Edith Stein ed i filosofi del nostro tempo, Weil e Nietzsche

1. Introduzione e delimitazione del campo di investigazione

I legami esistenti tra il pensiero di Nietzsche e quello di Simone Weil sono talmente ovvii che il tema è stato già trattato in modo estremamente esauriente.1 Anche se prevalentemente nel sottolineare le così diverse prospettive in cui i due pensatori hanno affrontato temi però molto simili. In questo senso a ciò che è stato già detto non vi è da aggiungere davvero molto. Personalmente abbiamo toccato comunque più volte il tema nel prendere in esame criticamente il pensiero di Nietzsche da un punto di vista tradizionalista.2 Ed in questa sede abbiamo sostenuto che Simone Weil può essere considerata un vero e proprio alter ego di Nietzsche nel senso la straordinaria profondità contemplativa della sua riflessione. Inoltre il suo costante riferimento ad un pensiero del sublime illuminato dalla dottrina neoplatonica ci ha mostrato quanto riduttiva (e forse perfino superficiale e controproducente) sia stata in fondo la trattazione nietzschiana di temi che pure avevano oggettivamente una grandissima rilevanza filosofica.

Ebbene, in questo articolo andremo man mano illustrando quali sono questi temi, e pertanto il nostro lavoro si muoverà proprio in questa direzione. Il suo scopo è infatti quello di tentare un’approssimazione del pensiero di Nietzsche e Weil entro il contesto della sensibilità mostrata dai due pensatori verso temi e problemi che, senz’altro anticipati dal genio del pensatore tedesco nell’ultima parte del XIX secolo, hanno poi trovato un’amplissima trattazione entro il pensiero del XX secolo. E peraltro con accenti molto diversi. Per questo, entro il così esteso panorama di questo pensiero, ci è sembrato interessante concentrare la nostra attenzione non solo sulla Weil ma anche su una pensatrice a lei molto affine, e cioè Edith Stein.3

Proprio per mezzo dell’intermediazione del pensiero della Weil, ci è sembrato infatti che siano rintracciabili punti di approssimazione anche tra il pensiero della Stein ed il pensiero di Nietzsche. Esattamente come avviene per la Weil, tale approssimazione sembra sussistere comunque prevalentemente in senso critico-problematico. e più precisamente nel senso di una divergenza che presuppone però una comune fortissima sensibilità di tutti e tre i pensatori nei confronti delle urgenze di pensiero che il Zeitgeist del tempo in cui essi vissero aveva complessivamente lasciato emergere. Cosa peraltro attestata dalla critica proprio specificamente per quanto riguarda i rapporti tra Weil e Stein.4 Ed uno degli aspetti di tale urgenza storica di pensiero potrebbe essere stata costituita proprio dalla necessità di quella vera e propria «morte dell’Io», dovuta a sua volta alla vera e propria ossessione per la chiarezza della coscienza che è sempre stata della cultura occidentale.5 E se Nietzsche e la Weil si sono senz’altro mossi ben più esplicitamente in tal senso, non è però certo da trascurare la messa in discussione del valore assoluto dell’«Io puro» da parte della Stein.

Come strumento per condurre la nostra indagine abbiamo comunque scelto il testo nel quale Miklos Vetö6 ha commentato la «metafisica religiosa» di Simone Weil. E di questo crediamo proprio di dover dare una giustificazione. Per quanto siamo da tempo dei lettori appassionati di Weil e Nietzsche, però studiosi per davvero lo siamo solo della Stein. E dunque, sebbene questa pensatrice compaia in questo lavoro in modo solo secondario, tuttavia l’oggetto primario ne è proprio il suo pensiero. Pertanto è sostanzialmente quest’ultimo che approfondiremo menzionandone con dovizia i luoghi della relativa opera. Cosa che invece, entro lo spazio ristretto di un articolo, non potremo fare per gli altri due pensatori. In questo senso allora il testo del Vetö ci servirà da base e canovaccio per ripercorrere l’intero pensiero weiliano allo scopo di riconoscere gli elementi che debbono poi essere oggetto di questa indagine. È pertanto su questa base che il nostro lavoro si svolgerà nella verifica dell’approssimabilità triadica Nietzsche-Weil-Stein.

In ogni caso, proprio come è accaduto per la Weil, anche nel caso della Stein la critica ha posto un forte accento sulla divergenza profonda del suo pensiero da quello di Nietzsche.7 Divergenza talmente radicale che è poi del tutto naturale aspettarsi un’approssimabilità solo molto aleatoria tra i due pensatori. Ciò ci sembra però estremamente significativo, in quanto proprio prendendo in considerazione la così stretta prossimità (sebbene nella divergenza) tra il pensiero della Weil e quello di Nietzsche, finisce poi per emergere anche una certa insufficienza del pensiero steiniano proprio in quanto meno prossima al nucleo rovente intorno al quale orbitano i due primi pensatori. Pertanto tale secondarietà della Stein lascia risaltare ancor più la prossimità Weil-Nietzsche, ed in particolare per un estremamente suggestivo aspetto di quest’ultima, e cioè una straordinaria convergenza nei termini di un linguaggio filosofico (strenuamente poetico e visionario in entrambi, sebbene solo presso la Weil in modo davvero mistico-contemplativo) senz’altro così originale da distaccarsi in modo nettissimo dallo scenario circostante.

Nessuna delle pur estremamente composite dimensioni filosofiche della vita ed opera di Edith Stein si presta in realtà ad un linguaggio teso in senso poetico-visionario come quello degli altri due pensatori. Ella fu infatti in primo luogo una rigorosa fenomenologa ed in secondo luogo una pensatrice estremamente prossima al tomismo (sebbene però non nell’ultimissima fase del suo pensiero). Ed in entrambe queste due dimensioni ella fu non solo propensa a tener fermo il valore di una posizione filosofica fortemente teoretica, ma anche a mantenere il suo linguaggio entro i termini di un discorso fortemente analitico-descrittivo. Dunque per nulla incline a quella così strenua concisione dell’intuizione visionaria per mezzo della quale sia in Nietzsche che in Weil emergono fulmineamente, in poche frasi ed immagini e talvolta addirittura in poche parole, densità e profondità di pensiero davvero vertiginose. Vedremo ciò riconfermato laddove il pensiero weiliano entra più i collisione con quello steiniano, come rispetto alla Persona ed anche per quanto concerne la strenuità presso la Weil di un platonismo che comunque è però tangibile presso la pensatrice tedesca.8

Detto questo, visto che i termini dell’approssimazione Nietzsche-Weil sono in sé abbastanza chiari in partenza, vale la pena di fare alcuna considerazioni preliminari su quella Weil-Stein. Prima di dedicarci a questo, va però ancora posto in luce un elemento dell’approssimabilità Weil-Nietzsche. Il filosofo tedesco è stato senz’altro un pensatore del dolore del vivere quale unica ed autentica verità dell’esistenza. Ma lo è indubbiamente anche la Weil e peraltro su un registro in un certo senso ben più alto – ciò perché nel suo discorso manca quella retorica in forza della quale di fatto il dolore finisce per equivalere al piacere. E ciò fa della denuncia weiliana un atto filosofico ben più forte nella sua autenticità, dato che ella sembra guardare alla realtà davvero senza la benché minima illusione. Il suo atteggiamento sembra allora essere proprio quello di coloro che, dopo essere passati per così tante sconfitte e delusioni (procurate dall’esterno e dall’interno), si rifiutano di guardare alla vita con ottimismo ed entusiasmo, e ciò sostanzialmente perché sentono che, se lo facessero, sarebbero senz’altro smentiti (dai fatti inoppugnabili di ciò che è esistenza).9 E così sentirebbero di aver commesso il grave peccato di autenticità, cioè di non aver pronunciato quella verità che invece si impone proprio attraverso essi stessi come testimonianza vivente. Tanto più in quanto pensatori.

È con queste caratteristiche che la Weil aderisce alle intimazioni filosofiche del Zeitgeist (necessità del male, della distruzione e dell’autonomia del finito) non meno di Nietzsche. Eppure non manca di riconoscere in esse la presenza ancora più viva e palpitante di Dio. Ed è proprio questo che fa di lei una pensatrice davvero straordinaria ed incomparabile,10 proprio in relazione al criterio primario della testimonianza storica alla quale alcuni filosofi sembrano essere stati chiamati nel nostro tempo. Va infine menzionato che la pensatrice francese si relaziona peraltro esplicitamente a Nietzsche.11

Ma ora passiamo alla Stein. La sua prossimità alla Weil è di per sé evidente già quando si esamina il pensiero weiliano come una «metafisica religiosa». E tuttavia quest’ultima si differenzia presso la Weil non solo per il genere di discorso usato ma anche per gli accenti posti su alcuni temi e sulla forma attribuita ad alcuni concetti, che comunque sono in comune tra le due pensatrici. È del tutto scontato affermare (ma va comunque fatto) che molto in generale la pensatrice francese non abbracciò mai alcuna metafisica confessionale ovvero teologica. Mentre invece la Stein lo fece, in modo molto strenuo ed anche con un notevole spirito di fedeltà perfino dogmatica, sebbene non abbandonando mai una certa libertà nella riflessione.12 Ciononostante però le due pensatrici rientrano entrambe una sfera fortemente cristiana di pensiero.

Abbiamo già menzionato le divergenze ravvisabili tra le due pensatrici riguardo alla dottrina della Persona, e le riprenderemo poi dettagliatamente più avanti. Ma preliminarmente e molto in generale va detto che la dottrina weiliana a tale riguardo ravvisa in primo luogo la problematicità metafisica, morale e spirituale del luogo ontologico costituito dall’unicità personale, e solo dopo ne riconosce il valore nei termini di un progredire spirituale. Se la Persona presso la Weil ha un valore, ciò accade dunque più nel senso della necessità di una restrizione in direzione centripeta del suo relativo spazio ontologico. In termini ontologici essa ha pertanto un valore solo relativo e condizionato. Presso la Stein invece la Persona è un vero e proprio assoluto in termini di valore o ontologico ed inoltre il suo spazio si pone molto più in modo centrifugo e dilatatorio, laddove tale prospettiva corrisponde proprio a quella «espansione dell’Io» che la Weil fortemente deplora. Tuttavia potremmo dire che nel concepire una vastissima ontologia cristo-centrica13 e spiritualista,14 in qualche modo la Stein accorcia di molto le distanze dall’ontologia weiliana (cosa che poi può essere constatata in modo ancora maggiore nella sua ultimissima fase mistica). E ciò perché entro tale contesto il finito si pone come valore solo sullo sfondo dell’Infinito, e peraltro di un Infinito in cui l’Assoluto divino è il paradigma stesso della Persona in quanto Totalità invisibile dell’Essere, cioè Corpo di Cristo. E qui diremmo che la concentrazione di essere costituita dall’individuo Personale trova una frattura che senz’altro, almeno tendenzialmente, va nel senso di una dilatazione ormai negativa e non più invece positiva.

L’impressione che non ci ha mai abbandonato nel constatare i punti in cui i due pensieri si avvicinavano e si distanziavano ci ha portato così ad avanzare un’ipotesi. E tale ipotesi si basa su un’altra nostra ipotesi circa il pensiero della Stein, e cioè quella che il suo pensiero abbia raggiunto la sua maturità affatto (come in generale la critica sostiene) nella sua fase tomistica (Der Aufbau der menschlichen Person, Potenz und Akt, Endliches und ewiges Sein)15 ma invece solo nella fase ulteriore. In cui ella, nel mentre prende in esame il pensiero di Dionigi l’Areopagita (poi costante punto di riferimento anche della stessa Weil), si apre alla mistica più contemplativa (specie quella di Juan de la Cruz) e quindi anche ad una metafisica chiaramente apofatica e neoplatonica. E qui vi sarebbero elementi in abbondanza per constatare la prossimità tra le due pensatrici (ma questo non può essere oggetto degli scopi ben più limitati di questo lavoro). Tuttavia l’opera di Edith Stein è indelebilmente contraddistinta da un momento ancora più ulteriore, ossia davvero estremo, e cioè quello di una morte santa, eroica e sacrificale. E proprio questo riteniamo che sia l’elemento più importante nell’approssimazione Weil-Stein. Sembra infatti che ciò che la Weil è riuscita a vedere ed esprimere nel corso di tutto il suo pensiero, la Stein lo abbia toccato in modo diretto proprio solo in questa estrema esperienza. Che crediamo incarni perfettamente e totalmente l’intero concetto di «decreazione» (inclusa la dimensione della finale riunificazione da un Dio che ha le forti sembianze di un non-essere).

Infine bisogna accennare in generale a ciò che riguarda il già menzionato platonismo delle due pensatrici. Non ci sembra vi possa essere dubbio sul fatto che la Weil sia platonica in modo ben più chiaro e strenuo della Stein, e ciò in quanto i suoi riferimenti a Platone ed ai neoplatonici sono più che espliciti e convinti. La sua è insomma una vera e propria presa di posizione filosofica nel senso della scelta di campo. Ma non solo, perché ella è ben più radicalmente platonica nel considerare il finito-determinato come il male per definizione (e qui occhieggia fortemente anche Plotino). La Stein, invece, esita non poco in questo. Così tanto che, se è vero che ella si preoccupa di sottolineare la fragilità del finito molto più che il suo rivale Heidegger,16 tuttavia non si spinge mai a connotarla in senso così decisamente e strenuamente morale come fa invece la Weil. Ciò sembra esserle proibito dalla sua convinta adesione all’antropologia fenomenologica (continuità spirito-animico-corporea) che trovò poi la sua precisa eco nella sfera di pensiero tomistico-aristotelica (a sua volta centro della dogmatica cristiana). E, sebbene le forti resistenze di tipo platonico-agostiniane esercitate dalla pensatrice (in nome di un interiorismo essenzialista), ciò che ne risulta è comunque un tendenziale enticismo esistenzialista entro il quale il finito costituisce un valore ontologico abbastanza incondizionato.

Fatti questi chiarimenti possiamo passare all’analisi testuale ed inoltre alla discussione delle idee. I vari punti di approssimazione Weil-Nietzsche e Weil-Stein verranno qui sotto-ordinati ai rispettivi seguenti temi : – 1) ontologia e «realtà» ; 2) Io e Persona ; 3) Amor fati. Tratteremo poi dei due ordini di approssimazione all’interno di ciascuna delle tematiche. E tuttavia in alcune sezioni, a causa dello specifico tema trattato, dominerà molto più l’una o l’altra delle approssimazioni (solo quella Weil-Nietzsche o solo quella Weil-Stein).

2. Ontologia e «realtà» – volontà costitutiva o presa d’atto?

2.1. Nietzsche

La Weil si oppone a Nietzsche proprio negando alla radice un’ontologia dinamica da intendere come frutto della volontà di potenza. Sebbene ella non manchi di porre in evidenza comunque un’onto-creazione che muova dal soggetto. E da tutto ciò risulta poi l’appello ad un realismo di fatto ben più deciso di quello nietzschiano, al centro del quale vi è un concetto di «realtà» per davvero incondizionabile in qualunque modo al soggetto. In essa ciò che viene posto in discussione è proprio il concetto di «Gegenstand» quale oggetto costituito di fatto dalla coscienza. Che fu poi patrimonio di quell’«idealismo della coscienza» (nel quale rientra senz’altro il concetto husserliano di costituzione)17 fortemente criticato da Scheler.18 Il riconoscimento di un mondo di esistenti indipendenti è dunque per la Weil un fatto di capitale importanza. In sua assenza si configura infatti un desiderio di essere da parte dell’Io («l’io non tollera ostacoli») che è così violento da mettere capo all’essere stesso ma non senza una forte spinta distruttiva.19 L’ontologia che si profila come frutto della volontà di potenza appare quindi essere quella determinata da un vero e proprio «desiderio di distruzione». E quindi essa, proprio nell’intento di costituire un essere nella sua pienezza immanente, di fatto mette capo molto più ad un non essere. Il nucleo dell’obiezione a favore di una piena ontologia è pertanto in sé primariamente morale. Non a caso lo stesso Scheler, proprio volendo affermare un concetto pieno di «realtà» (ma senza la stessa forza morale della Weil), ricade alla fine della sua esposizione20 proprio in un’ontologia simil-nietzschiana. Ma qui la realtà, dice la pensatrice, sarà composta molto più di «ombre» che non di veri essenti-esistenti. È il frutto questo dell’impiego di un’«immaginazione riempitrice» in luogo di quell’«attenzione» che invece prende atto proprio di un vero e proprio mondo fuori di noi.21

Nella globale «negazione dell’altro», da ciò risultante (sostituita dall’affermazione di sé), viene pertanto anche negata un’ontologia totalizzante. Che invece può sussistere solo se la realtà è considerata (e rispettata) come assolutamente decentrata, e quindi quale tale Realtà colta al modo di un’autentica ed ininterrotta Totalità. Qualunque istituzione in essa di centri ne dissolve infatti un’unità che è invece chiaramente un Tutto. E ciò avviene nuovamente in seguito ad un misconoscimento della primaria dimensione morale dell’ontologia, in quanto con ciò si tratta sempre di un «insorgere contro il solo vero centro della realtà». È allora solo riconoscendo quest’ultimo che, invece di porsi «al centro del mondo», si concede il proprio consenso amoroso ad un universo di relazioni da noi indipendenti. E solo così si afferma una «realtà in quanto tale».

Il porsi al centro da parte dell’uomo è pertanto l’essenza stessa della Caduta e del Peccato quali atti di rivolta contro Dio. Che poi ha sempre, come inevitabile conseguenza, il dominare il prossimo (con il quale va qui inteso perfino qualunque ente reale) piuttosto che amarlo. Ecco che l’intera ontologia nietzschiana appare alla luce di questo ben più scontata, relativa, e perfino banale, che non invece genialmente originale. Essa finisce infatti per ricadere addirittura entro una del tutta tradizionale sfera idealistica di pensiero. Il nucleo della deviazione morale dell’ontologia sta infatti proprio nell’Io come valore. Il concetto di volontà di potenza appare essere del tutto secondario a questa ben più primaria affermazione di valore. La perversione della volontà appare stare infatti nel ben più primario dire-io. Che comporta poi un uso «negativo» e quindi distruttivo della volontà stessa. Volontà che però proprio così si pone come positiva, e cioè im-positiva forza centripeta. Ciò che la Weil ci propone in alternativa è invece una volontà negativa (in quanto incentrata sulla negazione di sé), che ha infine un effetto positivo solo in quanto centrifuga.22

A vedere bene, dunque, il generale paradigma di onto-generazione da parte del soggetto non viene qui affatto negato, ma invece semmai riaffermato. E nel senso cioè che effettivamente solo questo genere di volontà è generatore di un’autentica e piena ontologia. Lo è però proprio in un atto di «consenso» che è onto-generativo (costitutivo) solo nel lasciare-che-qualcosa-esista, e quindi nel fare in modo che esso esista non per-noi (secondo il quoad nos così stimato dall’idealismo filosofico) ma invece semmai nonostante-noi. Si tratta qui di un vero e proprio dissolversi dell’Io, di un suo recedere, fare spazio ed infine dileguarsi. E ciò è senz’altro l’effetto del partire della Weil molto prima da una visione metafisica incentrata sulle grandi verità della sapienza orientale23 che non invece dalla dottrina cristiana stessa (la quale è però nel profondo non poco prossima a tale sapienza). Non a caso chiunque parta da queste premesse è sempre letteralmente costretto a prendere posizione contro l’autentica ossessione per l’Io (e per la coscienza) che è propria della moderna filosofia occidentale.

Si tratta insomma dell’appello ad una vera e propria distruzione dell’Io. Il concetto weiliano di decreazione si incentra infatti proprio su questo. Ma tutto ciò pone di fatto in evidenza quanto avesse in fondo ragione Nietzsche nel porre il concetto di distruzione al centro stesso dell’ontologia.24 La Weil ne prende pienamente atto, eppure con una profondità contemplativa e meditativa del pensiero che alla fine mette nuovamente in luce una certa eccessiva retorica della riflessione dell’altro (quale risposta alternativa a questa storica urgenza filosofica). Quella di cui egli parla è infatti appena una distruzione esteriore, che è però appena una «decreazione imperfetta», cioè distruzione «infernale». Quella di cui parla la Weil è invece una distruzione «dall’interno», interiore. Una distruzione che crea lasciando essere. Pertanto con l’altra distruzione, caratterizzata dal «voler essere» a tutti i costi, può profilarsi solo una mera illusione, ossia quella di «credere di essere». E tutto ciò pone in luce quello che è poi il tratto centrale di una riflessione sulla pienezza del concetto di «realtà». Non a caso essa si impone a chi riflette su questo tema solo restandovi immerso con tutto sé stesso, e cioè con tutto il corredo delle proprie dirette esperienze esistenziali.

Ci sembra pertanto che la riflessione della Weil venga a conferma di un’intuizione che può ben essere di chiunque per poter affermare un pieno concetto di «realtà» bisogna prima liberarsi del condizionamento di qualunque idolo. E tale è senz’altro l’ente colto come oggetto della coscienza. Ma ciò solo perché in realtà il primo degli idoli è proprio la coscienza stessa, cioè l’Io. Ebbene, la distruzione appare essere demoniaca quanto non si compie partendo dal principale oggetto dal quale dobbiamo iniziare nel distruggere, ovvero noi stessi (quali Io). Ma può cogliere questo solo chi ha maturato un radicale atteggiamento verso il dolore del vivere che è sempre proprio dell’esistenza. Chi cioè dall’esperienza non deduce (come fa Nietzsche) la necessità di una suprema ribellione (caratterizzata in fondo proprio dall’insorgere dell’Io, ormai definitivamente liberato dall’ideale) ma ne deduce invece la necessità della perdita di qualunque illusione. E prima di tutto illusione verso l’insurrezione stessa. Si tratta insomma, come fa la Weil, del prendere atto del proprio contare «zero» (anzi perfino meno di zero), quali individui. Ciò, però, come fatto non incidentale ma invece fondamentale (e quindi in fondo positivo) dell’esistere. A questo punto il consenso verso l’esistenza del mondo equivarrà necessariamente ad un atto di radicale non-ribellione, di rinuncia alla ribellione. È la non resistenza (o perfetta «obbedienza») a Dio. L’esatto contrario insomma di qualunque assolutizzazione della volontà.25

Dunque solo non opponendosi a Dio, l’uomo fa sì che l’essere esista. La volontà di potenza creante l’essere si trasforma così in una volontà di decreazione. Ed entro quest’ultima è concepibile poi una continuità tra Dio, l’uomo ed il mondo che si pone primariamente nei termini di un amore dall’Alto, al quale poi risponde un amore dal basso. In alternativa a ciò non resta che lo schema del platonismo più unilateralmente pessimistico e meno tendenzialmente cristiano,26 entro il quale esiste un netto dualismo tra trascendente ed immanente e così una pesante oggettivazione del male (un presunto deteriore platonismo che però è da considerare più apologetico che non reale).27

A quest’ultimo comunque senz’altro la Weil non aderisce. Ma il culmine della possibilità di approssimare Weil e Nietzsche riguardo all’ontologia ci sembra possa essere riscontrato laddove il Vetö espone la dottrina dinamica della realtà secondo la pensatrice («L’energia, i moventi e il vuoto »).28 Qui risulta evidente che l’ontologia sorretta da uno slancio volontario (e quindi l’essere stesso) è anche qui di fatto pura Possibilità, ovvero più non-essere che essere. Ma ciò solo in senso decreativo, ossia fortemente morale in termini auto-donativi, e quindi nel senso di una vera e propria possibilità di bene. Dunque affatto una possibilità moralmente indifferenziata. Ancora una volta, insomma, il criterio morale appare essere quello dominante nella posizione di un concetto di essere che non sia superficialmente dogmatico (in senso enticista-esteriorista). La differenza rispetto a Nietzsche è qui pertanto davvero tangibile. Eppure vigono in pieno i condizionamenti da lui istituiti rispetto ad un concetto di essere rigorosamente non compromesso tanto con il non-essere quanto con il male stesso. Di questi ultimi infatti la Weil prende pienamente atto, e però giungendo a conclusioni del tutto opposte rispetto a quelle di Nietzsche. Per lei infatti lo slancio onto-creante è dello stesso genere dell’espansione dell’Io e quindi è in sé affatto moralmente positivo. E come tale esso solo anela all’essere ma nei fatti non mette affatto mai capo ad esso. L’essere infatti («realtà») è qualcosa di totalmente rescisso dall’Io. Altrimenti non è essere.

Più precisamente dunque lo slancio onto-generante (una volta compreso in modo profondo e quindi autenticamente metafisico)29 è in sé moralmente neutro. E ciò perché la stessa espansione dell’Io ha in fondo una sua giustificazione oggettiva in quanto il piano dell’essere altro non è se non la traduzione dell’Amore divino nella Necessità più cogente – in sé vera e propria gelida e crudele regolarità matematica del cosmo.30 Dunque l’onto-dinamismo che qui si configura scaturisce proprio dal fatto che lo slancio nasce dal delicatissimo equilibrio sussistente tra Necessità e Libertà, laddove appunto la prima equivale alla dimensione statica e la seconda alla dimensione dinamica. Si tratta di quel distendersi dell’essere nel divenire che per davvero è la realtà più autentica dell’essere. È appunto qui che l’essere si lascia cogliere appunto come espansione dell’Io, ossia come traduzione in dinamismo di una dimensione statica che però di per sé mai potrebbe costituire davvero un essere. Tuttavia questa è anch’essa ancora solo un’apparenza, perché l’essere è già di per sé costituito onto-dinamicamente nei termini di una Necessità divina distesa essa stessa nel divenire e quindi costituente una Totalità. Ed inoltre essa raggiunge la sua pienezza solo quando al suo estremo limite (escatologico) si ricostituisce infine come Amore, cioè come Essere nel senso di Bene. L’ontologia sorretta dallo slancio è pertanto piena solo nella misura in cui comunque manca di questa dimensione, che però è davvero fondamentale. Qui infatti la forbice si chiude e così la Necessità si rivela essere alla fine solo Amore.

Ebbene , apparirà chiaro allora che Nietzsche coglie appena una fase ed un aspetto di tale complessiva fenomenologia. E peraltro nemmeno sembra accorgersi che essa è già compiuta perfino nel suo dinamismo. L’amoralità dell’ontologia da lui raffigurata è quindi del tutto relativa ed affatto fondamentale. Non vi era dunque alcuna necessità di affermarla, se non appena dedicando ad essa uno sguardo di sfuggita. Fatto sta che però, per il giganteggiare (entro la filosofia e la cultura) proprio di pensatori come Nietzsche, a tale elemento è stato dedicato molto più che uno sguardo di sfuggita. E ciò con conseguenze estremamente rilevanti

2.2. Stein

Come abbiamo già anticipato, la Stein è ben lungi dall’accontentarsi di un’ontologia filosoficamente non problematica (e dunque appena enticista-esteriorista). E peraltro la sua rilettura della dinamica potenza-atto (Aristotele-Tommaso) istituisce un’ontologia che è appunto fortemente dinamica, e si muove così sempre in direzione di una «pienezza» («Vollkommenheit») soprannaturale ed eterna non molto diversa da quella escatologica raffigurata dalla Weil.31 Ciononostante però manca presso la pensatrice tedesca la raffigurazione della radicale problematicità morale dell’essere immanente e finito così come essa compare invece presso la Weil. Il suo concetto di esistenza – quello di un essere finito («endliches Sein») di cui pure si coglie la fragilità ontologica entro la dimensione temporale – è ancora troppo incondizionatamente positivo in termini onto-morali. Ben diversamente stanno invece le cose presso la Weil,32 nel cui pensiero il concetto di essere si pone nella sua pienezza proprio solo in quanto esso non è affatto esteriore a Dio (come entro la migliore tradizione neoplatonica). Lo è invece appunto solo l’esistenza. E qui di certo la Weil è platonica nel senso più pessimista possibile, e cioè nel considerare il male come la stessa distanza da Dio da parte del finito-determinato. Così nel suo pensiero si può dire che «il vero o l’essere è separato dal bene mediante il male». Il male è qui insomma proprio l’esistenza come essere. Potremmo dire insomma che la pur così forte critica della Stein nei confronti del concetto di essere heideggeriano – critica che si incentra proprio nella valorizzazione del concetto di Essere contro quello di esistenza – giunge al suo compimento solo se riesce a pervenire ad una visione come quella weiliana. In quest’ultima si può infatti parlare di un pieno concetto di essere solo entro la strenuità morale della sua concezione. Ed a tale riguardo la filosofa francese è estremamente radicale – «…il non-dovente-essere dovrebbe sopprimersi o essere soppresso». Insomma l’essere finito di per sé non deve affatto essere. Ecco che allora il concetto di «decreazione» può essere considerato come una vera e propria riduzione annientante dell’esistenza all’essere. A noi pare che dopotutto Heidegger sostenga invece l’esatto contrario.33

Mai come qui il pensiero deve allora coincidere con la prassi, ossia con il diretto vissuto di ciò che si afferma. Infatti l’essere è completamente compreso solo nella definitiva rinuncia a sé stessi : – «…sapere che Dio è e sapere che io non sono, rappresentano una sola e medesima cosa». Insomma dire che si può comprendere l’essere in modo puramente filosofico, ossia senza vivere fino in fondo il significato dell’affermazione per sé stessi, costituisce una cosa non facilmente sostenibile. E ciò ancor più perché si tratta comunque di un pensiero dell’essere che non può essere pieno senza concernere strettamente il non essere. Non si tratta però affatto solo di questo, perché ciò che la Weil pone in discussione è lo stesso concetto di un’onto-formazione a partire dall’Io. Degli aspetti di ciò concernenti la Persona discuteremo comunque più avanti. Fatto sta che attraverso la riflessione della filosofa francese34 appare evidente quanto insufficiente sia la sola posizione teoretica nel comprendere l’essere. Il nucleo della pienezza dell’essere non sta per lei infatti per nulla nell’intelligibile ma invece nel Bene stesso. Proprio nel volgersi al Bene infatti (come mostrato da Platone nel Fedro) avviene quell’atto di accoglimento di realtà, che poi a sua volta dipende dall’«attenzione» posta in alternativa alla mera «immaginazione».35

Dunque sussiste una vera e propria gerarchia ascendente, in termini di rango ontologico, tra intelligenza e amore. Non è allora nemmeno pensabile che con la prima si pervenga ai sommi livelli dell’essere. Con essa non vi sarà mai una piena attenzione, che però, quando è veramente tale, si apre talmente a «ciò che è veramente reale» da ricreare di fatto la stessa realtà. Per la verità la Stein è ben lungi dal pensare che con l’intelligenza si esaurisca l’intera gamma dei livelli ai quali l’Essere può venire compreso.36 Anzi ella individua nel tomistico «Atto puro» un culmine ontologico nel quale di fatto soggetto ed oggetto sono intimamente uniti (così che vi è perfetta equivalenza tra Conoscenza ed Essere). E tuttavia entro la sua visione non viene riconosciuto in questo livello qualcosa di davvero comparabile al livello supremo della così strenua onto-creazione così come intesa da Nietzsche e qui anche da Weil. Quello dalla Stein individuato è infatti un livello ontologico dal quale prende effettivamente le mosse la creazione, ma esso è decisamente al di fuori della portata dell’umano. Indubbiamente esso è anche il livello al quale l’amore supera e trascende l’intelligenza (è da qui che l’Infinito fa dono di sé al finito),37 ma in tal modo non è affatto toccato l’atto umano di costituzione della realtà. Per quanto già nelle sue più precoci opere38 la Stein relativizzi non poco la portata onto-creativa dell’Io (ed inoltre la sua identificazione con lo Spirito), tuttavia resta anche nel suo pensiero (come in Husserl) un livello di onto-costituzione collocato molto più in basso che nel pensiero della Weil. E cioè al livello dell’Io – si tratta così di una creazione solo relativa e metaforica, e cioè appena di una «costituzione».

Nel pensiero della Weil dunque (e peraltro in prossimità della sua trattazione della dottrina pitagorica in «Intuition pré-chrétiennes») l’atto di attenzione umana finisce per essere in diretta continuità con un paradigma supremo di attenzione, mediante il quale avviene poi la creazione nella sua pienezza. E ciò proprio in quanto supremo atto di consenso, cioè «ritiro» o «abdicazione»39 di Dio davanti ad un mondo che per esistere configura perfino il male stesso.40 E tuttavia ciò che avviene a tale livello può apparire ancora una volta quasi come il compimento estremo di un’idea steiniana, e cioè quella dell’equivalenza tra realtà ed atto compiuto (Potenza ed atto). Qui infatti, dice la Weil, l’attualizzazione si applica alle potenzialità in modo che essa «le gonfia di realtà». È un atto divino, ma esso è comunque alla perfetta portata dell’umano, dato che il livello supremo di onto-creazione (inteso come accettazione di realtà) è anche quello dell’amore, e quindi equivale perfettamente all’amore per il prossimo. Del resto si tratta di decreazione in entrambi i casi – dato che a questo livello l’uomo giunge proprio per la via de creativa. Ma, nello stesso tempo, lo stesso atto creativo divino, non è in sé altro che un atto decreativo (ovvero un atto di supremo sacrificale recesso).41

La visione ontologica weiliana è del resto ben più radicale di quella steiniana, nel senso dell’affermazione della «distruzione dell’Io» (come inevitabile premessa della decreazione), anche laddove la pensatrice affronta un aspetto del concetto di «realtà» che appare essere profondamente in comune tra tutti i pensatori di cui qui stiamo parlano (primo tra tutti Scheler), e cioè l’aspetto energetico.42 La Stein si occupa del tema in diverse sue opere,43 e con l’intento di svincolare la comprensione della vita psichica dai condizionamenti di quell’empirismo che suppone in essa il vigere delle stesse leggi fisiche della natura. Ed un momento centrale di questa dottrina è l’accento posto sulla dimensione energetico-spirituale costituita dai «valori». I quali fanno del mondo delle cose un vero e proprio regno spirituale. Posta a confronto con la visione della Weil, quella steiniana sembra però voler in fondo ottimisticamente (se non superficialmente) sorvolare sulla dimensione tragica dell’ontologia e cioè sulla dimensione del dolore.

La pensatrice francese prende invece davvero di petto questa dimensione. E così, pur ammettendo (con Nietzsche) la determinazione energetica dell’essere da parte del soggetto (volontà di potenza), ne parla come di un’«energia supplementare» (senz’altro spirituale nel suo essere sovrapposta all’’«energia vegetativa») che poi equivale perfettamente all’espansione dell’Io. Vi è dunque questa prevalente dimensione malefica.Ma dall’altro lato vi è la dimensione altrettanto malefica della spoliazione dell’Io ad opera di eventi avversi («sventura»). Che però, spazzando via questa sovrastruttura egoico-spirituale, metterà a nudo lo strato vegetativo in modo che esso venga finalmente investito dalla stessa Luce divina. È anche nei termini di tale tragica fenomenologia che va intesa la decreazione – al cui c’entro vi è così la tragica (ma salvifica misteriosa) «esperienza del quarto d’ora» (perfettamente equivalente all’Agonia di Cristo sulla Croce).44 Ed in essa crolla miseramente anche l’ontologia intessuta di valori, che si rivela essere stata solo un effimero prodotto dell’Io. Essa non ha dunque nulla dell’oggettività esteriore che invece si configura nella visione steiniana.

Abbiamo comunque finora toccato solo marginalmente quel tema del tempo che pure è fortemente in comune tra le ontologie di tutti e tre i pensatori, e che presso la Stein trova espressione proprio nella sua rilettura della dinamica potenza-atto quale progressivo raggiungimento della pienezza. Qui di fatto la Potenza quale originaria Possibilità infinita si trasforma nel potere proprio della condizione attiva (e fonte di attuazione), sebbene senz’altro minacciata continuamente dalla condizione instabile e mai competa del finito. La Weil si muove su un piano ideale molto simile – Vetö ne parla nel capitolo dal titolo «Il tempo e l’Io»45 – affermando la fatale «mediatezza» dell’esistenza, in quanto in essa l’attività è sempre restrittivamente condizionata dalla «mediazione» esercitata dal tempo. E tuttavia in quest’ambito si configura molto più una serie di fatali e perentori non possiamo, i quali equivalgono poi proprio all’«impotenza» che contraddistingue il nostro agire nel senso di un’effettiva modificazione di tre momenti fondamentali del tempo (passato, presente e futuro). Ancora una volta la tensione morale di tipo tragico differenzia nettamente il pensiero weiliano da quello steiniano.46

Ciò che si configura qui è pertanto una condizione di vera e propria «schiavitù» dell’uomo rispetto al tempo. Qualcosa di molto più intenso, in senso negativo, rispetto alla sottomissione dell’uomo alla dinamica potenza-atto di cui parla la Stein. Eppure la filosofa francese si preoccupa qui fortemente di sfuggire da un lato ad un superficiale presentismo (che potrebbe ben scaturire alla sua visione), e dall’altro lato anche alla fin troppo facile condanna del ristare nel tempo («monotonia»), che pure potrebbe essere qui dedotta extrapolando al massimo la negatività della sottomissione al tempo (al suo grado più estremo, la pensatrice la raffigura infatti descrivendo né più né meno che l’alienazione lavorativa descritta da Marx nei termini di una deprivazione del futuro per mezzo della non padronanza sui fini). Insomma, una volta preso atto dell’inattingibilità teorica e pratica del futuro da parte dell’uomo, si profilerebbero due soluzioni : – 1) la totale svalutazione del futuro (come valore), nella presa d’atto del fatto che il tempo è in sé sempre violenta ed irreversibile dissociazione dell’uomo dalla dimensione dell’eternità (a causa della Caduta e del Peccato) ; con il poi inevitabile cedere al tentazione di rifugiarsi nel presente come valore assoluto ; 2) la mitizzazione nietzschiana del futuro nella prospettiva di un’onto-dinamismo euforico interamente legato all’azione del soggetto.

Ancora una volta la Weil sfugge a queste così insidiose cogenze (proprie del resto di una metafisica non autentica in quanto fin troppo storica), sforzandosi di guardare in trasparenza in un’ontologia immanente della quale ella non si nasconde nemmeno per un minuto la maleficità e tragicità. In tal modo ella vede che l’idea che l’Io domini il futuro, e dunque generi di fatto un’ontologia, non è in realtà altro che una misera illusione. E dunque, anche se in qualche modo, nel tempo precipitiamo sempre in una qualche «monotonia» senza alcun futuro (l’«eterno ritorno all’uguale» che Nietzsche ed Heidegger mutuano da Eraclito ed Anassimandro),47 ciò non toglie che, ponendo davanti a noi dei fini, procediamo in ogni caso verso un Futuro come valore. E peraltro ella prende atto qui anche di una «monotonia bella», che è poi quella dei cicli contemplati da Platone nel Timeo sulla base di un movimento puro e perfetto che è quello circolare (movimento concatenato ritornante su sé stesso, che non è schiavizzante ma invece liberante in quella che lei concepisce come il paradigma puro e supremo di ogni azione, e cioè l’«azione non-agente»).48

Ma ci sembra nel complesso che qui vengano sorpassati sia Nietzsche che la stessa Stein nell’insufficienza di una loro visione troppo poco contemplativa. Il primo nel pessimismo euforico della sua ontologia dominata dalla volontà di potenza. E la seconda nel fin troppo facile ottimismo di un’ontologia la quale, proprio non assumendo fino in fondo la tragicità della sottomissione al tempo, alla fine non riesce a vederne nemmeno la salvificità. E mai come qui appare dirimente l’intensità del platonismo della Weil rispetto a quello della Stein, la cui visione appare riduttiva proprio in quanto condizionata dal fondamentale irriducibile ottimismo dello schema di pensiero aristotelico-tomista (ma in fondo anche agostiniano). Il cui onto-dinamismo è destinato a non recare la minima macchia sia nella visione pagana (Aristotele) che in quella cristiana (Tommaso). Non a caso a tale complessivo proposito Vetö sottolinea il riferirsi della Weil al mito platonico della caverna come luogo nel quale si disegnano come fatue ed illusorie ombre proprio i fini dell’Io ; ed inoltre proprio come tali si presentano come il male in sé.

Sembra però che sia proprio il pessimismo al quale la Weil non si nega, a permetterle poi di sostenere coerentemente e credibilmente che, se bisogna rinunciare al dominio sul futuro che comporta l’Io, tuttavia non per questo si è costretti a rinunciare al futuro come valore. Si tratta semmai di un camminare senza più alcun dominio sul futuro. Di nuovo insomma si tratta della decreazione, qui intesa come trasformazione della nostra relazione con il tempo (oltre che con lo spazio). E di nuovo è emblematica e decisiva in questo l’esperienza del «quarto d’ora» nella quale non per nulla abbiamo la netta sensazione di uno spalancarsi dell’eternità nel bel mezzo del tempo. Ed ancora una volta è decisivo il nostro consenso proprio a questa eternità (di tempo così come di spazio). Che ha, entro questa esperienza, l’aspetto di un dolore interminabile, disteso davanti a noi come un deserto abbacinante in cui nulla di nuovo (alcuna illusione) più ci aspetta. È, dice il Vetö citando la Weil, il momento di un del tutto naturale «basta non ne posso più», trasformato però in un del tutto sovrannaturale «acconsento a che questo duri nella perennità dei tempi, se si addice alla saggezza divina…». Ci sembra che proprio questo, alla fine, abbia voluto esprimere la stessa Stein con la sua finale ed estrema riflessione sull’«annichilamento».

3. Io e Persona

Riguardo a questo tema viene decisamente in primo piano l’approssimazione Weil-Stein (rispetto a quella Weil-Nietzsche). Va solo per inciso ricordato che la Weil affronta direttamente il tema nella sua opera in Lezioni di filosofia.49 Abbiamo comunque già accennato ad alcuni punti della questione. La quale si riassume nel fatto che entro la visione weiliana vi è tutt’altro che un rapporto di continuità e formazione tra Io e corpo. E ciò perché quest’ultimo, per sua costituzione, sfugge continuamente ai comandi dell’Io50. Il corpo in quanto materiale è infatti la prima contraddizione dell’Io. E di nuovo appare qui evidente che la Weil è senz’altro molto più platonica di Stein. Che invece, nella sua visione sostanzialmente ottimistica, appare essere ben più tomista-aristotelica (almeno tendenzialmente).

Il tutto rientra comunque nella complessiva dottrina della pensatrice francese riguardo alla caratterizzazione fondamentale dell’ontologia immanente come espressione della Necessità divina. La dimensione materiale la esprime infatti in pieno. Proprio però perché, come abbiamo visto, la Necessità è tutt’altro che in discontinuità con l’Amore, in questa prospettiva sostanzialmente negativa alla fine è possibile rintracciare comunque una straordinaria positività. Infatti, per quanto lampante contraddizione del livello trascendente, la materia è intimamente connessa alla Necessità proprio nei termini di una ribellione che è poi in realtà obbedienza. Il che fa poi sì che l’intelligibilità appartenga pienamente a tale dimensione prima ancora che su di essa agisca lo spirito razionale. Si profila così un’«intelligibilità attiva» (o «intelligenza») ed un’«intelligibilità passiva», che è propria della materia.51 Il caos del mondo materiale è insomma già ordinato da sé. L’atto di impregnazione della dimensione corporeo-materiale (lo strato hyletico dell’essere di cui parla Husserl)52 non ha pertanto nulla di decisivo da compiere. Il che relativizza dunque moltissimo il ruolo onto-creativo della costituzione a partire dall’Io. Ecco che allora ad esso spetta ancora una volta un ruolo ben meno spirituale in senso (puramente) teoretico e ben più spirituale in senso religioso-morale. Non solo, ma in questo atto, l’Io razionale ed intelligente non fa altro che imitare la materia stessa nel suo ben più primario abbracciare la Necessità quale intrinseca ed immanente razionalità cosmica («leggi universali»). In entrambi i casi si tratta allora di quieta «serena contemplazione». Tuttavia non manca qui la dinamica onto-costitutiva, perché è proprio in questo modo che si configura la realtà nei termini del consenso al «diritto degli altri ad esistere».

E solo così si giunge poi a cogliere per davvero una «realtà esteriore». Non solo, ma è proprio qui che possiamo trovare espresso quel concetto di «verità dell’essere» al quale la Stein dedica così tanta attenzione sulla base sia di Husserl che di Tommaso. E ciò avviene di nuovo nel senso di un atteggiamento che è ben più che solo teoretico. La realtà così colta corrisponde infatti alla «pura verità», ossia ad una vera e propria verità ultima (una verità nuda almeno quanto quella di Nietzsche), cioè quella di un mondo che deriva dal «ritiro di Dio» davanti ad esso. La verità dell’essere è questo e nient’altro, e cioè la verità costituita dall’«esistenza dell’altro». Che poi appare essere in stretta relazione all’«intersoggettività». Implicata è qui ovviamente l’intelligenza, ma essa non basta affatto da sola. In quanto per suo mezzo abbiamo una constatazione del tutto neutra («del tutto formale», dice Vetö) dell’esistenza dell’altro. E non invece una presa d’atto che poi persisterà perfino nel momento in cui l’altro contrasta il mio «Io in espansione». Perché quest’estrema presa d’atto venga posta in opera è pertanto necessario l’amore. E l’amore è sempre discreativo nei miei confronti proprio nel senso che in altro modo la realtà non si profila affatto nella sua pienezza. L’assenza di tale presa d’atto configura quanto la Weil definisce come il trovarsi in una condizione di «non-prospettiva» (espressione di un mero punto di vista particolare), opposta poi alla condizione del trovarsi invece nella «prospettiva divina». Pertanto il nucleo forte dell’intera esperienza dell’essere è quello del realizzare che io «non sono niente» (nel mentre invece l’essere esiste proprio solo nonostante me) sia sul piano dell’intelligenza che sul piano dell’amore.

A fronte di tutto questo si può solo constatare che la filosofia, perfino in coscienze così acute, profonde, appassionate ed oneste come quella della Stein, si è arrabattata e dibattuta inutilmente nel concepire qualcosa che dal proprio così puro punto di vista era di fatto inconcepibile. Non perché ciò fosse oggettivamente impossibile, ma solo perché, molto semplicemente, negandosi ad una prospettiva strenuamente religioso-morale (che Nietzsche di certo ammette, ma solo in negativo), la filosofia proibisce a sé stessa di raggiungere il proprio vero scopo.53 Pur tuttavia proprio non si potrebbe dire che la Stein non sia stata – almeno tra le pieghe del suo discorso e nelle sue intenzioni profonde, che sempre traspaiono solo indirettamente, coperte come sono dalla sua primaria preoccupazione di non prestare il fianco assolutamente alla possibile accusa di non filosoficità del suo discorso54 – estremamente prossima a tale consapevolezza. E lo testimonia proprio la sua così appassionata difesa delle ragioni dell’Essere più astratto possibile, ovvero l’Essere puro, infinito ed eterno, a fronte del suo azzeramento da parte del Dasein heideggeriano, ovvero quell’ente-esistente che in qualche modo è anche quello di Aristotele e dello stesso Tommaso. Ma nonostante qui sia chiaramente teorizzata la tragicità dell’esistere nel tempo da parte del finito, tuttavia manca il passo successivo verso il riconoscimento della sua sostanziale maleficità. E con ciò viene anche a mancare la strenuità della posizione di un concetto di «realtà» come invece figura presso la Weil. Ed infine viene a mancare completamente la teorizzazione della necessità di una vera distruzione dell’Io. Che invece nella Weil è veramente esplicita e strenua.

Nel pensare il finito, la Stein tiene in serissima considerazione la realtà della Caduta e del Peccato, e peraltro la sua ontologia ne è non poco influenzata,55 ma (almeno in questa fase) non giunge mai all’estremismo della pensatrice francese. La quale, come ci fa notare il Vetö,56 tenendo proprio presente il concetto di «conversione» del Fedro platonico, concepisce la condizione del finito come un costituzionale e connatale stato di sotto-zero onto-morale, dal quale poi possiamo al massimo augurarci di giungere a quel livello «zero». Che poi è il culmine stesso della decreazione in quanto «riduzione al non-essere». E questo è poi il «nostro niente», ossia ciò che meglio descrive lo status della Persona umana (per quanto essa sia straordinariamente inteso in termini ontologici, in quanto unicum). È più che mai evidente qui la forte relativizzazione del valore della Persona (così come si manifesta in Stein). Ma alla fine diremmo che non vi è affatto una contraddizione rispetto alla visione della pensatrice tedesca, e ciò perché anche lei fissa fortemente l’attenzione sul concetto di «compimento». Proprio in luoghi di pensiero come questi abbiamo quindi la netta impressione di come e quanto il pensiero della Weil possa essere in continuità con quello della Stein costituendone così una vera e propria finale realizzazione. Grazie al contributo della pensatrice francese, infatti, il nostro compimento di finiti appare stare non nella pienezza di essere ma semmai nella pienezza del non-essere. Si tratta di quel concetto eckhartiano di «increato» di cui Vetö sottolinea la forte equivalenza a quello di decreazione.

E dunque con tutto ciò finisce per dominare in modo chiaro sull’ontologia così configurantesi la realtà del Ritorno al Principio. Personalmente57 riteniamo che lo stesso accada quando la Stein legge il concetto tomista di «Atto puro»58 entro un’ontologia così dominata da una dinamica potenza-atto che proprio alla finale e soprannaturale pienezza punta. Ma comunque ciò avviene in un modo senz’altro meno forte proprio in quanto non così esplicito come presso la Weil. Tale strenuità è pertanto proprio quella di un’esplicita «metafisica religiosa», che il Vetö riscontra nella sua pienezza presso la Weil addirittura talvolta in conflitto con lo stesso Platone. E ciò in relazione al così criticamente decisivo problema del male. La «riflessione metafisica sul male» non sembra raggiungere infatti mai la sua pienezza se non si fa piazza pulita (come fa la pensatrice francese) di prudenze e sotterfugi filosofici per annacquarne e ridurne la devastante portata. Ciò è quanto avviene secondo lo studioso proprio entro quel fondamentale dualismo platonico (Fedone), che vede nell’anima il bene e nel corpo il male, e che in tal modo oggettivizza il male entro un’ontologia immanente in radicale discontinuità con quella trascendente. Abbiamo già detto che, a nostro avviso, ciò non è del tutto vero. Ancor più se si tiene conto della profondissima riflessione di Platone sul rapporto tra Uno e Diade.59 Per cui ci sembra che tale pessimismo sia molto più del neoplatonismo plotiniano. Conviene però comunque attenersi a questo almeno come provvisoria ipotesi di lavoro.

In rapporto a ciò, dunque, la Weil non nega né la dimensione malefica del finito né manca di porre in evidenza anche la relatività ontologica del male. Eppure, come dice lo studioso, ella pone comunque l’assolutamente critica questione del «chi » commette il male, ovvero la questione della responsabilità (che pone poi come decisiva la dimensione soggettiva del male, pienamente accolta dalla Weil nel concetto di consenso). A fronte della quale poi ogni fin troppo facile oggettivazione del male si dissolve e svanisce. Da ciò consegue però che anche la relatività del male va letta in modo differenziato e complesso, e non invece semplicistico. Il male infatti è del tutto positivo ontologicamente (è lo stesso Essere come implacabile Necessità) per quanto sia relativo in termini di distanza del finito dal Principio. Guardato dal basso esso è infatti esattamente «ciò-che-non-deve-essere» ma comunque è – quindi è in sé qualcosa di ontologicamente «irriducibile». Proprio come tale, dice il Vetö citando Weil, esso strazia perfino Dio. Ebbene tale così importante precisazione ci mostra quanto sia impossibile fare della Persona un luogo ontologico incondizionatamente positivo. Eppure va riconosciuto che, proprio come teorizzato dalla Stein, esso è un luogo ontologico veramente strenuo (in quanto immagine speculare del divino quale suprema Identità). Manca a tale constatazione solo il riconoscimento che in esso è da vedere il male stesso in quanto «autonomia». E comunque, se si prende atto della forte polemica della pensatrice tedesca contro il tomismo proprio a proposito del concetto di individuo sostanziale quale auto-fondato («Selbstand»),60 si vedrà che in qualche modo ella ebbe ben presente questa così scomoda realtà. Chissà se – nel caso che il suo pensiero avesse potuto proseguire il suo corso (e magari si fosse anche liberato dalle ipoteche così condizionanti della condizione di filosofo) – tutto ciò non sarebbe un giorno divenuto in lei evidente.61 In ogni caso va registrata qui una sua obiettiva incapacità di non restare intrappolata nel riduzionismo al quale così tanto rischia di restare soggetta la metafisica religiosa. Che qui appare consistere nell’incapacità di andare dritti allo scandalo centrale costituito dall’essere finito-determinato, evitando così tanto la prudenza tendenzialmente platonica quanto la poca onestà di un Cristianesimo che non prende poi tanto sul serio la propria stessa dottrina della pienezza estrema della libertà del finito.

In ogni caso una forte relativizzazione del valore attribuibile alla Persona risulta, entro la visione weiliana, anche ritornando alla sua polemica contro l’Io.62 La «prospettiva metafisica» o anche «prospettiva divina» (opposte entrambe alla «prospettiva fisica», in cui dominano in modo assoluto le sole leggi naturali) consiste per la pensatrice in un campo visivo in cui non vi sono centri ma invece solo un unico centro. Ed è l’unico modo questo di concepire un vero (e strenuo) pensiero dell’Essere, a margine del quale poi si configura in modo chiarissimo una Realtà da intendere solo come Totalità. Ma è del tutto corretto, come fa la Stein, presupporre che comunque la Persona sia assolutamente decisiva entro tale ontologia. Non però solo in positivo, bensì invece anche in negativo. Dato che è proprio dalle decisioni del suo agire e pensare che dipende se l’universo viene letto appena come realizzazione dei propri desideri – così che gli altri esseri ne sono poi mera projezione (laddove l’Io resta al centro e così annienta qualunque centro unitario) –, o invece viene letto come un mondo che è tale solo quando è «in sé». Quando così non viene colto, esso appare essere invece appena come il mondo che «si presenta a noi». Auspicabile è dunque uno sguardo davvero ampio che annulli ogni prospettiva restrittiva. E quindi revochi in primo luogo il condizionamento esercitato dall’Io, ma poi anche qualunque discorso su un Essere ammissibile come divino solo dal punto di vista umano.63

Da qui, riportandoci al discorso già fatto sulla forza centripeta esercitata dall’Io, emerge una radicale dicotomia tra «attenzione» e «desiderio»64. Laddove poi quest’ultimo equivale proprio alla forza esercitata dall’Io, e che quindi si rivela assolutamente incapace di configurare qualunque vera e piena realtà. A tale posizione la Weil attribuisce proprio il nome di «personalità».65 E chiarisce che fondamentalmente, anche se essa ambisce a porsi come centro. In realtà però, trattandosi appena di desiderio (e non invece di attenzione), essa costituisce proprio così un nulla – l’Io «non è niente : non è che aspirazione ». Un nulla che nulla può creare. Ma la così dirimente dimensione del desiderio pone di nuovo la primarietà del criterio morale nel concepire un’ontologia. In forza di esso infatti l’Io, dice il Vetö, è «una feroce contrazione che paralizza e stritola gli esseri che incontra». Dunque non solo esso non genera alcuna realtà, ma peraltro può al massimo servire «a distruggere il mondo». Non certamente invece «a comprenderlo». Insomma presso la Weil l’Io è colto nella sua dimensione morale prima che filosofico-conoscitiva, e come tale poi onto-costitutiva. L’Io come centro allora è semmai principio di negazione, e non di affermazione della realtà. Pertanto è solo nella pienezza morale che c’è per davvero una sua funzione conoscitiva ed onto-creante. Ecco che l’onto-creatività dell’Io è pensabile solo in modo strenuamente morale e precisamente nel senso della decreazione (che è poi dissoluzione dell’Io).

Non vi è dubbio che qui la Persona sia un vero e proprio aperto disvalore, ed ancora una volta lo schema platonico di pensiero appare davvero decisivo. E non vi è dubbio che in tal modo la Weil smascheri una grande insufficienza della Fenomenologia husserliana. Ovvero non solo l’assenza in essa di una vera dimensione erotico-emozionale-morale,66 ma anche la sua incapacità di riconoscere quest’ultima come vera e propria dimensione nascosta sotto l’atteggiamento teoretico. Una volta giunto alla trattazione della dottrina weiliana dell’«azione non-agente», il Vetö67 ci mostra infine l’insufficienza della visione personalista anche alla luce di un’auspicabile movimento attivo che si dipani secondo la prospettiva di un «desiderio senza oggetto» e di un’«attenzione a vuoto». Prospettive che poi rientrano in quelle della decreazione. E si tratta di un’azione ormai del tutto svuotata di elementi personali. Qui peraltro emerge nuovamente il finire per coincidere in tal modo della Necessità con il Bene (Amore). Nel movimento ontologicamente elevato (quello circolare del Timeo) configurantesi con l’agire senza «moventi» (tra i quali vanno inclusi anche quei «valori» formali a priori di cui parla Kant), si profila infatti un agire perfettamente obbediente alla Necessità (al modo letterale di uno «schiavo obbediente»). Che poi è riconoscimento pieno della realtà intessuta di altri («carità»). Nel cui solo interesse allora l’azione si muoverà. È il culmine questo dello stato decreato, in cui, diventati ormai «trasparenti», si esiste solo per costituire un «» «punto di contatto tra Dio e il prossimo». Ecco che allora in tale agire si collabora al distendersi dell’Essere come esteriorità a Dio ed anche a noi stessi. Estremamente significativo ci sembra qui il fatto che, entro quest’ontologia così prossima a quella di Nietzsche, si configuri proprio l’immagine di una «danza». Che però, invece di essere fine a sé stessa, è invece realizzazione piena proprio della perfezione del movimento di cui qui si parla.

4. Amor fati

Aldilà del comune riferimento alla grecità68 (peraltro radicalmente diverso nei due pensatori), l’aspetto forse più suggestivo della prossimità Weil-Nietzsche ci sembra essere comunque proprio quello dell’«amor fati ». Che costituì per la pensatrice francese un tema di riferimento costante ed estremamente intenso. Esso si muove sostanzialmente lungo le linee della sua adesione ad uno schema stoico di pensiero. Tuttavia però, proprio perché scopo di quest’indagine è mettere in luce la dimensione della testimonianza storica dei pensatori qui menzionati, ci sembra che tutto sommato l’approssimazione da questo punto di vista esuli anche la specifica sfera dello stoicismo filosofico e si estenda soprattutto al forte ruolo che il tema dell’amor fati ha giocato nel complessivo scenario di pensiero del tempo. Un esempio ne è la riflessione anch’essa stoica di quel Fernando Pessoa69 che è stato poi altrettanto fortemente approssimato a Nietzsche.70

Entro il pensiero weiliano il tema si pone nel contesto del ruolo affidato dalla pensatrice proprio alla Necessità quale fattore decisivo nella sua visione ontologica. Entro la quale si muovono poi il rapporto tra Necessità ed Amore ed il rapporto tra Necessità e Libertà. Proprio a proposito di quest’ultima la pensatrice sottolinea la stringente necessità di scegliere l’ordine della Necessità invece del solo subirlo.71 Si pone qui in modo chiaro, come peraltro abbiamo già visto, un concetto molto deciso di prepotente volere. Ma comunque in modo diametralmente opposto al modo in cui esso viene posto in Nietzsche, e cioè nel senso di una vera e propria volontà di auto-distruzione. Si tratta sempre del fatto fondamentale costituito da un «voler essere» a tutti i costi che configura poi di fatto l’esatto contrario dell’abbracciare la Necessità. E ciò perché la sua massima intensificazione sta proprio nel considerarsi, quali esigenti Io (e di certo ancora più esigenti in quanto auto-costituiti come fondamentalmente volenti), diversi dalla maggior parte degli esseri sottomessi alla Necessità stessa. Ora non vi è dubbio che vada proprio in questo senso il forte accento posto da Nietzsche sulla dimensione aristocratica del volere. Peraltro, per come la Weil vede le cose, proprio l’avere un corpo è cosa che non libera affatto dalla Necessità nell’abbracciarla volontariamente. Ma semmai sottomette ad essa in modo ancora più pieno. L’essenza dell’ontologia quale dimensione materiale consiste infatti proprio nel suo distendersi nel tempo quale Necessità. Inoltre la Necessità non è per la Weil72 altro che uno dei due volti di Dio, e cioè appena quello della Potenza. Che poi non è altro che l’altra faccia di quel volto dell’Amore che poi è quello ben più autentico.

Già qui appare di nuovo evidente come la rivoluzionarietà del pensiero nietzschiano sia in realtà più apparente che vera (ovvero forse appena storica). Essa però è messa ancora più in forse dal fatto che alla fine tutta la sua retorica della volontà di potenza, a sua volta così strettamente connessa con l’eroico-tragico e potentemente superante abbracciare la Necessità, finisce per essere riconducibile a quella così scontata e datata retorica dell’Io che la Weil così mordacemente critica.73 Il «consenso senza riserve» all’essere come Necessità, di cui ella parla, si incentra invece proprio in un atteggiamento di «abnegazione, sacrificio e dono di sé». Entro il quale poi il principio dell’io-come-l’altro recede davanti a quello congiunto dell’io-meno-che-l’altro e l’altro-più-di-me. È qui, dice il Vetö, «la dissoluzione di quest’esistenza vorace che chiamo io». E qui soltanto l’altro smette di essere il «» “cibo” che già abitualmente troviamo in esso, ma che molto più troviamo entro la logica della volontà di potenza. Siamo con ciò alla pienezza di una «decreazione divina» mediante la quale «Dio consente all’esistenza di esseri altri da sé». Ma che non manca di passare proprio per la dimensione di un’oggettiva Necessità che al finito appare come il gelo e la crudeltà stesse. Dunque sta proprio qui il fulcro di un abbracciare la Necessità che è davvero tragico, in quanto fortemente minusvalico. Invece di essere invece orgiastico, trionfale ed euforico (ma forse solo disforico!) com’è in Nietzsche. È infatti proprio in questa suprema accettazione dell’Essere che vi è la resa obbediente alle leggi della Necessità. Perché sempre, quando esso insorge, l’Essere è autonomo ed è quindi per definizione anche per noi malefico. Con tutto ciò si configura però tutt’altro che una retorica naturalista-immanentista come di fatto appare invece in Nietzsche. Infatti la crudeltà del mondo non è affatto di Dio, bensì è invece proprio solo della Natura (quale luogo di Caduta).74 Dio rinuncia a sé stesso come Bene (e anche allo stesso Essere come Bene) proprio per fare spazio a tutto questo. Abbracciare la Necessità è pertanto un atto di pura obbedienza nella forma del consenso all’«ordine del mondo». Il che implica poi il non essere sé stesso ma essere ciò che Dio vuole : – bene o male che sia entro le apparenze immanenti. Sta di fatto che allora proprio questa, ci fa notare il Vetö, è imitazione del Bene. Ecco allora la soluzione al solo apparente dilemma Necessità-Libertà intorno al quale l’intera filosofia si è affannata sempre naufragando – la coppia polare di opposti necessità-libertà si riassume e si risolve alla fine solo nell’atto di obbedienza.

5. Conclusioni

Da quanto è stato detto ci sembri che la nostra ipotesi di partenza risulti essere stata ampiamente confermata e fondata. Infatti l’esame del pensiero di Simone Weil svolto attraverso una sua trattazione critica sintetica, ed in particolare in relazione alla sua metafisica religiosa, dimostra che ella fu al pari di Nietzsche sensibilissima testimone ed interprete dello spirito del tempo moderno. Specialmente per quanto riguarda i più scottanti temi e problemi emersi in esso con la conseguenza di una profonda e radicale messa in discussione della tradizionale onto-metafisica specie nei suoi aspetti più morali. L’altezza vibrante e l’arditezza morale e religiosa della riflessione della pensatrice ci forniscono quindi non solo un paradigma di pensiero mistico-contemplativo ma inoltre trapiantano quest’ultimo nel vivo stesso della Modernità, ovvero laddove (dopo pensatori come Kant, Nietzsche ed Heidegger) sembrava proprio che esso non avesse più alcun diritto di domicilio. Questo avviene però senza alcuna restaurazione reazionaria, bensì invece per mezzo di uno spostamento del registro mistico-contemplativo della metafisica filosofica su toni ben più alti e vibranti di quelli della tradizionale metafisica. Si tratta di un’ascesa verso vette estremamente aguzze sulle quali il soggiorno è ben più rischioso che sugli altopiani posti a ben più bassa quota. Ciò in quanto lassù si è continuamente minacciati dal cadere a precipizio nei più profondi abissi. E la sollecitazione in questo senso è venuta senz’altro dalla distruttività iconoclastica di un pensiero come quello di Nietzsche. Il quale aveva evidentemente una sua precisa giustificazione storica. Ci sembra evidente che tale spostamento ascensivo corrisponda al passaggio da un’onto-metafisica enticista dell’immanenza e dell’esteriorità (quella tomistico-aristotelica) ad una metafisica essenzialista della più pura trascendenza e dell’interiorità (quella platonica).75 Ma quest’ultima dimostra proprio con la Weil di essere ben più capace di ricomprendere nell’Alto il più infimo e minaccioso basso.

Anche proprio per questi ultimi motivi ci sembra appropriato l’accostamento aggiuntivo dell’asse Weil-Nietzsche ad una pensatrice come Edith Stein. Non per nulla ella fu una protagonista dell’autentico revival dell’onto-metafisica religiosa entro il quale la Weil giganteggiò così tanto. Abbiamo visto che la sintonia con gli aspetti più drammatici ed estremi dello spirito del tempo è, almeno apparentemente, ben più ridotta presso la Stein. Ed abbiamo visto che ella oscilla piuttosto fortemente tra una dimensione tradizionale (tendenzialmente teologica e tomistico-aristotelica) del pensiero metafisico ed una dimensione rinnovata nel senso del recupero dei suoi termini platonici. Oscillazione che però (in quanto sostanziale esitante segnare il passo nella prudenza della visione metafisica) sarà decisamente sorpassata nell’ultimissima fase del suo pensiero. In qualche modo dunque la pensatrice tedesca ricorre nel contesto della nostra indagine come l’elemento meno forte dello scenario. Ciò non fa di certo giustizia alla potenza, profondità ed anche sensibilità del suo pensiero. Ma comunque non è questo che viene posto in discussione in questo lavoro. Il cui scopo è comunque sostanzialmente, come abbiamo detto preliminarmente, quello di comprendere più approfonditamente il pensiero steiniano entro uno scenario filosofico che ci sembra non sia stato finora sufficientemente preso in considerazione.


  1. Luigi A. Manfreda, Tempo e redenzione. Linguaggio etico e forme dell’esperienza da Nietzsche a Simone Weil, Jaca Book, Milano 2001; Massimiliano Marianelli, La metafora ritrovata: miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova, Roma 2004, II, 2,3 p. 103-104 ; A. Danese, G. Di Nicola, Abitare la contraddizione, Dehoniane, Roma 1991, II, III, p. 377-407 ; M. Mangiabene, “Simone Weil e Nietzsche”, Per la Filosofia, 1998, 42, gennaio-aprile, 102-113. ↩︎

  2. Vincenzo Nuzzo, Nietzsche il grande nemico della Tradizione, Victrix, Forlì (in corso di pubblicazione). ↩︎

  3. La prossimità tra le due pensatrici è stata ben riconosciuta da diversi autori, tra i quali anche il sottoscritto [Ann Astell, “Saintly mimesis, contagion and empathy in the Tohugh of Renè Girard, Edith Stein and Simone Weil”, Shofar, 2004, 22 (2) 116-131 ; Laura Boella, Roberta de Monticelli, Rossella Prezzo, Maria Concetta Sala, Filosofia Ritratti Corrispondenze, Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, a cura di Francesca de Vecchi, Tre Lune, Mantova 2001; Erich Przywara § Henry Leroux, “Edith Stein et Simone Wei essentialisme, existentialisme analogie”. Les Etudes Philosophiques, 1956, 11 (3) 458-472 ; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e dimensione apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’” Prospettiva Persona, 2015, 92 (2) 33-38]. ↩︎

  4. Jean-François Thomas, Simone Weil e Edith Stein, malheur e souffrance, Culture et verité, Namur 1992. ↩︎

  5. Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Astrolabio, Roma 2010, 10, 1 p. 177 . ↩︎

  6. Miklos Vetö, La metafisica religiosa di Simone Weil, Arianna, Casalecchio 2001. ↩︎

  7. Rocco Pititto, Dire Dio ad Auschwitz: Edith Stein e la Sho’ah , in AA.VV., La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Vivarium, Napoli 1998, p. 707-732. ↩︎

  8. Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein e suoi presupposti platonici, Tesi di dottorato, FLUL Lisbona (in corso di preparazione). ↩︎

  9. Carlo Michelstaedter, Persuasione e rettorica, Feltrinelli, Milano 2011. ↩︎

  10. Un registro così alto di misticismo, unito però alla più cruda presa d’atto dei caratteri dell’immanenza mondano-umana, si può forse trovare solo in un pensatore altrettanto straordinario per acutezza ed ardimento contemplativi, com’è stato Eckhart (Dietmar Mieth, Meister Eckhart, C.H. Beck, München 2014). ↩︎

  11. Come testimoniato dalle lettere (Simone Weil, Estratti di lettere a Andrè Weil, Borla, Milano 1998, p. 192) e dalla critica (M. Mangiabene, “Simone Weil e Nietzsche”, Per la Filosofia, 1998, 42, gennaio-aprile, 102-113). Forse però un tacito riferimento a Nietzsche si può trovare laddove ella traccia una specie di storia filosofica della morale (Simone Weil, Lezioni di filosofia, Adelphi, Milano 2004, III, I p.191- 212). ↩︎

  12. Da notare a tale proposito la forte originalità della stessa sua appartenenza alla cosiddetta «filosofia cristiana», che ebbe per la pensatrice soprattutto il senso di possibilità di conciliare la filosofia con la riflessione su verità di fede (Br. Christof Betschart, Christliche Philosophie nach Edith Stein, Lizentiatsarbeit, Theologische Fakultät Freiburg/Schweiz, Freiburg 2004 p. 1-122). ↩︎

  13. Jane Duran, “Edith Stein, ontology and belief”, Hey.J., 2007, XLVIII, 707–712 ; Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, Herder, Freiburg Basel Wien 2006, VII, 8 p. 358-360, ibd. VII, 9 p. 360-391, ibd. VIII, 3 p. 422-441. ↩︎

  14. Donald L. Wallenfang, “Awaken, o Spirit : the vocation of becoming in the work of Edith Stein”, Logos, 2012, 15 (4) 57-74. ↩︎

  15. Edith Stein, Der Aufbau der menschlichen Person: Vorlesung zur philosophischen Anthropologie, Vol 14, Herder Freiburg Basel Wien 2001 ; Edith Stein, Potenza ed atto, Città Nuova, Roma 2003 ; Edith Stein, Endliches, cit. alla nt. 13. ↩︎

  16. Edith Stein, Martin Heideggers Existenzphilosophie, in : Edith Stein, Endliches, cit. alla nt. 13, p. 445-499 ; Edith Stein, Was ist Methaphysik?, in : Edith Stein, Endliches, cit. alla nt. 13, p. 495-499 ; Edith Stein, Kant und das Problem der Metaphysik, in : Edith Stein, Endliches, cit. alla nt. 13, p. 484-493. ↩︎

  17. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, II, I, I, 1-4 p. 439-448, ibd. II, I, I, 5-8 p. 448-454, II, I, I, 18 p. 491-523. ↩︎

  18. Max Scheler, Idealismo-Realismo, Editorial Nova, Buenos Aires 1962, p. 7-10. ↩︎

  19. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 25-32. ↩︎

  20. Max Scheler, Idealismo, cit. alla nt. 18, III, 1-2, pag. 46-95. ↩︎

  21. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 51-67. ↩︎

  22. È estremamente significativo che tale così moralmente fondamentale non-volere ricorra poi, nella fase mistica del pensiero steiniano (Edith Stein, Scientia Crucis, OCD, Roma 2011, II, 3 p. 129-158) in uno straordinario parallelo con la riflessione di Eckhart (Dietmar Mieth, Meister, cit. alla nt. 10, Einleit., p. 24) – dove si configura una «purificazione del tendere» («Reinigung des Strebens») che equivale di fatto allo stato di una totale rinuncia alla proprietà sullo stesso proprio essere (… non ho, non so né voglio nulla). Il nucleo di tale non-volere appare essere ancora una volta la rinuncia, da parte dell’Io umano, alla propria autarchia conoscitiva ed onto-costitutiva. E tale collasso dell’Io equivale poi proprio a quella «morte spirituale» che è la premessa stessa dell’espansione conoscitiva necessaria per la vera pienezza dell’esperienza religiosa, ossia quella sciamanica (Franco Fabbro, Neuropsicologia, cit. alla nt. 5, 10, 1 p. 176-179). ↩︎

  23. Quei Veda, Upanișad e Bhagavadgītā che dappertutto affermano la necessità di una dissoluzione dell’Io. Menzioniamo qui solo alcuni luoghi testuali delle Upanișad. In questo testo viene sottolineata l’inconsistenza ontologica dell’esteriorità esistente individuale rispetto alla sua essenza sottile e quindi la necessità di un riassorbimento del soggetto nel Brahman Bṛhadāṇyaka Upanișad, in : Raphael (a cura di), Upaniṣad, Bompiani, Milano 2010, II, III, 4 p. 81, ibd. II, V, 1 p. 125, ibd. IV, I, 2 p. 165, ibd. IV, IV, 6 p. 193, ibd. V, XIV, 4 p. 237-239 ; Kaṭha Upaniṣad, in : Raphael (a cura di), Upaniṣad, I, I, 1-29 p. 815-829. ↩︎

  24. A nostro avviso l’accento posto poi ha Heidegger sullo stesso concetto Günther Pöltner, “Philosophie als > Korrektion < der Theologie”, in : Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers, Meiner, Hamburg 2011, p. 69-88; Johannes Brachtendorf, „Heideggers Metaphysikkritik in der Abhandlung »Nietzsches Wort > Gott ist tot «“, ibd. p. 105-127 ; Reiner Thurnher, „Heideggers Distanzierung von der metaphysisch geprägten Theologie und Gottesvorstellung“, ibd. p. 175-194 dovrebbe essere considerato solo secondario. ↩︎

  25. E qui il non-volere, di cui parlavamo prima, si delineerà chiaramente come rinuncia alla propria volontà per abbracciare la volontà divina, e quindi come santa passività (così nell’intera mistica cristiana, come quella di Juan de la Cruz e Teresa d’Avila, che poi converge, rifluendo all’indietro, verso Dionigi l’Areopagita). Tale passività viene poi indicata dalla neurofisiologia dell’esperienza religiosa come il nucleo stesso di un’estasi ormai del tutto «interiorizzata» e che viene riconosciuta poi come uno degli aspetti più caratteristica della prassi mistica (Fabbro, 11, 1, 1 p. 249-252). ↩︎

  26. Tesi sostanzialmente affermata da Hessen (Johannes Hessen, Platonismus und Prophetismus, Reinhardt, München Basel 1955, I, IIB, 1 p. 77-90, ibd. IIC, 1 p. 98-115, ibd. II, I-II, p. 141-178, ibd. V-VII p. 207-240) e però negata recisamente, sempre comunque dal punto di vista cristiano, dal von Ivánka (Endre von Ivánka, Plato Christianus, Johannes, Einsiedeln 1990, I, p. 19-26). ↩︎

  27. È impossibile affrontare qui tale così complessa questione, ma valgano a ridimensionare l’idea di un dualismo platonico le osservazioni fatte dal Reale sulla fondamentalità della relazione tra Uno e Diade (Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce della “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2010, I, VII, I-IV p. 214-227, ibd. III,XII, I-V p. 362-388, idb. IV, XVII, p. 545-582) ed inoltre sull’ininterrotta continuità tra il livello ideale e quello cosale dell’essere (ibd. II,VI,III- VII, I-II, p. 214-221, ibd. III, XI, II-III, p. 323-336-344, ibd. IV, XVI, II, p. 501-511). ↩︎

  28. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 69-84. ↩︎

  29. Cosa che proibisce qualunque retorica, in quanto coartante per definizione. E ciò sia nel senso dell’affermazione assoluta del bene (ontologia cristiana) sia nel senso della relativizzazione del bene al male (ontologia nietzschiana). ↩︎

  30. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 19-20. ↩︎

  31. Edith Stein, Potenza, cit. alla nt. 15, I, 1-3 p. 55-71 . ↩︎

  32. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 22-23. ↩︎

  33. Martin Heidegger, Cos’è Metafisica?, Adelphi, Milano 2008, p. 44-51; Vincenzo Nuzzo, Heidegger. Il moderno pensiero della distruzione, Victrix, Forlì 2015. ↩︎

  34. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 52-54. ↩︎

  35. E si badi bene che l’immaginazione è ampiamente considerata nemica dell’autentica mistica. Come affermerà poi la stessa Stein prendendo sul serio gli inviti alla prudenza di Juan de la Cruz rispetto alle immagini sensibili del divino (Edith Stein, Scientia, cit. alla nt. 22, II, 3 p. 72-73). Del resto la stessa moderna neurofisiologia dell’esperienza religiosa ci indica la via di un’immaginazione del tutto sopra-sensibile. Non a caso il Fabbro (Franco Fabbro, Neuropsicologia, cit. alla nt. 5, 10, 1 p. 177) menziona l’«immaginazione mentale», quale capacità fondamentale dello sciamano, nei termini della conquistata attitudine a cogliere in reale in modo sostanzialmente «visionario» (in forza della «visione interiore») e quindi in una maniera trasfigurata che non corrisponde affatto alla dimensione esteriore. ↩︎

  36. E ne darà prova peraltro nella sua ultimissima fase mistica, in cui sulla scorta di Juan de la Cruz, ci mostrerà come la conoscenza da sola, senza il desiderio amoroso (proprio della fede), non assurge mai alla pienezza della contemplazione divina (Edith Stein, Scientia, II, 3 p. 126-134). ↩︎

  37. Edith Stein, Der Aufbau, cit. alla nt. 15, VII, II, 2, p. 99-101; Edith Stein, Endliches, cit. alla nt. 13, V, 10 p. 92-112 ↩︎

  38. Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, II, IIB, 6 p. 191-193, ibd. II, III, 4-5 p. 226-229 ; Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, I, 5, 3 p. 115-116, ibd. II, Intr. II, 1, 1 p. 157-163, ibd. II, 2, 3 p. 240-255. ↩︎

  39. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 17-28. ↩︎

  40. Solo più tardi (ovvero sempre nella sua ultimissima fase mistica), la Stein perverrà ad un concetto molto simile parlando dell’« annichilamento» di Cristo come un atto di decisione e consapevolezza davvero fulmineo che in un solo attimo istituisce la prima inesistente dimensione verticale dell’annullamento di distanza tra divino ed umano (Edith Stein, Scientia, cit. alla nt. 22, II, 3 p. 158-164). ↩︎

  41. Proprio come nel vedico permanente sacrificio cosmogonico di Prajapāti, il “Padre delle creature” (Raimon Panikkar, I Veda, Rizzoli, Milano 2008, I, I, 1-8 p. 59-118). ↩︎

  42. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 70-78. ↩︎

  43. Edith Stein, Aufbau, cit. alla nt. 15, II, I, 3 p. 23-26, ibd. V, II, 2 p. 80-91, ibd. VII, III, 1-4 p. 103-127 ; Edith Stein, Psicologia, cit. alla nt. 38, I, 5,2-3 p. 106-118, ibd. II, 2, 2 p. 221-240. ↩︎

  44. Ed a questa così fatale esperienza si riferirà in fondo indirettamente anche la Stein nel suo discorso sull’«annichilamento» di Cristo in Croce (vedi nota 40). Un’eco estremamente significativa di tale concetto si può ritrovare nell’illustrazione eckhartiana del concetto di «pienezza dei tempi», o anche «in quel tempo» (in relazione allo stato di «mandato» che è proprio dell’Angelo Gabriele nel suo rivelarsi a Maria) Meister Eckhart, Predica 6 (Q 38), in : Loris Sturlese (a cura di), Meister Eckhart. Le 64 prediche sul tempo liturgico, Bompiani, Milano, 2014, p. 87. Si tratta di un tempo radicalmente originario che è poi unità straordinariamente concentrata, ovvero l’«ora» in cui è presente tutto il tempo, cioè eternità in cui tutto l’essere è raccolto. ↩︎

  45. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 133-154. ↩︎

  46. Che a tale riguardo (in questa fase non ultimativa del suo pensiero) appare fin troppo condizionata dall’ottimismo agostiniano (più che non platonico) circa l’Io animico come luogo di padronanza sul tempo. ↩︎

  47. Martin Heidegger, Il nichilismo europeo, Adeplhi, Milano 2010, p. 27-150; Martin Heidegger, Der Spruch des Anaximanders, in : Martin Heidegger, Holzwege, Vittorio Kosterman, Frankfurt am Main 2003, p. 320-373 ↩︎

  48. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 156-157. ↩︎

  49. Simone Weil, Lezioni, cit. alla nt. 11, II, II, 1-2 p. 106-109. ↩︎

  50. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 34-35. ↩︎

  51. Evidente punto di approdo questo dell’intera prospettiva filosofico-metafisica sviluppatasi nel Medioevo intorno al rapporto (avicenniano) tra intelletto «agente» ed intelletto «possibile» (Étienne Gilson, La filosofa nel Medioevo, Rizzoli, Milano 2014, VI-VII, p. 393-472 ; Dietmar Mieth, Meister, cit. alla nt. 10, I, 7 p. 82, ibd. IV, 18, 170-173. ↩︎

  52. Angela Ales Bello, Edmund Husserl. Pensare Dio – Credere in Dio, Messaggero Editore, Padova 2005, II, 1-5, p. 37-80. ↩︎

  53. Michele Federico Sciacca, Filosofia e Metafisica, Epos, Palermo 2002, Introd., p. 19-35, ibd. I, I, I-II p. 39-69, ibd. I, II, II p. 71-122. ↩︎

  54. A fronte però della così oggettiva altezza del pensiero weiliano, che sfugge senza alcuna difficoltà ad una troppo stretta soggezione alle intimazioni proprie di questo tabù, risulta davvero difficile comprendere come invece la Stein, pur così ardita e disinteressata come anch’ella fu, vi si sia sottomessa con tanto scrupolo. ↩︎

  55. Edith Stein, Potenza, cit. alla nt. 15, II, 4 p. 92-111, ibd. IV, 4. p. 143-146, ibd. V, 6 p. 161-170, ibd. VI, 7 p. 257 -264; Edith Stein, Endliches, cit. alla nt. 13, IV, 4, 5-7, p. 205-213, ibd. VII, 7, p.356-358, ibd. VII, 9,1, p. 360-361, ibd. VIII, 3,3, p. 427-441. ↩︎

  56. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 40-43. ↩︎

  57. Vincenzo Nuzzo, L’idealismo, cit. alla nt. 8. ↩︎

  58. Edith Stein, Thomas von Aquin, Über die Wahrheit 2. Übersetzung IV, Herder, Freiburg Basel Wien 2008, Vol. 24, XVIII, 1 p. 476-482. ↩︎

  59. Come attestato dagli studi del Reale (Giovanni Reale, Per una nuova, cit. alla nt. 27, I, VII, I-IV p. 214-227, ibd. III,XII, I-V p. 362-388). Proprio a tale proposito poi il von Ivánka mette peraltro in luce quanto poco la dottrina platonica sia da intendere come dualista, in quanto essa ci invita a prendere atto proprio della relatività reciproca tra essere e non-essere (tra unitario e duale e tra limitato ed illimitato) quale struttura intimamente fondamentale ad ogni realtà (Endre von Ivánka, Plato, cit. alla nt. 26, I, p. 33-34). ↩︎

  60. Edith Stein, Endliches, cit. alla nt. 13, V, 1-5, p. 239-279 ; VIII, 1-3, p. 395-441. ↩︎

  61. Cosa che ci sembra peraltro chiaramente testimoniata da studi sulla dimensione del distacco entro il suo pensiero (Francisco Javier Sancho Fermín, Loslassen - Edith Steins Weg von der Philosophie zur karmelitischen Mystik, Kohlhammer Verlag, Stuttgart 2007). ↩︎

  62. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 24-25. ↩︎

  63. Tale è nei fatti la visione di Heidegger Friedrich-Wilhelm von Hermann, “Faktische Lebenserfahrung und urchristliche Religiosität. Heideggers phänomenologische Auslegung Paulinischer Briefe“, in : Norbert Fischer / F-W von Hermann (Hg), Heidegger und die christliche Tradition, Meiner, Hamburg 2011, p. 21-31. ↩︎

  64. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 51-53. ↩︎

  65. Cosa che del resto non può né deve apparire strana proprio se si considera che la realtà ontologica della persona è di per sé incentrata nell’identità con sé stesso da parte dell’Io cosciente (Franco Fabbro, Neuropsicologia, cit. alla nt. 5, 9,3 p. 162) – cosa che poi implica quel sapere-di-sé e perfino anche l’auto-conoscersi come corpo «proprio», che sono stati così intensivamente indagati dalla Fenomenologia husserliana e steiniana). E se questo è senz’altro un punto di inizio della persona (come dimostrato dalla neurofisiologia), ancor più è punto di arrivo di una crescita che (come teorizzato da Eckhart) conduce proprio a quella definitiva correlazione dell’identità umana con il supremo Principio divino quale suprema Identità la quale sopravanza decisamente la relazione tra Assoluto e relativo e tra Dio creatore e creatura (Dietmar Mieth, Meister, cit. alla nt. 10, I, 5 p. 63-73, ibd. I, 7 p. 80-85, ibd. II, 10 p. 98103). Si tratta di ciò che il Mieth definisce come la dimensione del costante «due-uno» («zwei-eine») «simultaneo» («zugleich») caratterizzante il rapporto tra Trascendente ed immanente. ↩︎

  66. Va qui detto però che già dall’Empatia in poi, e successivamente entro la già menzionata ontologia incentrata sui valori, la Stein si batte non poco per arricchire la prospettiva fenomenologia proprio di una profonda dimensione sentimentale. ↩︎

  67. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p.154-169. ↩︎

  68. Massimiliano Marianelli, La metafora ritrovata: miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova, Roma 2004, II, 2,3 p. 103-104. ↩︎

  69. Fernando Pessoa, Il ritorno degli dèi. Opere di António Mora. Quodlibet, Macerata 2005; Fernando Pessoa, Odes de Ricardo Reis, Ática, Lisboa 1994. ↩︎

  70. Adelino Braz, “Nietzsche et Pessoa : la metaphore du semblant”, Philosophica, 2003, 21, 79-99; Stefano Cocco, Il Soggetto e l’Abisso. Critica e transvalutazione dei valori della tradizione metafisica nella filosofia di Friedrich Nietzsche e nella poesia di Fernando Pessoa, Tesi di laurea del Corso di laurea Magistrale in Scienze Filosofiche, Padova 2014-2015. ↩︎

  71. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p. 33. ↩︎

  72. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p.17-19. ↩︎

  73. Miklos Vetö, La metafisica, cit. alla nt. 6, p.37-39. ↩︎

  74. Ed il tema della Caduta vede davvero il pensiero steiniano costantemente solidale con quello weiliano. ↩︎

  75. Laddove poi il pensiero di Eckhart (molto più di quello di Agostino) diviene irrinunciabile per vedere proprio nell’interiore il luogo di incidenza ipostatica, ma soprattutto correlativa, di quella linea verticale alla sommità della quale se ne sta in più puro Trascendente. ↩︎