1. Introduzione
Il nostro tempo è caratterizzato dall’attualità della Globalizzazione. I problemi e le sfide stimolati da quest’attualità riguardano essenzialmente il tema del «confine», ossia il tema della relazione identità/differenza che è esplicitato appunto dal «confine» della loro convivenza, da una linea tanto sottile quanto concreta (/), che coinvolge in modo vitale entrambi i termini.
La parola Globalizzazione, nella sua significativa rotondità onomatopeica, materializza l’idea di una sfericità serrata in se stessa, di un determinismo egocentrico e assoluto, di un tutto identitario ed omologante che «rotolando» fagocita senza sosta, riducendo al medesimo le realtà che incontra. Allora il problema della convivenza, che pure è portato all’evidenza assoluta dalla Globalizzazione, è risolto negli schemi della stessa attraverso l’«in-global-izzazione»: la realtà diviene «globale», ovvero universalmente identica e, una volta per tutte, e con un’enorme economia comprensiva, riconoscibile. Si pensi all’impotenza psicologica di un bambino incapace di riconoscere nell’altro l’Alterità se non assimilandola a quel poco che già gli è noto. Nella prospettiva di questo «bambino globalizzatore», l’omologazione diviene una necessità del pensiero che nulla ha però a che fare con la concretezza del Reale: la sua verità è niente più che un’astrazione. Ebbene, in una simile dimensione che fine fa la realtà del secondo termine del rapporto rappresentato dalla «differenza»; che sorte ha la complessità, la pienezza dell’espressività umana? Tale prospettiva riducente è quella che per il filosofo cubano Raul Fornet-Betancourt contestualizza il nostro tempo. Alla sfida contemporanea della convivenza, acutizzata e risolta attraverso la Globalizzazione, il filosofo risponde con il testo Trasformazione Interculturale della Filosofia1, inserendosi in quel lievito contemporaneo che potrebbe essere definito come una vera e propria «contesa dialogante» per il recupero della complessità vitale: per il recupero del diritto all’esserci della diversità.
2. Perchè una trasformazione Interculturale della Filosofia
L’Autore è alla ricerca di un nuovo tipo di pensiero capace di «rendersi conto», di accogliere e di lasciarsi «toccare» dalla concreta complessità del Reale. Non si desidera più dunque, tanto per rimanere nella metafora del «bambino globalizzatore», l’inadeguatezza infantile di un modo di rapportarsi e comprendere esclusivamente astratto, o se si vuole immaginario e incorporale, poiché tale modo è del tutto incapace di gestire la situazionalità, ossia il trovarsi di due o più realtà in una situazione di vicinanza e di rapporto concreta. Questa situazione di vicinanza concreta è il contesto che caratterizza il nostro tempo e che il processo di globalizzazione ha contribuito ad acutizzare. Diventa allora una questione di sopravvivenza il trovare un modo diverso di rapportarsi che riesca a far fronte alle sfide originate dall’attualità del presente storico. La Filosofia, trasformandosi in Interculturale, ovvero scegliendo di prendere in considerazione il contesto storico concreto di ogni singola cultura, diventa filosofia per il nostro tempo, in quanto innanzitutto in grado di «guardare in faccia» e «riconosce» come reale la situazionalità.
Si capisce come sia richiesto all’essere umano un vero e proprio «salto» di consapevolezza:
La filosofia interculturale comincia ad essere un modo di fare filosofia che prende coscienza del radicamento e della situazionalità del pensiero (e della vita) quale condizione di possibilità per esercitarsi in modo universale. Il suo essere contestuale non la chiude alla comunicazione né alla ricerca dell’universalità, ma la mette sull’avviso che la ricerca dell’universalità deve percorrere strade diverse da quelle tracciate da una concettualizzazione astratta e formale. E per questo motivo occorre mostrare che la vera universalità richiede la contestualità storica della vita umana in tutta la sua pluralità perché ha origine e si sviluppa attraverso processi contestuali di interscambio e di comune comprensione. In questo modo la filosofia interculturale, in quanto forma di filosofia contestuale, si propone come l’espressione di una filosofia che […] considera l’assunzione di responsabilità contestuale come condizione necessaria per aprirsi ad un dialogo con le diversità in cui, superando atteggiamenti tautologici o la disposizione ad ascoltare nell’altro solo la risonanza prodotta dalla propria parola, impara a condividere le differenze e a solidarizzare con esse nella carne culturale e corporale dell’altro, impara cioè ad essere universale condividendo la con testualità.2
Ciò che Raul Fornet-Betancourt propone è una vera e propria «lotta», combattuta attraverso l’arma filosofica della resistenza nel dialogo, alla visione globalizzata del mondo, ossia a quel modo di conoscere che appartiene a quel tipo di uomo che ha prodotto, e funzionalmente mantiene, la Globalizzazione. Se si vuole, è la battaglia per la crescita del «bambino globalizzatore», i cui schemi mentali, i cui abituali itinerari neurali, devono essere ristrutturati. Ciò può avvenire esclusivamente attraverso un «mettersi in discussione» che significa decidere di entrare allo stesso modo in rapporto con l’Alterità (gli altri) come con l’Identità (se stessi), e tale rapporto non può che essere veicolato da una forma specifica di dialogo che oltre al dire, sia disposto sinceramente all’ascoltare e al lasciare esprimere. Questa benevola disposizione al porsi in discussione all’interno di un rapporto paritetico tra Identità e Alterità, è la trasformazione che modifica la Filosofia in Filosofia Interculturale.
Ecco allora che l’Autore parla di reazione a una determinata categoria antropologica, che prevede un nuovo processo di apprendimento antropologico organizzato in due momenti specifici: un primo momento critico o decostruttivo, ed un secondo momento propositivo o interculturale.
Al momento decostruttivo appartengono tre importanti operazioni:
- Revisione della teoria antropologica;
- decostruzione dell’individualismo;
- critica all’antropocentrismo.
Anche al momento interculturale appartengono tre operazioni:
- il compito di «recapacitación»;
- l’apprendimento interculturale;
- il dialogo inter ed intra culturale.
Senza volersi dilungare troppo, è importante sottolineare che il tipo di uomo che l’Autore intende demolire per poi ristrutturare è quello formato dagli insegnamenti della modernità capitalista: un essere umano proiettato all’individualismo, al possesso e al dominio, depredato della pienezza delle proprie capacità e ridotto all’incapacità di convivenza, e dunque di sopravvivenza):
Questo processo di apprendimento antropologico implicherebbe […] in primo la revisione della teoria antropologica che si espande con la modernità europea secolarizzata e che porta al fatto che l’essere umano, perdendo ogni senso della contingenza e della contestualità — cioè della misura, della relazione e della proporzione — si concepisce come il soggetto agente esclusivo di un’impresa di usurpazione totale crescente, la cui logica di dominio non produce solo eslusione ed oppressione ma anche la distruzione massiccia di ogni ambito del reale.3
È dunque fondamentale soffermarsi su ciò che Raul Fornet-Betancourt chiama il compito di «recapacitación». Il termine spagnolo ha due importanti significati:
- Ripensare, ossia riconsiderare realmente ciò che l’uomo è.
- Rendere capaci di, ossia far: « […] acquisire nuove capacità umane per essere in grado di pratiche umane migliori».4
Di pari importanza è anche l’operazione del dialogo inter ed intra culturale. L’incontro con la pluralità culturale costringe chiaramente al dialogo inter-culturale, ma comporta di rimando anche una riflessione sulla propria Identità, favorendo il dialogo intra-culturale. Ciò consente ad ogni cultura di potersi liberare da tendenze deformanti e processi alienanti che le impediscono di rapportarsi sinceramente con se stessa e con le altre realtà. Il dialogo intra-culturale è un atto importantissimo che favorisce la demolizione del «vecchio» creando «spazio» per la ricostruzione del «nuovo».
Tra le tendenze deformanti Raul Fornet-Betancourt annovera:
- Etnocentrismo
- Tradizionalismo
- Culturalismo
- Elitarismo
- Istituzionalismo
- Folclorismo
- Coerentismo
Mentre tra i processi alienanti:
- Modernismo
- Mercantilismo
- Civilismo
- Armamentismo
In conclusione, la necessità della Trasformazione Interculturale della Filosofia segue la necessità contestuale dell’inversione antropologica che richiede di riporsi la domanda sull’essere umano e sul suo modo di comprendere il Reale. L’inversione antropologica è una necessità contestuale poiché a sua volta scaturisce dalla necessità di sopravvivenza acutizzata dalla prospettiva della Globalizzazione che sta sfinendo l’umanità. Così: «L’Interculturalità vuole essere innanzitutto il modo in cui la gente pratica l’umanità e diventa pratica in umanizzazione, cioè cresce in umanità»5
La filosofia interculturale propugna un «nuovo umanesimo» che carica di un senso maggiorato tutto ciò che è, e avverte che per l’essere umano è giunto «il tempo della muta»: egli deve cambiare pelle seguendo il corso del tempo (la necessità del nostro tempo) altrimenti non sopravviverà.
3. Atteggiamento ermeneutico e scelta etica della Filosofia interculturale
Naturalmente il progetto dell’inversione antropologica deve poter usufruire di nuovi strumenti di apprendimento, di nuove possibilità di comprensione: in altre parole la «muta» della ragione deve far capo a una nuova differente ermeneutica. L’ermeneutica della filosofia interculturale, proprio per il fatto di appartenere alla filosofia interculturale, e dunque di essere promotrice di crescita verso un pensiero più completo e reale, presuppone una decisione previa e fondamentale, una scelta etica, di comportamento, che implica allo stesso tempo sia una rinuncia che un recupero. In essa il momento del recupero appare subordinato a quello della rinuncia. Infatti, ciò che si deve scegliere di lasciar andare è l’assolutismo della propria identità (si badi, l’assolutismo, non l’identità stessa), e questo movimento di «perdita» permette di creare un’apertura in grado di far entrare nel proprio universo di comprensione qualcosa che era stato annientato nell’egocentrismo, ossia il termine differente, l’Alterità, che appare così recuperata. Nella chiusura egotica però, non soltanto l’Alterità è stata perduta, ma anche la possibilità dell’incontro «reale» con essa. Ecco allora che attraverso l’atto previo della scelta etica il modo di leggere il Reale si modifica automaticamente: non più un monologo con se stessi ma un dialogo con tutta la Realtà. Si esce dall «Io» per incontrare il «Mondo» in tutta la sua concreta pienezza. La scelta etica della filosofia interculturale rende il pensiero libero dalle catene di qualsiasi riduzionismo, trasformando l’uomo in «essere umano pieno»:
La «Filosofia Interculturale» […] è la messa in pratica di un atteggiamento ermeneutico che parte dal presupposto che la finitezza umana, a livello individuale come a livello culturale, impone di rinunciare alla tendenza, propria di ogni cultura, di assolutizzare e sacralizzare ciò che è proprio, stimolando al contrario l’abitudine all’interscambio e alla differenza. […] La filosofia Interculturale […] rinuncia ad ogni posizione ermeneutica riduzionistica. Rinuncia cioè ad operare con un solo modello teorico-concettuale che serva da paradigma interpretativo. […] La sua idea è piuttosto quella di fondare la riflessione filosofica sulla relazione, sulla comunicazione reciproca, facendo così spazio alla figura di una ragione interdiscorsiva.6
Alla base della nuova ermeneutica vi è dunque un’imperativo «categorico», morale, che ci impegna al riconoscimento della relatività della nostra propria identità culturale: è quella rinuncia al giudizio, quel darmi tempo per ascoltare le parole dell’Altro. L’epoca del «dire» si trasforma così nell’epoca del «dialogare». Ma per far in modo che si costruisca un dialogo nel senso pertinente del termine, non solo è necessario che vi siano due dialoganti, ma anche che essi godano di pari dignità. Ecco dunque che la parte più sostanziale del pensiero dell’Autore si veicola sul recupero della dignità storica di tutte quelle culture emarginate, sottomesse, annullate, estromesse dal diritto di essere diverse e minoritarie, dal diritto in definitiva di «esserci», di poter dire la propria. Bisognerà cercare fra gli scampoli della Realtà, fra quei ritagli buttati via, inutilizzabili per il disegno rotondeggiante della Globalizzazione, abitati da un’umanità rifiutata, rinnegata, oppressa, dimenticata, assimilata. Prima di tutto dunque, la scelta etica che è al centro dell’atteggiamento ermeneutico della Filosofia Interculturale, prevede la reintegrazione di questi ritagli nel disegno storico contemporaneo, per fare in modo che in quel nostro del nostro tempo venga incluso ogni essere umano.
La critica al colonialismo, all’eredità coloniale, è dunque la critica di questa ermeneutica del dominio interiorizzato che ci ha portato a comprenderci non soltanto partendo dall’immagine che hanno presentato di noi gli altri (barbari, pagani, sottosviluppati), ma anche a preferire l’imitazione, vedendo in lei l’unica alternativa vitale per accedere all’umanità sia accettata che negata. Detto in termini positivi: la critica del colonialismo rappresenta lo sviluppo di un’ermeneutica della liberazione storica per la quale il «muto indio» riscopre la sua parola ed il «nero sconosciuto» dispone delle condizioni pratico-materiali per comunicare la sua diversità.7
Per capire come sia possibile per una cultura cominciare a rileggersi con nuovi «occhi» e ricominciare a parlare con voce propria, è necessario soffermarsi sul significato che l’Autore attribuisce al concetto di cultura, che forse è identificabile con la parte più originale del suo pensiero.
4. Cultura, filosofia e disubbidienza culturale.
Dobbiamo esplicitare che la nostra concezione di cultura, per il fatto di essere storica, presuppone che le culture non devono considerarsi come blocchi monolitici […]. Presupponiamo piuttosto che in ogni cultura esiste una storia di contese per determinare i propri obiettivi e i propri valori […]. Presupponiamo allora che dietro il volto con cui ci viene offerta una cultura come una tradizione stabile all’interno di un complesso orizzonte di codici simbolici, di forme di vita, di sistema di credenze, etc., esiste sempre un conflitto delle tradizioni, che va colto a sua volta come una storia che evidenzia che all’interno di ogni cultura esistono possibilità amputate, fallite per sé stesse, e che quindi ogni cultura avrebbe potuto essere resa stabile anche in modo diverso da come oggi la vediamo. Da ciò ne consegue che all’interno di ogni cultura devono essere distinte le sue tradizioni di liberazione da quelle di oppressione.8
Una simile concezione dell’universo culturale rende possibile il ripensamento continuo della propria identità culturale che evita così di fissarsi su di un’immagine definitiva. Senza questa apertura infatti, senza questo movimento dinamico, storico appunto, sarebbe impossibile anche soltanto immaginare un’alternativa alla situazione attuale, ossia all’attuale disegno del mondo, e dunque un’alternativa per gli emarginati di liberarsi dall’emarginazione, vissuta e pensata. È importante sottolineare che nel dinamismo storico culturale, il sociale e l’individuale si relazionano in modo osmotico, cosicché se è vero che la cultura d’appartenenza diviene una base d’appoggio per qualsiasi progetto d’identità, è allo stesso modo vero che il ruolo attribuito al singolo soggetto è determinante per ogni possibile trasformazione sociale. A questo punto entra nuovamente in gioco il compito fondamentale della filosofia, che è quello di promuovere all’interno d’ogni cultura (compresa quella che supporta la Globalizzazione) l’insubordinazione, o meglio, la disubbidienza culturale e interculturale:
La filosofia interculturale promuove, in primo luogo, la «disubbidienza interculturale» quale atteggiamento che nasce dall’interno di una cultura e che mira alla critica della sua forma di consolidamento. Si tratta […] di rafforzare il diritto di ogni membro di una determinata cultura a vedere nella propria cultura un universo che può essere attraversato e modificato, cioè un mondo che non si esaurisce nelle sue tradizioni passate o in quelle attualmente consolidate, ma possiede un futuro che deve essere rifondato a partire da nuovi processi di interazione. […] La filosofia (interculturale) coltiva la «disubbidienza culturale» come la prospettiva di fondo alla cui luce ogni persona umana deve fare della sua «propria» cultura una scelta. Certo, ogni persona umana abita ed è all’interno di una cultura, ma non la vive come una dittatura che le prescrive in modo totalitario il suo modo di agire e pensare, né la vive come una prigione da cui è impossibile fuggire. Perché il modo di abitare ed essere di una persona umana all’interno di quello che essa chiama la sua cultura, è quello di essere soggetto in quella — e di quella — cultura. La cultura nella quale l’essere umano abita ed esiste, forma l’essere umano, ma contemporaneamente esso forma e riproduce la propria cultura attraverso costanti sforzi di appropriazione. […] Così il soggetto umano nasce culturalmente situato, ma questo essere situato non è un destino perché, attraverso i processi di appropriazione, ogni soggetto umano può ricollocare il suo essere culturalmente situato, anzi può ricollocare la posizione o il rafforzamento della sua cultura e scegliere una strada alternativa, sia recuperando il ricordo di tradizioni interrotte od oppresse all’interno della storia del suo universo culturale, sia ricorrendo all’interazione con tradizioni di altre culture, inventando nuove prospettive a partire dall’orizzonte di quelle precedenti.9
Funzionale al medesimo progetto di liberazione del pensiero dal riduttivismo del pensiero stesso, e derivante dalla concezione storica «in fieri» delle culture, è l’idea della de-culturizzazione del concetto di cultura. Essa è accompagnata dalla denuncia che la filosofia è chiamata a fare dell’asimmetria culturale che è implicita nel sistema della Globalizzazione, e che purtroppo caratterizza oggi il contesto nel quale avviene l’incontro culturale:
Quando parliamo di asimmetria tra le culture ci riferiamo ad un’asimmetria che potremmo dire proveniente dall’esterno delle culture, in quanto risultato storico del colonialismo portato oggi avanti in buona parte dalle grandi imprese multinazionali e dai centri finanziari con le loro strategie di globalizzazione. Questa globalizzazione […] crea […] un mondo asimmetrico nel quale la disuguaglianza si acutizza sempre di più, e questo non solo nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo ma anche nei paesi altamente industrializzati. Mi sembra ovvio che l’asimmetria tra le culture […] è parte essenziale della dinamica interna attraverso cui il sistema neoliberale si riproduce, perché è questa asimmetria nelle relazioni internazionali […] quella che offre il contesto più ampio per l’«incontro» delle culture. Con questo voglio dire due cose: primo, che le culture si «incontrano» in un mondo che, proprio per essere socialmente e politicamente strutturato in maniera asimmetrica, non può assegnare a tutti lo stesso posto; secondo, che di conseguenza le culture che non sono predominanti in questo mondo, si vedono condannate a lottare per la loro sopravvivenza.10
Per ripristinare la Realtà culturale e ristabilire così la dignità della diversità, si capisce come ciò che è lecito lasciar entrare nella nozione di cultura non può essere fissato una volta per tutte: nessuno è autorizzato a porre discriminazioni su ciò che può avere un valore culturale e ciò che invece non può averne in senso assoluto. De-culturizzazione significa allora togliere potere di abuso a coloro che, esplicitamente o implicitamente, si dichiarano e si comportano come padroni:
Bisogna domandarsi se, così come Lévy-Strauss ha de-biologizzato il concetto di razza, non faremmo bene a «de-culturalizzare» la nozione di cultura, intendendo con ciò la decostruzione delle definizioni d’uso che fissano in modo troppo rapido i padroni di una cultura e che sono molte volte manipolate dai gruppi sociali dominanti all’interno di una cultura allo scopo di sacralizzare certe tradizioni come «proprie» ed escluderne altre come «inautentiche». In questo senso «de-culturalizzzare» la nozione di cultura significa liberare la cultura dalla sua «immagine» dominante, denunciando l’asimmetria che riflette […]. Il compito di de-culturalizzare la cultura si presenta come un lavoro di ricollocazione sociopolitica delle definizioni ad uso della cultura, allo scopo di mostrare come in esse, per esempio, la cultura si riduce al «mondo colto», al mondo dello spirito, al mondo dei «valori» e dei beni culturali, etc. — tutti mondi centrati ed organizzati strutturalmente ed istituzionalmente nelle tradizioni delle classi alte ed istruite delle relative società. In questo modo il lavoro a favore della de-culturalizzazione della nostra immagine della cultura potrebbe aiutarci a rompere col potere degli amministratori della cultura […].11
La carica d’insubordinazione insita nelle parole di Raul Fornet-Betancourt è rilevante, e diventa chiaro che ciò che l’Autore sta dicendo non è destinato a restare, e non potrà rimanere allungo se accolto, solo un discorso. L’inversione antropologica è già cominciata, e il suo megafono è la filosofia interculturale.
5. Un’alternativa alla Globalizzazione: solidarietà al posto di universalità.
Alla luce di quanto è stato detto, è ora lampante come l’«uguaglianza» tanto sbandierata dalla Globalizzazione sia in realtà nient’altro che «assimilazione», poiché la Globalizazione al contrario, non fa che riprodurre l’asimmetria di valore culturale allo scopo di mantenersi emergente. È da notare che Globalizzazione non fa rima per l’Autore con Occidente, ma soltanto con quella tradizione mercantile che in esso è riuscita a prevalere. Si tratta allora di liberarsi dagli abusi del mercato e recuperare un contesto per l’incontro «concreto», per la convivenza culturale, che sia rispettoso della Realtà di ognuno: del diritto all’»Esserci», e all’»Esserci» in modo proprio, di ognuno. La filosofia interculturale è in grado di fornire questo nuovo contesto per la convivenza culturale che sia concretamente d’appoggio per l’«incontro», riuscendo a liberare, attraverso la sua carica critico-decostruttiva, il pensiero dal pregiudizio razionale, ripristinando così le infinite possibilità del Reale: la filosofia interculturale, attraverso la pratica inter ed intra culturale, riconduce l’uomo all’essere umano, svincolandolo da ogni sovra-struttura e sovra-valore. Soltanto nel momento in cui l’uomo recuperi la sua integrità, la falsa, astratta universalità proposta dal contesto attuale della Globalizzazione, potrà riacquistare la propria «reale» autenticità trasformandosi in solidarietà:
Con la sua scelta decisa e radicale a favore delle differenze culturali, la filosofia interculturale si comprende come un contributo per la riorganizzazione delle relazioni fra le culture e i popoli quale alternativa alla globalizzazione neoliberale. La sua scelta a favore delle culture è così una presa di posizione contro il processo di omogeneizzazione e di esclusione che oggi si impone. […] L’interculturalità si propone, quindi, come un’alternativa che permette di riorganizzare l’ordine mondiale, in quanto insiste nella comunicazione positiva tra le culture intese come visioni del mondo e sottolinea che la cosa decisiva consiste nel lasciare liberi gli spazi e i tempi, affinché le «visioni» del mondo possano convertirsi in mondi reali. L’alternativa proposta dall’interculturalità implica pertanto una nuova comprensione dell’universalità, poiché si tratta di un’universalità che presuppone la liberazione reale di tutti gli universi culturali e che, perciò stesso, non s’impone mediante il potere di nessun centro, né si ottiene all’alto prezzo della riduzione e del livellamento di ciò che è differente, ma cresce dal basso come un tessuto di comunicazione libera e solidale. Da tale prospettiva la proposta alternativa dell’impostazione interculturale si può riassumere in una frase: rinnovare l’ideale dell’universalità come prassi di solidarietà tra le culture.12
Si tratta di accogliere il «volto» dell’Altro e decidere di dialogare. Si tratta di smantellare un mondo e imparare a convivere.
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Raul Fornet-Betancourt, Trasformazione Interculturale della Filosofia, Dehoniana Libri - Pardes Edizioni, Bologna 2006. ↩︎
-
Ibidem. pp. 34-35. ↩︎
-
Ibidem. p. 39. ↩︎
-
Ibidem. p. 40. ↩︎
-
Ibidem. p. 41. ↩︎
-
Ibidem. p. 53. ↩︎
-
Ibidem. p. 64. ↩︎
-
Ibidem. p. 82. ↩︎
-
Ibidem. pp. 82-83. ↩︎
-
Ibidem. pp. 126-127. ↩︎
-
Ibidem. pp. 129-130. ↩︎
-
Ibidem. pp. 140-141. ↩︎