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Recensione a Roberto Mancini, L'amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas

di Clara Aiosa (15 giugno 2007)

Recensione a Roberto Mancini, L'amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 290, ISBN 88-308-0826-1, € 15.90.

L'autore, giovane docente di Filosofia Teoretica e di Ermeneutica Filosofica all'Università di Macerata, non è nuovo a pubblicazioni dense di profonde riflessioni. Dopo aver investigato l'umano tra quotidianità, etica, verità, esistenza e gratuità, globalizzazione e mistero del tempo, continua il suo viaggio, visitando stavolta il terreno della non-violenza.

Cuore della riflessione di Mancini non è tanto la riflessione sulle tecniche non-violente, quanto piuttosto l'indagine sulle implicazioni antropologiche, etiche e politiche che il paradigma della non violenza immancabilmente produce. La riflessione è condotta assumendo quali testimonianze-guida tre autorevoli "interpreti": Mohandas K. Gandhi, Aldo Capitini, Emmanuel Levinas, convinti tutti e tre, sia pure partendo da condizioni e tradizioni diverse, della necessità che la pace e la non violenza diventino pratica d'azione e stessa ottica a partire dalla quale vivere e interpretare l'esistenza.

Articolato su quattro capitoli, è l'introduzione dello stesso autore a offrire, a lui per primo, la chiave di lettura del percorso proposto. È lo shock provocato in lui -- come in tutti -- dalle stragi che quotidianamente si consumano sotto gli occhi del mondo, Srebenica, Ex Jugoslavia, Ruanda, Medio Oriente, Afghanistan, Darfur, Cecenia, a porre le domande fondamentali: quante altre ancora, quale il metodo per affrontarle, quale ordinamento giuridico internazionale, quale via seguire?

Da qui si sviluppa il ragionamento di Mancini. Non l'apologia della guerra, né l'inerzia, occorre un altro ordine mondiale: "... Devono cambiare molte cose, dall'economia alla politica, dal diritto all'educazione, dalle forme sociali alle religioni. Servono allora fonti culturali purificate, ariose, affidabili, capaci di spingere verso la separazione, sul piano delle azioni storiche, dell'efficacia dalla violenza... un viaggio alle possibili sorgenti filosofiche, sapienziali e religiose di una cultura politica che sia al servizio esclusivo della pace e dell'unica giustizia autentica, quella che non produce vittime" (p. 9).

L'approccio tipicamente filosofico al tema intende -- è questa la prospettiva dell'autore -- indagare il significato e il valore della non violenza, per metterne in luce la ricchezza esistenziale su cui costruire un'antropologia umana, a partire dall'esperienza dell'amore. Ma -- a mio avviso -- è proprio l'argomentazione filosofica dell'autore a costituire il pregio fondamentale di questo volume.

In un'epoca, quale è la nostra, oltremodo refrattaria alla riflessione e al ragionamento, a tutto vantaggio della cosiddetta "pratica" e/o dell'agire a prescindere dal pensiero, la proposta di ripensare l'amore e di interpretarlo razionalmente, perché strappato all'ovvietà di una pratica sterile, assume i caratteri di una via realmente percorribile, diventando paradigma a partire dal quale costruire un nuovo ordine mondiale. Altrimenti l'alternativa, per dirla con Zygmunt Bauman, è un "amore liquido" che mal si coniuga con un'autentica visione dell'uomo e sull'uomo.

Ma seguiamo più da vicino il ragionamento di Mancini. Il punto fondamentale del suo ragionamento consiste nel superare la fragilità dell'amore, così come è vissuto nei rapporti interpersonali, per imparare ad amare con amore politico non violento, inteso come capacità di superare tutti i paradigmi distruttivi che caratterizzano l'esistenza umana e come possibilità data alla stessa umanità di umanizzarsi: "... un superamento che coincide con la possibilità della nostra umanizzazione, se è vero che imparare ad amare è il nucleo del divenire compiutamente noi stessi" (p. 11).

Una premessa antropologica sull'amore e sulla umanizzazione in cui l'autore, attingendo alle grandi tradizioni religiose -- greche, cristiane, induiste -- dilata il senso stesso dell'amore per giungere a un orizzonte pienamente universale in cui comprendere e ricomprendere tutte le "alterità". Amare diventa perciò -- sono le parole stesse di Mancini -- "... movimento espansivo, di dilatazione, che sposta i confini... in cui tornano, riviste da uno sguardo fraterno e sororale, tutte le figure dell'alterità estrema... la persona amata, i vicini, le figure di quelli che sono scomparsi, dei lontani, del nemico" (pp. 62. 63). È questo l'amore politico.

Alla luce di questa premessa, Mancini rivisita le testimonianze di Gandhi, Capitini e Levinas, i cui percorsi personali mostrano l'inveramento della universalizzazione dell'amore.

Del Mahatma Gandhi ciò che conta è accogliere le caratteristiche fondamentali della non violenza: come legge dell'umanità, come fede nel Dio-Amore, come attuazione e difesa della dignità umana, come fedeltà incondizionata alla dignità, come potere accessibile per chiunque, come azione che riguarda i singoli e le comunità.

Di Aldo Capitini, testimone di un percorso di umanizzazione nella realtà italiana tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, segnata dal cattolicesimo preconciliare, dall'idealismo neohegeliano di Croce e Gentile e dal neomarxismo, Mancini ne richiama la convinzione fondamentale: "il valore infinito delle vite, del creato intero e di un Dio che sia amore e compagnia dei viventi" (p. 145).

Capitini interpreta una "presenza", quella del Tu divino, che diventa ermeneutica dell'esistenza e cammino di "speranza". Così sintetizza Mancini l'opera del filosofo perugino: "Capitini non è affatto un autore patetico; al contrario, il suo senso del Dio vivente, così come lo spirito di gentilezza e di tenerezza per ciò che è minacciato inducono in lui una tenace ricerca di efficacia del bene, della cura, dell'azione che trasforma le situazioni insufficienti o pericolose per il valore di ogni essere umano e del mondo. Visto che gli uomini confidano spesso nella violenza come se fosse la soluzione più pratica e rapida nelle loro controversie o per le loro aspirazioni, il filosofo sa che il compito cruciale sta nel dare "un altro impulso alla civiltà" (p. 148). La fondazione filosofica della non violenza proposta da Capitini coinvolge tutti gli elementi qualificanti l'esistenza umana: libertà, tempo, valori, verità, giustizia, bellezza, bontà, la stessa fede: assumere la non violenza, esige, infatti, credere in essa.

L'ultimo testimone della riflessione di Mancini è Emmanuel Levinas. Del filosofo francese, l'autore richiama la genesi della sua domanda decisiva. Scampato allo sterminio nazista, Levinas si chiede, contrariamente all'Occidente che era partito dall'ente e dall'essere, "perché io vivo e l'altro è stato torturato, gassato, distrutto? " (p. 217).

Da questa domanda fondamentale ne deriva tutto l'impianto della riflessione levinasiana, che culmina nella proposta della "politica della restituzione". Essa "in quanto praticata da soggetti collettivi, appare pensabile anzitutto come una prassi in cui il modo d'essere di chi vi è coinvolto è proteso a inverare la fraternità. Si manifesta poi come una prassi che ha dimesso le opere tragicamente paradossali della distruzione, della vendetta, del dominio, poiché invece porta le sue energie nel prendersi cura della condizione comune di una determinata società e, in definitiva, dell'umanità. Se ne prende cura per sollevare le vittime, per non ricacciare ancora altre persone in questa condizione, per smontare la costruzione dell'identità dell'altro come nemico. In tal modo questa prassi si esprime nel movimento per cui i soggetti politici si fanno corresponsabili della convivenza nella giustizia e sono interessati solo a quello che fa crescere questa possibilità. La politica della restituzione non cerca la vittoria sugli altri; cerca di approfondire e consolidare i gradi di liberazione della convivenza avendo cura della gestazione della società umanizzata" (p. 282).

Il volume di Mancini, ovviamente, va al di là di quanto ho sintetizzato. Il suo pregio, a mio avviso, è quello di avere "avvertito" sulla necessità e sull'urgenza di riappropriarci della memoria di un'umanità "vinta", "sofferente", "uccisa", "caduta nell'oblio" e da qui, passando per tutti coloro che non hanno dimenticato, riappropriarci di un pensiero che, piuttosto che fare epoché del male e della violenza, della distruzione e della disperazione, tutti li capovolga in vista di un progetto politico umanizzante le società degli uomini e l'umanità intera.

Una "grammatica" filosofica sulla nonviolenza che diventa perciò occasione e strumento per ripensare "eticamente" e "politicamente" il mondo e la storia, l'impegno e la responsabilità dei singoli come delle comunità, e che si fa, essa stessa, "sintassi" offerta agli uomini e alle donne di oggi e di domani per "pensare" quale mondo da costruire e come costruirlo.

Dal mio punto di vista, infine, sono grata all'autore, per aver intrecciato sapientemente tradizioni filosofiche e tradizioni religiose, in particolare la tradizione cristiana. E gli sono grata anche per avere parlato di un'antropologia duale, dell'uomo maschio-femmina. Ne è testimonianza la sua insistenza sulla fraternità e sulla sororità.

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