava sull'impero.21

Prosegue la trattazione di Wilken presentando il critico forse più colto del Cristianesimo, il filosofo Porfirio, che nella seconda metà del III secolo, «cercò di preservare la tradizione intellettuale dell'antichità greca e [...] di conciliare l'eredità religiosa del mondo greco-romano con la ragione filosofica».22 Originario di Tiro, crocevia di tradizioni religiose diverse, Porfirio frequentò a Cesarea, disprezzandole, le lezioni di Origene, ricavandone tuttavia preziose nozioni di critica biblica che applicò successivamente al suo pensiero, al suo attacco contro il Cristianesimo. Formatosi alla scuola di Longino e Plotino, autore di alcune opere non pervenuteci se non in frammenti e citazioni di altri autori, Contro i cristiani, Filosofia degli oracoli, Porfirio dedicò molta parte dei suoi scritti allo studio esegetico, filologico e allegorico dell'Antico Testamento, al Libro di Daniele, in particolare, una delle fonti testamentarie più ricche sulle profezie della venuta di Cristo. Ricorda Wilken come «fin dall'inizio del movimento cristiano, il richiamo alle profezie venne usato per legittimare di fronte ai giudei ciò che il cristianesimo affermava di Gesù» (p. 185). Anche il Nuovo Testamento fu probabilmente oggetto dell'esegesi del filosofo greco, lo si intuisce da un'opera di Agostino, De consensu evangelistarum, nella quale si esponeva il pensiero dei critici pagani, nelle cui fila primeggiava Porfirio, sui testi neotestamentari, considerati artefici delle invenzioni sulla storia di Gesù che, a detta loro, poteva certamente essere onorato come il più saggio degli uomini, ma non adorato come Dio.23 Inoltre il Cristianesimo era diviso in sé fin dalle origini, per Porfirio, il quale non esitò a citare l'episodio del disaccordo tra Pietro e Paolo in merito alla circoncisione, con l'intento di mostrare l'inconsistenza e l'incoerenza del movimento ab origine. In linea con la concezione di Celso, anche Porfirio assimilava Gesù ad un eroe, «un saggio che era stato innalzato alla divinità dopo la sua morte» (p. 198) e in relazione a quella dualità divina che Celso rimproverava ai Cristiani d'aver creato a detrimento del solo e unico Dio esistente, laddove apologisti come Agostino o Teodoreto di Ciro, dell'adorazione di un unico Dio vollero fare il punto di congiunzione tra cristianesimo ed ellenismo, Porfirio si scagliò polemicamente, negando la presenza di tale fede assoluta nei cristiani, colpevoli di adorare Cristo più di Dio: ergo nessun legame poteva sussistere tra pagani e cristiani.24 Per le critiche di Agostino, Arnobio, Lattanzio, Eusebio si rinvia al testo, che così riassume la posizione di Porfirio: «c'è un solo Dio che tutti gli uomini adorano, e Gesù, al pari di altri uomini pii, adorò questo Dio e insegnò ad altri a venerarlo. Col suo insegnamento Gesù indirizzò l'attenzione degli uomini al Dio uno, ma i suoi discepoli caddero nell'errore e insegnarono agli uomini ad adorare Gesù» (p. 200).

«Al pari di Galeno e di Celso, Porfirio accusò i cristiani di proclamare una «fede che non ragiona» (Eusebio, Praep. ev. 1, 3, 1) » (p. 210), criticando aspramente la dottrina della resurrezione e la pretesa cristiana di una rivelazione storica. Le sue opere vennero distrutte. Esisteva per Porfirio una via verso la Salvezza, ma egli non riteneva fosse quella prospettata dai Cristiani, in quanto esclusiva, peraltro, dei soli credenti in Cristo e non di quanti fossero nati prima di «questa rivelazione cristiana»: «se Cristo dice di essere la via, la grazia e la verità», chiese Porfirio, «e pretende che solo in lui l'anima che crede può trovare una via verso Dio, che cosa fecero tutti quelli che vissero nei tanti secoli prima di Cristo. . .? Che ne fu di quelle innumerevoli anime, che non possono in nessun modo essere condannate, dal momento che colui nel quale avrebbero dovuto credere non era ancora comparso in mezzo agli uomini? ... Perché colui che viene chiamato il salvatore rimase nascosto per tanti secoli? ».25

Ultima figura, exemplum «romano» proposto da Wilken non poteva essere altri che l'imperatore Giuliano l'Apostata. Nel suo brevissimo regno di appena un anno e mezzo egli, seppur allevato nell'alveo dei principi cristiani, rinnegò le sue origini per riportare in auge il paganesimo. Wilken interpreta questa restitutio pagana sulla base di un mancato assestamento definitivo del Cristianesimo come religione ufficiale di Stato e religione predominante.

Giuliano visse in un mondo ancora diviso. Dal 313, quando il cristianesimo fu riconosciuto dal governo romano come un culto lecito e Costantino abbracciò la religione cristiana, gli imperatori erano stati cristiani. L'impero romano non era però diventato uno stato cristiano dall'oggi al domani, e ancora meno una società cristiana. Solo diciassette anni dopo la morte di Giuliano, nel 380 d. C., l'imperatore Teodosio I proclamò il cristianesimo religione ufficiale del mondo romano, ma dopo Teodosio dovettero passare più generazioni prima che il cristianesimo fosse in condizione di dominare la vita della società. (p. 214)

Uomo di lettere e filosofo, istruito nella conoscenza delle Sacre Scritture e della letteratura cristiana, convinto assertore della funzione non solo cultuale ma anche civile della religione, emanò un rescritto imperiale, una legge sulla scuola, relativa alla nomina degli insegnanti. Essi dovevano eccellere in moralità ed eloquenza ed essere approvati da un apposito consiglio, «dovevano credere negli specifici valori religiosi e morali che venivano trasmessi attraverso la letteratura greca» (p. 223). Inscindibile per l'imperatore era il nesso fra lingua e letteratura classica e valori in esse espressi, mai discinti dalla religione e dagli dei tradizionali. Fu un attacco contro il «sistema educativo cristiano». Scrisse Giuliano che gli insegnanti non dovevano cambiare le loro credenze, ma erano tenuti ad insegnare onestamente «senza cioè lodare gli antichi mentre ne condannano le credenze religiose [...] Se pensano che sotto questo punto di vista i classici sono nell'errore, che vadano a insegnare Matteo e Luca nella chiesa» (Ep. 36).

Giuliano compose un'opera Contra Galilaeos, successivamente distrutta e giunta a noi in frammenti contenuti nello scritto, Contra Iulianum, di Cirillo d'Alessandria. L'Apostata aveva come obiettivo quello di scardinare l'idea della presunta divinità di Cristo. Come Porfirio, criticava i Cristiani adoratori di un uomo26 e come Celso riteneva il Cristianesimo un'apostasia dal giudaismo, quest'ultimo, peraltro, criticato anch'esso per aver assurto a Dio universale una semplice divinità tribale. Ampia la trattazione riservata da Wilken ai propositi dell'imperatore Giuliano di riedificare il tempio di Gerusalemme come antico luogo di culto del dio giudaico, al fine di demolire la pretesa profetica cristiana d'essere il vero Israele e per isolare i Cristiani dagli altri cittadini dell'impero, ristabilendo e per i Giudei e per i pagani l'uso di officiare riti di culto mediante l'offerta di sacrifici. Benché il progetto fosse rimasto irrealizzato, l'Apostata aveva individuato quello che Wilken chiama «il tallone d'Achille della tradizione cristiana»: il suo rapporto col giudaismo. L'imperatore pagano non volle solo restituire Roma allo splendore dell'antichità classica, in tutti i suoi aspetti, in primis religiosi, ma volle precipuamente abbattere le pretese salvifiche, dottrinali, letterarie, filosofiche, profetiche di quella che definì una religione «di moda» ai suoi tempi e ne fu il critico più solerte e sagace, egli sapeva dove e in che modo attaccare il Cristianesimo, perché la sua educazione intellettuale era stata in gran parte di matrice cristiana.

Nell'Epilogo Wilken riassume le linee guida dell'opera, incentrando le sue conclusioni principalmente sulla controversia tra giudaismo e Cristianesimo, utilizzata dagli autori pagani come prima arma polemica contro la nuova religione, ma anche sull'esistenza del dialogo intercorso per circa tre secoli fra pagani e cristiani, dialogo che, se per certi versi, inizialmente si costituì come monologo a sé stante in entrambe le parti, successivamente divenne terreno di incontro e scontro fra culture e tradizioni diverse, che misurarono se stesse e le rispettive argomentazioni su basi comuni: la lingua, la filosofia. «I cristiani interagirono con le tradizioni del mondo antico non semplicemente come con un'eredità intellettuale del passato e non solo nell'educazione che ricevevano, ma come parte di un vivo scambio attraverso la critica vigorosa degli intellettuali pagani» (p. 261). I primi cristiani considerarono ogni opposizione o critica loro mossa come proveniente da nemici della verità, una verità, tuttavia, che il mondo antico non poteva riconoscere al Cristianesimo, perché considerato privo di eredità, di origine, di patria. Per i pagani l'antichità era criterio di verità e una religione nuova, relegata alla sfera privata, discinta dagli aspetti politici e sociali, venerante un uomo come un dio e indotta spesso da filosofi e filologi all'errore circa le presunte veridicità dei suoi testi sacri, non era legittimata ad avanzare alcuna pretesa di verità. Era semmai più simile ad una scuola filosofica. Conclude l'autore con queste parole:

Quando si osserva quanto i cristiani avessero in comune con i loro critici e quanto abbiano appreso da loro, si è tentati di dire che l'ellenismo preparò il sentiero per i pensatori cristiani. Di fatto, si potrebbe con buone ragioni sostenere il contrario. Il cristianesimo propose ai filosofi un nuovo programma. I tratti distintivi della nuova religione e la tenacia degli apologisti cristiani nel difendere la loro fede aprirono orizzonti nuovi alla cultura greco-romana e insufflarono nuova vita nelle tradizioni spirituali e intellettuali del mondo antico. (p. 261)

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Note

  1. In riferimento ai primi studi di settore relativi alla reazione pagana nei confronti del Cristianesimo nascente vd. P. de Labriolle, La réaction païenne. Étude sur la polémique antichrétienne du Ier au Vie siècle, Paris 1948² Testo

  2. R.L. Wilken, The Christians as the Romans saw Them, Yale University Press, New Haven and London 1984 (2003²), tr. it. F. Bassani-M. Negri (a cura di), I cristiani visti dai romani, Paideia Editrice, Brescia 2007 Testo

  3. Ibid., p. 15 Testo

  4. Ibid., pp. 37-40 Testo

  5. Plin., Ep. 10, 96 Testo

  6. R.L. Wilken, cit., p. 49. Le dicerie sui Cristiani attestate nei suddetti autori, associate a forme di perversione sessuale-orgiastica, banchetti tiestici e omicidi rituali, come spiega Wilken, «compaiono soltanto negli autori cristiani, mentre non si incontrano negli scritti dei critici pagani del cristianesimo». Testo

  7. Ibid., p. 44 Testo

  8. Ibid., p. 51 Testo

  9. Ibid., p. 54 Testo

  10. Plin., Ep. 10, 96, 5 Testo

  11. Ibid., 10, 97 Testo

  12. R.L. Wilken, cit., p. 109 Testo

  13. Ibid., p. 116 Testo

  14. Ibid., p. 119 Testo

  15. Ibid., p.133 «Di Celso purtroppo non è possibile sapere altro che quanto si ricava da Origene e dai frammenti dell'opera stessa» Testo

  16. Ibid., p. 138 ss. «Nell'impero romano la pratica della magia era un reato penale e il termine «mago» era un epiteto obbrobrioso e ingiurioso» Testo

  17. Cels ., 1, 1; 1, 6a; 1, 7; 1, 9 Testo

  18. R.L. Wilken, cit., pp. 145-146. Celso non aveva invece difficoltà ad ammettere il processo inverso, cioè che un uomo fosse, successivamente al compimento di azioni eroiche, innalzato alla condizione divina, come Eracle, Asclepio o Orfeo. Testo

  19. Ibid., p. 147 ss. Cfr. Ps.-Aristotele, De mundo 401a e l'interpretazione pagana di Hom., Il., 2, 205 Testo

  20. Ibid., p. 161. Cfr. Min. Fel., Octavius 12 e Cels., 8, 17 Testo

  21. Ibid., p. 169 Testo

  22. Ibid., pp. 171-172 Testo

  23. Cfr. Agost., De cons. evang., 1, 11 Testo

  24. Wilken specifica come Porfirio si distanziasse dal coro di quanti accusavano Gesù d'essere un mago, lodandolo sempre come «uomo sapiente». Testo

  25. R.L. Wilken, cit., p. 211 Testo

  26. R.L. Wilken, cit., p. 229. Giuliano sostiene che il solo autore neotestamentario a chiamare Gesù Dio è Giovanni, Paolo, Matteo, Luca e Marco non lo chiamano mai in tal modo. Testo