Il trionfo della natura. Leo Strauss su Niccolò Machiavelli

Ero fatto per avere un corpo. Questo spiega l’armonia che c’era in me.

—Albert Camus, La caduta

1. Introduzione

Conformemente al compito autoaffidatosi — un’interpretazione genuina del pensiero e della figura di Niccolò Machiavelli — , Leo Strauss, scava in profondità rimanendo rigorosamente in superficie. Non aderisce alle numerose etichette affibbiate al Segretario fiorentino — quella più famosa di puro teorico del male (proposta a partire da Christopher Marlowe, poeta inglese del XVI secolo) o quella ancor più audace che lo dipingerebbe come pensatore religioso (inaccettabile non solo per Strauss). Certo, in parte egli stesso dovrà rassegnarsi e sottostare al «carattere luciferino» che nel corso dei secoli gli arditi pensieri del fiorentino ispirarono a gran parte dei suoi lettori: «solo Machiavelli ha osato esprimere la cattiva dottrina in un libro, ed in nome proprio. Tuttavia questo vieto e semplice verdetto, per quanto giusto, non è esauriente».1 La dottrina machiavelliana risponde ad un eclettismo e ad una peculiarità propria soltanto al suo autore. Essa racchiude patriottismo atipico (fiorentino e italiano), ambigua ricerca della «scientificità» della filosofia politica (ma mai rigorosa considerando i numerosi giudizi di valore), stratagemmi «diabolici» in vista del «buon» fine politico: immoralità — o meglio amoralità. Il connubio di questi caratteri, il loro mescolarsi, potrebbe ben connotare il pensiero di Machiavelli se si facesse attenzione a non estrapolarli dal contesto o assolutizzarli singolarmente, rischiando così di snaturare un così eterogeneo e «vario» equilibrio. Ma l’impronta fondamentale scorta da Strauss tra le righe machiavelliane è quella rivoluzionaria. Machiavelli è un pensatore rivoluzionario, sovvertitore dei modi e ordini del suo tempo, della «vecchia» tradizione. Il suo intento sarebbe quello di fornire la forma per plasmare una nuova visione della politica e del mondo. Con i suoi trattati fondamentali — Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio — egli traveste ed esplicita, a seconda delle circostanze, le proprie opinioni ed esempi utilizzando un’astuzia inaudita, una tecnica magistrale dalla potenza subliminale.

Strauss si volge a dimostrare l’immoralità e soprattutto l’irreligiosità di Machiavelli (morale e religiosità — e non religione2 — intese appunto come le fondamenta della «vecchia» tradizione, quella che può esser chiamata cristiana). Per scorgere tutto ciò in Machiavelli — ammonisce Strauss — occorre però mutare punto di vista: liberarci da pregiudizi e catalogazioni che non fanno giustizia all’«intrepidezza del pensiero» e alla «grandiosità della visione»3 del Segretario fiorentino, cercando per quanto possibile di ammirare attraverso una prospettiva premoderna «un Machiavelli interamente inaspettato e sorprendente, che è nuovo e strano, piuttosto che guardare retrospettivamente dall’oggi verso un Machiavelli che è divenuto antico e proprio nostro, e pertanto quasi buono».4

2. Metodologia machiavelliana: una dottrina svelata per gradi

Occorre qui iniziare ad illustrare gli strumenti attraverso i quali Machiavelli, secondo Strauss, sorreggerebbe il suo anelito sovversivo. L’analisi minuziosa di Strauss del testo machiavelliano rivela interpretazioni sorprendenti. In primo luogo ciò che attira la sua attenzione è «l’arte del silenzio» — ascrivibile ad un’«ermeneutica della reticenza»5 — che traspare dalle asserzioni del fiorentino; infatti, partendo dall’esplicita adesione ad un Tito Livio come guida e modello di saggezza (almeno per quanto riguarda i Discorsi), non è difficile per Strauss scorgere nel silenzio machiavelliano un profondo significato, un qualcosa di molto differente dalla dimenticanza. Ed ecco che questa ipotesi viene corroborata da un esempio tratto da i Discorsi nel quale Machiavelli tira in causa proprio il suo modello Livio: per dimostrare che il denaro non è il nerbo della guerra (II, 10) Machiavelli ci mostra come lo storico romano, discorrendo su Alessandro Magno, ritenga necessari alla battaglia solo tre requisiti: molti soldati, capitani prudenti e buona fortuna, senza ricordare mai il denaro. Da qui la deduzione di Machiavelli che un uomo saggio come Livio non avrebbe mai potuto omettere la menzione del denaro se realmente fosse stato necessario alla guerra. La conclusione, quindi, è che il denaro non è necessario a tal fine. Attraverso il silenzio, Livio, riesce a esprimere un’importante verità con estrema efficacia. Solo a partire da quest’ottica Strauss ci invita a prestare molta attenzione alle significative omissioni di Machiavelli, considerando però tali silenzi — come ricordato propedeuticamente — da una prospettiva premoderna e contemporanea a Machiavelli, aspetto che non fa che renderli ancor più potenti e sconvolgenti. Le omissioni nel Principe di concetti fondamentali per la «vecchia» tradizione come «coscienza», «bene comune» e «cielo» non possono non suscitare il nostro stupore. Per Strauss questa non può essere una mera dimenticanza o un banale evitare di parlarne ritenendo tali temi di ovvia e universale importanza (anche perché così non si spiegherebbe la loro presenza nei Discorsi). Anche la mancata menzione di «anima» in entrambi i trattati (Principe e Discorsi) acquista per Strauss una portata significativa sensazionale che apre le porte ad un tentativo di comprensione della mentalità machiavelliana. La conclusione straussiana rileva che, per il contesto delle opere, Machiavelli ritenesse le tematiche suddette irrilevanti ed inutili: proprio come Livio diverge dall’opinione comune del suo tempo mediante il silenzio, Machiavelli esprimerebbe il suo dissenso riguardo alla comune credenza della «vecchia» tradizione semplicemente omettendo questi temi capitali, attirando così una luce sprezzante sulla loro assenza. In questo modo siamo costretti a pensarci, a riflettere sull’intento di Machiavelli, sul perché omettere questioni di sì ovvia importanza. Ebbene

Machiavelli non giunge fino al termine della via; l’ultima parte della via deve essere percorsa dal lettore, che intende ciò che lo scrittore ha omesso. Machiavelli non va fino alla fine; egli non rivela la fine; egli non rivela interamente la sua intenzione.6

In definitiva, secondo Strauss, in un contesto di argomentazione politica, «coscienza» e «cielo» non rivestono la minima influenza per il Segretario, e questa è una verità che il lettore è costretto a pensare da sé grazie alla sottile istigazione propostagli da Machiavelli stesso. Egli accenna ciò che non può dire esplicitamente.

In secondo luogo ad interessare Strauss è la «dottrina dell’errore manifesto» esposta da Machiavelli sempre nei Discorsi (III, 48). Qui il fiorentino afferma che

uno capitano d’eserciti non debbe prestare fede ad uno errore che evidentemente si vegga fare al nimico; perché sempre vi sarà sotto fraude, non sendo ragionevole che gli uomini siano tanto incauti.7

Ma si smentisce immediatamente introducendo un palese esempio di distrazione del nemico: i Romani commisero un errore perché demoralizzati, senza alcuna intenzione fraudolenta. Quel che sorprende Strauss è proprio il fatto che enunciando la dottrina universale dell’«errore manifesto» Machiavelli commetta egli stesso un errore di tal specie. Il Machiavelli di Strauss, inserendo consapevolmente questo errore grossolano nel suo testo, lascia cadere la maschera rivelandosi al lettore come suo nemico. Così egli si presenterebbe subliminalmente come il nemico dei modi e degli ordini attuali e di conseguenza dei suoi lettori (che ancora si collocano nella «vecchia» tradizione). Strauss ci dice che gli errori di Machiavelli rivelano la sua intenzione, ossia la dichiarazione di una «guerra spirituale».8

Legate a questa presunta subdola modalità machiavelliana sono le numerose contraddizioni che possono rintracciarsi nei suoi scritti. Strauss nota come spesso Machiavelli introduca inizialmente una prima trattazione che non si discosta dall’opinione comune per poi riprendere lo stesso tema in una seconda che, invece, se ne dissocia sottilmente; a volte così sottilmente da non poter essere quasi percepita. È necessaria un’attenta analisi, proprio come quella che ci fornisce Strauss. Uno degli esempi più evidenti addotti dallo studioso — che di sottile ha solo l’abilità di Machiavelli nel presentarlo9 — è quello della politica di Firenze verso Pistoia presente nei Discorsi. In una prima trattazione (II, 21) Machiavelli sostiene la fratellanza tra pistoiesi e fiorentini e dunque una volontaria sottomissione dei primi ai secondi, ma in una seconda trattazione (II, 25) il pensatore fiorentino parla di un pacifico artificio, ossia della regola divide et impera: alimentando i fiorentini un partito e poi l’altro in quella città condussero i pistoiesi allo stremo, alla necessità di chiedere aiuto a Firenze, e in ultima istanza di sottomettersi ad essa. Solo nella seconda trattazione emerge la politica di potenza dei fiorentini che in un primo momento era stata omessa o addirittura negata. La prima trattazione si rifà all’opinione comune, in questo caso all’idea di una priorità della morale sulla politica; e tuttavia la seconda afferma esattamente il contrario: in materia di politica la morale è irrilevante, o comunque vi è una netta priorità della politica sulla morale. Machiavelli, dunque, non svela immediatamente le sue intenzioni e opinioni, ma solo per gradi. Insinua dei dubbi nel lettore, lo costringe a riflettere e a cercar di discernere lui stesso l’opinione comune dalla novità da lui proposta. Trovarsi davanti alla seconda trattazione alla luce della prima provoca un senso di smarrimento che induce il lettore a sollevar dubbi sulle comuni credenze. L’intento di Machiavelli è così quello di demolire la «vecchia» tradizione — la mentalità secolarizzata del suo tempo — dall’interno. Inoltre la contraddizione presente tra le due trattazioni è testimone del fatto che al Segretario fiorentino non interessa particolarmente la verità storica, ma soprattutto l’esempio, che dalla storia può trarre, veicolante la sua dottrina politica. Per Strauss «Machiavelli è un artista così come è uno storico».10

Le ambiguità con le quali Machiavelli presenta una serie di termini capitali per la tradizione cristiana destano in noi lo stesso stupore suggerito pocanzi. Un esempio su tutti, quello di «virtù», ci obbliga a riflettere su quale significato attribuire a questa parola. Nel Principe (cap. VIII) trattando appunto della virtù che devono avere i principi per ambire alla conquista e al mantenimento di un principato, Machiavelli, ci offre la visione di un Agatocle criminale e quindi privo di virtù, ma poco dopo «cambia idea» attribuendogliela. Nel primo caso Machiavelli si rifà evidentemente all’opinione comune per cui virtù debba esser virtù morale e nel secondo, invece, viene a delinearsi un nuovo modo di concepirla, quello che caratterizza tutto il pensiero politico di Machiavelli. Infatti la virtù qui proposta si colloca fuori da qualsiasi schema morale, in un’equilibrata commistione d’intelligenza e coraggio, di prudenza e forza di volontà.

Vi è un ulteriore tratto sorprendente dell’interpretazione straussiana che attanaglia il lettore senza più possibilità di fuga: ad un certo punto dei suoi Thoughts, Strauss, invoca una presunta «enorme bestemmia»11 dissimulata magistralmente da Machiavelli. Seguendo rigorosamente la procedura metodica desunta da Strauss dagli stessi scritti machiavelliani la conseguenza non può che essere questa. Da qui in poi il saggio graviterà ineluttabilmente attorno a questa azzardata affermazione.

Anzitutto per giungere a tale conclusione, Strauss, nella sua spasmodica analisi comparata delle opere machiavelliane, riscontra un rapporto oscuro e ambiguo tra le due maggiori, Principe e Discorsi, che farebbe del Segretario fiorentino una sorta di pensatore esoterico o numerologo. Ciò che spiazza Strauss saranno le coincidenze dei numeri: centoquarantadue libri quelli scritti da Tito Livio sulla storia di Roma e centoquarantadue capitoli (esclusi i proemi al primo e al secondo libro) quelli che compongono i Discorsi. Da qui il tentativo di Strauss di trovare una spiegazione della scelta del numero dei capitoli del Principe servendosi di analogie coi Discorsi, portando così alla superficie qualcosa che Machiavelli avrebbe abilmente nascosto per cinque secoli. Dunque, giacché i capitoli del Principe risultano ventisei, la nostra attenzione si dirigerà necessariamente sul ventiseiesimo capitolo dei Discorsi. E già dal titolo osserviamo evidenti corrispondenze che riescono inaspettatamente a dare un certo credito alla pretesa straussiana — in ogni caso estremamente affascinante — d’aver scovato la chiave di lettura originaria di Machiavelli. Infatti questo capitolo è l’unico dei Discorsi che riporta nella sua intestazione un riferimento esplicito al tema del principe nuovo12 — l’argomento fondamentale del Principe — , e per di più tratta di tirannia (come suggerito alla fine del venticinquesimo capitolo) senza utilizzare mai questo termine, proprio come nel Principe Machiavelli evita di differenziare principe e tiranno13: «il ventiseiesimo capitolo dei Discorsi imita il Principe per modo tale da darci una chiave del Principe».14

Addentrandosi in questo ventiseiesimo capitolo Strauss avanza considerazioni inquietanti. Il primo esempio addotto da Machiavelli è quello del re Davide, il quale per ordinare il suo nuovo regno dovette utilizzare modi crudelissimi15 tra i quali fare poveri i ricchi e ricchi i poveri. Machiavelli nel discorrere di ciò cita un versetto del Magnificat come chiarificatore: «qui esurientes implevit bonid, ed divites dimisit inanes» (ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote). Egli dunque utilizza una frase del Nuovo Testamento attribuita a Dio per parlare del re Davide, tiranno secondo quanto il capitolo precedente ci suggerisce riguardo al contenuto di questo ventiseiesimo capitolo. Ma è proprio qui che si insinua la bestemmia. Davide, secondo i Vangeli antenato di Gesù, è stato insignito di un’espressione pronunciata originariamente da Maria in onore a Dio. Dunque Dio per il Nuovo Testamento procederebbe da tiranno: Dio è un tiranno. Questa è «l’orribile bestemmia»16 che emerge dall’analisi di Strauss. Bestemmia che una volta uscita dal testo non può più ritornarci. È per questo che il saggio di Strauss verrà inevitabilmente marchiato da questa «scoperta». Tutta l’analisi seguente non potrà che essere letta sotto la sua luce dissacrante.17

Per avvalorare la sua tesi, Strauss, mostra come la citazione del Nuovo Testamento utilizzata da Machiavelli sia l’unica presente sia nel Principe che nei Discorsi. Ma non è tutto: probabilmente il vertice della gravità lo si ritrova nella presunta richiesta di complicità al lettore da parte di Machiavelli. Infatti, continuando a seguire la traccia metodologica individuata da Strauss, il lettore sarebbe costretto a scorgere la bestemmia producendola nella propria mente. Essendo questa così abilmente dissimulata Machiavelli costringe il fine lettore a bestemmiare con lui. «La dissimulazione, come praticata dal Machiavelli, è un istrumento di corruzione sottile e di seduzione. Egli affascina il suo lettore, ponendogli davanti degli enigmi».18 La fascinosa relazione tra Principe e Discorsi, rintracciabile anche nelle analogie dei numeri19 e nel loro particolare utilizzo, porta Strauss a non considerare accidentali i rimandi di un’opera all’altra, senza tuttavia riuscire a sciogliere definitivamente questo rapporto enigmatico. Egli ci parla di una «duplicità di prospettiva» e di una «duplicità di “intento”» presenti in entrambi i trattati «che corrisponde alla differenza fra lettori «giovani», e lettori “vecchi”».20 Tra quelli che riusciranno a sciogliere gli enigmi machiavelliani — «i suoi lettori par excellence»21 — appropriandosi della nuova dottrina proposta da Machiavelli e quelli che rimarranno «ottusamente» ancorati alla tradizione.

3. La rieducazione degli Italiani e il principe uomo-bestia

Non è semplice decifrare la natura del Principe di Machiavelli, nemmeno per Strauss. A primo impatto può apparire come un’opera fedele ad una tradizione consolidata — gli specchi dei principi (trattati sul buon governo) — , ma contemporaneamente non può sfuggire il carattere di estrema attualità: il finale dell’opera (cap. XXVI) sbocca in un impetuoso e appassionato appello all’azione per liberare un’Italia oppressa dai barbari. In quanto trattato tradizionale il Principe mira ad enunciare una dottrina universale ed eterna, in quanto opuscolo d’attualità, invece, a consigliare un modo particolare di agire. Questa commistione di tradizione e innovazione — o meglio, di imitazione e rivoluzione — non è così lineare come sembra. Strauss ci narra di un «sottile ordito»22 che si cela dietro le pagine dell’opera, di un crescendo che ci porta dall’ammirazione dei grandi fondatori e prìncipi ad una critica23 della stessa tradizione di cui si celebrano le gesta. Machiavelli, seguendo esattamente la metodologia squadernata da Strauss, demolisce gradualmente la «vecchia» dottrina (sia quella antica che quella «cristiana») per edificarne una nuova, la sua.

Mentre l’esigenza di una innovazione radicale è suggerita, ciò vien fatto in maniera sommessa: egli insinua che sta semplicemente affermando in proprio nome e apertamente una dottrina che alcuni scrittori antichi hanno esposta copertamente, o usando come portavoce i loro personaggi.24

Il dubbio che Strauss momentaneamente non riesce a sciogliere è quello presente nell’ultimo capitolo: perché Machiavelli, nel momento in cui esorta a liberare l’Italia, tace sulle difficoltà di quest’impresa, delle inevitabili avversioni dei vari principati e repubbliche italiane nei confronti del liberatore? La soluzione è in parte rintracciabile nei capitoli precedenti del Principe nei quali Machiavelli riporta gli esempi di prìncipi virtuosi contemporanei ed antichi. La figura di Cesare Borgia (cap. VII), attorno alla quale gravita l’intera opera, ci fornisce il modello perseguibile ai fini della vittoria: non serve abbandonarsi a moralismi e indugi, ma è necessaria una politica prudente e impetuosa, a tratti subdola e violenta se ciò conduce al fine agognato. In questo caso per Machiavelli il fine patriottico è il più alto, e non c’è morale che tenga.25 Questa spiegazione però non è esauriente. Strauss nota come in definitiva Machiavelli non ritenga attuabile il compimento dei suoi propositi di liberazione: nello spronare all’azione il principe a cui l’opera è dedicata — Lorenzo II de’ Medici — gli rammenta di alcuni miracoli avvenuti nel loro tempo facendo un parallelo con i miracoli dell’epoca di Mosè che portarono alla conquista della terra promessa. E proprio come Mosè non conquistò la terra promessa (poiché morì prima) Lorenzo, secondo il Machiavelli di Strauss, non conquisterà l’Italia. Egli non possiede quella virtù suprema necessaria per compiere l’impresa e quindi, nel fare troppo affidamento sulla fortuna, verrà inevitabilmente travolto da essa. Solo un uomo di immensa virtù può anelare a tale scopo. «Mentre egli pone l’accento sul carattere imitativo dell’opera cui esorta Lorenzo, egli mette in rilievo il fatto che il liberatore d’Italia deve essere un creatore, un inventore di modi e ordini nuovi, e quindi non un imitatore».26

Il liberatore dunque non deve imitare e ripetere le gesta di Mosè, ma proprio come Mosè, esser lui stesso un creatore di un nuovo ordine in un nuovo «stato», e questo presuppone una virtù straordinaria.

Nell’ultimo capitolo del Principe pertanto Machiavelli utilizzerebbe un linguaggio religioso — definendo la liberazione italiana come una redenzione divina — proprio perché consapevole dell’esigua forza di Lorenzo e della necessità per lui di confidare oltremodo nella buona fortuna, ma «per quanto si possa desiderare di restare commossi da queste espressioni di sentimento religioso, il nostro sforzo fallisce».27

Machiavelli, per Strauss, si starebbe proponendo egli stesso come il creatore di un nuovo codice proprio attraverso il Principe. Il Principe è il nuovo decalogo28 che può sovvertire gli ordini marci della «vecchia» tradizione. È la dottrina finalmente in grado di fornire un nuovo ed efficace metodo d’azione che può agognare a qualunque fine politico, conquista dell’Italia compresa. La risposta definitiva alla domanda posta da Strauss è dunque tutta qui: Machiavelli non si concentra sulle difficoltà concrete e particolari della liberazione d’Italia — un principe attuale non sarebbe in grado di sostenerle semplicemente imitando i grandi esempi antichi — ma pone l’accento sulle potenzialità della sua proposta, della sua filosofia politica innovativa e rivoluzionaria. È necessario, dunque, prima rieducare gli Italiani e soltanto in un secondo momento pensare alla liberazione dell’Italia: «la conquista della terra promessa, la liberazione dell’Italia, è una cura posterior; essa può attendere, può attendere finché il nuovo codice non abbia rigenerato gl’Italiani».29 E così «nella misura in cui la posizione di Lorenzo diminuisce, cresce la statura di Machiavelli».30 Egli si propone come conoscitore della natura dei prìncipi, la metà della scienza politica — l’altra metà sarebbe quella in possesso del principe stesso, ovvero la conoscenza della natura del popolo — , ma nel momento in cui, nel trattato, dichiara di voler dare al principe delle regole per il suo agire, rivela così d’essere un conoscitore anche della natura dei popoli. In tal modo, secondo Strauss, il Segretario si candida definitivamente a principe.31 È lui stesso il virtuoso esempio da seguire. È Machiavelli il nuovo Mosè, il nuovo Romolo-Numa, colui che con ordini nuovi è in grado di plasmare uno «stato» nuovo.

Addentrandoci un po’ di più nel nuovo codice machiavelliano, scorgiamo, sotto l’attenta guida di Strauss, che l’unico maestro di prìncipi citato nel trattato è il mitico Chirone, il centauro precettore di Achille. Un essere mezzo uomo e mezzo bestia sarebbe dunque per Machiavelli il miglior esempio da seguire per un principe nuovo. Il simbolo del centauro sprona il principe a far uso di entrambe le nature — umana e animale — a seconda delle necessità, della circostanze. Il sapiente ed equilibrato alternarsi di queste due produrrà di certo ottimi risultati in politica. Inoltre Machiavelli distinguerà più «vie animalesche» da perseguire, quella della golpe (volpe) e quella del lione (leone) (Principe, cap. XVIII): «perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci e lione a sbigottire e’ lupi».32

«L’imitazione della bestia prende il posto dell’imitazione di Dio», Machiavelli «sostituisce la imitazione di Cristo uomo-Dio con l’imitazione di Chirone uomo-bestia».33 L’irreligiosità qui desunta da Strauss porta Machiavelli a un distoglimento dai fini celesti a favore di una completa purificazione nella realtà terrena, nella natura. L’impossibilità di gestire la forza suggestiva della religione — parlando qui di una dimensione personale, spirituale, e non della religione come instrumentum regni — , la mancanza di punti d’appoggio del sapere biblico, devia brutalmente l’attenzione di Machiavelli verso la realtà empirica, l’unica che nei limiti della necessità «imposta» dalla situazione e dalla fortuna — che tuttavia «aiuta» i virtuosi — , può fornire all’uomo qualche garanzia di efficacia. Per prevalere politicamente è necessario trascendere l’uomo, sì, ma trascenderlo verso il basso e non verso l’alto, verso ciò che conosciamo bene e non verso l’inconoscibile. Un principe che sappia essere umano e sub-umano, che sappia utilizzare l’intelligenza, la forza del leone e l’astuzia della volpe a seconda delle circostanze, sarà un principe virtuoso e vittorioso. Il principe che cercherà di governare con i Pater Noster34 risulterà inevitabilmente perdente.

La magistrale abilità di Machiavelli è quella di riuscire a concludere il Principe con l’invocazione al bene comune. Infatti soltanto nel ventiseiesimo capitolo se ne fa menzione, mentre nei precedenti venticinque viene esposta una dottrina cinica e cruenta con l’unico sguardo al fine politico personale. «L’ultimo capitolo suggerisce così un interpretazione tollerabile della dottrina sconveniente che forma il nucleo dell’opera».35 L’appello al bene comune per Strauss è soltanto una scusa ordita da Machiavelli per farsi ascoltare più volentieri senza evocare l’indignazione tra i «moralisti» della «vecchia» tradizione.36 Lo scopo del fiorentino rimane essenzialmente quello di infondere i suoi nuovi ordini, di instaurare una rinnovata mentalità. Di certo rimane anche un patriota, ma la liberazione spirituale e intellettuale viene prima di tutto.

4. Tito Livio come Bibbia/contro-Bibbia e il ritorno al terrore

Ci si chiede quale opera tra Principe e Discorsi racchiuda propriamente il pensiero machiavelliano, se una più dell’altra possa essere esemplificativa della visione reale del Segretario fiorentino. Tante sono le ipotesi ma nessuna di queste può dominare interamente l’interpretazione straussiana. Egli si limita a constatare la brevità del Principe, compendio dedicato ad un principe effettivo37 e quindi con poco tempo a disposizione per apprendere il messaggio di Machiavelli, e la lunghezza dei Discorsi, sollecitati questa volta da due suoi amici38 i quali richiesero a Machiavelli d’illuminarli sul suo sapere politico appreso nella sua sì lunga esperienza. Possiamo dire che il Principe sveli una dottrina sotto lo sguardo del principe, mentre i Discorsi sia sotto quello del principe che della repubblica. Il fatto però che i Discorsi siano dedicati a prìncipi in potenza (prìncipi qui nel senso di capi di una qualsiasi forma di governo) può indirizzare Strauss a un’attenzione maggiore per questi.39

L’impostazione dei Discorsi è senz’altro diversa da quella del Principe. Qui il filo conduttore è la Storia romana di Tito Livio. L’intrecciarsi di esempi tratti da Livio con altri dell’antichità non romana e altri ancora contemporanei fa dell’opera un complesso e asistematico ragionamento su materie di stato. Ma anche qui, per Strauss, il fine di Machiavelli è rivoluzionario: demolire per ricostruire.

L’incipit dell’opera, e tutta la prima parte — ci dice Strauss — trae in inganno il lettore. La dichiarata ammirazione di Machiavelli per la virtù antica andata ormai perduta imposta il trattato su una linea ben precisa: recuperare quella suprema virtù degli antichi non è impossibile a dispetto dell’incredulità dei moderni. Machiavelli si pone qui non come l’innovatore di ordini nuovi ma come un restauratore degli ordini antichi. E in parte sarà così. L’inganno sarà svelato soltanto dal quarantanovesimo capitolo in poi quando Machiavelli comincerà sommessamente a criticare l’autorità degli antichi — Livio in primis - sulla quale ha impostato il suo discorso.

Primo tassello della strategia machiavelliana è quello di sostituire la Storia di Livio alla Bibbia. È infatti curioso notare l’indifferenza di Machiavelli nei confronti del testo biblico considerato il fatto che nella sua trattazione «salta» dagli Egizi alla fondazione di Roma, evitando così di parlare del popolo d’Israele.40 E questo silenzio — come già si è ricordato — è più significativo di qualsiasi altra parola. Ora serve sostituire l’esemplarità del popolo eletto della tradizione con un altro popolo eletto (non da Dio) — i Romani. Di qui il tentativo di Machiavelli di affermare la superiorità dei Romani e dei loro modi e ordini al di sopra di qualunque altro, Sparta compresa. Infatti dopo l’iniziale elogio della solidità e durevolezza delle istituzioni spartane — resistite per otto secoli — Machiavelli individua nei tumulti che accompagnarono la formazione della repubblica romana la fonte della vera grandezza di Roma, instaurando così definitivamente «mediante la dimostrazione o mediante la fede, o con entrambe, l’autorità della Roma antica e quindi l’autorità di Livio, che celebrò Roma antica».41 Per far emergere chiaramente la sua presa di posizione Machiavelli dovrà contraddirsi, se pur sottilmente, attenuando la sua lode a Sparta nel ricordare il tentativo fallito dal re Agide di rinnovare le antiche leggi di Licurgo ormai corrotte.42 Avendo così in mano un personale surrogato della Bibbia, Machiavelli può iniziare ad attuare la sua vera strategia sovversiva. Egli mostra come lo stesso Livio, grande celebratore di Roma, non esiti ad inserire nella sua Storia degli elementi dissentivi, delle critiche nei confronti dei Romani stessi: nel parlare del «difetto» della legge agraria romana Machiavelli «accetta l’opinione degli «scrittori antichi», circa l’incidenza di certe passioni, e, quel che più conta, si riferisce a Livio».43 A detta degli «scrittori antichi» e dello stesso Machiavelli l’avarizia della nobiltà romana «non si adeguò alla regola fondamentale che la cosa pubblica dov [esse] essere mantenuta ricca e tutti i cittadini esser mantenuti poveri».44 Così procedendo Machiavelli non infrange affatto l’autorità della sua nuova Bibbia, anzi da qui in poi il libro di Livio — e non la storia romana in sé — si configura definitivamente come la vera autorità/contro-autorità machiavelliana (contro-autorità perché differente dall’autorità biblica).45

Proprio come si ammette che l’autorità della Bibbia non è indebolita ma rafforzata dal fatto che essa contiene la testimonianza di come i figli di Israele fossero ostinati e giungessero a fornicare presso altri dei, l’autorità di Livio non è indebolita ma rafforzata dal fatto che egli ci istruisce sui misfatti dei romani e sui difetti e ordini romani.46

Spostando definitivamente l’autorità nelle mani di Livio però viene inevitabilmente indebolita l’autorità di Roma, ora osservata alla luce dei suoi pregi ma anche dei suoi «nuovi»difetti. Gli ordini di Roma antica non sono più quelli da seguire: ne occorrono di nuovi. Per ingigantire questa sentenza all’inizio del secondo libro dei Discorsi Machiavelli espone — dopo aver elogiato la libertà romana nel primo libro — i demeriti della repubblica romana che indussero alla distruzione della libertà in Occidente: permettendo liberamente agli stranieri il diritto alla cittadinanza Roma cosmopolita divenne «costituzionalmente esposta alla corruzione».47 La repubblica pagana di Roma si fa così ambiguamente antitesi e modello della «repubblica cristiana» moderna.

Il prossimo passo di Machiavelli non può che essere la demolizione dell’autorità in quanto tale per fare spazio a se stesso. Dopo aver criticato Roma, nel quarantanovesimo capitolo (I, 49) Machiavelli comincia il suo sommesso attacco a Livio: «egli ammette apertamente che la Storia di Livio può essere difettosa in un punto di qualche importanza, propriamente in un punto connesso con l’argomento delle “accuse e calunnie”».48

Ma il vero affronto alla sua nuova autorità Livio — e dunque all’autorità stessa — avviene espressamente solo nel cinquntottesimo capitolo (I, 58): qui Machiavelli capovolge l’opinione comune, suffragata da Livio e «tutti gli altri istorici»,49 della inferiorità in saggezza del popolo rispetto al principe. Il capitolo si intitola appunto La moltitudine è più savia e più costante che un principe ed è volto a ridimensionare, oltre che l’opinione comune, i concetti di «superiorità» e «saggezza». Sì perché Strauss arriverà a dimostrare come in definitiva Machiavelli non dissenta completamente dagli storici antichi su una presunta superiorità del principe sul popolo, ma sulla pretesa superiorità morale dei capi. Lungi dal rappresentare un esempio morale per il popolo, una vera classe dirigente «degna di questo nome è per necessità superiore alla moltitudine nel prevedere, ma è assai più certamente non superiore sul piano morale».50 La superiorità del principe dunque non può essere di tipo morale, anzi deve essere per necessità immorale o amorale. Questa è la vera saggezza del principe. La moltitudine come custode delle tradizioni, della morale e della religione sarà la parte conservatrice della società e avrà una peculiarità e superiorità in questo ruolo,51 al contrario, il principe sarà l’unico in grado di dare nuove leggi e nuovi ordini grazie proprio alla sua — profonda ma non dichiarata — distanza dalla morale.

Machiavelli, dunque, parte dalla tradizione consolidata per inserire al suo interno elementi sovversivi e innovatori: se la tradizione esalta la morale come luce da seguire egli fa notare la contraddizione interna della communis opinio. Se la superiorità deve essere di tipo morale sarà il popolo e non il principe a detenerla: «nella misura in cui egli accetta ironicamente la premessa maggiore, che l’eccellenza umana è eccellenza morale, egli arriva alla conclusione che la moltitudine è semplicemente superiore ai “prìncipi”».52 Ma la vera eccellenza umana per Machiavelli non può consistere nella maggiore o minore moralità, anzi, ne deve essere intrinsecamente indifferente.53

Con l’attacco all’autorità, da Machiavelli preliminarmente delineata e stabilita, egli stesso porta il lettore ad una perdita di fiducia nei confronti dell’autorità stessa: «respingere in via di principio l’autorità significa rifiutarsi di equiparare il bene con l’antico e quindi ciò che è meglio con ciò che è più antico».54 Viene qui svelata l’estrema necessità di nuovi ordini e modi che «risveglino» la virtù assopita degli uomini — più precisamente degli Italiani — e parzialmente rinnegato l’iniziale scopo dell’opera.55

Altro passaggio della strategia machiavelliana, rileva Strauss, è l’utilizzo di Livio come «personaggio» dei Discorsi. Mostrando come Livio utilizzasse nella sua Storia abili sotterfugi per smascherare ignobili inganni,56 Machiavelli svela al lettore anche il suo proprio modo di procedere — quello usato, nell’interpretazione del Machiavelli di Strauss, da Livio medesimo. Nel centocinquantesimo capitolo (III, 12) dei Discorsi Machiavelli cita e approva alcune parole pronunciate da un personaggio di Livio, il volscio Messio nemico di Roma, attribuendo a Livio stesso la paternità di alcune di quelle opinioni: «sembrerebbe allora che Machiavelli sta con Livio nello stesso rapporto in cui Livio sta con alcuno dei suoi personaggi […] Il Livio di Machiavelli è un personaggio di Machiavelli».57 Egli manovra Livio all’interno dei Discorsi attribuendogli opinioni che egli stesso ritiene vere. Così facendo Livio si trasforma in uno strumento autoritario che parla al posto di Machiavelli e dunque in qualche modo viene «deformata» la Storia liviana interpretandola a vantaggio del fine machiavelliano. In quella parte del discorso di Messio taciuta nei Discorsi, Messio dice ai suoi soldati: «Credete che qualche dio vi proteggerà?» Qui secondo la lettura di Strauss Machiavelli imputerebbe a Livio — oltre che a Messio — la negazione della protezione divina all’esercito di Messio. Ma quella citazione in realtà sarebbe attribuibile a Machiavelli stesso: imputando a Livio un’opinione di un suo personaggio — mostrando le sue mosse — egli si auto-imputa come il sostenitore di quella citazione. L’agire di Machiavelli è dunque per Strauss da considerare alla luce dell’interpretazione metodologica del procedere di Livio. Egli così svela il proprio modo di procedere: attraverso il suo personaggio Livio, che a volte si esprime per bocca dei suoi personaggi, egli a volte si esprime attraverso di lui. Tutto questo è necessario a Strauss per dimostrare la profonda irreligiosità di Machiavelli. Infatti «nella misura in cui Livio critica la teologia romana, Machiavelli può usarlo come un modello per la sua critica alla teologia biblica».58 Inoltre la sua precedente critica a Livio all’autorità in quanto tale suscita dubbi sull’altra autorità parallela, quella tradizionale della Bibbia vera e propria.59 Machiavelli non può criticare apertamente l’autorità biblica, non gli sarebbe stato perdonato un tale affronto e molto probabilmente nemmeno sarebbe stato preso in considerazione. Dunque egli, mediante la lode alla «religione Gentile»60 — al paganesimo civile dei romani che guarda più all’utilità pratica della religione61 che alla sua dimensione spirituale — e alle critiche alla sua autorità Livio, attacca tacitamente la «nuova» religione — il cristianesimo — e la «vecchia» autorità della Bibbia. Ecco l’unico modo per compiere la sua missione: «non potendo biasimare Cesare egli lodava Bruto».62

Strauss ci mostra come secondo la sua interpretazione lo stesso Machiavelli intendesse in definitiva la «missione» di Livio molto più affine alla sua di quanto inizialmente si potesse immaginare. In Discorsi, III, 31 Machiavelli afferma: «Intra l’altre magnifiche cose che ‘l nostro istorico fa dire e fare a Camillo, per mostrare come debbe essere fatto un uomo eccellente, gli mette in bocca queste parole..».63 Ciò non può che essere la dimostrazione del non confinarsi di Livio all’esclusivo ruolo di storico e dell’evidenza di un suo ulteriore compito: «creare» uomini eccellenti. Livio — attraverso opera di finzione — insegna «doveri», mostra una natura umana idealizzata affinché i suoi lettori la perseguano. Ed ecco come il dispiegarsi della metodologia liviana divenga esemplificativa per tentare una chiarificazione della procedura machiavelliana. Qui Strauss, grazie al parallelo tra Livio e Machiavelli fornito da quest’ultimo, individua la critica più profonda e incisiva alla Bibbia: come Livio idealizza i suoi personaggi gli scrittori biblici «fanno dire e fare a Dio quanto, a loro opinione, un essere perfettissimo farebbe e direbbe. […] Il ‘dovere’ viene in luce come “essere”»64 La Bibbia non mostra la verità, ma l’immaginazione di alcuni scrittori persuasi dal fascino della prova ontologica dell’esistenza di un essere perfetto.

L’effetto indebolente che il fiorentino porta alla dimostrata autosufficienza della Storia di Livio65 provoca effetti devastanti nel riconoscimento delle verità bibliche: se Livio mischia essere e dovere trattando in maggior misura delle virtù civili dei Romani, la Bibbia mischia essere e dovere trattando delle verità rivelate e delle conseguenti virtù morali. Come potrebbero essere credibili gli argomenti biblici alla luce di questa consapevolezza? Livio idealizza Roma ma si mantiene su un campo a lui conosciuto, gli scrittori biblici, invece, straripano nell’inconoscibile, nell’abisso dell’immaginazione. Dunque, considerate anche le conseguenze dei loro scritti, se Livio meriterebbe in definitiva una lode (seppur opacizzata da qualche carenza), gli scrittori biblici meriterebbero il più puro disprezzo.

Infine il Machiavelli di Strauss ritrova in Livio colui che è in possesso della verità sulla realtà delle religioni: non esiste divinità o provvidenza, quel che esiste è la fede del popolo. Che poi Dio ci sia davvero è irrilevante per la nostra vita terrena. Il timore di Dio deve fungere da garante della fedeltà ai giuramenti, unificatore della forza dei popoli in guerra, strumento per dominare ordinatamente la moltitudine. La religione è utile, anzi necessaria, solo nella sua dimensione civile.66 Ecco perché quando Livio si serve di personaggi avversi al culto non c’è da stupirsi che si parli di «piccole cose» in relazione alle verità religiose. Essi sì si sbagliano perché non vedono l’utilità civile della religione ma «il loro calcolo non [è] del tutto irragionevole; essi non [pongono] la loro fiducia su «piccole cose», ma sulla fede degli altri uomini in queste «piccole cose», cioè su una cosa grande».67

Dunque, come per il Principe, lo scopo dei Discorsi è quello di creare nuovi ordini e modi per «rigenerare» gli Italiani. Nuovi ordini e modi che a loro volta siano in grado di plasmare uomini creatori e innovatori. La materia antica alla quale Machiavelli da forma serve per mostrare il punto dal quale è necessario partire: ritorno alle origini significa ritorno alla situazione primordiale nella quale solo da un intervento creativo può scaturire l’ordine. Un ordine nuovo, che non può rifarsi a nessun altro ordine preesistente, non essendo esistito niente prima. Il ritorno alle origini di Machiavelli è per Strauss il ritorno al terrore che inevitabilmente accompagna la fondazione, «che inerisce alla situazione dell’uomo, alla essenziale carenza umana di protezione».68 Ciò spiegherebbe anche l’utilizzo del terrore, e quindi della violenza, proprio dell’atto fondativo. «Il primato dell’Amore deve essere sostituito con il primato del Terrore, se le repubbliche hanno da fondarsi in accordo con la natura e sulle basi della conoscenza della natura»69 I nuovi ordini e modi proposti da Machiavelli devono rispecchiare la nostra natura di uomini e non possono fondarsi su atti immaginativi, su «escogitazioni di visionari»70: la religione e la filosofia classica hanno corrotto l’umanità infarcendola di vani deliri di perfezione.71 L’uomo, lungi dall’essere perfetto — e dalla possibilità di anelare alla perfezione — , è parte integrante della natura e ha da comportarsi conformemente ad essa se non vuole rischiare la sottomissione al falso, a principî fasulli e mistificatori, inaridendo così la sua realtà più preziosa — la dignità. A questo è direttamente collegato l’insegnamento machiavelliano del «principe uomo-bestia» che si ricordava più sopra.

Strauss parla di una guerra spirituale intrapresa da Machiavelli, una guerra dell’Anticristo o del Diavolo intenta a reclutare «soldati» — i nuovi Ghibellini — tra le nuove generazioni aperte al suo monito. Il modello di questa guerra è proprio — paradossalmente — il cristianesimo, che pose tra le mani dei suoi profeti disarmati gli unici «mezzi offensivi» contro il paganesimo romano. Eppure ottenne la vittoria. «Come il cristianesimo sconfisse il paganesimo mediante la propaganda, egli crede che con la propaganda potrà sconfiggere il cristianesimo».72

Il Machiavelli di Strauss prende come modello una sorta di fusione tra Gesù e Quinto Fabio Rulliano, combinando l’imitazione dell’efficace propaganda del primo con l’attuazione lenta e graduale del secondo, preservando l’impeto solo per il gran finale.73 Tuttavia Fabio diventa ancor di più il vero modello perseguibile nel momento in cui Machiavelli mostra di fare affidamento esclusivamente sulla prudenza umana, differente toto genere dalla provvidenza divina (sedicente causa della vittoria cristiana). In definitiva, secondo Strauss, per il Segretario fiorentino la virtù dell’uomo è in grado di soggiogare la fortuna. E parlando di Machiavelli come colui che per primo credette possibile un totale cambiamento di mentalità attuabile mediante la propaganda, Strauss arriverà ad attribuirgli il ruolo di primo illuminista — o di illuminista ante litteram — , colui che seppe rompere con la Grande Tradizione.74

5. Il profeta repubblicano

L’effeminatezza del mondo moderno è la piaga che per Machiavelli affligge le nuove società. Il dominio di umiltà e debolezza, il male ricevuto da accettare come volontà divina, il disprezzo per il sangue e la carne di questa terra sono i risultati della dottrina cristiana — probabilmente di una fuorviante interpretazione di essa.75 I primi cristiani trovarono uno straordinario favore della fortuna, la qualità dei tempi adatta a trasmettere la loro lode alla frustrazione: Roma distrusse la repubblica — e con essa la libertà — per creare l’Impero; i romani persero la loro virtù politica rendendosi vulnerabili agli attacchi della novizia morale cristiana: «il cristianesimo ebbe inizio fra gente che mancava completamente di potere politico, e perciò poteva sopportare di avere una semplice fede nella morale».76 Inizialmente l’umiltà imposta rese gli uomini forti e resistenti, ma col passare del tempo quest’umiltà divenne incapacità di vivere, smania di evasione, tormento, nausea e insoddisfazione per questa vita inautentica.

Strauss rileva come Machiavelli si trovasse a constatare la debolezza italiana forgiata dalla Chiesa cattolica, la quale subordinando il potere temporale a quello spirituale — e usurpando lo stesso potere temporale — rese l’Italia inerme e impaurita (Discorsi, I, 12).77

«Dio è un tiranno» è la bestemmia mai pronunciata che secondo Strauss il fiorentino dissimulò nei suoi scritti. Dio è un tiranno perché esige la fede, perché premia e castiga in base alla maggiore o minore riverenza nei suoi confronti. Egli è il padrone e l’unica libertà concessaci è quella di adorarlo.78 Ciò significa astenersi dal peccare in vista del premio finale: la vita eterna in paradiso.79 Peccato che per Machiavelli non potesse esserci nulla di più assurdo. Non peccare significherebbe non essere uomini: «significa indurre gli uomini a confessare con le labbra quello che non credono nei loro cuori; è eversione dalla magnanimità».80 Vi è un’enorme sproporzione tra l’impossibilità organica dell’uomo di non peccare e il comandamento biblico, tra natura e fede. E così il mondo infiacchì, gli uomini misero in dubbio la possibilità che a esseri infimi e insulsi come loro potesse appartenere qualche virtù abbandonandosi completamente alla grazia e alla preghiera, infatti «Dio desidera che la gloria sia data a lui».81 Perseguirono la legge immutabile di Dio senza badare all’estrema mutabilità dei tempi e della fortuna, si inventarono una stabilità su un terreno instabile. Machiavelli sa che fede e abnegazione non potranno mai rendere l’uomo forte — perlomeno su questa terra — e che solo la fiducia di sé e l’egoismo detengono questa possibilità. Se si ha da esser uomini si ha da seguire la nostra natura. E se la natura ci porta a peccare — a infrangere i comandamenti biblici — significa che il cristianesimo non fa per noi, e che dovremmo smettere di sovraccaricare la nostra coscienza — se mai esistesse — di problemi insolvibili. «Imitando la natura, [gli uomini] saranno pieni, in pari tempo, di spensieratezza e gravità, ma saranno esenti da ogni fanatismo».82

Analizzando i Discorsi Strauss nota come Machiavelli sostituisca tacitamente a Dio la Fortuna (II, 29) utilizzando come intermediario il termine neutro «cielo» e il suo corrispondente biblico «cieli». Sulla Fortuna Machiavelli riprende la tesi — la potenza della Fortuna sulle cose umane — dal suo modello (anche in materia «teologica») Livio.83 Così egli vuole dimostrare l’esistenza di un’entità sovrumana dotata di volontà e intelletto, un essere maligno che nutre una naturale avversità verso gli uomini (sia Machiavelli che Cesare Borgia infatti soffrirono per la «malignità» della Fortuna). Ma la Fortuna, sebbene «somigli» al Dio biblico, non è né Creatore né onnipotente — ma solo potente. Essa è mutevole e inaffidabile e tuttavia v’è maniera per arginarla84 e sfruttarla a proprio vantaggio: la Fortuna è il nemico, «la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». (Principe, Cap. XXV)^[85] Machiavelli pertanto si contraddice affermando che essa possa esser vinta da una specie particolare di uomo: l’uomo virtuoso (Discorsi, II, 30; Principe, cap. XXV). Non è corretto ritenere che la Fortuna possa determinare a suo volere il nostro agire ma nemmeno che basti la virtù per dominarla. Essa, rileva Strauss dalle pagine di Machiavelli, «è fondata sull’azione primaria della natura. Fortuna è una parte, e non parte dominante, dell’intero».85 Occorre perciò tirare in causa l’imprevedibilità della natura, opposta alla prudenza umana. Ciò che l’uomo realmente non potrà mai gestire è l’agire del caso sugli eventi umani, il cambiamento dei tempi. La vera virtù dell’uomo si configura quindi come l’accordo del suo agire coi tempi. «Dato che in ogni modo il successo o l’insuccesso degli individui dipendono in ultima analisi da un caso non dominabile, la regola «conquista la Fortuna» è insufficiente».86 Cesare Borgia, pur essendo principe virtuoso — anzi l’esempio massimo di virtù per i principi nuovi — non trovò l’accordo coi suoi tempi soccombendo all’impetuosità della Fortuna. In ultima istanza Fortuna caso e natura possono essere identificati fra loro oppure essere intesi come componenti inscindibili di un tutto, ma ciò che è necessario è la consapevolezza che l’uomo virtuoso deve avere nell’approccio alla vita: il risultato di un’azione è il concorso della nostra virtù con i moti della Fortuna/natura (caso/necessità) .87 La Fortuna in qualche modo si prostra al cospetto della virtù, ma ciò non basta per trionfare: serve il beneplacito dei tempi imprevedibili. Nostro compito è fiutare il cambiamento dei tempi per adeguarci ad essi, mutamento assai difficile per la natura dell’uomo.88 Dunque nella «quasi-teologia» machiavelliana non v’è spazio per una mente dominante, per un padrone legislatore onnipotente: « [il] caso, inteso come una necessità non-teologica […] lascia spazio per la scelta e la prudenza».89 Nulla è prestabilito. La vita degli uomini non è mai stata così libera.

«Imitare la natura» è il più grande insegnamento lasciatoci da Machiavelli. Ma la natura è varia90 e instabile, e i tempi mutevoli. La via maestra sarà dunque quella che vede alternare vizio e virtù a seconda della convenienza. Perché conviene saper far uso della natura umana in determinate circostanze e di quella animale in altre, essere gravi talvolta e leggeri talaltra,91 coerenti e incoerenti, casti e lascivi, probi e diabolici.

La virtù machiavelliana, lungi dall’avere qualcosa in comune con la virtù morale, pretende prudenza e forza di mente, capacità di giudizio e volontà. Per quanto riguarda le altre virtù morali è sufficiente — anzi, necessario — mantenerne solo una parvenza. Il loro uso sarà reputato conveniente da una buona prudenza — la vera virtù. Dunque per Strauss la priorità della politica sulla morale in Machiavelli è inoppugnabile, anche se non può sussistere una completa autoreferenzialità della politica: la dimensione morale è sempre in agguato — perché vi è una certa moralità, a prescindere dai mezzi utilizzati, nella tendenza all’ordine.

Strauss arriverà a dimostrare il profondo animo repubblicano di Machiavelli volto alla creazione, attraverso la sua dottrina rivoluzionaria, delle fondamenta teoriche (ossia in forma di codice) di una nuova repubblica,92 la quale possa riconsegnare agli uomini la loro libertà alienata; infatti, secondo Strauss,

il libro di Machiavelli sui principati [Principe] e il suo libro sulle repubbliche [Discorsi] sono entrambi repubblicani: la lode delle repubbliche, quale si trova espressa nel libro sulle repubbliche, non è mai contraddetta da una lode dei principati, né nell’uno né nell’altro libro.93

Machiavelli è repubblicano perché sa che solo nella repubblica è possibile una vera libertà, quella di pensiero ed espressione, quella che permette all’uomo il naturale dispiegarsi del proprio essere — l’alternanza tra gravità e leggerezza. Solo in essa è raggiungibile il bene comune, non più inteso a guisa dei pensatori morali, ma come bene amorale, che guarda in ultima istanza alla sicurezza della maggioranza degli uomini, costretti alla coazione e associazione a causa della loro naturale mancanza di protezione primordiale. Giacché gli uomini per natura non sono né buoni né cattivi, ma essenzialmente egoisti, l’unico loro bene naturale inalienabile sarà la conservazione di se stessi, l’amore di sé. Preservare questo bene significa preservare il bene della repubblica nella consapevolezza del vantaggio che ciò può recar loro: una buona associazione, dai buoni ordini e modi, conduce alla realizzazione particolare di ogni associato (nel caso di Machiavelli solo di una parte degli associati). In ultima analisi la repubblica è superiore al principato perché è in grado di adattarsi meglio al mutamento dei tempi poiché formata da più uomini di differente natura e «nature differenti sono richieste in diverse specie di tempi».94 Ciò renderà il governo più stabile e garante del benessere degli uomini. Dunque «la virtù, lungi dall’essere lo scopo della società civile, è il mezzo per conseguire il bene comune in senso amorale».95 Amorale perché nel conseguire tale scopo la morale risulta del tutto irrilevante — anzi, spesso controproducente.96 Le buone leggi in definitiva provengono sempre da conflitti e tumulti, e non dal dispiegarsi della moralità.97

La smania d’appagamento dei desideri — e il desiderio massimo a cui fan capo tutti gli altri è senza dubbio il proprio benessere — è ciò che lega le nature degli uomini, ciò che li rende in qualche modo «fratelli». Solo nella repubblica è realizzabile una convivenza nella quale l’unico limite sia la libertà dell’altro, nella quale più uomini possibili siano in condizione di perseguire la propria realizzazione personale senza che qualcosa, che non dipenda né da lui né dalla Fortuna, possa impedirglielo.

Questo bene comune amorale può esser il fine solo delle repubbliche e di nessun altra forma di governo.

[Machiavelli] compie il passo decisivo verso una nozione di filosofia la cui missione sia quella di migliorare la condizione umana, o di accrescere il potere dell’uomo o di guidare l’uomo verso una società razionale, il limite e lo scopo della quale sia l’illuminato interesse personale o la conservazione di tutti i suoi membri.98

6. Conclusione

Il realismo politico proposto da Machiavelli non lascia molte alternative: o si lotta o si soccombe. La felicità e l’ordine idealizzati dalle religioni e dalla filosofia classica non ebbero e non avranno mai riscontro su questa terra:

non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro [perciò] si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito, perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai.99

Anche il bene comune sarà sempre solo il bene di una parte degli uomini a danno degli altri. Eppure dalle parole di Machiavelli — soprattutto del Machiavelli filtrato da Strauss — traspare una rara sete di vita, un trionfo dell’uomo e di una gloria mondana «fuori moda». La saggezza silenica capovolta all’insegna della contemplazione della potenza; contemplazione che però acquista significato solo se compensata con l’azione.

L’ultimo naturale passaggio di un’attenta e mirata lettura dei Thoughts of Machiavelli straussiani, del loro non detto, non può che condurci al tentativo di svelare il reale intento che mosse il loro autore. È da dire che, dopo aver interiorizzato tali pensieri, grazie alla pretesa di riportare alla luce un Machiavelli autentico e genuino (se pur dipingendolo più geniale di quanto nemmeno Machiavelli si credesse), risulta arduo discostarsi dalla loro particolare e brillante interpretazione.

Ma è Strauss stesso a disseminare il suo saggio di segnali per una subdola decifrazione. Infatti procedendo con la medesima metodologia che egli attribuisce a Machiavelli si può concludere che, proprio come il Segretario fiorentino giostri i pensieri del suo personale Livio dissimulando così la propria opinione sulle «cose umane», lo stesso compia Strauss con Machiavelli.100 Questi sarebbe dunque un personaggio di Strauss. Un genio intento a dichiarare guerra spirituale a qualunque tendenza consolidata, a destituire ogni tradizione ormai ammuffita. La tradizione va spezzata in quanto tradizione. Strauss, immedesimato in Machiavelli — o Machiavelli «reincarnato» in Strauss — , ci mostra la parte più verace del suo modello rinascimentale: un uomo appassionato e volitivo, totalmente immerso nella sua missione sovversiva, ma contemporaneamente consapevole dell’«assurdità» della vita; un profondo pensatore impegnato nella risacralizzazione della terra, del rapporto spirituale uomo/natura. È per questo che Machiavelli dev’essere immorale e irreligioso, poiché il contrario sarebbe da uomini gretti e incoscienti, auto-incarcerati in un ordine sovrasensibile.

Chi bestemmia realmente non è Machiavelli ma Strauss. Chi invoca la bestemmia in ognuno dei suoi lettori non è Machiavelli ma ancora Strauss. Eccitando le menti dei suoi lettori, imponendogli un Machiavelli Beethoven della politica, Strauss punta allo sconvolgimento del pubblico e alla sua indignazione morale — morale fautrice di una nuova morale: quella del trionfo della mondanità e della natura, degli istinti e del diritto umano a soddisfarli.

Machiavelli come Gesù e la natura come Dio padre, ma senza onnipotenza e sottomissione degli uomini. Machiavelli come invasato profeta e martire, costretto alla sofferenza per salvarci, all’esilio e alla tortura per dar più vita al suo messaggio.

E non può dirsi che, almeno in parte, tal messaggio non ci abbia forgiato.

Strauss, nei suoi pensieri difficili ma appassionanti, analizza il suo tempo — il nostro tempo — accecando i lettori con una luce che costringe alla riflessione.


  1. Leo Strauss, Thoughts on Machiavelli, The Free Press, Glencoe (Illinois) 1958; tr. it. Pensieri su Machiavelli, Giuffrè Editore, Milano 1970, cit., p. 2. ↩︎

  2. «[Alcuni studiosi] restano soddisfatti del fatto che Machiavelli era un amico della religione, dato che egli metteva l’accento sul carattere utile e necessario della religione. Essi non prestano alcuna attenzione al fatto che questa lode della religione è solo il rovescio di ciò che si può per il momento chiamare la sua totale indifferenza verso la verità della religione». Ivi, p. 4. ↩︎

  3. Ivi, p. 5. ↩︎

  4. Ivi, p. 4. ↩︎

  5. Giovanni Giorgini, Un «Machiavelli» per i nostri tempi: Leo Strauss, in, La varia natura, le molte cagioni. Studi su Machiavelli, a cura di R. Caporali, Il Ponte Vecchio, Cesena 2007, cit., p 109. ↩︎

  6. Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., pp. 30-31. ↩︎

  7. Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1518), BUR, Milano, 2010, cit., p. 570. ↩︎

  8. Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 32. ↩︎

  9. In questo esempio la contraddizione tra prima e seconda trattazione è molto evidente. Il fatto che Machiavelli commetta questo errore, per Strauss, non può non avere significato e risultare solo come una distrazione. Al contrario egli crede sia un errore del tutto consapevole e profondamente significativo. Ciò rivelerebbe una dottrina che agisce sul lettore solo per gradi, lentamente, inducendolo ad una profonda analisi della propria mentalità secolarizzata e delle relative insufficienze. Qui Strauss introduce anche un altro esempio che mostra questa volta un sottile e graduale cambio di prospettiva che senza un’adeguata analisi sfuggirebbe ai più. Sempre nei Discorsi evidenziando inizialmente (I, 9-10) una netta differenza tra principe (colui che agisce per il bene comune) e tiranno (colui che agisce per il profitto personale) Machiavelli arriverà gradualmente, attraverso altre due trattazioni (I, 16-18) e (I, 25-27), ad assottigliare questa differenza inducendo il lettore «a concludere che la distinzione originaria tra virtù ispirata al pubblico bene e ambizione egoistica, nella misura più ampia, può essere soddisfatta solo mediante azioni da cui moltissimi traggono profitti». Ivi, p. 42. ↩︎

  10. Ivi, p. 43. ↩︎

  11. Ivi, p. 48. ↩︎

  12. «Uno principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova». ↩︎

  13. Nei Discorsi, invece, la differenza tra principe e tiranno è inizialmente ben delineata da Machiavelli (I, 2), anche se nel corso del trattato — come abbiamo già rilevato precedentemente (cfr. supra, nota 8) — questa differenza si assottiglierà fino quasi ad annullarsi. Quello che interessa qui è comunque mostrare che una differenza trattata nei Discorsi non compare nel Principe e la singolare coincidenza che in un capitolo dei Discorsi dedicato alla tirannia non vengano menzionati né il termine «tirannia» né quello di «tiranno». ↩︎

  14. Ivi, pp. 47-48. ↩︎

  15. Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, BUR, Milano 2010, cit., p. 121. ↩︎

  16. Leo Strauss, Machiavelli, in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Einaudi, Torino 1998, cit., p. 288. ↩︎

  17. «[…] sarebbe un errore credere che la bestemmia che abbiamo trovato sia la sola o anche la peggiore che egli abbia pronunciato. Questa bestemmia è, per così dire, solo la punta di lancia di una lunga colonna». Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 48. Strauss però non analizza le altre presunte bestemmie. ↩︎

  18. Ivi, p. 49. ↩︎

  19. Strauss adduce anche altri esempi del presunto simbolismo numerico di Machiavelli: il numero degli imperatori romani da Cesare a Massimino per Machiavelli è appunto ancora di ventisei (Discorsi, I, 10); l’undicesimo capitolo del Principe tratta del principato della Chiesa mentre l’undicesimo capitolo dei Discorsi della religione pagana. Tuttavia «sarebbe assurdo applicare meccanicamente queste osservazioni, perché gli espedienti di Machiavelli avrebbero fallito il loro scopo se egli li avesse utilizzati in modo meccanico. Sarebbe quasi egualmente assurdo cercare di stabilire il significato della sua dottrina rifacendosi esclusivamente o anche principalmente ai suoi espedienti». Ivi, p. 52. Tutto può dimostrare solo il fatto che probabilmente i numeri per Machiavelli rivestono un ruolo importante, che nello scrivere i suoi trattati ponesse attenzione a questo peculiare aspetto. Si può così dire che a Machiavelli era particolarmente caro il numero ventisei, o meglio il tredici e i suoi multipli, un po’ come a Dante era caro il tre e a Petrarca il sei; e che la disposizione dei suoi scritti non era del tutto casuale. In un altro scritto Strauss aggiunge: «Ventisei è il valore numerico delle lettere del Nome sacro di Dio in ebraico, del Tetragramma […] Ventisei è uguale a due volte tredici. Il tredici è oggi ritenuto, e lo è da un certo periodo, un numero sfortunato, ma in tempi meno recenti veniva considerato anche, e in primo luogo, un numero fortunato. Perciò «due volte tredici» potrebbe significare insieme la buona e la cattiva sorte, e dunque, complessivamente, la sorte: “fortuna”». Leo Strauss, Machiavelli, in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Einaudi, Torino 1998, cit., p. 287. Sul ‘simbolismo numerico’ di Machiavelli cfr. anche Leo Strauss, Scrittura e Persecuzione, Venezia, Marsilio 1990. ↩︎

  20. Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 53. ↩︎

  21. Leo Strauss, Machiavelli, in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Einaudi, Torino, 1998, cit., p. 289. ↩︎

  22. Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 74. ↩︎

  23. All’inizio della terza parte del Principe Machiavelli inizierebbe il suo attacco alla «vecchia» tradizione (capitoli quindicesimo-ventitreeseimo). ↩︎

  24. Ivi, p. 61 ↩︎

  25. Strauss mostra come il ventiseiesimo capitolo dei Discorsi, già precedentemente spunto per una chiave di lettura del Principe (cfr. supra, nota 12), sia anche qui d’aiuto nell’interpretazione dei contenuti del ventiseiesimo capitolo del Principe. Volgendo l’attenzione ad esso infatti ci ritroviamo di fronte agli stessi insegnamenti forniti nel Principe riguardo ad una politica di «ferro e veleno», «assassinio e tradimento» Ivi, p. 71. Adottando la suggestione dei numeri questa coincidenza potrebbe darci una conferma dell’interpretazione straussiana. ↩︎

  26. Ivi, p. 77-78. ↩︎

  27. Ivi, p. 78. Machiavelli sia nel Principe che nei Discorsi tratta dell’utilità della religione, mai focalizzando l’attenzione sulla dimensione della religiosità, della spiritualità, ma solo nell’apparire religioso consono ai prìncipi. La verità religiosa passa in secondo piano — per Machiavelli è irrilevante — ma la sua utilità nel governare è fondamentale. Sempre nel ventiseiesimo capitolo del Principe Machiavelli chiama quegli eventi contemporanei — coi quali spronava Lorenzo all’azione — non più «miracoli» ma «eventi straordinari» o «senza esempio» negando con ciò la natura divina di quei «miracoli» e di conseguenza di tutti i miracoli biblici. Inoltre Strauss mostra come Machiavelli sostituisca gradualmente il caso e la fortuna a Dio: all’inizio del venticinquesimo capitolo egli «dichiara che quanto generalmente si attribuisce a Dio non è in verità altro che il caso. Quindi l’accenno, fatto nel capitolo ventiseiesimo, che molti miracoli sono avvenuti nell’Italia del suo tempo, è l’equivalente allegorico dell’affermazione, fatta esplicitamente nel capitolo venticinquesimo, che la fortuna è particolarmente potente nell’Italia del suo tempo». Ivi, p. 79. Dunque Machiavelli utilizza un linguaggio religioso ma sostanzialmente non fa altro che dare nuovi significati a «vecchie» parole. Dio non è il Dio biblico, ma la fortuna (che nel venticinquesimo capitolo viene indicata come la ‘manovratrice’ di pressappoco la metà delle azioni degli uomini). ↩︎

  28. Strauss attua qui un parallelo tra i miracoli avvenuti al tempo di Mosè come preannuncio della rivelazione sul monte Sinai — le tavole dei comandamenti — e gli «eventi straordinari» del tempo di Machiavelli che in tal modo preannunciano, non la conquista di una nuova terra promessa, ma la «rivelazione» di un nuovo decalogo, quello di Machiavelli. ↩︎

  29. Ivi, p. 91. ↩︎

  30. Ivi, p. 80. ↩︎

  31. Il Machiavelli di Strauss si pone qui come «profeta» degli ordini nuovi. Probabilmente Strauss non crede che il segretario fiorentino volesse veramente proporsi come il liberatore «pratico» dell’Italia, ma solo come colui che potesse indicare ad un uomo particolarmente virtuoso la tratta da seguire (anche se poi la dottrina machiavelliana, nell’intento del suo autore, dovrà essere ciò che riuscirà finalmente a rigenerare gli italiani, in modo tale che un italiano virtuoso — «rigenerato» — possa prendere in mano la situazione spontaneamente, senza i consigli di un Machiavelli). Forse Strauss vuole semplicemente sottolineare la «megalomania» di Machiavelli, il suo entusiasmo nella «scoperta». ↩︎

  32. Niccolò Machiavelli, Il Principe (1513), BUR, Milano 2010, cit., p. 166. Da notare qui la sostanziale adesione — anche se non citata — alla dottrina lucreziana. Lucrezio, oltre che della volpe e del leone, ricordava però anche la lepre. ↩︎

  33. Ivi, p. 84. ↩︎

  34. Riferimento alla famosa frase attribuita a Cosimo de’ Medici. ↩︎

  35. Ivi, p. 85. ↩︎

  36. La materia è qui contraddittoria e di certo non esauriente (cfr. supra, nota 8 [distinzione principe-tiranno]). ↩︎

  37. Lorenzo II de’ Medici. ↩︎

  38. Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai. ↩︎

  39. In altri punti del saggio di Strauss questa posizione è contraddetta dall’ipotesi che sia il Principe a racchiudere il puro pensiero machiavelliano-machiavellico nella sua dimensione più ‘spinta’. ↩︎

  40. Mosè viene menzionato nel primo capitolo nel trattare dei popoli costretti ad abbandonare la propria patria per una nuova. Qui Machiavelli dice «che Mosè formò delle leggi avendo in vista il bene comune, ma dice lo stesso di Solone, le cui leggi critica aspramente; la bontà delle leggi implica ben altro che lo scopo del bene comune […] È chiaro che Machiavelli si astiene dall’imitare l’antichità biblica o comunque dal raccomandarne l’imitazione […] Il problema posto dalla antichità biblica rimane insoluto come una fortezza non conquistata». Ivi, p. 102. ↩︎

  41. Ivi, p. 104. ↩︎

  42. Circa seicento anni dopo la mitica legislazione di Licurgo il re Agide tentò di restaurare quelle leggi ormai corrotte ma venne ucciso dagli Efori. Il suo successore Cleomene — della stessa idea di Agide — eliminò tutti gli Efori e rinnovò gli ordini senza tuttavia riuscire a ripristinare lo splendore antico (Discorsi, I, 9). Con questo esempio Machiavelli ritratta parzialmente la sua lode iniziale a Sparta favorendo l’imitazione dell’antica Roma. ↩︎

  43. Ivi, p. 132. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. Tuttavia Machiavelli sta qui sommessamente e subdolamente preparando la sua critica all’autorità stessa. ↩︎

  46. Ivi, p. 133. ↩︎

  47. Ivi, p. 136. ↩︎

  48. Ivi, p. 141. Trattando del merito del dittatore Mamerco, il quale ridusse da cinque anni a diciotto mesi la durata della carica dei Censori, attirando su di sé l’ira di questi tanto da farlo espellere dal Senato, Machiavelli afferma: «e perché la istoria non mostra che Mamerco se ne potesse difendere, conviene o che lo istorico [Livio] sia difettivo o gli ordini di Roma in questa parte non buoni: perché e’ non è bene che una republica sia in modo ordinata che uno cittadino per promulgare una legge conforme al vivere libero ne possa essere sanza alcuno rimedio offeso». Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, BUR, Milano 2010, cit., pp. 162-163. ↩︎

  49. Ivi, p. 179. ↩︎

  50. Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 152. ↩︎

  51. Contro l’opinione comune Machiavelli sostiene una maggiore saggezza e costanza da parte della «folla» rispetto ai prìncipi. L’eterogeneità della moltitudine può meglio gestire il cambiamento dei tempi e della fortuna, può adattarsi alla vera realtà della natura che è contraddittoria e mutevole proprio come lo è la pluralità del popolo, mentre un’unica volontà particolare — priva di elasticità e duttilità — è destinata a soccombere facilmente. Coerentemente con Discorsi, I, 47 («Gli uomini, come ch’e’ s’ingannino ne’ generali, ne’ particolari non s’ingannono») Machiavelli mostra però come gli uomini possano essere facilmente ingannati da false speranze e promesse (non riuscendo a prevedere il «generale») e dunque così facendo «tranquillizza» i prìncipi ritenuti qualche capitolo più avanti ‘inferiori’ alla moltitudine (anche se con le dovute precisazioni già effettuate). ↩︎

  52. Ibidem↩︎

  53. Al principe è sufficiente apparire in possesso di virtù morali senza possederle veramente. ↩︎

  54. Ivi, p. 146. «Ragione, gioventù e modernità si adergono contro l’autorità, la vecchiezza e l’antichità». Ibidem↩︎

  55. Ripristinare la virtù antica. ↩︎

  56. «Mentre Senofonte parla in proprio nome della frode commessa da un regnante straniero, Livio parla per bocca di uno straniero ai cui danni la frode fu commessa dai suoi governanti». Ivi, cit., p. 161. ↩︎

  57. Ivi, pp. 162-163. ↩︎

  58. Ivi, p. 163. ↩︎

  59. Strauss mostra come Machiavelli cerchi gradualmente di ridimensionare il racconto biblico riducendolo a semplice interpretazione favolosa degli avvenimenti. Ad esempio in Discorsi, II, 5 egli confuta l’origine divina della Bibbia attribuendo ad ogni religione origine umana con durata che va tra i 1666 e i 3000 anni. Come il cristianesimo subentrò al paganesimo romano probabilmente questo prese il posto dell’antica religione degli Etruschi (anche se con più verosimiglianza il paganesimo romano integrò in sé la religione etrusca adattando i suoi culti ai propri). ↩︎

  60. Gli argomenti machiavelliani sull’utilità di una religione civile, che sappia appunto adeguarsi alla volontà della società civile, vennero fortemente ripresi nel corso dei secoli da molti pensatori politici. Uno su tutti, Rousseau, di pari passo col pensiero machiavelliano sul paganesimo, afferma che questo, sebbene non debba essere l’esempio da perseguire per i moderni portando in ultima istanza alla superstizione, «è buono in virtù del fatto che unisce il culto divino con l’amore delle leggi e, facendo della patria l’oggetto dell’adorazione dei Cittadini, insegna loro che servire lo Stato vuol dire servirne il Dio tutelare […] [Il Cristianesimo] invece di legare i cuori dei Cittadini allo Stato, li distacca da esso, così come da ogni bene terreno. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale». Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social, ou principes du droit politique (1762), Flammarion, Paris 2001; tr. it. Il Contratto Sociale, BUR, Milano 2010, cit. p., 195 (libro IV). In definitiva per Rousseau — come del resto per Machiavelli — il cristianesimo va contro la natura dell’uomo. ↩︎

  61. Sull’utilità della religione cfr. Discorsi, I, 11-14. ↩︎

  62. Ivi, p. 166. L’umanesimo fiorentino nutriva una forte avversione per la figura di Cesare, l’«assassino» della repubblica romana. Secondo Strauss proprio come gli storici romani, impediti nel criticare espressamente Cesare sotto l’Impero, lodavano il suo uccisore Bruto (elevato ad eroe repubblicano), Machiavelli loda il paganesimo per infangare la religione cristiana. ↩︎

  63. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, BUR, Milano 2010, cit., p. 541. ↩︎

  64. L. Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 171. Esagerando un po’ Strauss sostiene che Machiavelli vedesse Livio come il celebratore di una Roma «impossibile», di una virtù idealizzata e ingigantita. Questo argomento gli è utile per dimostrare l’inattendibilità degli scrittori biblici che, anche se in maggior misura — dato il loro avere a che fare con materie sopranaturali —, attribuivano alla realtà caratteristiche immaginarie di perfezione «inventandosi» Dio. ↩︎

  65. Autosufficiente perché oltre a riportare la versione ufficiale della storia romana riporta anche opinioni di nemici di Roma. Ciò permette al lettore di pervenire ad un giudizio formato su una base che, quantomeno, si avvicini all’imparzialità. ↩︎

  66. Cfr. supra, nota 53. ↩︎

  67. Ivi, p. 174. D’altronde la vera virtù per Machiavelli non è di natura morale. Fabio, intraprendendo una battaglia contro gli auspici degli àuguri, suscitò scalpore e collera nel dittatore romano. Ma la sua immensa virtù lo portò ad una grande vittoria che lo rese glorioso senza essere «schiavo» della religione. Anche se Machiavelli consiglia ai prìncipi di mostrarsi come uomini religiosi e detentori di virtù morali in questo caso la virtù di Fabio rese futile anche questa parvenza. ↩︎

  68. Ivi, p. 194. ↩︎

  69. Ibidem↩︎

  70. Leo Strauss, Machiavelli, in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Einaudi, Torino 1998, cit., p. 275. ↩︎

  71. La confutazione dell’idea della «perfezione» umana rispetto all’animale, o meglio della maggior vicinanza alla perfezione (divina) dell’uomo rispetto all’animale, attraversò la storia dell’umanità arrivando fino alle considerazioni di quel filosofo che più di tutti si fece fautore di una trasvalutazione dei valori cristiani in favore di un ritorno all’originaria «fedeltà alla terra»: «In tutte le cose ci siamo fatti più modesti. Non deriviamo più l’uomo dallo «spirito», dalla «divinità», lo abbiamo ricollocato tra gli animali. Esso è per noi l’animale più forte, perché è il più astuto: una conseguenza di ciò è la sua intellettualità. Ci guardiamo, d’altro canto, da una vanità che anche a questo punto vorrebbe di nuovo far sentire la sua voce: quella per cui l’uomo sarebbe stato la grande riposta intenzione dell’evoluzione animale. Egli non è in alcun modo il coronamento della creazione: ogni essere è, accanto a lui, su uno stessi gradino di perfezione… E affermando questo, affermiamo ancora sempre troppo: relativamente parlando, l’uomo è l’animale peggio riuscito, il più malaticcio, il più pericolosamente aberrante dai suoi istinti». Friedrich Wilhelm Nietzsche, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum (1888), Phänomen, Hamburg 2003; tr. it. L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo, Adelphi 2004, cit., pp. 15-16. ↩︎

  72. Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 202. ↩︎

  73. Cfr. Discorsi, III, 45 e 39; Livio, 28.13. ↩︎

  74. L’ambiguità di tale affermazione è corroborata dalla frase successiva: «resta da vedere se l’Illuminismo meriti il suo nome o se il suo vero nome non sia Oscuramento». Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 203. ↩︎

  75. «Se è vero, come Machiavelli afferma, che i profeti disarmati necessariamente falliscono, si potrebbe dire che il cristianesimo fu all’origine un movimento populista che fallì e che il cristianesimo assunse il suo carattere puramente religioso a causa del tentativo di interpretare questo fallimento come una vittoria». Ivi, p. 244. ↩︎

  76. Ivi, p. 218. ↩︎

  77. «Non essendo adunque stata la Chiesa potente da potere occupare l’Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo, ma è stata sotto più principi e signori, da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta». Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, BUR, Milano 2010, cit., p. 97. ↩︎

  78. «Il Dio d’amore è necessariamente un Dio irato che «si vendica ed è furioso» e «riserva la collera ai suoi nemici», un fuoco che consuma, che ha creato l’inferno prima di creare l’uomo». Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 222. ↩︎

  79. Lucio Villari — e tanti altri storici — nella sua biografia su Machiavelli ci narra di un curioso aneddoto avvenuto pochi giorni prima della morte del segretario fiorentino che esemplifica l’irrilevanza delle questioni religiose nel pensiero machiavelliano: «Machiavelli, infermo, fu agitato da uno strano sogno. Tutte le biografie ne parlano e tutte con l’incertezza che il racconto sia vero, ma è troppo «machiavelliano» per essere negato nella sua verosimiglianza […] Ebbene il sogno […] era di un incontro, dopo la morte, con una serie di derelitti. Avendo chiesto chi fossero, gli fu detto che, secondo il messaggio evangelico, erano i beati del Paradiso. Incontrando subito dopo un gruppo di persone che, calme e serene, discutevano di filosofia e di politica, seppe che erano persone vissute nell’età classica e che erano dannate all’Inferno. La scelta fu immediata: andare insieme con questi». Lucio Villari, Niccolò Machiavelli, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL) 2003, cit., pp. 29-30. ↩︎

  80. Ibidem↩︎

  81. Ivi, p. 223. ↩︎

  82. Ivi, 227. ↩︎

  83. «La Fortuna acceca gli animi degli uomini, quando la non vuole che quegli si opponghino a’ disegni suoi» Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (II, 29), BUR, Milano 2010, cit., p. 372. Machiavelli parla di «disegni» invece che «potenza» della Fortuna. ↩︎

  84. Infatti Machiavelli paragona la Fortuna a «uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allargano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, […] e benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né si dannoso». Niccolò Machiavelli, Il Principe (1513), BUR, Milano 2010, cit., p. 220. ↩︎

  85. Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 256. ↩︎

  86. Ivi, p. 258. ↩︎

  87. «[…] perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare la metà, o presso, a noi». N. Machiavelli, Il Principe (1513), BUR, Milano 2010, cit., p. 220. ↩︎

  88. «Se [Machiavelli] dice che non possiamo cambiare noi stessi egli intende che noi non possiamo modificare in modo apprezzabile quelle qualità che scaturiscono dalla natura o dall’eredità e in parte dalla educazione e dall’abitudine». L. Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè Milano 1970, cit., p. 292. Machiavelli ci dice che uno dei pochi uomini virtuosi che seppe cambiare col cambiamento dei tempi fu Cosimo de’ Medici. ↩︎

  89. Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 264. ↩︎

  90. Cfr. le famose lettere al Vettori del 3 agosto 1514 e del 31 gennaio 1515; Principe, cap. 15; Discorsi, I, 6. «Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti vòlti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di proccedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; et chi imita quella non può essere ripreso». Lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 31 gennaio 1515, contenuta in Lettere, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 372- 376. ↩︎

  91. Strauss richiama l’esempio di Lorenzo il Magnifico che «condusse insieme una vita grave e voluttuosa». Ivi, p. 285. Ma Machiavelli non è certo l’unico esempio nell’umanesimo fiorentino di fautore dell’alternanza di gravità e leggerezza come può leggersi nell’esordio di un’opera umoristica di Poggio Bracciolini (1380-1459): «Io penso che saranno molti che daran biasimo a questi discorsi, sia come cose di niun conto ed indegne de la gravità dell’uomo, sia perché essi vi cercassero maggiore eleganza nel dire e piú animato lo stile. Ma se io loro risponda di aver letto che i nostri maggiori, uomini di grandissima prudenza e dottrina, di giuochi, di facezie e di favole si dilettarono e non si ebbero biasimo ma lode, credo che abbastanza avrò fatto per ricuperare la loro stima». Poggio Bracciolini, Facetiae (1450); tr. it. Facezie, Dall’Oglio Editore, Milano 1960, cit., p. 5. Sulla «doppia natura» machiavelliana si innesta perfettamente l’attività di commediografo del fiorentino (cfr. La Mandragola in primis). ↩︎

  92. Ciò significa ovviamente prima «rigenerare» gli Italiani e poi lasciare alla loro rinvigorita virtù l’atto fondativo di un nuovo ‘stato’ attraverso nuovi ordini e modi. ↩︎

  93. Leo Strauss, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè, Milano 1970, cit., p. 334. La frase di Strauss però prosegue: «Tanto più ci colpisce il distacco inumano col quale Machiavelli si presenta come maestro, e quindi benefattore, sia dei tiranni che delle repubbliche». Una spiegazione di tale neutralità può risiedere nel fatto che gli stessi consigli benefattori per la nascita di una repubblica contengono al proprio interno la formula per distruggerla. ↩︎

  94. Ivi, p. 305. (cfr. Discorsi, I, 58). ↩︎

  95. Ivi, p. 304. ↩︎

  96. Inoltre Strauss spiega come «la morale [sia] possibile solo dopo che siano state create le sue condizioni, e queste condizioni non possono essere create moralmente; la morale si basa su quanto ad uomini morali deve apparire immoralità». Ivi, p. 303. ↩︎

  97. Cfr. Discorsi, I, 4: «Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica». ↩︎

  98. Ivi, p. 349. ↩︎

  99. Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (I, 6), BUR, Milano 2010, cit., p. 77. ↩︎

  100. Questa interpretazione non è nuova, cfr. S. B. Drury, «Recensione a The Rebirth of Classical Political Rationalism: Essays and Lectures by Leo Strauss», Political Theory, ed. By T. Pangle, 19 (1991), pp. 671-675. «Drury ritiene che il pensiero di Leo Strauss possa essere correttamente compreso solo partendo dal presupposto che anche Strauss scriveva esotericamente e sia pertanto compito dell’interprete che voglia conoscere il suo vero messaggio applicare a lui la medesima tecnica ermeneutica che Strauss utilizza nella lettura dei testi altrui». Giovanni Giorgini, Un «Machiavelli» per i nostri tempi: Leo Strauss, in La varia natura, le molte cagioni. Studi su Machiavelli, a cura di R. Caporali, Il Ponte Vecchio, Cesena 2007, cit., p 119. La Drury vedrebbe in Strauss un pensatore che si rivolge ad una piccola élite di iniziati, auspicando subdolamente, come afferma Giorgini nel suo saggio (p. 121), a una «tirannai dei sapienti». Ma questa non è l’unica critica rivolta alla complessità espositiva di Strauss: egli ingigantirebbe di proposito i testi altrui, rendendo i testi «facili» dei tortuosi rebus da sciogliere; cfr. M. F. Burnyeat, «Sphinx without a Secret», The New York Review of Books, May 30, 1985, pp. 30-36. ↩︎