Desiderio e grazia. Levinas e De Lubac

L’intelletto desidera vedere l’essenza divina, e il desiderio naturale è inevitabile.1 Questa affermazione di San Tommaso sul desiderio naturale fu un argomento di polemica nel Novecento per quanto riguarda il rapporto tra naturale e soprannaturale e la realizzazione dell’essere umano oltre la natura. La teologia cattolica tradizionale tendeva a vedere nella grazia una sovrastruttura imposta alla natura, come se ci fosse una specie di natura pura separata dal campo della grazia.2

Henri de Lubac critica la concezione corrente del soprannaturale, concezione che egli ritiene troppo estrinsecistica, e cerca di sostituirla con una concezione più conforme al pensiero biblico e patristico. In questo senso, rileva che la concezione del naturale e del soprannaturale, come due ordini chiusi e paralleli, deriva dalla teologia del XVII secolo che si contrapponeva al baianismo,3 ma si trovava già implicita a partire dal XVI secolo nel pensiero di Caetano.4 Questa teologia non è riuscita, infatti, a vedere il dinamismo ontologico dello spirito, che costituisce in Tommaso la chiave interpretativa del desiderio naturale di vedere Dio.5

Va osservato che la trascendenza, secondo Levinas, è una trascendenza verso l’altro, un movimento che non prende la sua origine dall’Io. La fuga è tuttavia un movimento che va dalla minaccia e dal terrore dell’essere puro all’incontro con un’altra persona, cosicché l’indeterminatezza dell’altro determina il sé come risposta e responsabilità. In questo senso, l’analisi del desiderio metafisico levinasiano consentirà di comprendere meglio il dinamismo del desiderio naturale per il soprannaturale e lo spazio che l’uomo, nella sua esistenza, può dare a Dio.6 In effetti, la soggettività umana è costituita da un desiderio naturale per Dio, malgrado l’uomo sia un essere finito, che non può realizzare da solo la sua stessa intenzione. In questo senso, il desiderio non è l’opera dell’essere umano ma di Dio, e così solo colui che l’ha posto nel cuore umano può portare la sua vocazione a compimento.

1. Il significato filosofico del desiderio secondo Levinas

La considerazione che fa Levinas sul bisogno, il piacere e la vergogna dà inizio alla sua analisi fenomenologica che emerge effettivamente nella trascendenza del desiderio. Il bisogno rimanda alla soddisfazione, al piacere e alla restaurazione della pienezza naturale: esso risponde solo a una mancanza nell’essere che si soddisfa quando si riempie. Nel suo libro De l’existence à l’existant,7 Levinas descrive il bisogno in termini di masticazione, consumazione e alimentazione; e così il bisogno cerca la fuga e il rilassamento, ma, invece di raggiungere la soddisfazione, cade nell’insoddisfazione dell’essere stesso che nessun oggetto può placare.8

L’orientamento del Nostro autore, però, non procede dal bisogno, che si apre su un mondo che rappresenta il ritorno a sé, l’ansietà dell’Io, la forma originale dell’identificazione che chiamiamo di solito egoismo.9 L’unica via che Levinas propone è la redenzione etica in cui l’altra persona interviene, insinuandosi nelle spaccature della nostra esistenza. In questo contesto, emerge un movimento che va dall’anonimia dell’essere puro all’al di là dell’essere, dall’il y a (l’esistenza anonima) verso l’illeità (una terza persona), o dalla paura alla responsabilità.

Al soggetto che si definisce, secondo Heidegger, mediante la preoccupazione per se stesso e porta a compimento il suo essere per se stesso nella felicità, Levinas oppone il desiderio dell’altro che procede da un essere già colmato e indipendente, che non desidera niente per se stesso. Si tratta qui del bisogno di colui che non ha più bisogni, che si riconosce nel bisogno dell’altro, il quale non costituisce né un nemico né un complemento. In altre parole, il desiderio altrui nasce all’interno di un essere a cui non manca niente, e oltre tutto quello che può soddisfare i bisogni umani. Va ricordato che il Bene è separato dalla totalità dell’essenza nella metafisica greca; esso intravede una struttura in cui la totalità ammette l’aldilà. In questo senso, Platone rileva che esistono aspirazioni non precedute da sofferenza o mancanza, in cui troviamo il disegno del desiderio, come aspirazione di colui che possiede interamente il suo essere e va oltre la sua pienezza, avendo l’idea dell’infinito.10

Levinas ricorre all’ego cartesiano secondo il quale l’Io che pensa intrattiene con l’Infinito una relazione diversa da quella che lega il contenente al contenuto, in quanto l’Io non può contenere l’Infinito; d’altra parte questa relazione è diversa da quella che lega il contenuto al contenente, giacché l’Io è separato dall’Infinito. Di conseguenza, l’idea dell’Infinito ha qualcosa di eccezionale, così che il suo ideatum supera la sua idea, e l’intenzionalità che anima la sua idea non può essere paragonata ad alcuna altra idea; l’Infinito è il totalmente altro. L’idea dell’Infinito non è, per lo più, una semplice reminiscenza, ma è stata messa dentro di noi e si mantiene solo nel rapporto con l’altro o nel rapporto sociale. Ecco perché l’Infinito di questo essere che non possiamo contenere, garantisce e costituisce l’esteriorità, che resiste a tutti i miei poteri, poiché la sua epifania si contrappone alla ricerca del potere e all’annientamento dell’altro.11

L’idea dell’infinito suppone la separazione dello stesso in rapporto all’altro. In questo contesto, l’ateismo è quella separazione completa che l’essere separato mantiene da solo nell’esistenza, senza partecipare all’Essere, da cui è separato e a cui può aderire tramite la credenza. L’ateismo è una posizione anteriore alla negazione e all’affermazione del divino, la rottura della partecipazione, a partire da cui l’Io si pone in quanto tale.12 È una grande gloria per il Creatore, sottolinea Levinas, aver creato un essere capace di ateismo, un essere che, senza essere stato causa sui, ha lo sguardo e la parola indipendenti, e sta a casa propria.

Levinas ricorda che la filosofia occidentale è stata spesso un’ontologia, cioè una riduzione dell’altro allo stesso, tramite un termine medio e neutro che assicura l’intelligenza dell’essere. In effetti, il primato dello stesso era la prima lezione di Socrate, secondo il quale tutto ciò che viene dagli altri lo possediamo già dentro di noi. Di conseguenza, la conoscenza diventa dispiegamento di questa identità, cosicché l’ideale della filosofia socratica si basa sulla sufficienza essenziale dello stesso e sul suo egoismo, e la filosofia si trasforma in egologia.13 La filosofia segue dunque la maieutica socratica, per cui ogni insegnamento e conoscenza si trovano già nell’anima.14 Se la relazione con l’essere che si vuole come ontologia consiste nel neutralizzare l’ente per afferrarlo, nel ridurre l’altro allo stesso, la libertà consiste allora nel mantenersi contro l’altro, nonostante la relazione con lui.

La stessa filosofia di Heidegger, sottolinea Levinas, porta ad un’altra tirannide e al dominio, facendo passare l’essere prima dell’ente, l’ontologia prima della metafisica, la libertà prima della giustizia e lo stesso prima degli obblighi verso l’altro. Nella tradizione filosofica, i conflitti tra lo stesso e l’altro si risolvono con la teoria, secondo la quale l’altro si riduce allo stesso nel primato dello Stato, che porta infine all’oppressione tirannica dell’Io nella totalità.

Il nostro proposito, dunque, tiene conto della relazione con l’altro, in quanto interlocutore, prima di ogni procedura ontologica. Se l’infinito pensato concretamente a partire dall’essere separato, è un infinito che si supera, la separazione è la costituzione del pensiero e dell’interiorità, è il fondamento di una relazione basata sull’indipendenza. In effetti, l’infinito si produce quando rinunciamo alla totalità, lasciando uno spazio all’essere separato. Esso inaugura, oltre la totalità, una società aprendo un ordine del Bene, che va oltre le regole della logica formale, ove si nasconde la distinzione tra bisogno e desiderio, dove emerge il desiderio nelle forme del bisogno.15

L’ordine del desiderio si afferma chiaramente con l’idea della creazione ex-nihilo, la quale rompe il sistema e pone un essere libero. In questo senso, svanisce il piano dell’essere bisognoso, avido dei suoi complementi, e si inaugura la possibilità di una esistenza sabbatica, che sospende le necessità dell’esistenza. L’ente deve essere libero, fuori dal sistema che suppone la dipendenza, giacché ogni restrizione alla libertà è una restrizione all’essere.

L’essenziale dell’esistenza creata non consiste nel carattere limitato del suo essere e la struttura concreta della creatura non si deduce da questa finitudine. L’essenziale dell’esistenza creata consiste nella sua separazione dall’Infinito. Questa separazione non è semplicemente negazione. Compiendosi come psichismo, essa si apre precisamente all’idea dell’Infinito. Il pensiero e la libertà ci vengono dalla separazione e dalla considerazione di Altri — questa tesi è l’opposto dello spinozismo.16

In effetti, lo stesso raggiunge l’altro, proprio quando accetta di cercare la verità, invece di rifugiarsi nella sicurezza. Se la verità si dispiega nell’apparizione delle forme, nell’epifania a distanza, senza separazione non c’è allora alcuna verità, perché questa suppone un essere autonomo nella separazione, una relazione che non si basa sulla privazione del bisogno, ma che si riferisce all’altro e non perde mai il contatto con lui.

È da rilevare che oltre la fame, la sete e i sensi che possiamo placare, esiste l’altro, assolutamente altro che desideriamo al di là delle soddisfazioni. Il desiderio è insaziabile, perché non richiama alcun nutrimento, e il vero desiderio non si riferisce a una patria o al ritorno da qualche parte, ma è la mancanza di un essere cui non manca niente, è un desiderio che il desiderato accresce invece di colmare, così come tende verso l’assolutamente altro. Tuttavia, la nostra falsa comprensione del desiderio deriva dalla sua confusione con il bisogno, il quale segna un essere indigente, incompleto o decaduto dalla sua grandezza passata, e coincide con la coscienza di ciò che è stato perso.

Il desidero metafisico, sottolinea Levinas, è un desiderio di un paese in cui non siamo nati, un paese estraneo ad ogni natura, che non è stato la nostra patria, e in cui non ci trasferiremo mai. Il desiderio metafisico desidera l’aldilà di tutto ciò che si può contemplare; ecco perché parlare con leggerezza di desideri soddisfatti come se fossero dei bisogni sessuali, rileva che i nostri desideri e i nostri amori non sono per niente puri.17

La generosità nutrita dal desiderato proviene dalla separazione, che diventa radicale quando il desiderio non anticipa il desiderato e non lo pensa a priori, ossia quando va verso di esso nell’avventura dell’alterità assoluta, come se andasse verso la morte. Il desiderio è assoluto, secondo il Nostro Autore, se l’essere desiderante è mortale e il desiderato è invisibile. In questo senso, la metafisica desidera l’altro oltre le soddisfazioni e avverte l’allontanamento, l’alterità e l’esteriorità, desiderando l’invisibile per cui è disposta a morire,18 e così l’Infinito nel finito si produce come il desiderio dell’infinito che il desiderato continua a suscitare invece di soddisfare.19 L’Infinito, di cui parliamo qui, non è un oggetto immenso che supera gli orizzonti dello sguardo, ma un’idea che proviene dal pensato, dal volto dell’altro.20

Non vogliamo con questo favorire l’irrazionalità, bensì la fine del pensiero solitario, economico e interiore, e l’inizio dell’esperienza del nuovo. La relazione con l’altro si fa nel desiderio di andare verso di lui, ma è il suo volto che mi consente di andare oltre l’idea che ne porto dentro di me. E così Levinas supera l’ontologia contemporanea, sostenendo una concezione nuova di verità, che non è lo svelamento di un Neutro impersonale, ma una espressione.

Il Desiderio è una aspirazione che il Desiderato suscita; esso nasce dal suo oggetto, è una rivelazione. Il bisogno, invece, è un vuoto dell’anima che parte dal soggetto. […] Il Desiderio è desiderio in un essere già felice: il desiderio è la sfortuna del felice, un bisogno di lusso.21

La dimensione del divino si apre pertanto a partire dal volto umano, giacché la relazione con il Trascendente è una relazione sociale. La vicinanza del prossimo è un momento ineluttabile della rivelazione, di una presenza assoluta che si esprime e si manifesta nel volto dello straniero, della vedova e dell’orfano.22 Ecco perché l’uomo rimane sotto choc quando passa indifferente davanti agli altri, laddove il rapporto con loro lo svuota da se stesso, aprendogli delle nuove risorse. In effetti, l’epifania dell’altro passa attraverso il volto, che mi chiama a rispondergli nella diaconia del servo sofferente.23

Ma se l’aldilà è al di là del mondo e di ogni svelamento, che cos’è questa relazione sottratta allo svelamento e al nascondimento? Che cos’è questa assenza in cui l’altro non si riduce allo stesso? In effetti, il volto è l’unica apertura, che consente di non annullare la trascendenza nell’ordine dell’immanenza, il volto ci porta verso un ordine personale che sta oltre l’Essere. Oltre l’Essere c’è una terza persona (il) che non si definisce con l’ipseità, ma sfugge al gioco bipolare dell’immanenza e della trascendenza, esprimendo l’inesprimibile irreversibilità, oltre la rivelazione e il nascondimento.

La traccia è un segno che rimanda a qualcos’altro, assomiglia ai resti che indicano allo storico la verità delle civiltà del passato. La traccia è un passo verso un passato che va oltre ogni passato o futuro, per raggiungere il passato dell’altro, il passato assoluto che riunisce tutti i tempi. In questo senso, il volto si trova nella traccia dell’illeità che sta all’origine dell’alterità dell’essere. L’idea dell’immagine di Dio, a sua volta, rimanda alla ricerca nella sua traccia, il Dio rivelato della nostra spiritualità ebraico-cristiana conserva l’infinità della sua assenza e si mostra solo nella sua traccia, secondo il modello di Esodo 33. Andare verso Dio, non consiste dunque nel seguire la sua traccia ma nell’andare verso gli altri che si tengono in essa, poiché il Dio invisibile e personale non può essere trattato a prescindere dalla presenza umana.24

Di conseguenza, l’uomo non si definisce solo mediante la soddisfazione del suo bisogno, ma attraverso il desiderio e il superamento del suo desiderio. Vi è un amore autentico, sottolinea Claude Geffré, solo se l’Altro è riconosciuto come un soggetto e non come un oggetto disponibile. Si tratta della conversione del bisogno in desiderio, che può essere il luogo dell’esperienza dell’Altro come Altro nel suo mistero unico, e della gioia. La soddisfazione del bisogno, soprattutto di quello sessuale, coincide con la sparizione del suo oggetto come oggetto di consumazione, mentre l’insoddisfazione del bisogno nell’ordine del desiderio umano rivela l’altro diverso da un oggetto di piacere e lo riconosce come Altro.25 Se, infatti, Dio non appartiene all’ordine del bisogno ma a quello del desiderio, occorre superare la nostra ricerca della presenza immediata di Dio, per scoprire il mistero della sua Alterità e del suo essere in quanto tale. E questo sarà il cammino del soprannaturale come lo presenta il teologo francese Henri de Lubac.

2. Il dibattito sul desiderio naturale del soprannaturale e il dualismo moderno

Nella sua opera Surnaturel,26 che è la seconda opera principale dopo Cattolicismo, Henri de Lubac intraprende una ricerca su un tema controverso tra i discepoli di Tommaso d’Aquino e i suareziani,27 stabilendo i principi metodologici della sua stessa teologia. Questa pubblicazione, insieme a quella del suo articolo Le mystère du surnaturel,28 fece scatenare contro di lui l’ostilità dei domenicani e dei suoi confratelli gesuiti, tanto da far sì che Gregorianum e Angelicum si mettessero d’accordo per criticarlo intorno all’anno 1950.

Alla fine del XVI e durante i seguenti secoli si produsse una mutazione intellettuale e spirituale: l’uomo percepiva più vivamente l’autonomia della sua esistenza e del suo agire, facendone l’oggetto della sua riflessione, così che tanti umanisti assunsero come ideale il rinascimento pagano correndo il rischio di naturalizzare l’uomo. Sulla scia di questa svolta, i teologi cattolici affermarono la gratuità assoluta della grazia con cui l’uomo viene elevato alla condizione soprannaturale, sostenendo l’ipotesi di una natura pura. La maggior parte dei teologi affermarono, infine, che l’uomo era naturalmente ordinato a un fine proporzionato alla sua natura, un fine naturale che Dio, per pura gratuità, avrebbe elevato a un fine soprannaturale. Questo era il problema del soprannaturale ancora all’inizio del Novecento; sin dal principio dei suoi studi (1924), tuttavia, Lubac scartò questa tesi, sottolineando che Baio e Giansenio, introducendo l’idea di esigenza nella grazia, non erano per niente discepoli fedeli a sant’Agostino.

L’uomo, essendo incapace di svilupparsi e autocompiersi da solo, ha infatti bisogno del soccorso di Dio per compiere il suo destino. Ma, se Agostino enfatizza il ruolo della grazia, Baio afferma che la grazia non ha niente a che fare con l’uomo innocente, ovvero che l’uomo per la sua natura ha su Dio dei diritti rigidi, in modo che il soccorso divino è il pagamento di un debito di giustizia. Se, infatti, Agostino sostiene che l’uomo con il soccorso divino può raggiungere tale felice condizione, Baio vede nel soccorso della grazia un mezzo necessario messo a nostra disposizione per farci meritare la vita eterna. In questo contesto, non si può più parlare di mistero d’amore tra Dio e l’uomo, e la vita eterna viene proposta all’uomo come una retribuzione necessaria. Secondo il magistero, le tesi di Baio fanno eco più al pensiero pelagiano che a Agostino, e perciò verranno confutate.29

L’errore di Baio consiste nel dare tutto alla natura nello stato di innocenza e niente alla grazia. Se Pelagio sostiene che l’autonomia umana consiste nel fatto che la natura ha una potenza propria di fronte a Dio, essa consiste secondo Baio nel fatto che l’uomo davanti a Dio ha dei diritti. Se, quindi, l’uomo di Pelagio è arrogante, quello di Baio è esigente, e nessuno di loro si comporta da figlio di fronte a suo Padre. È da notare che la giustizia nel pelagianismo è tutta opera dell’uomo, laddove il baianismo richiede, anzi pretende, un intervento divino, perché la creatura umana possa raggiungere il suo fine, ma ciò che Dio dà all’uomo non viene ricevuto come un favore, ma piuttosto come diritto.30

La dottrina giansenista, a sua volta, contiene degli errori, rovesciando però l’ordine che abbiamo intravisto nel baianismo. Baio concepisce il rapporto tra Dio e la creatura secondo il modello di un bilancio di banca o di un contratto di lavoro. Egli sembra aver mantenuto lo spirito farisaico che stabilisce tra Dio e l’uomo una convenzione giuridica o un processo continuo per ottenere una sentenza di giustificazione.

Giansenio, diversamente, costruisce le sue tesi intorno all’immagine di un Dio terribile nella sua onnipotenza, che non conosce alcuna legge e non rende conto a nessuno, salvando l’uno e condannando l’altro, secondo il suo piacimento. La grazia diventa, pertanto, la manifestazione di una potenza divina arbitraria e tirannica, che dissolve l’unione tra Dio e la creatura, annullando l’uomo. Se Dio è terrificante e la grazia è rara, Gesù Cristo è morto allora per salvare un piccolo numero di uomini.

Il libro Augustinus, come sappiamo, è la spina dorsale del giansenismo; in esso l’autore sostiene che senza la grazia nessuno sarebbe stato salvato o avrebbe potuto fare del bene, né l’uomo prima della caduta, né gli angeli. Giansenio si dedica quindi ad interpretare i capitoli XI e XII di De correptione et gratia, in cui Agostino opponeva i rapporti tra grazia e libertà nell’innocente Adamo e in noi peccatori. È la complessa questione del adjutorium sine quo non e dell’adjutorium quo, o l’opposizione agostiniana tra la «grazia di salute» e la «grazia medicinale», che sarà sfruttata da Calvino contro le decisioni del Concilio di Trento.31

Lubac si interessa solo al adjutorium sine quo non, cioè al rapporto primitivo e permanente dell’uomo con Dio, senza discutere le modifiche introdotte dal peccato originale e le sue conseguenze. Per questo, intraprende un’analisi della concezione agostiniana della grazia adamica a prescindere dall’Augustinus. Secondo Agostino, la grazia di cui godeva Adamo era un soccorso senza il quale la perseveranza sarebbe stata impossibile, laddove il giustificato oggi riceve il soccorso per poter perseverare nel bene. Sebbene la natura di Adamo sia stata più forte di quella dell’uomo giustificato, egli non poteva agire indipendentemente dal suo Creatore, perché la fissazione nel bene o la perseveranza è sempre un dono ricevuto.32 La stessa cosa dice Agostino a proposito degli angeli che ebbero bisogno, per perseverare nella loro fedeltà a Dio, di una grazia particolare che gli angeli peccatori non ricevettero.33 Agostino fa il paragone tra Adamo e l’uomo giusto, distinguendo tra le due grazie come segue:

Certo l’aiuto era tale che egli poteva abbandonarlo quando lo voleva, oppure permanervi se lo voleva; ma esso non poteva far sì che volesse. Questa è la prima grazia che fu data al primo Adamo; ma una più potente di questa è nel secondo Adamo. Infatti la prima è quella che fa avere all’uomo la giustizia, se vuole; ma la seconda ha maggior potere, perché fa anche sì che egli voglia e voglia tanto intensamente e ami con tanto ardore da vincere con la volontà dello spirito la volontà della carne che ha brame contrarie.34

Se Adamo aveva bisogno della grazia per potere agire bene, noi abbiamo bisogno di un soccorso precedente per poterne disporre. Tuttavia, leggendo Agostino senza falsificarne il pensiero, constatiamo che la grazia non viene a sostituire la nostra volontà. Se l’adjutorium quo o la grazia di vittoria sul peccato è più abbondante, più grande, più potente di quella che operava in Adamo nel paradiso, la grazia è sempre dipendente dalla volontà dell’uomo, essa non offusca né sostituisce il volere libero dell’uomo. Di conseguenza, dall’uomo innocente all’uomo redento da Cristo, esiste una continuità profonda che Giansenio misconosceva.35

Non possiamo limitare l’adjutorium sine quo non alla grazia sufficiente, con cui Giansenio caratterizza il primo uomo, così anche non possiamo ridurre l’adjutorium quo alla grazia efficace che Dio dà, in Gesù Cristo, all’élite predestinata alla salvezza. Lubac vuole dunque superare la distinzione tanto tra grazia sufficiente e grazia efficace, quanto tra grazia santificante e grazia attuale, senza cadere nella speculazione sulla natura pura che caratterizzò la teologia moderna.

Contro le aporie sollevate da Baio e Giansenio, i teologi hanno immaginato, con Bellarmino, l’ipotesi di una natura pura; gesuiti e domenicani hanno poi trasformato, con Suarez, questa tesi in un sistema secondo il quale l’uomo è ordinato a un fine naturale. Contrariamente a Tommaso e seguendo Aristotele, essi sostengono che il fine è proporzionato alla natura di ogni essere, anche dell’essere umano, e così l’uomo ha due fini: naturale e soprannaturale. Tuttavia, questo sistema radicalizza la separazione tra teologia e filosofia che viene consumata con Cartesio, dando inizio alla laicizzazione moderna.36

Va ricordato che il termine soprannaturale non appartiene alla lingua del Vangelo: esso si è introdotto nella teologia occidentale a partire dal XIII secolo, occupandone tutto lo spazio, e ha raggiunto il suo punto culminante nella metà del XIX secolo contro le negazioni dei filosofi. Il tema è stato, infatti, trasferito nei trattati e nei manuali di dogmatica per costituire un capitolo nuovo posto tra la creazione e la giustizia originale; il titolo di tale trattazione era «la nozione dell’ordine soprannaturale», e si prefiggeva di amplificare le definizioni della grazia e di dare maggiore spazio alla dottrina della salvezza.37

È un fatto meritevole di rilievo che, da più di cento anni e nelle diverse opere, la nozione di soprannaturale si espliciti in due tempi: in primo luogo, «il soprannaturale è ciò che trascende le forze e le esigenze della natura creata o anche creabile; è una perfezione che non è costitutiva della natura dell’essere in cui si trova, che non risulta da questa natura e che non è esigita da essa»;38 ovvero ciò che non è dovuto alla natura, ma le vien dato gratuitamente; in secondo luogo, emerge una definizione positiva o reale o concreta, nell’affermazione che «ciò che costituisce il soprannaturale propriamente detto, è la partecipazione alla vita divina, mediante la grazia quaggiù, mediante la gloria nell’esistenza futura».39 I teologi si dividono per quanto riguarda la seconda definizione: alcuni considerano la grazia un semplice mezzo per giungere alla visione beatifica, mentre altri vedono in essa un indizio della vita eterna, definendo il soprannaturale come filiazione adottiva che dà diritto all’eredità del Padre.

Lubac esamina la questione del desiderio soprannaturale della visione beatifica, sottolineando che Tommaso riconosce che nell’uomo esiste un desiderio naturale per la visione beatifica, desiderio che non è una possibilità astratta, ma ha per causa Dio stesso, che lo innesta nella natura umana in quanto tale. Ciononostante, il conseguimento dell’ordine soprannaturale resta sempre un dono gratuito di Dio.40 Tanti teologi, però, respingono la formula: «desiderio naturale del soprannaturale», respingendo con essa la stessa dottrina di san Tommaso, che designa col termine soprannaturale il fine ultimo.

In effetti, l’affermazione di San Tommaso «Omnis intellectus naturaliter desiderat divinae substantiae visionem»41 contesta la tesi con cui i teologi del XVI secolo negarono all’intelletto ogni desiderio naturale di vedere Dio. Il problema emerse, in effetti, quando i valori dell’ordine soprannaturale, che caratterizzano i rapporti concreti dell’uomo e di Dio, vennero inseriti in un ordine meramente naturale. In questo contesto nacque la concezione di natura pura, che distinse tra il sistema compiuto della natura pura e la natura soprannaturalizzata. Per questo si parlò di desiderio naturale di Dio che l’uomo avrebbe avuto nello stato di natura pura; d’altra parte si fece cenno alla speranza soprannaturale del cristiano. Se il desiderio naturale percepisce Dio come «bonum naturale hominis», la speranza soprannaturale lo affronta come «supernaturale bonum».42

In effetti, negli scritti dei Padri della Chiesa l’immagine di Dio non viene presentata in riferimento a Platone ma alla Bibbia, e l’uomo viene definito come un essere creatura e spirito, che il Creatore fece con il suo soffio, ma che non è mai esistito come natura pura. Agostino, a sua volta, rappresenta un’espressione profonda del paradosso fondamentale che costituisce il rapporto dell’uomo con Dio, e, rompendo definitivamente con il naturalismo antico,43 insegna il valore ontologico della distinzione tra natura e grazia. Il carattere proprio e intrinseco dell’adozione divina è un elemento fondamentale della sua dottrina, giacché Dio ha un solo figlio generato dalla sua sostanza, il quale ha donato agli uomini la grazia di partecipare alla natura di Dio.44 Di conseguenza, la dottrina agostiniana accentua la deificazione da una parte, e la distinzione tra ordine naturale e ordine soprannaturale dall’altra. In ciò è possibile rintracciare un legame tra l’agostinismo e il tomismo, nonostante le loro divergenze tecniche.

La continuità tra Agostino e Tommaso emerge chiaramente con l’assioma: gratia perficit naturam.45 Se è vero che Agostino non misconosceva le caratteristiche principali dell’ordine naturale, è altrettanto vero che Tommaso non misconosceva quelle dell’ordine soprannaturale, ammettendo che la grazia è un compimento dato alla natura. L’uomo è ad immagine di Dio, anzitutto nel comprendere e amare Dio, che risiede nella natura stessa del suo spirito. Secondo la dottrina tradizionale, il soprannaturale voluto da Dio come fine ultimo della sua creatura, non mette nessun ostacolo allo sviluppo normale e alle attività della natura nel suo ordine, in modo che la distinzione tra natura e grazia sia sempre assicurata.46

È da notare che Tommaso intellettualizza il pensiero di Agostino, riferendosi però alla sua dottrina del desiderio di Dio. Ne consegue che la dottrina tomista va rivista alla luce della soprannaturalità della visione beatifica, del suo carattere assolutamente gratuito, in-dovuto e in-naturalizzabile. Il dualismo deforma, allo stesso tempo, il pensiero di Agostino e di Tommaso, respingendo il dogma fuori dal pensiero e il soprannaturale fuori dalla natura. Per questa ragione Lubac vuole ritrovare la vera concezione cristiana di natura e ragione che la modernità ha perso, ricordando che la dignità dello spirito rileva dal suo essere ad immagine di Dio, ma non una semplice forma della ragione.

Se la beatitudine soprannaturale è «Visio divinae essentiae», la visione dell’essenza divina o delle Persone divine, sottolineano i tomisti, non appartiene in alcun modo alla natura. Duns Scoto, invece, afferma che sarebbe possibile vedere l’essenza divina senza avere la vista delle Persone o vedere una Persona senza l’altra, ricorrendo a una distinzione nell’Essere tra l’essenza e gli oggetti secondari.47 Inoltre, diversi teologi del XIII secolo, sotto l’influsso di Avicenna, sostengono l’impossibilità di vedere Dio nella sua essenza, potendolo vedere solo nella sua gloria. Altri attribuiscono la visione dell’essenza divina all’ordine naturale, mentre quella delle Persone all’ordine soprannaturale: la distinzione tra le due visioni corrisponderebbe, cioè, a due modi di bramare la visione di Dio, piuttosto che di vederlo effettivamente.48

Occorre, però, segnalare che il desiderio di vedere l’essenza divina, secondo Tommaso, deriva dall’intelligenza come natura, non come potenza operativa. Tuttavia, l’uomo non può raggiungere questo bene con le proprie forze, perciò spetta a Dio soddisfare questo desiderio che ha posto nella natura umana. Tommaso vuole, inoltre, difendere la possibilità della visone beatifica contro le obiezioni dei filosofi e contro l’eccesso di una certa corrente tradizionale che proclamava l’invisibilità dell’Essenza suprema e la possibilità di contemplarla solo nel fulgore della sua gloria. Per questo, egli si occupa di mostrare come l’ordo gratiae avvolge e completa l’ordo naturae;49 d’altra parte, egli rimane attento al mistero della libertà divina, all’assoluta gratuità e alla generosità sovrabbondante del dono che Dio fa alla sua creatura.

Di conseguenza, Tommaso riconosce e mantiene l’osservanza della legge naturale, ma nega che ci sia una beatitudine naturale che l’uomo gode fuori dell’ordine sociale e mondano; tanto è vero che l’ordine naturale non è sufficiente per guidare l’uomo verso il suo fine ultimo. «In san Tommaso, l’oggettività delle leggi o delle essenze naturali non nuoce alla soprannaturalità del fine ultimo, neanche la finalità soprannaturale del soggetto nuoce alla solidità delle leggi di natura, fisica o morale».50 Il maestro angelico non difende due finalità nell’uomo, bensì sottolinea che le cose naturali hanno un fine all’interno della natura, mentre gli esseri spirituali hanno un fine al di sopra di ogni natura;51 il fine ultimo dei due fini sopraccitati è ovviamente la visione divina. Se la creatura spirituale ha Dio per autore, essa deve ugualmente averlo per fine ultimo; Dio è infatti la visione beatifica e la visione soprannaturale.52

La felicità razionale non rappresenta in sé il fine ultimo dell’uomo, poiché solo la conoscenza di Dio può generare la gioia perfetta e la felicità ultima. Con questo, occorre un dono sovrapposto perché l’uomo, usando il suo libero arbitrio, possa meritare la beatitudine soprannaturale ed essere ordinato ad essa. È la grazia a guidare l’uomo verso questo fine più alto e questo ordine che lo supera, per renderlo capace di vedere Dio.53 Ne consegue che Lubac, rifacendosi a Tommaso, non trasmetta un pensiero contradditorio, ma il paradosso stesso della natura umana che ha una doppia perfezione, naturale e soprannaturale; la perfezione ultima dell’uomo, però, è d’ordine soprannaturale. Per questo, la visione divina è un dono che l’uomo non può raggiungere senza la grazia santificante.

3. La gratuità della grazia

Lubac nega, come abbiamo visto, la necessità del concetto di natura pura per fondare la gratuità della grazia, perché con la natura pura il soprannaturale prende il senso di sopraggiunto.54 In effetti, l’idea di dono gratuito rileva da una richiesta insita nella natura creata, e presuppone il concetto di natura aperta e spirituale, che metta in luce le implicazioni del concetto di spirito creato. L’enciclica Humani Generis di Pio XII sembra però attaccare direttamente la tesi di Lubac, affermando: «altri snaturano il concetto della gratuità dell’ordine soprannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica».55

Il teologo francese pubblica dopo la sua riabilitazione dal Concilio due libri sullo stesso tema: Le mystère du surnaturel, e Augustinisme et théologie moderne. In queste opere egli non conduce più la sua battaglia contro il dualismo tra natura e soprannaturale, ma contro il laicismo e l’immanentismo storico, in quanto frutto amaro di una dottrina che esilia il soprannaturale fuori dallo spirito vivente e dalla vita sociale.56

In questo contesto, alcuni autori, come Rahner, hanno capovolto l’ordine abituale delle definizioni affermando che «è soprannaturale in senso stretto ciò che, in quanto partecipazione allo spirito e alla vita di Dio, trascende le capacità e le esigenze d’una natura spirituale creata: la grazia e la visione di Dio».57 Per lo più, il lessico precisa che la partecipazione trascende anche le esigenze di una natura spirituale creata, essendo un libero dono fatto da Dio in Gesù Cristo, dato anche precedentemente alla necessità di un perdono delle offese.

Lubac pone la domanda sulla possibilità di pensare il dono che Dio fa di se stesso, sottolineando che questo non può essere che totalmente gratuito: è la gratuità più alta e più pura che possa esistere.58 Inoltre, come per elaborare una dottrina teologica non c’è alcun bisogno di uscire dal reale, così pure per spiegare la gratuità del soprannaturale non abbiamo bisogno di alcuna speculazione astratta,59 poiché la gratuità si fonda sulla natura storica e effettiva dell’uomo che io sono hic et nunc.60

Il desiderio di vedere Dio non è un accidente o una realtà modificabile, che proviene da qualche contingenza storica o dipende dal mio volere deliberato; esso, infatti, è in me perché appartengo all’umanità attuale chiamata da Dio, il quale ha voluto una vocazione soprannaturale dell’uomo. In questo senso, la finalità che si esprime in questo desiderio è inscritta necessariamente nell’essere stesso dell’uomo, sin dalla sua creazione e dal momento in cui è stato messo in questo mondo.61

Se vi è nella nostra natura un desiderio di vedere Dio, è solo perché Dio vuole per noi questo fine soprannaturale che consiste nel vederlo. E perché lo vuole e non cessa di volerlo, ne depone e non cessa di deporne il desiderio nella nostra natura. In modo che questo desiderio non sia altro che la sua chiamata.62

Dio si fa vedere dagli uomini, come afferma sant’Ireneo, «quando vuole, a quelli che vuole e come lo vuole»;63 questo insegnamento vale infatti per tutti gli uomini della storia da Adamo ed Eva fino ai nostri giorni. La visione di Dio non è un fine possibile per l’uomo, ma il fine che Dio gli ha assegnato, del quale egli ha un desiderio naturale, al punto che, se non lo raggiunge, perde tutto.64

Se ammettiamo che un desiderio sarebbe vano se non venisse placato ottenendo il suo oggetto, il desiderio del soprannaturale deve essere allora una possibilità concreta e reale.65 Sebbene il desiderio di vedere sia un desiderio della natura umana, legato alla potenza obbedienziale specifica dell’uomo in quanto creatura intellettuale, Dio non si manifesta all’uomo che per grazia. Ma poiché Dio si dona e si fa vedere liberamente, occorre che questo dono soprannaturale sia gratuito rispetto alla mia natura concreta.

L’immagine di Dio nell’uomo, secondo i Padri, non è nient’altro che la sua natura stessa come spirito, o la parte superiore della sua natura, mentre la somiglianza divina rappresenta il possesso del fine soprannaturale. Nondimeno, dall’immagine alla somiglianza vi è un legame organico, nel senso che l’uomo è fatto a immagine di Dio, in vista della possibilità di raggiungere un giorno la sua somiglianza; egli è per natura il tempio di Dio, destinato a ricevere la sua gloria. Di conseguenza, l’uomo non possiede, sin dal principio, tutta la perfezione che Dio gli ha destinato, poiché questa è una partecipazione alla natura divina, che determina un divario tra la realtà originaria e il punto d’arrivo o tra l’immagine e la somiglianza, in cui trova posto l’esercizio del libero arbitrio.66

Come abbiamo già notato, il desiderio naturale è diverso dal desiderio biologico. Ecco perché lo spirito non desidera Dio come l’animale desidera la preda, ma lo desidera come un dono, cercando la comunicazione libera e gratuita con un Essere personale. Lo spirito esige che Dio sia libero nel suo dono e che sia se stesso, libero nell’accettazione di questo dono, dato in vista della felicità. Di conseguenza, la gratuità assoluta del dono divino è un’esigenza per la creatura stessa e per la grandezza del suo Dio. Tuttavia, questo desiderio non è una semplice ambizione platonica, inefficace, illusoria, perché lo spirito richiede che Dio si doni a lui nell’iniziativa del suo amore puro.

Immaginando due esseri uguali l’uno di fronte all’altro, rileviamo che il desiderio essenziale del primo costringe l’altro a colmarlo, mettendolo in uno stato di dipendenza, ma con Dio tale apparato di dipendenza non sembra compatibile. Per questo, il desiderio di vedere Dio non può essere assoluto, poiché Dio stesso sarebbe dipendente dalla sua creatura e il rapporto con lui diventerebbe una mera necessità. Ecco perché il desiderio di vedere Dio, che sta nella nostra natura, deriva dalla volontà di Dio, il quale ha stabilito per noi un fine soprannaturale, quello di vederlo.

È in noi l’azione permanente del Dio che crea la nostra natura, come la grazia è in noi l’azione permanente del Dio che crea l’ordine morale. Ordine della natura e ordine della moralità, questi due ordini contengono tutte le condizioni proprie per farci raggiungere il nostro fine soprannaturale, e tutti e due sono contenuti all’interno dello stesso mondo, di un mondo unico, che possiamo chiamare, sebbene contenga degli elementi naturali, mondo soprannaturale.67

Dio corona pertanto i nostri meriti e corona contemporaneamente i suoi propri doni, rispondendo così alla sua stessa chiamata. L’uomo, secondo tutta la tradizione cristiana, non ha nessun diritto di fronte a Dio: Deus nulli debitor est quocumque modo. Anche se l’uomo desidera Dio, Questi non è costretto a donarsi a lui se non lo vuole, ma l’uomo, cercando di possedere Dio, deve a sua volta donarsi a Lui.68

Come conciliare il desiderio naturale con l’esigenza divina? Un oggetto si impone a noi ed esige che lo vogliamo, anche quando la nostra coscienza lo ignora e quando la nostra libertà se ne allontana; la sua esigenza è tale che non possiamo evitarla. La natura obbedisce, infatti, al suo orientamento ontologico tramite il desiderio, come la volontà libera obbedisce alla legge morale con l’amore. Questa esigenza fu messa nell’uomo dal Creatore, quando lo fece a sua immagine, assegnandogli come ideale e termine la sua somiglianza. «Siate perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto» (Mt 5, 48), con queste parole si può capire la vocazione umana e lo slancio spontaneo del nostro essere verso un ideale di perfezione, il quale dà inizio alla nostra coscienza morale, espressa nell’amore e nella vita eterna.

Il mondo intero arriva al suo fine grazie all’essere spirituale, che lo riceve e lo porta verso il suo Creatore; lo spirito dona a Dio il mondo donando se stesso con un atto di abbandono totale, che raggiunge la sua perfezione nell’ordine soprannaturale, l’ordine della carità pura. Per questo, sarebbe assurdo ammettere l’idea di una beatitudine naturale che l’uomo esige da Dio, giacché lo spirito rende gloria a Dio solo unendosi a Lui e grazie alla sovrabbondanza del Suo amore. Dio è ovviamente carità e disinteressamento totale, che affronta il nostro servizio come una felice partecipazione alla sua vita e al suo amore, lungi dal diritto di un padrone verso il suo servo.69

Il soprannaturale è anzitutto la salvezza dell’uomo, allorché la creazione intera, compreso il mondo materiale, attende la redenzione finale e la partecipazione alla gloriosa libertà dei figli di Dio. L’uomo, in quanto creato a immagine di Dio, deve riportarsi alla grazia, che lo strappa al peccato e lo introduce nell’intimità divina, mediante il suo libero assenso. Sebbene l’uomo sia una pura relazione a Dio, pura dipendenza dalla sua Sorgente, la sua divinizzazione è una trasfigurazione, che esige il suo libero consenso, la sua risposta personale all’iniziativa divina. L’uomo, però, può rifiutare il dono di Dio senza cessare di essere la sua creatura, correndo il rischio di vivere in una costante contraddizione, negando l’atto stesso del suo essere. Per questo, solo l’opzione spirituale può stabilire una relazione immutabile tra grazia e natura.70

È da notare che la perfezione data in sovrappiù richiede una maggiore spiegazione in base al messaggio evangelico, lungi dalle controversie. Il Nuovo Testamento dice una sola cosa: in Gesù Cristo, Dio comunica agli uomini la vita eterna, cui essi si aprono nell’atto di fede (Gv 3, 16; 17, 3; 14, 23). Il Vangelo di Giovanni, infatti, presenta in questi versetti ciò che i teologi chiamano soprannaturale. La stessa cosa emerge nelle lettere paoline (cfr. Rm 6, 23), quando la grazia viene data da Dio nella morte e risurrezione del Cristo, mediante la fede. Ma la definizione più grandiosa dell’ordine soprannaturale è la nozione del Mistero con cui si apre la lettera agli Efesini (Ef 1, 9-10); è nell’unione con Cristo che avviene la divinizzazione dell’umanità, come insegnano i Padri della Chiesa, e persino nella beatitudine celeste il Cristo rimarrà l’intermedio fra Dio e gli uomini, in modo che Dio si vedrà solo nella contemplazione del Cristo.71

La lettera di Pietro, dichiarando che i fedeli diventeranno «partecipi della natura divina» (2 Pt 1, 4), si colloca in un contesto cristologico, poiché solo tramite la gloria e la virtù di Cristo può essere stata data ai credenti le preziosa promessa di partecipare alla natura divina. Per questo, trattare della grazia a prescindere dalla mediazione di Cristo è inaccettabile dal punto di vista teologico, in quanto la grazia, come afferma Rahner, è un’assimilazione e imitazione di Cristo, cosicché la visione del Padre non è possibile che attraverso l’umanità stessa di Cristo.72

Il soprannaturale diventa, nei trattati teologici recenti, la comunicazione che Dio fa di se stesso in Gesù Cristo e la partecipazione degli uomini alla vita divina. Questo è il senso della formula classica del «dono gratuito e dato in sovrappiù».73 La gratuità della comunicazione di Dio alla libertà umana si manifesta nella storia tramite la contingenza dell’apparire del Cristo e della fede dei cristiani. Con questo, il termine «dato in sovrappiù» designa la novità di Cristo, la novità dell’uomo ri-creato, e la novità delle prospettive aperte al mondo tramite la partecipazione della Chiesa.

Nonostante le polemiche sul soprannaturale, Lubac ebbe il merito di ritrovare in san Tommaso una natura umana capax Dei, ontologicamente orientata verso la visione beatifica, affermando che Dio non avrebbe fatto la natura se non l’avesse ordinata verso la grazia. Il che rileva il primato unitario della finalità e l’errore di sostenere l’esistenza di un fine naturale parallelo alla beatitudine soprannaturale, secondo un dualismo fisicista tra natura e grazia. Nondimeno, la vera tesi di Lubac è esattamente il contrario della famosa affermazione di Pio XII in Humani Generis. In effetti, l’opera di Lubac ha condotto il tomismo del XX secolo a una svolta o a una conversione, sfidando le affermazioni teologiche e magisteriali sulla natura pura.

Occorre dunque studiare la vecchia dottrina tripartita dei Padri e la loro distinzione tra immagine e somiglianza, la quale mette in rilievo il paradosso del vero uomo composto sempre da corpo e anima, che, senza lo spirito che assicura in lui il vero orientamento verso Dio, non sarebbe veramente questo uomo che Dio ha creato.74 Nondimeno il vocabolo «soprannaturale» appare troppo formale per esprimere la ricchezza del mistero cristiano.

4. Conclusione

Dio sta sempre aldilà, non è né una persona come le altre persone, né una cosa che si può sperimentare come gli oggetti del mondo. Se è vero, infatti, che la parola Dio appartiene alla nostra cultura occidentale imbevuta della tradizione ebraico-cristiana, la questione di Dio è tuttavia diventata totalmente libera, fa parte ormai di una scelta e di un interesse personali. Ciononostante, siamo convinti che la questione di Dio sia inscritta nella stessa questione dell’uomo, poiché la fede è l’emergere della questione di Dio nell’esistenza dell’uomo, il quale è un essere di desiderio e di superamento del suo desiderio.75

Levinas loda la grandezza di Dio che ha messo in piedi un essere capace di ateismo, differente dal suo Creatore. Per questo, bisogna imparare a parlare della creazione come vocazione e non come dipendenza causale, perché «solo questo intervallo di discrezione tra Dio e l’uomo rispetta allo stesso tempo la trascendenza di un Dio che esiste divinamente e la grandezza di un essere separato che esiste umanamente».76

Per scoprire il Dio che sta oltre l’utile e l’inutile, occorre smettere di ricorrere al bisogno di sicurezza dell’uomo contemporaneo di fronte all’angoscia del futuro, aprendosi piuttosto all’esperienza gratuita d’amore e d’amicizia, al superamento di sé nella responsabilità verso gli altri e alla capacità di creazione, gioco e festa conviviale. Si tratta di far morire il nostro bisogno di presenza immediata e colmante di Dio, per scoprirlo come donazione gratuita, origine senza motivo e senza principio, fonte d’acqua viva, che, pur essendo nell’ordine della chiamata, non risponde sempre alle nostre ricerche di sapere o d’amore.77

Dio, che si determina da se stesso, non può essere necessario, e il suo rapporto con l’uomo è un fatto di libertà, in cui la preghiera rappresenta il sacramento della gratuità reciproca. Dio è gratuito e più che necessario; gratuito perché l’uomo può essere autenticamente uomo senza di Lui, più che necessario perché se Dio si rivela, l’uomo fa una nuova esperienza della sua contingenza effimera e riconosce il Dio che decide per l’essere contro il non-essere.

La parola «gratuito» è una parola privilegiata della nostra sensibilità moderna, e designa il contrario di ciò che ha prezzo. Ma nel senso religioso essa deriva dalla grazia in quanto dono gratuito da parte di Dio, che precede ogni opera, sforzo e merito. La grazia rimanda alla priorità dell’amore di Dio, all’inoggettivabile, i cui motivi non si possono spiegare, anche se non siamo nell’ordine dell’arbitrario. Questo gratuito rivela il fallimento delle logiche del mondo, e apre l’orizzonte verso la logica meravigliosa e imprevista dell’amore.


  1. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Contra Gentiles, III, 57; Sth I. q 12, 1. ↩︎

  2. M. Purcell, Levinas and Theology, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p.114. ↩︎

  3. Cfr. M. Fransen, «L’agostinismo postridentino», in Mysterium salutis 9, Queriniana, Brescia 1975, pp.192-213. L’ordine soprannaturale, anche se «constitutive» non apparteneva nel pensiero di Baio alla natura umana, gli apparteneva «exigitive»: l’ordine soprannaturale era quindi un diritto dell’uomo innocente. In fondo la concezione baiana è molto simile al pensiero di Pelagio, quando afferma che i doni sono un diritto dell’uomo innocente. E così Baio non ha capito l’ordine soprannaturale quanto alla sua essenza e gratuità. ↩︎

  4. Cfr. L.F. Ladaria, Histoire des Dogmes, II, Desclée, Paris 1995, pp.390-396. ↩︎

  5. B. Sesboüé, «Surnaturel et surnaturel», Recherches de science religieuse XC (2002), p.182. ↩︎

  6. M. Purcell, Levinas and Theology, cit., p.95. ↩︎

  7. Cfr. E. Levinas, De l’existence à l’existant, Vrin, Paris 2004. ↩︎

  8. M. Purcell, Levinas and Theology, cit., p.96. Per una lettura generale di Levinas rimandiamo a S. Malka, Leggere Levinas, tr. it., a cura di E. Baccarini, Queriniana, Brescia 1986. Cfr. anche E. Baccarini, La persona e i suoi volti, Anicia, Roma 1996. ↩︎

  9. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, p.193. ↩︎

  10. E. Levinas, Totalité et infini, Kluwer Academic, France 2010, p.106. ↩︎

  11. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p.173. ↩︎

  12. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.52. ↩︎

  13. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.35. ↩︎

  14. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p.167. ↩︎

  15. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.107. ↩︎

  16. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.109. ↩︎

  17. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.22. ↩︎

  18. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.23. ↩︎

  19. Cfr. E. Levinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme, Payot & Rivages, Paris 1997. Il desiderio e la bontà suppongono concretamente una relazione, in cui il desiderato ferma la negatività dell’Io, che viene esercitata nello stesso, nel potere e nel dominio. ↩︎

  20. Cfr. E. Levinas, Autrement qu’être ou Au-delà de l’essence, M. Nijhoff, La Haye 1974. Si veda anche l’interpretazione di questa opera fatta da P. Ricœur, Autrement: lecture d’Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, PUF, Paris 1997. ↩︎

  21. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.57. ↩︎

  22. E. Levinas, Totalité et infini, cit., p.76. ↩︎

  23. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p.196. Levinas rimanda ovviamente a Isaia 53. ↩︎

  24. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit., p.202. Sul rapporto tra violenza e metafisica si veda J. Derrida, L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967. ↩︎

  25. C. Geffré, Le christianisme comme religion de l’Évangile, Cerf, Paris 2012, p.164. ↩︎

  26. Ricordiamo che questa opera fu considerata uno dei manifesti della Nouvelle théologie, sospetta di modernismo all’epoca. Vedi E. Poulet, «Henri de Lubac. Petite catéchèse sur nature et grâce. Paris, Fayard, 1980», Archives des sciences sociales des religions 50 (1980), pp.305-306. ↩︎

  27. H. de Lubac, Entretien autour de Vatican II, Cerf, Paris 1985, cit., p.32. ↩︎

  28. H. de Lubac, «Le mystère du surnaturel», Recherches de science religieuse 36 (1949), pp.80-121. ↩︎

  29. Vedi Bolla Ex omnibus afflictionibus, 1 ott. 1567; DS 1901-1980. ↩︎

  30. H. de Lubac, Augustinisme et théologie moderne, Aubier, Paris 1965, p.18. ↩︎

  31. H. de Lubac, Augustinisme et théologie moderne, cit., p.59. ↩︎

  32. H. de Lubac, Augustinisme et théologie moderne, cit., p.64. ↩︎

  33. A questo proposito Lubac commenta De civitate Dei, lib. XII, 2. «Essi (angeli peccatori) o ebbero una minore elargizione della grazia di amore divino a differenza di quelli che in essa si mantennero; oppure se entrambi furono creati ugualmente buoni, mentre i ribelli peccavano con la volontà cattiva, i fedeli più largamente favoriti giunsero alla pienezza della felicità, divenendo assolutamente certi di non venir meno ad essa. Ne abbiamo parlato anche nel libro precedente. Si deve dunque ammettere col dovuto ringraziamento al Creatore che non appartiene soltanto agli uomini in grazia ma si può dire anche degli angeli santi che l’amore di Dio è stato versato in essi per mezzo dello Spirito Santo che è stato loro dato. Si deve inoltre riconoscere che il bene, non solo degli uomini ma primieramente e principalmente degli angeli, è quello di cui è stato scritto:Ilmio bene è essere unito a Dio». ↩︎

  34. Agostino, De correptione et gratia, 11, 33. ↩︎

  35. H. de Lubac, Augustinisme et théologie moderne, cit., p.71. ↩︎

  36. H. de Lubac, Mémoire sur l’occasion de mes écrits (1989), Culture et Vérité, Namur 1992, p.352. «Un théologien luthérien, Hans Ph. Ehrenberg, remarquera que la connaissance de l’anthropologie chrétienne, ébauchée dans cet article, ouvre le dialogue oecuménique. L’auteur, commente Lubac, estimait que mon article mettait fin à un dualisme scolastique impensable, restaurait le meilleur de l’augustinisme, posait les bases d’une véritable anthropologie chrétienne, fournissait à la pensée luthérienne l’ontologie qui lui manquait, et devait ainsi permettre d’engager un dialogue sérieux entre Rome et les autres confessions chrétiennes». ↩︎

  37. H. Bouillard, «L’idea di soprannaturale e il mistero cristiano», in AA.VV., L’uomo davanti a Dio, Paoline, Roma 1966, p.780. ↩︎

  38. H. Bouillard, «L’idea di soprannaturale e il mistero cristiano», cit., p.782. ↩︎

  39. H. Bouillard, «L’idea di soprannaturale e il mistero cristiano», cit., p.782. «Donum naturae indebitum et sue radditum» cioè dono dato in sovrappiù. ↩︎

  40. B. Mondin, «De Lubac», in Dizionario dei teologi, Studio domenicano, Bologna 1992, pp.109-110. ↩︎

  41. San Tommaso, Contra Gentiles, 1.3, c. 57. ↩︎

  42. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, Aubier, Paris 1965, p.66. ↩︎

  43. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, cit., p.41. ↩︎

  44. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, cit., p.43. ↩︎

  45. Cfr. San Tommaso, De veritate, q. 27, a. 6. ↩︎

  46. Cfr. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.434. I teologi e i commentatori di san Tommaso accennavano alla differenza tra il significato originale del termine «naturale» il cui opposto è «beatifico», indicando che Tommaso voleva parlare solo di un desiderio elicito (volontario) che non ha alcuna radice ontologica. Tuttavia, nel pensiero tomista non vi è posto per una simile opposizione dei due tipi di desiderio (naturale e elicito), sostenendo che l’appetitus rationalis corrisponde nell’essere ragionevole all’inclinatio naturalis nell’essere senza ragione, e sarebbe in qualche modo la stessa potenza del desiderio elicito. ↩︎

  47. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, Aubier, Paris 1946, p.441. L’autore rimanda qui alla famosa controversia tomista-scotista sulla possibilità di vedere l’essenza divina senza le Persone. ↩︎

  48. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.444. ↩︎

  49. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, cit., p.49. ↩︎

  50. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, cit., p.58. ↩︎

  51. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.452. De Lubac si riferisce qui al testo di Tommaso: Ia, q. 23, a. 2. ↩︎

  52. De veritate, q. 18, a. I. «Non visio beati a visione viatoris disinguitur per hoc quod est perfectius et minus perfectevidere, sed per hoc quod est videre et non videre»↩︎

  53. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, p. 456. ↩︎

  54. Cf. B. Sesboüé, «Le surnaturel chez Henri de Lubac. Un conflit autour d’une théologie», Recherches de science religieuse 80 (1992), p.380. «Par un glissement malheureux, la grâce étant un don surajouté à la nature, la fin surnaturelle de l’homme a été aussi considérée comme telle». ↩︎

  55. DS 3891. Vedi R. Repole, «Antropologia teologica e psicologia della personalità umana: incontri suggestivi», Tredimensioni 4(2007), pp.234-248. Con «natura pura» si deve intendere quell’uomo che Dio avrebbe potuto ipoteticamente creare senza ordinarlo ad un fine soprannaturale, ovvero senza ordinarlo alla relazione con Lui. Siccome è una ipotesi, è chiaro che non si sta parlando dell’uomo realmente esistente, quello che conosciamo dalla Rivelazione. Si sta parlando di un ipotetico uomo creato da Dio, ma non ordinato ad un fine soprannaturale. Questa ipotesi serve ad evitare il pericolo di considerare come stato «naturale», secondo quanto sosteneva invece Baio, la relazione con Dio in cui l’uomo si trovava prima del peccato originale. Se è vero, in altri termini, che ipoteticamente Dio avrebbe potuto creare l’uomo senza finalizzarlo alla relazione con Lui, allora se ne deve dedurre che non si può parlare di «stato naturale» per l’uomo realmente esistente e già creato nella relazione con Dio. In altri termini ancora, questa ipotesi di lavoro serve ad esplicitare, nei confronti dei pericoli costituiti da Baio e dalla sua antropologia che, se la creazione è già un dono da parte di Dio, la chiamata e la elevazione alla vita divina è un altro dono ancora. ↩︎

  56. B. Sesboüé, «Le surnaturel chez Henri de Lubac, Un conflit autour d’une théologie», p.400. ↩︎

  57. K. Rahner - H. Vorgrimer, «Uebernatürliches», in Kleines theologisches Wörtebuch, Herder-Bücheri, 1961 citato in H. Bouillard, «L’idea di soprannaturale e il mistero cristiano», p.785. ↩︎

  58. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, cit., p.103. ↩︎

  59. Vedi, H. Rondet, «L’idée de nature pure au XVI siècle», Recherches de science religieuse XXXV (1948), p.481-521. ↩︎

  60. B. Sesboüé, «Le surnaturel chez Henri de Lubac, un conflit autour d’une théologie», p.392. ↩︎

  61. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, cit., p.81. ↩︎

  62. H. de Lubac, Surnaturel. Études historiques, cit., p.486. «S’il y a dans notre nature un désir de voir Dieu, ce ne peut être que parce que Dieu veut pour nous cette fin surnaturelle qui consiste à le voir. C’est parce que le voulant et ne cessant de le vouloir, il en dépose et ne cesse d’en déposer le désir dans notre nature. En sorte que ce désir n’est autre que son appel». ↩︎

  63. Ireneo di Lione, Adv. Hae, IV, 20, 5-7. ↩︎

  64. H. de Lubac, Le mystère du surnaturel, cit., p.82. ↩︎

  65. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.471. ↩︎

  66. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.189. ↩︎

  67. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.487, tr. it. nostra. ↩︎

  68. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.489. ↩︎

  69. H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, cit., p.494. ↩︎

  70. H. Bouillard, «L’idea di soprannaturale e il mistero cristiano», cit., p.789. ↩︎

  71. H. Bouillard, «L’idea di soprannaturale e il mistero cristiano», cit., p.792. ↩︎

  72. K. Rahner, Schriften zur Theologie, I, Benziger, Einsiedeln 1954,pp.220-221. ↩︎

  73. H. Bouillard, «L’idea di soprannaturale e il mistero cristiano», cit., p.795. ↩︎

  74. B. Sesboüé, «Surnaturel et surnaturel», cit., p.186. ↩︎

  75. C. Geffré, Le christianisme comme religion de l’Évangile, cit., p.160. «L’homme comme question, comme passion, comme ouverture, comme être de désir et de dépassement de son désir». ↩︎

  76. C. Geffré, Le christianisme comme religion de l’Évangile, cit., p.161. ↩︎

  77. Cfr. C. Geffré, Un espace pour Dieu, Cerf, Paris 1996. La prima parte del libro è intitolata «Un Dieu: au-delà de l’utile et de l’inutile». ↩︎