Vita invisibile e tramonto delle ek-stasi. Riflessioni su Incarnazione di Michel Henry

La rosa è senza perché fiorisce perché fiorisce non è preoccupata di sé né desidera essere vista»

—Angelo Silesio

1. Il problema della fenomenologia

Incarnazione è un libro pubblicato nel 2000 nel quale Michel Henry mette a punto temi e problemi attinenti alla filosofia della carne. È un testo che si colloca nel cuore della riflessione fenomenologica contemporanea il cui obiettivo è quello di rileggere i classici Husserl e Heidegger a partire da diverse questioni irrisolte.

Il problema della fenomenologia riguarda non il manifesto ma il modo in cui avviene la manifestazione, l’atto di apparire. Inizialmente la questione fu sollevata da Husserl che, parlando degli Erlebnisse (corrente di vissuti psichici) li considerava non oggetti costituiti ma «oggetti nel come» (Gegestande im Wie)1 ossia modi originari di darsi degli oggetti.

Henry rielabora la tesi husserliana «tanta apparenza altrettanto essere» in quella «tanto apparire, altrettanto essere». Il senso dell’apparire è da intendersi nel duplice senso dell’apparire anche in assenza del corpo reale dell’oggetto e nel senso dell’apparire dell’oggetto in carne e ossa. Quando Heidegger dice che la fenomenologia è andare «Zu den Sachen selbst!» (direttamente alle cose stesse!) si riferisce alle cose ridotte cioè private di ogni determinazione semantica aggiuntiva, ridotte a puro significante, «die Sache selbst» (la cosa stessa). Quando Henry scrive:

l’essenza della carne illusoriamente ridotta a quella del corpo, il corpo investito di una carne che gli è, in se stessa, estranea, questa carne/corpo o corpo/carne si propone come una specie di misto, un essere doppio, senza che possa essere addotta la ragione ultima di tale duplicità2

sta spiegando che la distinzione corpo/carne va superata nel nome di un’intuizione donatrice che precede la distinzione tra corpo e carne. Infatti il corpo appare, nella terminologia husserliana, il correlato intenzionale o oggetto trascendente. Questo correlato intenzionale è il luogo di una fenomenizzazione pura, il fenomeno più originario della verità: un oggetto trascendente, una sorta di significante puro non macchiato dall’uso empirico che diventa il luogo dell’apparire puro. Il limite dell’esperienza sensibile non consiste nel farci vedere l’oggetto nel suo apparire fenomenico. quanto nel fatto che l’esperienza stessa ci restituisce solo un punto di vista, un’angolazione dell’oggetto. L’intenzionalità punta a farci vedere ciò che sta al di là del dato, a farci vedere l’oggetto nella molteplicità delle sue sfumature di senso. Il vedere mette in gioco il problema della visione stessa. È possibile che la visione veda se stessa all’atto del vedere?

L’etimologia della parola phaìnesthai in «Essere e tempo» rievoca la radice pha, phos che significa luce, chiarita e, dunque, il mostrarsi ha a che fare con l’esteriorizzazione di questa luce originaria. Secondo Heidegger il phainesthai si mostra alla coscienza attraverso la protenzione, cioè la coscienza del futuro, l’attesa cioè la coscienza del presente, la ritenzione cioè la coscienza del passato. Queste tre forme di esteriorizzazione costituiscono la coscienza interna del tempo. Riprendendo Heidegger, Henry dice: «l’apparire del mondo si compie, quindi, nella forma della temporalizzazione della temporalità. Il suo apparire, ossia la sua presenza per noi o, come dice Heidegger, il suo “esser-ci”, il suo Da-sein».3

La temporalità è l’apparire stesso del mondo, il mondo appare nel tempo, nelle ek-stasi del tempo; all’interno di questo apparire si consuma la differenza tra l’apparire e l’oggetto dell’apparire, tra i fenomeni e la fenomenicità pura. Secondo Henry è la fenomenicità stessa a liberare l’essere: solo in quanto una cosa appare, può essere.

Anche il linguaggio è subordinato alla fenomenicità pura; sia la fenomenicità sia il lògos esprimono entrambi l’apparire del mondo. La poesia è quel linguaggio che parla di ciò che non è ancora dato ma, appunto, lo fonda, lo fa apparire. Henry cita la poesia di Trakl in cui si parla della neve che batte alla finestra: quello che si nota è che, sebbene nella stanza in cui io ora mi trovo non c’è neve che batte alla finestra, nonostante ciò neve e finestra appaiono nel senso più puro e più pieno. L’apparire derealizza ogni realtà nel senso che la fonda, la istituisce. Il linguaggio è ciò che rivela il mondo.

La fenomenicità pura ha il potere di derealizzare le cose che si mostrano; i cosiddetti fenomeni empirici non sono che epifenomeni di una fenomenalità anteriore e pura.

Henry ricorda come il grande mistico tedesco Jakob Böhme avesse parlato degli enti come di una luce opaca comunque necessaria perché si potesse accendere la luce del puro apparire. Anche il Kant della Critica della ragion pura parla di intuizioni pure e di concetti puri come di condizioni di possibilità del mondo empirico. Infine in Husserl la dottrina dell’intenzionalità stabilisce che la coscienza ridotta è sempre coscienza di qualcosa e, in quanto tale, significazione originaria, volontà di significare prima che i singoli significati si determinino. Per questa ragione Husserl ritiene che la pura impressionalità di un colore sia invisibile, proprio perché collegata ad un vissuto psichico, sentito.

Husserl ha spiegato che la coscienza presenta un duplice aspetto: da un lato si hanno i dati empirici, i materiali iletici che si presentano esterni alla coscienza, dall’altro i dati impressionali, intenzionali, noetici che risultano invisibili e sono la condizione dei primi. A dire il vero, Husserl afferma che l’impressionalità pura è priva di intenzionalità, perché se essa condiziona l’apparire allora non potrà a sua volta essere intenzionale perché questo presupporrebbe che essa si riveli a se stessa senza intenzionalità. L’intenzionalità appartiene alla relazione in quanto istituita, mentre l’autoimpressione originaria è già di per sé il prima della relazione noetico/noematica. Husserl ritiene che la corrente di Erlebnisse contenga non solo i momenti iletici e noematici ma anche i momenti formali e noetici. Scrive Henry: «la materia — visiva, sonora, ecc. — la materia impressionale pura non è più che una materia per una forma incaricata di renderla manifesta: la forma ek-statica del “fuori di sé”».4

Il mondo, nelle sue manifestazioni empiriche non è in grado di fondare e giustificare se stesso, così come è vero che le singole esperienze sensibili non sono mai isolate, anche se in apparenza parrebbe di sì. Il mondo della fenomenalità pura e invisibile costituisce, secondo Henry, l’orizzonte nel quale il mondo visibile ai sensi trova il suo fondamento.

2. La decostruzione della fenomenologia classica

Un suono puro, scrive Henry, è un suono originario e invisibile; come accade che si renda visibile, udibile? C’è una fase in cui esso si scompone in tonalità singolari e percepibili dall’udito che scivolano nel «passato dell’istante» secondo una sequenzialità temporale. La differenza consiste nello scivolare dell’impressione pura del suono al suo stesso fluire temporale, il flusso di coscienza che consta di momenti inafferrabili (a partire dall’appena passato); in questo fluire il presente è altresì privo di qualsiasi consistenza perché la sua unica ragion d’essere è quella di fluire nel passato. Dunque c’è solo fluire, solo flusso continuo. Henry riprende una argomentazione husserliana relativa a cosa sfugge nel fluire e ricorda che per Husserl è la forma del flusso e cioè la sintesi delle tre intenzionalità (protezione, coscienza dell’ora e ritenzione). Se il tempo in quanto flusso continuo e non divisibile non può essere il fondamento dell’impressione, Henry come Husserl, si chiede da dove l’impressione abbia origine; la risposta è che l’impressione sta a fondamento del tempo. Henry scrive che l’apparire è il «fuori di sé della forma del flusso» e il senso dell’«ora» temporale deriva dall’impressione pura. L’impressione pura, la fenomenalità pura fonda il flusso temporale. Il flusso temporale produce l’apparire visibile dell’apparire puro e cioè dell’impressione pura.

Il limite di Husserl consiste nel non problematizzare questo punto di partenza. Henry afferma che l’impressione originaria non è in grado di fondare se stessa. Le nostre impressioni sono caratterizzate da un sentimento di approvazione e di disapprovazione e, pertanto non c’è impressione pura senza il suo apparire. «L’origine dell’essere è il suo apparire [… .] tra la sofferenza e se stessa non c’è nulla. Per chi soffre, fintanto che soffre, il tempo non esiste».5 La dimensione sensibile della sofferenza, depotenzia la sofferenza, la rappresenta, ne costituisce una modalità di apparizione.

Secondo Husserl la sintesi passiva del tempo è costituita di flusso continuo delle tre ek-stasi di protenzione, coscienza del presente e ritenzione. Tale sintesi passiva è anteriore all’Ego e, comunque, rinvia ad una passività ancor più originaria e non intenzionale. Ad esempio la sofferenza pura, la passione, è prima dell’apparire nel flusso temporale anche se è con questo che essa appare. L’impressione rinvia ad una carne che è l’autorivelazione patica della vita. Questo autorivelarsi della passione è quello che Henry chiama il Presente della vita, cioè la vita colta nel suo prima del flusso continuo del tempo.

Sebbene Cartesio nelle Passioni dell’anima avesse considerato la vita affettiva elemento fondante per la vita del Cogito, tuttavia la sua adesione alla scienza galileiana e alla mathesis universalis lo porta a considerare la materia come res extensa sorretta da un funzionamento di tipo meccanicistico, irriducibile a qualsiasi forma di finalismo o di organicismo. Henry sostiene che il punto debole della fenomenologia classica sia stato quello di aver voluto sostituire una certa modalità dell’apparire con un’altra.

Ad esempio, Husserl ha cercato di fondare una teoria fenomenologica che cogliesse le essenze. Le singole percezioni delle tonalità cromatiche del rosso costituiscono l’essenza del rosso, il suo comun denominatore. Henry pensa invece che l’essenza della vita e le sue cogitationes scompaiono, diventano inafferrabili «sotto lo sguardo del vedere che cerca di coglierle»;6 per questo motivo occorrerà mettere a punto una fenomenologia materiale che riesca a superare questa aporia.

Anche Husserl si pone questo problema e cerca di darne una risposta. Tuttavia, egli sostiene che è sufficiente che un ente sia visto, non importa se immaginato o reale; la riduzione consisterebbe, pertanto, in una sintesi delle caratteristiche nelle quali tale oggetto intenzionale viene vissuto. L’aporia, afferma Henry, consiste nel fatto che questa teoria non è in grado di rispondere al come siano possibili «i dati in immagine delle cogitationes reali».7 Si tratta di superare l’interpretazione del mondo come «Immagine del mondo».

3. Pars construens: i fondamenti di una fenomenologia materiale

Se la vita è invisibile, quale è la via d’accesso di questa vita al pensiero? Ogni via d’accesso che richiami qualsiasi teoria dell’immagine e della rappresentazione è destinata a fallire. Ogni teoria dell’immagine pone, infatti, il problema del vedere colui che vede. Allora solo la vita dà accesso alla vita.

Scrive Henry:

Avendo accesso a noi stessi, nel rapporto con sé con cui si costruisce ogni possibile Sé e ogni volta Sé singolo. Ma questo rapporto con sé, questo accesso a noi stessi ci precede, è ciò da cui risultiamo: è il processo della nostra generazione, giacché siamo venuti a noi stessi, divenendo il Sé che siamo, solo nell’eterno processo in cui la Vita assoluta viene a Sé. È solo in questo processo e per esso che dei viventi vengono alla Vita. Noi viventi siamo esseri dell’invisibile, comprensibili unicamente nell’invisibile, a partire da esso.8

La Vita assoluta si sottrae, dunque, ad ogni teoria dell’immagine e della rappresentazione, ma anche alla teoria dell’intenzionalità husserliana che non riesce a spiegare il prima della relazione noetico/noematica e la dottrina della sintesi passiva delle tre ek-stasi. Infatti abbiamo visto che non è il tempo, la coscienza dell’ora a fondare l’impressionalità bensì il contrario. Il tempo è una sorta di immagine riflessa, decostruita, dell’impressionalità pura, della Vita invisibile. Dunque la Vita invisibile è quel prima di ogni prima, anzi, la negazione del prima, semmai ciò che istituisce il prima. Lo svelamento della Vita non spetta al pensiero: «la clara et distincta perceptio di una cogitatio è semplicemente impossibile … la cogitatio è un’autorivelazione».9

Giustamente Henry si chiede come sia possibile la visione pura se questa non si rivela nella forma di una immagine: la risposta è che l’essenza della manifestazione non è un’immagine bensì un’impressione la quale amplia il concetto di fenomenicità e dimostra che la fenomenicità non passa solo attraverso immagini o immagini archetipe. L’impressione non è un’immagine ma è un’autorivelazione. Per questo Henry può dire che non è il pensiero che dà l’accesso alla vita ma la vita che dà l’accesso al pensiero. Qual è, di conseguenza, il compito che il pensiero può e deve assolvere? Husserl aveva capito che il problema poteva essere chiarito solo a condizione di sostituire alla realtà invisibile il suo correlato noematico offerto allo sguardo dell’intuizione eidetica. L’essenza sarebbe quell’immagine originaria che sta al posto dell’invisibile. Se io penso un’emozione, è qualcosa di diverso dal fatto che io la viva: tuttavia il noema è il riferimento a quell’emozione, quel pensato che più si avvicina all’invisibile.

4. La fenomenologia della carne

Scrive Henry: «l’apparire del corpo nel mondo si confonde con l’esperienza ordinaria del corpo, al punto di identificarsi con essa e di definirla».10 Questa dimensione sensibile rende il mondo ordinato e, al tempo stesso, pratico. Ma questo corpo che ci accompagna al momento della nascita e che si caratterizza per il suo essere concupiscente e desiderante, da dove trova il suo fondamento? Dove e come colloco le mie sensazioni? Che cosa le rende esperienze conoscitive? Sono o non sono significative nella misura in cui sono accompagnate da emozioni? Sono isolate? Oppure hanno senso perché appaiono all’interno di un mondo di relazioni oggettuali ed emozionali? Infine, questa mondità del mondo delle sensazioni e delle emozioni su quali basi si fonda? Qual è il fondamento dell’immagine del mondo?

Nel § 26 delle Passioni dell’anima Cartesio spiega che la tristezza è una passione che si autorivela in senso assoluto e, dicendo così, opera un passaggio in più rispetto a Galileo che aveva considerato le emozioni illusioni indifferenti alla realtà del mondo scientifico. Quando Cartesio fa riscaldare la cera spiega che, pur cambiando alcune caratteristiche sensibili, tuttavia resta l’estensione che, proprio in quanto permanente nel tempo, Cartesio definisce una res; Galileo, invece, definisce le qualità primarie o oggettive dell’oggetto e cioè le qualità geometriche.

Secondo Husserl le idealità geometriche di cui parla Galileo sono comunque riferite al mondo sensibile, ne sono astrazioni. Ma non esistono idealità solo di tipo scientifico-matematico. Le idealità sono operazioni che la ragione produce anche in relazione alla vita emotiva. L’identificazione del corpo materiale esteso con la res extensa è una falsa identificazione; bisogna perciò ritornare al corpo sensibile e al mondo sensibile che secondo Henry «significa un apparire, la venuta nel fuori del Fuori».11

La natura del corpo sensibile è quella di essere un corpo sentito che esiste nella misura in cui è toccato nei sensi nella sensazione. Perché questo sentire accada è necessario il mondo che, secondo Henry, è «l’ek-stasi della sua esteriorità».12 La trascendenza del mondo, la sua esteriorità costituisce la condizione che rende possibile la sensazione ed è dunque la «tessitura impressionale», il «Sensibile puro» di cui la sensazione non è che una modalità dell’apparire. Quello che è messo in gioco nella sensazione non è tanto la passività con cui i sensi ricevono i dati mondani ma è il potere di toccare, l’intenzionalità preposta ad ogni relazione con il mondo. Infatti le qualità sensibili sono sempre accompagnate da impressioni, da emozioni che traducono la mera passività in un’attività intenzionale e significante.

Henry spiega che ogni senso ha una struttura ek-statica e ogni senso è un «senso della lontananza» perché l’oggetto esterno, lontano, è tuttavia, connesso con questo toccare. Non si tocca perché si possiede qualcosa, si tocca perché in questo toccare si esprime la forma generale della relazione, quello che Jean-Luc Nancy chiama «l’essere singolare plurale» o l’«entre», l’arealità, lo spazio di un impossibile toccare. Per questo motivo Henry dice che la distanza che ci separa dagli enti non è una distanza spaziale ma una distanza trascendentale, una distanza di senso, una distanza che frena e inibisce la purezza dell’apparire.

Passività e attività del corpo sensibile rappresentano i due aspetti con cui il corpo esibisce se stesso; da un lato il corpo nella sua opacità, nella gettatezza del suo «ci», dall’altro la sua ek-staticità, l’intenzionalità con cui si risale ad un senso originario. Merleau Ponty in Le visible et l’invisible spiega che la mano destra e la mano sinistra sono tra di loro in una struttura oppositiva solo in apparenza, perché la dimensione in cui si esplica l’opposizione è una dimensione trascendentale in cui il mondo appare nella sua interezza. Henry ricorda Merleu-Ponty che scrive: «il corpo ci unisce direttamente alle cose mediante la propria ontogenesi, saldando l’una all’altra […] la massa sensibile che è la massa del sensibile ove nasce per segregazione e alla quale, come vedente, rimane aperto».13

Ecco vedente e visto, toccante e toccato sono ontogeneticamente uniti e la separazione spazio-temporale è il frutto di un realismo empirico e succedaneo.

Secondo Henry, ogni senso può sentire solo in virtù di una donazione trascendentale del corpo trascendentale, ossia di un corpo che sente non solo perché è sensuale ma perché è intenzionalmente orientato. L’intenzionalità costituisce quell’atteggiamento di ricerca di senso tale che ogni sensazione porta con sé un significato e un senso di approvazione o di disapprovazione. Il mondo trascendentale è il luogo nel quale la manifestazione di questi sentimenti trova la sua sintesi. Grazie a questo mondo-orizzonte trascendentale anche la vecchia distinzione tra senziente e sentito viene superata.

5. La Vita assoluta e il tramonto delle ekstasi.

La via d’accesso al nostro corpo non è l’ek-stasi del mondo ma la Vita. Ciò che rivela il corpo è la Vita; nella vita non c’è una struttura oppositiva senziente/sentito, toccante/toccato, né ek-stasi di sorta. La vita è invisibile perché invisibile è la corporeità originaria. Invisibile nel senso di ciò che sta prima la dicotomia visibile/invisibile e, più in generale, qualsiasi struttura oppositiva. Nel dire che la vita si autorivela, che essa è pathos, auto sofferenza, si avverte che nella vita c’è tutta «l’impressionalità pura, l’autoaffezione radicalmente immanente che altro non è che la nostra carne».14

La carne è il prima di ogni manifestazione corporea, la condizione che rende possibile l’apparire dei corpi e la struttura oppositiva toccante/toccato, senziente/sentito. La vita nasce dalla carne che è sinonimo di autoaffezione, impressionalità pura, pathos, sentire se sessa. Dice Henry: «non c’è vita senza carne e non c’è carne senza vita»15 e la loro reciprocità viene chiamata da Henry «Archi-pathos», «Archi-carne». All’interno di questa reciprocità si deve ammettere che la Vita invisibile si esprime nella carne o, anche, che la Archi-carne esprime l’impressionalità della vita. La Archi-carne nella sua Archi-passività è l’essenza della vita in quanto tale; a differenza del dio greco, il Dio cristiano è il Dio persona che soffre di una sofferenza che è la sua stessa natura. Il Dio vivente è un Dio che soffre perché in questa sofferenza originaria si svela la possibilità di una resurrezione. Il dio greco è un dio lontano, ridotto a vuoto concetto; a differenza del dio greco, il Dio cristiano è animato dal senso della trascendenza. Henry dice: «la Trascendenza designa l’immanenza della Vita in ogni vivente»16 perché tra Vita e Archi-donazione o Archi-rivelazione si annuncia una relazione e, dunque, una trascendenza. La natura relazionale che si istituisce tra Vita e Archi-rivelazione ci fa comprendere che l’impressionalità è la forma originaria nella quale si annuncia la Vita e l’Archi-sofferenza esprime l’essenza della manifestazione in quanto relazione.

Insomma, non c’è Vita che non si sveli nello sforzo dell’impressionalità e della sofferenza; il Sé è la sintesi della manifestazione e, dunque, della vita. Si ritorna al primato del Singolo privato della sua tradizionale sostanzialità. Il Sé non è sostanza, bensì traccia visibile di una Archi-impressione. Giustamente Henry chiarisce che «la carne non si aggiunge dunque all’io come un attributo contingente e incomprensibile […] poiché la carne non è che la possibilità più intima del nostro Sé».17

In questo contesto anche la nascita, il nascere si spiega non già con le categorie di una realismo ingenuo. come un venire della Vita nella carne, nell’Archi-carne, in quella carne che è impressionalità, relazione e, dunque, sofferenza.

Secondo Henry la carne di Cristo è una carne simile a quella umana e il carattere mortale di questa carne si giustifica con il fatto che il senso della parusia di Cristo è quello di morire. La carne mortale ci ricorda della morte di Cristo quale evento necessario per la salvezza dell’uomo. Solo se si è più forti della carne e della sofferenza ci si può assimilare a Cristo e a Dio. L’eresia consiste nel non attribuire alla carne di Cristo la stessa natura di quella umana. Ora, come è possibile che l’uomo apprenda da Cristo se la sua carne non è simile alla sua? Quale può essere il senso della flagellazione di Cristo se la carne non fosse reale, cioè del tutto simile a quella dell’uomo? Tertulliano nella sua polemica contro Marcione, il quale negava la realtà corporea del Cristo e la resurrezione della carne, descrive la carne in disgustosi dettagli assegnandole come origine il fango della terra.

Ora però, si chiede Henry, qual è la natura della sofferenza della carne di Cristo rispetto alla sofferenza della carne dell’uomo? Il dolore di Cristo è paradigmatico, esemplificativo, esprime l’Archi-incarnazione della Vita; si tratta di un dolore cosmico, ancestrale, di un dolore fenomenologico, è il dolore non del singolo uomo ma dell’umanità intera. Quest’ultima sembra essere la posizione di Marcione: il dolore di Cristo, la sua passione, in quanto paradigmatica, è di natura diversa da quella reale dell’uomo. Al contrario Tertulliano e Ireneo dimostrano che la carne di Cristo non è affatto paradigmatica e, per questo, simbolica e non reale; la carne di Cristo condensa l’essenza del dolore umano e questa essenza è reale anzi, Archi-reale, o trascendentale, se si preferisce.

La carne è la sofferenza e la vita si esplica originariamente come sofferenza, la stessa vissuta da Cristo. Gli gnostici non vedevano in Cristo una carne analoga alla nostra, piuttosto era una carne più leggera, intellegibile, una idealità. Henri spiega che, invece, è la carne mondana a non essere la vera carne. Quella di Cristo è un’Archi-carne; nel momento in cui appare la carne, diciamo così, si oggettiva perdendo quella purezza impressionale che è presente nella figura di Cristo. La carne ha la sua realtà dalla vita che, a sua volta, dice Henry: «non trae da sé la realtà della propria carne, non essendo data a se stessa che nell’autodonazione della Vita assoluta, nell’Archi-Carne dell’Archi-Sé».18

La relazione tra carne e corpo è stata già indagata da Husserl nella distinzione tra Körper e Leib, laddove il primo termine costituisce la matrice originaria del corpo e il corpo costituisce la parte divisibile e funzionale che non è dato assolvere alla carne; se non ci fosse la carne che esprime l’intenzionalità del toccare, il corpo non potrebbe attualizzare questa intenzionale impressionalità. La potenza del toccare non è solo una dynamis nel senso aristotelico, una potenza nel senso di una possibilità che può oppure non può attualizzarsi. La potenza del toccare radicata nella carne è il potere insito nella carne, la sua forza assoluta, la sua indeducibilità, il suo essere prima di ogni forma in cui si attualizza. Se il corpo, nella molteplicità dei suoi organi, adempie determinate funzioni, la carne, in quanto «prima del corpo», esprime la potenza di un sentire irriducibile a qualsiasi tipo di funzione. Si può dire che la carne precede non solo il toccare ma anche il poter-toccare, perché il poter-toccare presuppone un toccante e, dunque, un soggetto. La carne è il prima del soggetto; è, parafrasando Derrida, quello spalancamento originario del chaòmai, il chaòs inteso come specchio di un’immagine del soggetto in cui il soggetto si riflette in una mise-en-abîme. La potenza del poter-toccare è in stretta relazione con il concetto di poter-si muovere; il poter-si muovere è la relazione, l’entre, lo spazio che si istituisce tra corpi che si toccano. Ma fenomenologicamente due corpi in quanto epifenomeni della carne non si toccano, sono semplicemente tra loro in relazione. Questo poter-si muovere è Relazione senza soggetto. La relazione è pathos e impressionalità perché in essa c’è uno sforzo, una tensione, un’emozione originaria. Maine de Biran ha svolto una importante riflessione in questo senso quando ha ridotto la soggettività a pura impressionalità. A differenza della sensazione, per esempio del profumo di una rosa, la soggettività impressionale pura non ha nulla a che vedere con il senso dell’olfatto; in virtù dell’analisi eidetica l’olfatto è la traccia visibile di una impressionalità pura. Condillac, che è un uomo del XVIII secolo, quando parla di sensazione di vita attribuisce a queste parole, a questi concetti un valore più empirico e meccanico, per cui una sensazione è la semplice modificazione della sensibilità. Condillac considera il corpo nel senso più tradizionale, e cioè come una realtà empirica e atomistica. Non è interessato al problema di una fondazione fenomenologica della sensazione. Non c’è altro al di là della sensazione. La posizione di Maine de Biran va oltre. Egli si chiede, ad esempio, come sia conosciuta la mano in qualità di strumento di conoscenza del corpo; qual è l’essenza della mano? Qual è l’essenza del toccare come essenza della mano? Nella sua purezza il poter toccare dipende interamente dalla vita; solo nella Vita la mano esplica il poter-si muovere e il suo poter toccare.

Il fatto che la carne derivi dalla vita dipende dal fatto che il poter-si muovere rinvia ad un prius che è, appunto, la Vita. Questo prius costituisce la memoria della Carne, memoria immemoriale, dice Henry, perché l’origine della memoria è la Vita in quanto auto rivelazione, Archi-donazione. La Vita non è sostanza né soggetto, è piuttosto relazione archetipa, automovimento impressionale, caleidoscopica e sfaccettante Vita invisibile. Henry scrive: «l’unità del mondo è quindi un’unità immanente, che si tiene nella parusia della mia Carne»:19 questa unità del mondo che è la Vita rende possibile la parusia della Carne. Il corpo, ad esempio la mano, è in grado di riprodurre dei movimenti anche in assenza dell’oggetto, a testimonianza di una memoria di questo poter-si muovere in generale e archetipico.

Henry dice che Maine de Biran analizza il corpo organico come «quel corpo che viene prima della sensazione, prima del mondo. Un corpo invisibile come la nostra corporeità originaria il cui movimento viene a infrangersi contro di esso»;20 tale corpo in quanto sfugge ai nostri sensi non può essere toccato come se fosse il corpo-oggetto. La sua natura è quella di rendere possibile la resistenza da cui, poi, il corpo-oggetto trova il suo fondamento. Il corpo-organico è l’io-posso muover-mi rispetto a cui non esiste esteriorità; questo corpo-organico non è posto nel mondo ma è esso stesso il mondo in quanto relazione originaria. Il prevalere del corpo-organico sul corpo-sensibile permette l’apparire del corpo prima della sensazione tant’è che Henry può affermare: «il punto di partenza è la nostra carne, l’autodonazione primitiva da cui ogni potere attinge la possibilità di agire»21 i corpi si donano sotto un duplice aspetto: da un lato appaiono come oggetti esterni percepiti attraverso la sensazione e, in questo senso, sono compresi singolarmente, dall’altro i corpi sono esperiti interiormente nell’autorivelazione patica della Vita. Accanto ad una sensazione esterna i corpi rivelano una sensazione interna come quando, dice Scheler, guardo un occhio, vedo uno sguardo e, con esso, lo sfondo e le tonalità affettive. Come nelle poesie di Trakl, la neve ha tanto più significato quanto più è assente; e l’assenza è l’essenza di un significato intenzionale che non è certamente esperibile attraverso il senso esterno.

Henry dice che accanto al corpo costituente e al corpo costituito c’è la nostra carne, pura hyle che non è affatto costituita e insostituibile. Inutile ricordare che questo tema affonda le sue radici sul tema caro a Heidegger della differenza ontologica, per cui l’essere dell’ente si dà solo a partire dall’esistenziale In-der-Welt-sein. Però. a differenza di Heidegger, Henry poggia la sua analisi su alcuni nodi lasciati insoluti dal filosofo tedesco, quelli relativi al problema dello spazio discusso ma non adeguatamente esaminato in Essere e tempo.22

Henry sostiene che il corpo organico è una specie di flusso invisibile tale che le sensazioni non appaiono localizzabili.23 La localizzazione di una sensazione appare soggetta a qualcosa che la precede e che, a sua volta, non è affatto costituibile. Henry spiega che il corpo organico diventa qualcosa di cosale, corpo costituito nel momento in cui il toccato oppone resistenza al toccante; ossia la percezione della resistenza traduce il toccato in impenetrabilità, antitupìa, massa. Il così toccato, in quanto oppone resistenza, viene inevitabilmente manipolato, modificato, addirittura distrutto. «Solo alla mia carne, intesa nell’autoimpressionalità del suo auto movimento, compete il fatto di essere e poter essere toccata»,24 per cui quando due mani si toccano cessano di essere due e, soprattutto, scompare la distinzione tra toccante e toccato a vantaggio della carne originaria. La carne originaria è quel continuum per cui attività e passività sono, per così dire, trascesi, oltrepassati e il pathos è percepito non nella sua staticità e nella sua localizzazione, ma sopportato e vissuto nella potenza di questa Vita auoponentesi e invisibile.

Inoltre Henry dice che quando si prova una sensazione, la pelle costituisce il tramite tra l’esterno e l’interno, cioè tra qualcosa di atomizzato, singolare e discontinuo e il continuum della nostra carne; egli può scrivere: «la nostra carne originaria si sdoppia in una carne costituita, il nostro corpo organico in un corpo organico costituito, il nostro proprio corpo cosale in un corpo proprio cosale costituito».25 Lo stesso Jean-Luc Nancy ha posto il problema della pelle usando, con un gioco linguistico, l’espressione ex-peau-sition, indicando il carattere ek-statico della pelle e l’impossibilità fenomenologica del toccare.26

6. La salvezza in senso cristiano

L’autorivelazione della carne si compie a partire dall’esperienza del pathos, avendo inteso per pathos l’esperienza di un dolore archetipo che trascende la dimensione del dolore locale. Il pathos originario è un pathos che esibisce l’essenza della vita, la sua invisibilità, la sua ineffabilità in quanto auto Archi-impressione. Scrive Henry:

La vita che viene a sé provandosi nella sua carne non è essa stessa propriamente a compiere tale venuta. Se si effonde tramite noi, facendo di noi dei viventi senza che da parte nostra facciamo nulla, indipendentemente dal nostro potere o volere, giacché sempre e di già, prima che un solo istante ci abbia permesso di volgerci a essa per accoglierla e rifiutarla, per dirle sì o no, la vita è in noi e noi siamo in essa, nella passività radicale che tocca l’impressione ma anche la nostra vita tutta intera, è dunque proprio questa vita a precederci nel cuore stesso del nostro essere, vita che non è solo la nostra.27

Da queste parole è del tutto evidente che esiste un prima dell’Ego, un prima della carne che è, appunto, questa Archi-passività della Vita infinita. Tuttavia, su questo Henry insiste, il prima dell’ego e il prima della carne sono un tutt’uno e non possono essere disgiunti. L’affermazione giovannea «In principio era il Verbo» esprime il carattere transitivo e relazionale del Verbo; così come l’espressione «E il Verbo si fece carne» attesta la parusia della Vita nella carne e il fatto che nella Carne non c’è solo corruttibilità ma anche incorruttibilità grazie alla presenza, in essa, della Vita infinita. Anzi, è proprio quella carne, carne cosale, costituita a ricordarci che, in virtù, del suo pathos, ha la possibilità di resurrezione.

Il pathos è il luogo di un esercizio che ci consente di «aprire gli occhi allo spettacolo dell’universo»;28 il pathos è altresì il luogo di un potere, il potere di ciascun corpo di poter fare delle cose e che in questo potere la Via infinita esplica la sua essenza. Questa possibilità di potere, questa potenza di potere è lo spazio di una libertà originaria vertiginosa già descritta da Kierkegaard in «Il concetto dell’angoscia» e da Sartre ne «L’essere e il nulla». Entrambi hanno spiegato che «nulla» può impedire a qualcuno di essere libero di fare o non fare una certa cosa e, anche quando si pensa che qualcun altro stia decidendo per noi, siamo prigionieri della libertà. Quando Cristo, rispondendo a Pilato, dice che non avrebbe nessun potere se questo potere di liberarlo o di crocifiggerlo non gli fosse stato assegnato dall’Alto, sta dicendo che il potere empirico deriva da un aver a che fare con un potere originario e indeducibile, quel potere che deriva dal fatto che «nulla» può impedirci di assumere una decisione. Il soggetto del potere si sposta, pertanto, dal soggetto al Nulla, un nulla che si fa, per dirla con Kierkegaard, «situazione», ebbrezza, vertigine della libertà.

Chi o coloro che si avviano alla crocifissione di Cristo sono persone che esercitano un potere fittizio perché nessuno trae da sé il proprio potere, sia che si accetti di svolgere un’azione sia che la si rifiuti.

L’incarnazione è un dono, «venuta originaria della Vita nell’Ipseità del primo Sé»;29 il dono della Vita è anche il dono che vive nella Vita nella dimensione di un pathos originario. Se vivere è riconoscere questo pathos donato, allora il pathos è, per eccellenza, il luogo dell’accadere della Vita. Giustamente Paolo, ricorda Henry, dice «Cum impotens tunc potens sum», quando sono impotente è allora che sono potente; ma si badi, non è che l’impotenza sia un valore in sé come pure l’indigenza. Impotenza, povertà, dolore sono forme visibili per mezzo delle quali la Vita si dona all’uomo e vanno colte nella loro giusta dimensione di quel continuum dell’Archi-donazione. Il senso della morte di Cristo e della sua resurrezione è proprio il riconoscere nel pàthos la dimensione di una rivelazione della Vita infinita e invisibile. Per questo Henry può dire: «ogni finitezza è tessuta di infinito, a esso mescolata e inseparabile, ricevendo dall’infinito tutto ciò che è, è stata e sarà».30

L’«io posso», nel momento in cui riceve la Vita dalla Vita invisibile, compie l’esperienza dell’oblio nel senso che ciascuno è immerso nel mondo costituito; il silenzio degli organi che adempiono la propria funzione è il segno di una vita dimenticata. L’oblio è quell’esperienza che ci espone al mondo costituito e ce lo fa apparire nella sua discontinuità facendoci dimenticare la sua continuità del nostro percepire. I dolori, come esperienze locali, sono destituiti del loro significato più profondo, e cioè quello di essere la traccia, di un sentire più profondo e dinamico. Per questo Henry afferma: «questa memoria immemoriale della vita, la sola che può unirci alla Vita, è la vita stessa nel suo pathos: è la nostra carne».31

7. L’angoscia come traccia della Vita assoluta

Esiste un rapporto tra angoscia, possibilità e Affettività. Quest’ultima, intesa come principio dell’agire o del reagire, non solo è il fondamento della realtà, ma costituisce l’essenza stessa della possibilità intesa come potenza di potere. Quando Kierkegaard dice che l’angoscia nasce dall’ignoranza e l’ignoranza dall’innocenza, dal momento che Adamo ed Eva vivevano nell’innocenza e cioè nell’ignoranza che nulla potesse angosciarli né intimorirli, vuol dire che il «nulla» si assimila al «ronzio anonimo del c’è» (Levinas) che ci appare nella sua insostenibilità rumorosità, nell’assurdità del suo significare. Ecco, l’angoscia nasce appunto da questo nulla, che come il ronzio anonimo è parte costitutiva del nostro essere e, al tempo stesso, una forza che ci oltrepassa infinitamente. Questa forza è la forza della Vita invisibile che è dentro di noi secondo una forma che non siamo assolutamente in grado di dominare né di governare. L’innocenza della carne consiste nel suo porsi al di là del valore e del giudizio; la carne soffre nel senso generale del soffrire e del gioire, soffre di una affettività. Questa affettività fa della carne qualcosa di innocente che non sa distinguere il bene e il male proprio perché è innocente. Infatti Kierkegaard chiarisce che l’innocenza è ignoranza proprio perché Adamo ed Eva non sanno di essere ignoranti e sono ignoranti appunto perché non conoscono, non sanno. Quando conosceranno, cioè quando avranno compiuto il peccato originale, allora avranno perso l’innocenza e il peccato sarà entrato nel tempo. Il peccato originale di Adamo ed Eva è l’esperienza dell’angoscia, la consapevolezza di un nulla che li attanaglia e li espone alla vertigine della libertà. Quest’ultima fa loro scoprire che nulla può impedirgli di mangiare il frutto proibito e questa forza la trovano dentro di sé. È così che il peccato entra nel mondo e Adamo ed Eva conoscono la libertà solo dopo averla perduta per sempre.

Riprendendo gli studi di Kierkegaard sull’angoscia, Henry spiega il sorgere di quest’ultima dalla sintesi di anima e corpo, e cioè dallo spirito. Lo spirito è questa unione che supera il dualismo tra anima e corpo; nello spirito, anima e corpo si unificano. Ma cosa vuol dire? L’anima, che, parafrasando Aristotele, si configura come l’atto di una vita potenziale, è ancora legata ad una concezione di corpo costituito; è lo spirito che dona al corpo costituito il carattere di corpo organico. Giustamente Henry fa l’esempio di un polmone che rende possibile la respirazione, ma il punto è: perché è necessario che una respirazione esista? A questo interrogativo solo lo spirito è in grado di fornire una risposta, la quale, tuttavia, non può essere formulata nel rispetto delle regole dell’apóphansis. L’asserzione apofantica presuppone un’idea di esistere legata alla rappresentazione, alla presenza del soggetto e dell’oggetto. Henry spiega che la dimensione originaria richiede altre forme espressive: l’angoscia ne è un esempio paradigmatico. Avere a che fare con l’angoscia vuol dire mettere in gioco altre risorse. Il fatto che il nulla sia il fondamento dell’angoscia ci espone ad una possibilità che deve essere del tutto esplorata. L’angoscia esprime, da un lato, la vertigine della libertà, e cioè l’assunzione di un insostituibile e ineludibile potere di scelta, dall’altro l’irriducibilità della contraddizione tra due modi di apparire: il vedere del corpo costituito e il vedere di un corpo costituente. L’angoscia sembra abitare proprio questa contraddizione: non c’è modo di uscirne. Non c’è alternativa né salvezza rispetto all’angoscia. L’angoscia suscita angoscia proprio perché in essa sentiamo tutto il possibile come possibile, fino al punto in cui il desiderio sfocia nel peccato.

Il senso dello spirito come sintesi di anima e corpo si chiarisce a partire dalla Vita invisibile e infinita. È in questa dimensione che il corpo vivente (Leibkörper) trova la sua collocazione. Henry scrive: «il nostro corpo mondano non rinvia solo ad una soggettività invisibile; sotto le sue specie visibili si cela, sempre presente e sempre vivente, un carne che non cessa di auto-impressionarsi nel pathos della sua notte».32

Il corpo visibile, duplice, costituito è determinato da una sensualità primordiale che è invisibile e unitaria, viene prima della distinzione tra gioire e patire, è Archi-passività, appunto. «L’angoscia del peccato produce il peccato» dice Kierkegaard, sottolineando, così, la connessione tra l’esperienza indeducibile del potere e la scelta attuata, la realizzazione della possibilità. Il peccato originale non è che la realizzazione della possibilità di Adamo ed Eva di agire in forza di una affettività data dall’erotismo.

L’azione, in quanto attualizzazione di una potenzialità, non libera l’agente dall’angoscia, perché la possibilità, la potenza del proprio potere non scompare dopo aver compiuto un’azione. Si tratta, appunto, della vertigine della libertà connessa all’esperienza dell’angoscia. Secondo Kierkegaard, il peccato, inteso come scoperta di questo potere di scegliere senza che nulla possa impedirci di compiere una certa azione, la coscienza di questa libertà assoluta, trova nella sessualità la sua espressione paradigmatica.

Henry scrive: «Il sessuale, inteso qui come peccato, ha creato il tempo»,33 la sessualità come matrice del desiderio e, dunque, della libertà di cui siamo prigionieri non è, di per sé, peccaminosa. Non è il corpo in quanto tale ad essere fonte di peccato, bensì lo spirito incarnato. Henry spiega che la carne, il corpo vivente, crea le condizioni, l’ambiente storico, che incita e favorisce la peccaminosità. Nell’io posso abita l’angoscia e, dunque, la peccaminosità. Nella relazione erotica, per superare e sfuggire l’angoscia che nasce dal desiderio e dall’esperienza originaria dell’io posso, il toccare appare nella forma del toccante/toccato e colui che tocca è, al tempo stesso, toccato e viceversa.

Nella relazione erotica il toccare genera l’esperienza dell’angoscia in quanto possibilità di toccare ed essere toccati; la relazione erotica è la relazione originaria per eccellenza perché in essa il singolo esperisce il proprio essere singolare plurale (Jean-Luc Nancy). Da «Il concetto dell’angoscia» di Kierkegaard Henry ricorda che nella donna, la cui carne è più segnata dalla differenza sessuale, lo spirito assume una tensione infinitamente maggiore. L’io posso della donna appare più potente che nell’uomo per il fatto che la mano carnale di Adamo trova nella carne di Eva la possibilità di venir neutralizzata oppure ritirata; per questo potere di Eva, la sua l’angoscia è maggiore che in Adamo e genera un senso del desiderio e del peccato maggiore che in Adamo.

La relazione dinamica toccante/toccato è tale che colui che tocca trova nell’oggetto che gli si oppone una resistenza, il limite invisibile del suo sforzo e su cui non ha più nessun potere.

Tale relazione dinamica fa in modo che il mondo esterno, questo limite resistente al mio sforzo, appare quale il limite pratico del mio «io posso». La passività esperita a causa di questa resistenza è una passività che mette in gioco il desiderio erotico e quindi l’angoscia come esperienza di questa libertà assoluta. La pressione della mia mano verso l’oggetto toccato mi rinvia, dice Henry, una percezione di questa resistenza, che altro non è che la Vita infinita e invisibile. La fenomenologia della pelle dimostra che il mio corpo è costantemente ex-peau-sto (Jean-Luc Nancy).

Scrive Henry: «esercitare una pressione vuol dire per un “io posso” dispiegare il continuo resistente del proprio corpo organico sino al limite in cui, non cedendogli più, il continuo si fa corpo cosale invisibile»;34 in effetti l’esperienza trascendentale del toccante/toccato destituisce l’io e l’altro del proprio statuto di sostanza e ciò che si afferma è la vita invisibile che pulsa nel cuore della relazione, in questa, chiamiamola così, empatia che si istituisce. I singoli corpi non sono che epifenomeni di una vita invisibile. Nella relazione sessuale non si fa esperienza di un’unione perché i corpi che si congiungono restano prigionieri del proprio desiderio e dell’esperienza dell’incapacità di superare la propria divisione. La tragedia dell’atto sessuale sta proprio in questo: che i due corpi che cercano e vogliono fondersi in uno, restano prigionieri di questa ex-peau-sizione, cioè di questa apertura, di questa pulsione ma anche di questa angoscia derivante dall’esperire la vertigine della libertà. Questo è un ragionamento di tipo metafisico che culmina in una visione essenzialmente tragica della sessualità e della relazione erotica. Dal punto di vista fenomenologico la relazione erotica si congiunge alla relazione affettiva pura, quella che esprime la Vita invisibile.

L’esposizione della pelle oltrepassa il limite contro il quale urta, oppone resistenza un’altra pelle; in questo suo opporsi la pelle ci fa conoscere l’interno dell’altro. La pelle ci fa entrare, grazie al desiderio, nella regione invisibile dell’altro e la sessualità ci fa entrare a contatto con quella parte più profonda del desiderio dell’altro; nella relazione sessuale, l’intima prossimità dei corpi mette in gioco la profondità dei desideri e, dunque, la vertigine della libertà e l’angoscia. Esibire, come si fa nella relazione erotica, ciò che si doveva tenere segreto allo sguardo vuol dire chiamare l’altro ad esibire la propria vita segreta. Kierkegaard ricorda un passo della Genesi in cui, dopo il peccato, Adamo ed Eva conobbero di essere nudi.

Il desiderio di possesso e di incorporazione che la relazione erotica mette in gioco deriva dal fatto che siamo prigionieri di una pelle che costituisce il limite ex-peau-sto (J.-L. Nancy) invalicabile ma che al tempo stesso ci apre al mondo della Vita invisibile. Fintanto che restiamo prigionieri di questo corpo che ci lega pur esponendoci al mondo, allora la relazione sessuale appare esposta ad una forma di violenza. Il desiderio, la capacità di sentire e di gioire si schiacciano sul corpo, sulla pelle in modo che il corpo rimane limite di una chiusura al mondo. Pensare che l’erotismo sia riducibile alla sessualità oggettiva significa legittimare l’idea che la sessualità possa produrre una fusione tra due corpi e che la nudità sia l’esibizione estrema e radicale di questa possibilità. Questa esperienza produce, in realtà, una rimozione della vita e l’affermazione del nichilismo, cioè l’idea che i corpi sensibili colti nell’isolamento del loro esistere possano bastare a se stessi. Questo avviene quando la relazione erotica viene strappata al pathos della vita invisibile e viene considerata un’esperienza bastevole a se stessa.

Henry afferma che la pornografia è l’espressione di questa profanazione della Vita invisibile, di questo rinchiudere il corpo nella finitezza delle performances sessuali. L’oggettivizzazione del desiderio, l’esibizione, l’attualizzazione delle possibilità quasi a voler ridurre la potenza del desiderio a qualcosa che si vede e ricade sotto l’egida dei sensi, è una manifestazione di nichilismo. Nell’oggettivismo della performance sessuale la libertà diventa oggetto di scambio e il fenomeno dello scambismo appare la prova di questa oggettivizzazione della relazione sessuale. Voyerismo e scambismo appaiono come alcune delle forme paradigmatiche del nichilismo. In questo caso nichilismo significa che ogni cosa equivale ad un’altra cosa, così che niente ha realmente valore.

8. Il senso della resurrezione

L’angoscia costituisce la condizione di possibilità della relazione esistenziale e, quindi, erotica. L’angoscia è quell’aspetto della Vita invisibile che permette l’esplorazione della possibilità e del desiderio. L’angoscia è quella forza che costituisce l’essenza stessa della relazione, della carne e della Vita assoluta. Esiste una teleologia della carne? C’è una ragione per cui la Vita assoluta rivendica un primato e distoglie i corpi dal voyerismo e dallo scambismo? Secondo Henry la risposta è negativa. La vita è senza perché: «l’autorivelazione della vita è la sua auto giustificazione»;35 la vita, seppure dura, è desiderata di per sé e l’attaccamento alla vita non è legato all’immediatezza delle sensazioni, ma all’Archi-affettività che si scopre nella relazione esistenziale, nella gioia e nel dolore, insomma nell’Archi-pathos. Perfino l’assurdità del dolore più profondo e inspiegabile, per quanto possa ferire in maniera irrimediabile, è riconducibile ad una dimensione Archi-esistenziale. Come la rosa nella poesia di Silesio, anche la vita non è preoccupata di sé né desidera essere vista.

Scrive Henry: «la Genesi è la prima esposizione nota di una teoria trascendentale dell’uomo. Per “trascendentale” intendiamo la possibilità pura e a priori dell’esistenza di un qualcosa come l’uomo»:36 la parola «uomo» non indica un singolo uomo bensì il genere, l’archetipo; Adamo non è mai separato dal genere umano e da una certa passività. L’orizzonte di pura esteriorità è visto nei sensi e attraverso i sensi che ne riducono la potenza. La vita invisibile si è fatta carne, proprio per essere vista nella sensibilità e nell’affettività. Queste due espressioni non indicano la stessa cosa perché l’affettività costituisce il senso delle nostre sensazioni e, a differenza di queste, l’affettività è veramente invisibile. L’affettività si collega al concetto di intenzionalità perché la vita affettiva costituisce il prima delle sensazioni, il prima dell’apriori noetico di cui le sensazioni sembrano essere determinazioni atomizzate.

Il senso della resurrezione è quello di insegnare a ciascun individuo la via per ritrovare se stessi. Una vita creata nella passività non può che trovare in questa passività la propria salvezza. Ireneo dice che l’incarnazione del Verbo nella nostra carne ci consente di ritrovare la nostra relazione con Dio; egli si preoccupa di spiegare l’evento scandaloso dell’incarnazione e di come sia stato possibile: l’incarnazione costituisce un evento simbolico che consente al corpo costituito di diventare carne, esperienza della pura passività. Esiste una relazione costitutiva tra la creazione originaria dell’uomo e l’Incarnazione del Verbo espressa molto chiaramente nelle parole di Paolo quando dice «il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo»: il corpo nato dal fango della finitezza riceve, mediante la creazione e la Incarnazione, un significato che è immanente alla finitezza stessa: non si tratta di andare in un altrove perché la Vita invisibile, l’Archi-passività è proprio questa capacità di stare nel dolore, di abitarlo nella potenza del suo potere di annichilazione. Solo accettando la radicalità dell’assurdo, il nichilismo può essere superato.

Scrive Henry: «l’appartenenza nativa della nostra carne al Vero della Vita potrà essere ristabilita solo dalla venuta del Verbo in una carne simile alla nostra, dalla sua Incarnazione»;37 il senso dell’incarnazione, dovuto ad un amore sovrabbondante, è questo continuo sostegno ad una rielaborazione del pathos della finitezza. Solo abbandonandosi alla passività originaria, la carne perde il suo aspetto feticista e idolatra. Il senso del peccato e della morte risiedono proprio in questa idolatria e feticizzazione della carne. La carne e il corpo hanno un senso solo in relazione all’accettazione di questa passività. Il senso del Verbo sta nel sostenere questa ermeneutica della passività e la salvezza è in questa accettazione tragica. Solo in questo contesto la morte di Cristo trova la sua giusta collocazione; il senso della vita invisibile sta nella capacità di accettare il dolore. La mortalità di Cristo ha un valore paradigmatico, l’atrocità della sua sofferenza è il simbolo di un dolore che può essere vinto sul suo stesso piano e cioè sul piano della Archi-passività. La santificazione di Cristo è attestata dal suo esempio; si può vincere il dolore solo se si combatte sul suo stesso piano.

Nell’ultima parte di Incarnazione Henry approfondisce il tema della relazione e del pathos nella relazione; ricorda che nella fenomenologia contemporanea Husserl ha individuato nell’intenzionalità il mezzo di un’apertura, di una trascendenza, della realtà. In Heidegger la scoperta dell’altro passa attraverso il Con-Esserci (Mit-da-sein); si passa da un idealismo solipsista del primo ad un’ermeneutica della fatticità nel secondo. Il Con-Esserci precede la struttura del Da-sein perché il Con-Esserci rinvia all’essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein) del Da-sein. Quando Heidegger dice che «Il Dasein è sempre mio» sta affermando che c’è un io che, a sua volta, presuppone una ipseità originaria. Io, dice Heidegger, posso toccare fintantoché c’è un muover-si-in-sé del movimento del toccare. Questo muover-si-in-sé avviene in quel sé che, a sua volta, è immanente al movimento del toccare.

Come già detto a proposito di Nancy, l’ipseità è quella regione intermedia tra due Io, anzi: l’io è il punto limite di una arealità, di un «entre» di cui l’io e un altro io costituiscono le fenomenizzazioni spazio-temporali. La comunità non è altro che questa condivisione dell’Archi-pathos della Vita invisibile. La religiosità della comunità risiede nell’intimo legame della condivisione di un dono, il dono di questa Vita invisibile.

Secondo il Cristianesimo primitivo, la relazione con altri presuppone la relazione con l’altro Sé assoluto e cioè con Dio; la transitività del Padre, con il Figlio e lo Spirito consiste nella relazione comunitaria, in questo dono reciproco: «il Padre è in me come io sono nel Padre» dice Giovanni, e l’incarnazione è l’evento che colma l’abisso tra la Vita invisibile e l’uomo costituito. Cristo, in virtù dell’Incarnazione, diventa la «persona comune dell’umanità» e «perciò è chiamato il nuovo Adamo» e il suo è un corpo mistico in cui ciascun uomo costituito può trovare il suo senso più profondo.


  1. E. Husserl, Leçons pour une phénoménologie de la conscience intime du temps, Paris, PUF, 1964. ↩︎

  2. M.H., I., p. 39. ↩︎

  3. M.H., I., p. 45. ↩︎

  4. M.H., I., p. 58. ↩︎

  5. M.H., I., p. 66-67. ↩︎

  6. M.H., I., p. 90. ↩︎

  7. M.H., I., p. 94. ↩︎

  8. M.H., I., p. 97. ↩︎

  9. M.H., I., p. 99-100. ↩︎

  10. M.H., I., p. 110. ↩︎

  11. M.H., I., p. 126. ↩︎

  12. M.H., I., p. 127. ↩︎

  13. Le Visible et l’Invisible, Paris, Gallimard, 1964, rispettivamente pp. 177-178, 179, 183, 181. ↩︎

  14. M.H., I., p. 139. ↩︎

  15. M.H., I., p. 140. ↩︎

  16. M.H.,, I, p.142. ↩︎

  17. M.H.,, I, p.143. ↩︎

  18. M.H.,, I., p.155. ↩︎

  19. M.H., I., p. 167. ↩︎

  20. M.H., I., p. 170. ↩︎

  21. M.H., I., p. 173. ↩︎

  22. Scrive Franck: «Se è vero che io ho coscienza del mio corpo attraverso il mondo, se è vero che esso è al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo e in questo senso ho coscienza del mondo». La carne è la diveniente metamorficità del corpo: è il corpo osservato nella sua inesauribile dinamicità; la carne è la parte più profonda del corpo, l’invisibile e preapofantica dimensione originaria, il prima di ogni prima (Didier Franck, Heidegger e il problema dello spazio, Ananke, 2006). ↩︎

  23. «Che cos’è una pulsione? Ogni pulsione è una spinta verso qualcosa, una forza ordinata o subordinata a un termine a cui mira […] Ogni pulsione è pulsione verso qualcosa di buono […] Non ci sono pulsioni isolate e ogni pulsione del nostro corpo si organizza secondo una gerarchia […] Con il filo conduttore del corpo, conosciamo l’uomo come molteplicità di esseri animati che in parte, si combattono reciprocamente e, in parte, ordinati e subordinati come sono gli uni agli altri, affermano così, in modo involontario, il tutto affermando se stessi. […] Le pulsioni sono gli effetti posteriori di valutazioni conservate da molto tempo che ora agiscono istintivamente come un sistema di giudizi di piacere e di dolore […] I valori devono essere considerati come condizioni d’esistenza di una formazione di dominio, vale a dire un insieme di forze sottomesse e unificate dalla maggiore di esse. Inizialmente la riunione di esse è il prodotto del caso — «all’interno del mondo chimico, l’organismo è l’eccezione del caso» — ma alla lunga la prospettiva o il valore imposto dalla forza dominante diviene la condizione d’esistenza stessa delle forze dominate poiché essa è ciò a partire da cui può esser, in fin dei conti, definito «ciò che è vicino, importante, necessario, ecc.» […] Il divenire pulsionale delle forze è compiuto quando la valutazione si è fatta istinto. «Io parlo di istinto quando un qualsiasi giudizio (il gusto al suo stadio più basso) si è ormai incorporato in modo tale da mettersi lui stesso spontaneamente in movimento senza bisogno di attendere eccitamenti. […] il piacere non è che un sintomo del sentimento della potenza raggiunta, una coscienza della differenza […] Il piacere è dunque di natura ritmica e tensoriale» (Didier Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio, Lithos, 2002, cap. III, «Piacere e dolore»). ↩︎

  24. M.H., I., p. 185. ↩︎

  25. M.H., I., p. 189. ↩︎

  26. «Questo punto è precisamente il punto in cui il toccare non tocca, non deve toccare per esercitare il suo tocco (la sua arte, il suo tatto, la sua grazia): il punto o lo spazio privo di dimensione che separa ciò che il toccare accosta, la linea che divide il toccare dal toccato e dunque il tocco da se stesso» (J.-L. Nancy, Noli me tangere, Bollati Boringhieri, 2005, p. 25). ↩︎

  27. M.H., I., p. 196. ↩︎

  28. M.H., I., p. 200. ↩︎

  29. M.H., I., p. 202. ↩︎

  30. M.H., I., p. 205. ↩︎

  31. M.H., I., p. 215. ↩︎

  32. M.H., I., p. 230. ↩︎

  33. M.H., I., p. 236. ↩︎

  34. M.H., I., p. 243. ↩︎

  35. M.H., I., p. 259. ↩︎

  36. M.H., I., p. 262. ↩︎

  37. M.H., I., p. 268. ↩︎