A che punto d’indifferenza possono arrivare certe persone, a che profonda certezza di aver perduto per sempre il giusto sentiero.
Uno sbaglio. Non era la mia porta, su in quel lungo corridoio, quella che avevo aperta. «Uno sbaglio» dissi e volevo subito uscire.
— F. Kafka, Quaderni in ottavo
1. L’ultimo «idolo»
«Io la conoscevo bene» — non è solo il titolo di un film, o l’inizio di un necrologio.
Degli altri, sappiamo sempre abbastanza. Mai troppo. La vicina, l’amante, l’amico di una vita, smentiscono facilmente le nostre previsioni. Basta una parola, un comportamento sospetto, e abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a un estraneo. Spesso ci stupiscono, gli altri, come se li vedessimo per la prima volta: il pudore di un sentimento cancella per sempre i tratti spigolosi di un volto, la durezza di una reazione ci disorienta ecc. E ci sentiamo traditi da un amore o dal tono secco che lo mascherava, ingannati forse dall’abito sociale che sembrava vestire a pennello la nonna o il pugile.
Ma siamo sicuri che sia l’altro a ingannarci?
Anche sulle nostre esperienze socio-affettive c’illudiamo. Un po’come ci sbagliamo quando prendiamo un manichino per una persona.
Quanto è individuato il nostro sentire? Quanto, invece, ricoperto dalla crosta delle apparenze sociali? Difficile discriminare. L’ombra dell’anonimia ci segue, come esseri naturali e sociali. Eppure esistono relazioni mature. Sono quelle che esprimono i tratti autentici del volto di una persona. E forse sono meno noiose dei balli in maschera.
Abbiamo pensato certo, e Descartes più di altri, che la percezione interna avesse un enorme vantaggio su quella esterna, la sua evidenza, ma le indagini fenomenologiche sull’intersoggettività e sulla conoscenza di sé (e degli altri), hanno rovesciato anche l’ultimo idolo. Così Scheler adatta la «pars destruens» del Novum Organum alla realtà psichica, e la libera finalmente dal silenzio cui sembrava destinata: «Ciò che Bacone ha intrapreso per la sfera della percezione esterna sarà tentato in quanto segue per la sfera della percezione interna e per la percezione di sé. Non c’è forse impedimento di principio maggiore per ogni tipo di conoscenza del mondo psichico dell’assunto di molti ricercatori e filosofi del presente o del più recente passato secondo cui la percezione interna, a differenza di quella esterna della natura, non può ingannare»1
Negli Idoli della conoscenza di sé, coevo alla prima edizione di Essenza e forme della simpatia (1913, 1923), Scheler indaga la realtà psichica e le sue relazioni essenziali. Sono lavori straordinariamente attuali, se pensiamo soprattutto ai recenti studi di Social Cognition.
Per certi aspetti, le sue ricerche sulla psicologia pura e la coscienza della soggettività altrui si accordano con quelle di altri fenomenologi che, sulle tracce di Husserl, si occupano della costituzione di un mondo oggettivo (il carattere pubblico degli oggetti percepiti) e dell’individuo psicofisico, ovvero del contenuto della coscienza primaria io-tu. Stupiscono, in particolare, le assonanze con Merleau-Ponty, le cui ricerche hanno trovato ampie conferme empiriche.2
Tuttavia, Scheler firma di proprio pugno una transizione fondamentale: sposta l’attenzione dall’intersoggettività come fenomeno sociale di base, o più evoluto — nella forma standard di una serie di pratiche e credenze condivise — alla conoscenza di sé e degli altri, e alle sue illusioni, spesso favorite dalle emozioni primitive o dall’intenzionalità collettiva del «man» (quella che Heidegger tratterà in questi termini). La sua, dunque, si caratterizza come un’indagine sull’identità personale quale risultato, mai definitivo, di una maturità affettiva e della relativa crescita di una vita, nel compimento d’atti liberi che includono l’impegno con se stessi e con la società.
Scheler descrive lo sviluppo di quella che vorrei definire «competenza assiologica»: la capacità di cogliere, nel sentire (Fühlen), le qualità di valore (e disvalore) dell’intero d’appartenenza (un oggetto, una persona, un ambiente) e di rispondere loro adeguatamente; e insieme di vivere, e approfondire, un’autentica relazione interpersonale — la conoscenza di un individuo e del suo mondo, la capacità d’intuire i fili invisibili che muovono un’esistenza, o la sua destinazione individuale (Bestimmung).
Da questo punto di vista, la relazione tra percezione e movimento, l’idea che presupposto della prima sia l’intenzione di movimento e d’espressione,3 non rimane confinata alla sfera del riconoscimento della soggettività del corpo (proprio o altrui), ma si estende — con alcune variazioni — a quella dell’individuazione secondaria. Anche l’esperienza di chi siamo noi la scopriamo nel venire a espressione di quanto rimaneva nascosto nel «cuore», e implica al tempo stesso la capacità di «leggere» nel comportamento altrui, senza scadere in un mero comportamentismo o in una forma d’adattamento sociale.
Come scrive il poeta:
Se vuoi conoscere te stesso, osserva quel che fanno gli altri, se vuoi capire gli altri, guarda in fondo al tuo cuore.4
2. Cognizione sociale e disturbi della socialità
In termini scheleriani, il sentire è una singolare «funzione» della percezione assiologica (Wert-Nehmung) che accompagna, anzi precede nell’ordine di fondazione, la percezione ordinaria (Wahr-Nehmung) come base d’ogni presa di posizione nei confronti della realtà. Nella forma più elementare, caratterizza l’apertura al mondo (nelle sue qualità dinamiche ed espressive) dell’individuo appartenente a un contesto sociale primario, in cui prevalgono forme di riconoscimento implicite e fondate sull’automatismo dei processi vitali, là dove la distinzione io-tu ha il grado massimo di astrazione o indica la relazione nel suo stesso costituirsi. Infatti, «il sapere mediato intorno agli altri, sapere che ha luogo nella forma di raggruppamento della “società”, presuppone il sapere, in larga misura immediato nella sua datità, che intorno all’altro possiamo ottenere soltanto nella “comunità di vita”».5 Si tratta di tutti quei fenomeni — il legame vitale con la natura e la collettività, l’ambiente familiare, ma anche casi limite del contagio affettivo, la fase emergente del bambino o i fenomeni di psicologia delle masse — che si manifestano in una fase pre-personale del vivere insieme e che condividiamo con gli animali.
Al mito di una coscienza trasparente ma solipsistica, si sostituisce quindi il principio della sua socialità. La datità dell’altro e dei suoi vissuti (in Scheler, come in Merleau-Ponty) si offre in un’intuizione diretta, non richiede cioè un resoconto cognitivo, a differenza di quanto sostengono, sul piano psicologico, i teorici del TOMM (theory of mind mechanism).
In generale, la «teoria della mente» riconosce la competenza sociale nella capacità di attribuire agli altri determinati stati mentali, intenzioni, credenze, desideri ecc., in base ai quali è possibile prevedere il loro comportamento. Secondo quest’approccio, il deficit specifico dell’autismo consiste in una sorta di mindblindness,6 ovvero nell’incapacità di sviluppare i processi cognitivi che permettono di spiegare e comprendere le altre menti; in definitiva, di muoversi con disinvoltura nel mondo sociale. La prospettiva di Scheler, al contrario, si presta meglio al dialogo con le contemporanee ricerche sui neuroni mirror, perché ammette una comprensione immediata della datità estranea.
In una versione strettamente neurofisiologica, la percezione dell’altro potrebbe manifestarsi nel meccanismo della «simulazione incarnata» (embodied simulation),7 di cui i neuroni specchio costituiscono il correlato neuronale, o almeno una parte. L’autismo (ma anche certe psicosi come la schizofrenia) sembrerebbe allora tradire un’anomalia nello sviluppo di questo dispositivo funzionale, o della «sintonizzazione degli affetti» (attunement), la risonanza tra il corpo proprio e quello altrui, già presente nella relazione del neonato con la madre.8
In altre parole, nella comprensione delle relazioni sociali è coinvolta la percezione assiologica, nella forma di quel sentire originalmente offerente, o percezione affettiva (Fühlen), rivolto alle qualità di valore (da quelle sensoriali-vitali, utili o dannose dal punto di vista biologico, a quelle della personalità, come la grazia di una persona o la delicatezza di un sentimento).
3. Dal meccanismo della simulazione alla competenza assiologica
Accogliere la teoria della simulazione come forma originaria dell’intersoggettività, dunque come base di relazioni sociali più complesse, non significa ancora vedere nella vera e propria competenza sociale (la consapevole assunzione di un ruolo sociale, le interazioni umane mediate da processi simbolici e cognitivi ecc.) la condizione necessaria e sufficiente della conoscenza interpersonale. O meglio, il «meccanismo» della simulazione-sintonizzazione che coinvolge essenzialmente gli affetti vitali, e l’attività dei neuroni specchio, come «una sorta di bioindicatore delle competenze sociali umane»,9 potrebbero costituire — in via approssimativa — il nucleo, sia della «cognizione sociale» (strategie d’interazione più sofisticate), sia di quella «assiologica». Un sapere, il secondo, che presuppone una vita affettiva più articolata, dotata di una logica propria e capace di strutturarsi anche in base ai soli contenuti non concettuali della coscienza (in anticipo su quelli figurali o rappresentazionali). Se il campo sociale è un campo espressivo, la competenza assiologica ne estende i confini, rivelando nuove modalità d’interazione, e introduce soprattutto alla sfera delle «coscienze individuali».
In accordo con Scheler, la mia ipotesi è che la conoscenza di sé (e degli altri) si distingua dalla coscienza (implicita o esplicita) degli altri soggetti e dell’ambiente psichico di riferimento; che la competenza assiologica, intesa come un esercizio maturo del sentire, nel compimento degli atti che afferrano l’ordine di priorità tra i valori e, soprattutto, nella scoperta di nuovi e più alti valori dell’altro — nell’atto di amare10 — costituisca il fondamento di un’autentica relazione, intersoggettiva o interpersonale.
Nemmeno l’uso corretto dei pronomi personali o la capacità di mettersi nei panni dell’altro garantiscono il passaggio da una conoscenza formale io-tu a un’esperienza concreta dell’altro individuo; dell’altro (e di se stessi) come un intero, uno sfondo, rispetto al quale è possibile discernere il vissuto altrui (e il proprio). Se il linguaggio permette relazioni umane più creative, ed è uno strumento indispensabile per sfuggire al «qui ed ora», e raccontare la propria storia, può nondimeno costituire un ostacolo per la reale comprensione di sé e degli altri, un idolo della conoscenza delle persone come tali. Non a caso, proprio nella fase verbale del bambino, intorno al secondo anno, può verificarsi una scissione nell’esperienza del sé e dell’essere con altri, nella transizione dal campo esistenziale e immediato, tipico delle fasi precedenti, a quello più astratto del linguaggio. L’uso del linguaggio, appunto, consente di trascendere la realtà, ma anche di distorcerla ed è in questo spazio vuoto che possono manifestarsi, ad esempio, le «costruzioni nevrotiche».11
A maggior ragione, la competenza sociale nei termini del TOMM, quindi la capacità di formulare, in maniera più o meno meccanica, teorie sulle menti altrui, non è il pre-requisito di un’esperienza piena degli altri; lo dimostrano i casi di persone autistiche, costrette a ricorrere a strategie di questo tipo per orientarsi nel mondo sociale. Come scrive Stanghellini, «senza emozioni il mondo perde di realtà, diviene un «palcoscenico» — una rappresentazione, un gioco in cui le regole possono essere fatte e disfatte come si vuole.»12 E non sottovaluta, certo, la «magmatica emotività» che può nascondersi sotto il manto raggelato di certi comportamenti.
L’ipotesi di lavoro indicata diventa plausibile, se ammettiamo che la percezione sia amodale. Non solo possiamo tradurre l’esperienza percettiva da una modalità sensoriale a un’altra, ma possiamo anche afferrare immediatamente la struttura dinamica di un organismo e del suo ambiente tipico, in un’intuizione complessiva assiologica che ne anticipa la realtà «oggettuale», e il senso, prima che si cristallizzi nelle formule ufficiali. In ogni caso, siamo di fronte a un atto unitario, la cui forma globale è pre-data rispetto ai singoli contenuti, sensoriali, affettivo-volitivi o concettuali.
Si tratta, in altri termini, di valorizzare l’insegnamento della psicologia della Gestalt: l’intero non si risolve nella somma delle parti. In effetti, Scheler non parla mai di «meccanismo» (il caos delle sensazioni o l’orientamento di un’inclinazione verso un fine definito), nemmeno quando si riferisce alle forme primitive dell’intersoggettività. E questo, per certi aspetti, lo allontana dalla teoria della simulazione che, nella comprensione pragmatica dell’agire altrui, riconosce un vero e proprio meccanismo. La risonanza affettiva, nel linguaggio scheleriano, è piuttosto un automatismo (nella misura in cui siamo dotati di un apparato corporeo-sensibile) che segue, tuttavia, un criterio teleoclinico: il fine di una tendenza (ad esempio all’imitazione) non è mai prederminato, ma si configura nel movimento stesso del tendere, nell’orientamento «preferenziale» — in senso debole — verso una serie di valori, non necessariamente distinti, che delimitano l’ambito apriorico dei possibili comportamenti. Rimane sempre, per così dire, un margine d’imprevisto.
La competenza assiologica non è un «algoritmo affettivo», non semplifica le relazioni umane, anzi, le mette alla prova. L’abilità sociale, la magistrale interpretazione di un ruolo e la comprensione delle azioni altrui in base a scopi (o meccanismi teleologici), in fondo l’adattamento sociale, tutto questo non impedisce che intere regioni della nostra esistenza — e del regno dei valori — rimangano inesplorate: quelle meno legate alla sopravvivenza. Le stesse che nutrono, se coltivate, la nostra vita con gli altri, le danno il sapore dell’imprevisto, e a volte fanno saltare i binari che il senso comune (intercorporeità o significati condivisi) allinea per noi.
4. Il filo del gomitolo
Come dipanare il gomitolo in cui sembriamo avvolti nella vita quotidiana? Non solo quindi nella fase pre-personale del sé, ma anche nei momenti in cui ci smarriamo nel mondo del «man», cioè spesso. Come ritrovare il filo che permette di uscire dal labirinto degli idoli della conoscenza di sé? Nessuna formula magica. Ci mancherebbe! Solo qualche passo in direzione di noi stessi e degli altri, dei mondi interpersonali.
Nella convinzione che, in questo viaggio, sia utile scavare al confine tra Scheler e Merleau-Ponty, e senza alcuna pretesa d’essere esaustiva, vorrei mostrare che:
- La realtà, in quanto unità di senso, è più ampia dell’ambiente (fisico o psichico); lo avvertiamo nella pienezza di certe esperienze, quando avanziamo nella conoscenza di noi stessi e degli altri, e il mondo, a poco a poco, si schiude.
- La struttura formale «organismo»-«altro»-«ambiente» appartiene al vivente in quanto tale. L’individuo umano, nello specifico, è un essere profondamente sociale, fin da quando è «in fasce». Vive immerso in un flusso di credenze e desideri, di abitudini motorio-comportamentali.
- Proprio per questo il modo in cui un vissuto si manifesta può essere ingannevole e lo sfondo qualitativo dello spettacolo, in cui siamo coinvolti, può rimanere offuscato dalle immagini sociali prevalenti. In alcuni casi la direzione della percezione, in particolare del sentire che, nella ricezione del contenuto assiologico, dona «sangue e vita» alle nostre esperienze, può subire inversioni. Le illusioni possono assumere la forma dei più comuni fenomeni psico-sociali, come nel contagio affettivo, ma anche quella di fenomeni psicopatologici, come nella cecità emotiva. Il concetto di «direzione d’illusione»13 permette di cogliere la linea sottile che li separa ma scopre, insieme, la vulnerabilità delle nostre esistenze.
- In linea di principio, possiamo sempre approfondire la conoscenza di noi stessi e degli altri, ma anche smarrirci nel labirinto sociale o nel mondo come «rappresentazione». Possiamo addirittura non «incontrarci» mai, né con noi stessi, né con gli altri: perdere per sempre il giusto sentiero o aprire la porta sbagliata. Possiamo aprire infine un varco verso gli altri, e ritrovarci, oltre le convenzioni sociali e, in casi eccezionali, a dispetto di una profonda «disabilità» sociale, che sembrava segnare il nostro destino, ma non la nostra destinazione.
Tutto questo vale come una conferma del fatto che la fenomenologia, o è incarnata, o non è. Per dirla con Merleau-Ponty:
Le essenze di Husserl devono ricondurre con sé tutti i rapporti viventi dell’esperienza, come la rete porta dal fondo del mare i pesci e le alghe palpitanti.14
5. La rete
In quanto atto unitario, la percezione appare come un’immensa rete, i cui anelli — e con loro la struttura della coscienza — si manifestano «progressivamente», per dissociazione, nel corso dello sviluppo e del reciproco adattamento organismo-ambiente. Questo significa che non esiste una sensazione isolata, intesa come un’esperienza puntuale e simultanea; al limite, sarebbe più adeguata a un adulto che a un bambino, a una struttura tardiva della coscienza, in cui le maglie della rete sono più evidenti e «la percezione è più strettamente legata all’eccitante locale».15 Del resto, non esiste nemmeno una singola unità assiologica e di significato (un oggetto, o un individuo, e il suo valore) separata da un sistema più complesso di relazioni.
Nella sua accezione più ampia, dunque, la percezione assume sempre una direzione verso l’intero, un altro essere, un ambiente, un mondo, anche quando si manifesta in modo più o meno vago.
Quanto alla sfera propriamente umana, il fatto che in determinate circostanze l’attenzione si concentri su un particolare, scambiando la parte per il tutto, o miri «ciecamente» al dettaglio, come all’elemento capace di suscitare determinati stati di piacere o dispiacere, tutto questo è solo il segno di una «perversione» — direbbe Scheler — della vita affettiva e volitiva, e del conseguente arretramento rispetto ai fenomeni; di un ripiegamento del soggetto su se stesso. È la vittoria per così dire della sensazione muta sulla relazione dinamico-espressiva con la realtà; per altri versi, quando si tende a racchiudere la realtà in una formula impersonale, quella di un intellettualismo che la modella nei termini di una conoscenza oggettivante.
Il primo caso, in forma naïve, lo esemplifica un fenomeno di massa come il consumismo, che tende a svuotare l’oggetto delle qualità che non procurano un piacere immediato e, nella soddisfazione apparente, rinnova il bisogno d’appagamento. Il secondo caso, invece, lo esemplifica il «soggetto pensante acosmico»16 che conferisce coerenza alla molteplicità di stimoli e sensazioni con una forma imposta dall’esterno, o con un giudizio, che rende possibile la percezione e la comunicazione, ma elimina, con la sensazione stessa, l’intera sfera affettiva e le correlative qualità dell’oggetto. Il razionalismo di Descartes o di Kant — per Scheler e Merleau-Ponty — non così distante da certe versioni austere di cognitivismo, o quello di chi ricostruisce il mondo, addirittura le persone, in una serie di proprietà concettuali, magari in un giudizio universalmente valido, perché purificato da ogni inclinazione. Così però la percezione assume una funzione meramente esplicativa, non s’interroga su se stessa e finisce per indicare, in modo generico, un’attività di collegamento che mette ordine nel caos. Il rischio, di conseguenza, è quello di non distinguere più vedere e sentire da «credere di vedere»,17 perché manca il criterio di correttezza del giudizio che, in effetti, non può essere ridotto alla sua forma.
Occorre un contenuto, allora, capace di regolare dall’interno i nostri vissuti: il reale con tutte le sue qualità.
6. Lo «sfondo assiologico»
La dissociazione della rete evoca — in negativo — la pienezza della realtà complessiva, immediatamente colta nel sapere «estatico» del mondo che ci avvicina agli animali, quando un richiamo assiologico suggerisce un orientamento, sia pure in modo vago. Avvertiamo allora il senso di una ricchezza qualitativa, che va sfumando nel corso dello sviluppo; il contenuto intuitivo di un intero che, nelle salienze (negative e positive), parla di sé e invita alla ricerca — o alla fuga. Indica possibili direzioni di amore o di odio.
Se anche bambini molto piccoli «sono capaci di percepire una forma toccando un oggetto, ciò significa che essi sanno come deve essere l’oggetto senza averlo mai visto prima.»18 Non è necessario, quindi, aver vissuto la stessa esperienza, per afferrare il senso di una situazione (pericolosa o meno) o di un oggetto (nella sua fisionomia circolare o conica), indipendentemente dalla modalità sensoriale che si attiva. La percezione assiologica anticipa lo scenario della realtà, afferrandolo come campo espressivo di un unico cosmo animato.19 Per questo il bambino, l’artista o chi, per un momento, soffia via la patina del quotidiano e penetra nel cuore delle cose, le sente vive. Con Rodin — «Ogni cosa è solo il limite periferico e la forma-limite (Grenzgestalt) della «fiamma» che essa pone nell’esistenza.»20
È lo stile fisionomico delle cose che, primariamente, attrae o respinge, non il loro il loro essere dei manipulanda. L’azione, infatti, nello schema corporeo, presuppone un fine immanente al tendere, ma il tendere si fonda su un contenuto assiologico, cui è estraneo ogni finalismo in senso stretto. Sono le qualità che disegnano le linee di tensione di un campo, loro che orientano a un valore, attorno al quale poi si polarizzano, rivelando l’atmosfera di un ambiente, la vitalità di una fiamma, o la ripugnanza di un individuo, dal quale siamo ormai lontani e che forse non identificheremo mai… eppure qualcosa ci aveva avvertito della sua presenza. Un ambiente fisico o psichico può essere allegro, ma l’atmosfera predominante lascia co-percepire altre sfumature che annunciano un valore e, nel valore, l’oggetto: una tigre, o un becchino. Qualcosa rimane in ombra perché lo sfondo è inevitabile: permette di percepire. Nel gioco figura/sfondo, anche la percezione più semplice ha già un carattere relazionale.
Consideriamo una macchia rossa su uno sfondo omogeneo: «Che una qualità, che una regione di rosso significhi qualcosa […] equivale a dire che il rosso non è più soltanto quel colore caldo, esperito, vissuto, nel quale io mi perdo, ma che annuncia qualche altra cosa senza includerla, che esercita una funzione di conoscenza e che le sue parti compongono insieme una totalità alla quale ciascuna si collega senza abbandonare il suo posto».21
La qualità rosso non è un quale. Mantiene quella tonalità calda, che si manifesta però come una caratteristica del colore; ciò non toglie che io stesso avverta il rosso come caldo. Inoltre, il colore non è una macchia solitaria, ma fa parte di un insieme (un tappeto, una stanza, un individuo ecc.) di cui costituisce una parte non-indipendente, ed è questa totalità che io colgo. Non avverto sensorialmente ogni punto della figura e dello sfondo che, a loro volta, non sarebbero percepiti che su uno sfondo, afferro invece l’insieme che si annuncia nel rosso — la macchia, infatti, appare sullo sfondo, eppure non lo interrompe: dietro la macchia esso continua. E il rosso percepito mi appartiene soltanto come «parte intenzionale».22 Questa piccola esperienza dice che la percezione non implica soltanto la relazione del percepito col percipiente, ma anche un contesto. Una macchia rossa completamente isolata non sarebbe percepibile: «Il “qualcosa” percettivo è sempre in mezzo ad altre cose e fa sempre parte di un “campo”».23 E nel contesto percettivo, ammette una certa ambiguità, o il «mosso».24
Il campo espressivo, da cui siamo partiti, così familiare al bambino, include il caldo vivace (la vitalità della fiamma) che anticipa il colore — e la cosa — e una serie di sfumature, quindi unità assiologiche e oggettuali, suscettibili di essere scoperte.
Generalizzando, possiamo interpretare ogni successivo ambiente, e il rispettivo io corporeo (dall’organismo al soggetto psico-sociale) come un campo meno esteso — o una rete più definita — con le relative figure sullo sfondo originale. I limiti del campo, del resto, possono variare. Se consideriamo l’ordine di costituzione, allora è evidente la pre-datità del campo espressivo su quelli fisici e psichici. Lo sfondo assiologico, nella sfera espressiva, appare come un immenso spazio cosmico immediatamente vissuto, a livello vitale, dal quale le figure (le unità assiologiche, poi di significato ecc.) lentamente emergono. L’ultima forma dell’ambiente, quello sociale, avrà uno sfondo assiologico sempre più piccolo e sempre più vago, nella misura in cui aumentano le sue figure. Tuttavia l’ambiente sociale, che sulla comunità di vita si fonda, incarna — nella figura — un «fenomeno periferico», la soglia, per così, dire di una realtà più estesa. Non possiamo abbracciarla con lo sguardo, eppure ci muoviamo in quella direzione, ogni volta che oltrepassiamo la soglia. Stavolta però la porta non si apre sulla comunità di vita ma, nei casi felici, sul mondo: quello delle relazioni interpersonali mature, dei legami morali, giuridici e culturali, nel rispetto delle coscienze individuali.
È nel mondo delle persone allora che possiamo riconquistare, a un altro livello, ampi strati di quella natura animata che, in fondo, dà corpo alle nostre esperienze e, nel sentire, ne costituisce lo sfondo di familiarità — e di possibile stupore.
Nei termini di Merleau-Ponty:
ogni oggetto culturale rinvia ad uno sfondo di natura sul quale appare e che del resto può essere confuso e lontano. Sotto il quadro la nostra percezione sente la presenza vicina della tela, sotto il monumento quella del cemento che si disgrega, sotto il personaggio quella dell’attore che si affatica.25
La cornice di un dipinto, ad esempio, è il «limite periferico» di un infinito campo espressivo, di cui il particolare contenuto raffigurato (un soggetto e/o un ambiente) è solo una figura su uno sfondo. Dallo sfondo, tuttavia, possiamo attingere nuove informazioni. Spostando i confini, nella ricezione di nuove qualità assiologiche — nuove essenzialità — l’individuo matura. Avverte la pienezza di ciò che, in primo luogo, si offre alla percezione affettiva; l’essere più o meno adeguato di un’esperienza vissuta, indipendentemente dalla completezza degli aspetti empirici e delle proprietà concettuali di un oggetto, che solo una conoscenza onnivora potrebbe raccogliere.
6.1. Anteprima: I mondi interpersonali
Ancora un piccolo esempio, tratto però da «I mondi interpersonali». Una relazione tra individui in «carne ed ossa». Ricordiamo: i limiti del campo possono variare…
L’ambiente: paesaggio «d’aria e di luce».
È un giorno ventoso di primavera. Passeggio lungo un viale alberato, quando il mio sguardo cade su una figura familiare. Mi «avvicino» per vederla meglio, anzi la fisso. Noto i suoi occhi arrossati, gonfi di pianto, e penso sia colta da un’improvvisa allergia: il polline si abbatte impietoso sulle nostre teste, scivola nelle narici. Io stessa starnutisco. Di colpo indietreggio. Ecco, ora la vedo! È lei (o lui)! Vedo il suo corpo «in lontananza», sullo sfondo di quel mondo fior di farina che ora ha il suo sguardo, la commozione di una persona che non l’aveva dimenticato. E dopo anni, torna. Per un attimo la ritrovo anche nel mio, di mondi.
7. Io-tu-ambiente-mondo
Il fondamento (nel senso di Fundierung) della datità dell’altro — e la più antica capacità d’«identificarsi» con un organismo nel suo ambiente — Scheler la definisce «unipatia». Si tratta di un processo di reciproca fusione26 affettiva, nel quale due «io» si costituiscono. L’atto sessuale, ispirato dall’amore, ne rappresenta la forma più elementare, sul piano umano. Simile all’unipatia, per certi versi, la «simpatia» istintiva degli insetti, che precede il riconoscimento dell’individuo in quanto tale. Potrebbero addirittura non essersi mai visti, due insetti, e nondimeno «incontrarsi» in un ambiente esemplare.
Nel regno animale, l’imenottero «fiuta» istintivamente la fragilità del bruco (e il bruco, probabilmente, si scopre nel fiuto altrui): l’avverte nel suo processo vitale, nella sua struttura dinamica che si articola, appunto, secondo le direzioni dell’ambiente tipico. È in grado così d’immedesimarsi nella vittima e di paralizzarla senza ucciderla, per deporvi le uova. Non ha una chiara coscienza dell’estraneo, ma una «coscienza vitale» (Vitalbewußtsein); quella che, nell’essere umano, indica una zona media, tra la coscienza del corpo (Leibbewußtsein) e il centro personale (geistiges Personzentrum), là dove i processi si svolgono secondo una precisa «causalità», diversa dal meccanismo associazionistico e di contatto, e dalla motivazione, che riguarda gli atti in senso stretto. In altre parole, non siamo di fronte a un’attività diretta a uno scopo. Identificandosi con la vita del bruco, seguendo il ritmo dei suoi impulsi primitivi, appetiti, timori ecc., l’imenottero intuisce il «senso» del loro «valore biologico»27 — prima dell’esperienza della loro utilità effettiva. Sarà il corpo in azione, di fatto, a tracciare i confini del proprio territorio, sullo sfondo di una realtà più vasta, i cui valori «si perdono» nell’oscurità.
7.1. Non solo imenotteri…
Ma esistono anche le «api esploratrici» che, animate da uno straordinario spirito d’avventura, anticipano nuovi «incontri» e nuove nicchie del reale, avvantaggiando così le più caute «api raccoglitrici»: «per le prime i colori e gli odori dei fiori sono «richiami», per le seconde sono «segnali»».28 Le prime, cioè, non sono strumentali. Sono «attratte» da una serie di qualità, forse mosse da un amore sconosciuto; solo più tardi l’odore rinvierà al fiore e al nettare, e sarà in grado di soddisfare i loro bisogni. Sono le api «amanti» che spostano i confini dell’ambiente verso il mondo, anche se loro, appunto, non lo sanno.
Nella vaga aspirazione, tuttavia, o nella coscienza vuota di qualcosa, sia le «api esploratrici», sia l’imenottero, meno poetico, confermano la percezione dell’altro e di una comunità di vita. In un certo senso, il «fenomeno del vuoto» e il possibile riempimento dell’aspirazione — «Ecco, era il bruco che cercavo! Era il fiore!» — mostrano già l’infondatezza del solipsimo di Robinson Crusoe, nel noto esperimento mentale.29
7.2. Robinson
È un Robinson completamente isolato, del tutto privo d’esperienze sociali. Non ha idea — nemmeno la più pallida — dell’esistenza o dell’essenza d’altri esseri umani e di comunità d’individui simili a lui.
Ebbene, anche quel Robinson avrebbe un’evidenza intuitiva del tu in generale e della sua appartenenza a una comunità. Sentirebbe un «vuoto del cuore» per così dire, o sarebbe «cosciente» della non-esistenza di qualcuno: quel tu che un atto emozionale — la compassione o l’amore per altri — richiederebbe per essere compiuto.
Sarebbe dunque «un grosso errore dire che un essere capace soltanto di sentire (fühlendes), amare, odiare e volere (in cui non vi fosse traccia di comportamento teorico, ossia oggettivante, non potrebbe avere alcuna evidenza dell’esistenza d’altre persone. Per la via indiretta della relazione essenziale che lega l’una all’altro l’esistenza e l’esser-valore […] un essere simile […] potrebbe benissimo stabilire anche l’esistenza di qualcuno, verso il quale ha delle responsabilità, dei doveri, o per il quale prova simpatia.»30
Un’ape amante potrebbe avere l’«evidenza» d’altre api e d’altri fiori, e di spazi più estesi di quello pragmatico delle «api raccoglitrici». L’apertura alla realtà, che l’ape scopre nell’attimo stesso in cui risponde al richiamo, è paragonabile, nell’adulto umano, all’atto di amare rivolto a una persona: in lei «vede» il mondo nel suo mondo, ossia l’intero. Del resto sono già «vedenti», nel senso di un orientamento teleoclinico al valore,31 anche l’attrazione, l’impulso primitivo di un vivente e, a maggior ragione, i moti tendenziali. Sarebbero «ciechi» come lo sarebbe un atto d’amore, se fosse misurato secondo le leggi della logica, e non secondo le proprie, non meno rigorose. A prescindere dai vincoli imposti dalla relatività esistenziale, l’amore e l’odio scandiscono il ritmo d’ogni passo assiologico, quindi anche della funzione del sentire implicita in ogni forma di simpatia:
l’amore e l’odio fondano ogni altra specie di coscienza del valore (sentire, preferire, giudizio di valore), tanto più ovviamente ogni aspirazione e tendenza, che a loro volta si fondano sul possesso d’un valore. Ogni essere aspira a quel che ama, e tende-contro ciò che odia.32
8. Capacità in disuso
Non sempre l’unipatia, in senso lato, sfocia nella completa fusione dell’io proprio con l’io estraneo. Solo nei casi limite di contagio affettivo viene meno anche la «coscienza vuota» dell’estraneo. Come capacità, infatti, è un’«apprensione distale di un altro essere»:33 indica una lieve dislocazione rispetto all’«altro», che rimane tuttavia indistinto, finché riflette semplicemente la struttura del suo ambiente. Indica, inoltre, un’apertura più ampia di quella permessa da una semplice modalità sensoriale, o da un contatto, in cui il sentito si confonde col senziente. Come la visione è un tatto a distanza, così la capacità d’unipatia si spinge più lontano della percezione-registrazione di un oggetto, anzi, la rende possibile, in virtù della componente assiologica.
Anche il bambino, del resto, ha già una vita propria, fin dai primi mesi di vita, sebbene si manifesti a se stesso come soggetto e, a maggior ragione, come persona individuata, nel corso delle interazioni con la madre e le cose che lo circondano, e poi crescendo, con un ambiente sempre più definito, un giorno col mondo. Esemplificando l’unipatia con la formazione del sé infantile, Scheler conferma la pre-datità dell’espressione sui contenuti concettuali (la risposta del bebè a un sorriso), e insieme presenta l’accoppiamento originario (mamma-bebé) come un caso paradigmatico della sfida che impegna ognuno di noi: liberarsi dagli idoli che ancora velano la conoscenza di sé. ll bambino — conferma Stern — è già sociale, addirittura prima che le esperienze si organizzino «in un’unica prospettiva soggettiva»,34 quindi non scompare mai nel rapporto simbiotico con la madre.
Di quest’atto «primitivo» — e della complessiva intuizione assiologica (realtà, valore e forma dell’oggetto, come un unico dato che spicca sullo sfondo del cosmo naturale) — che nel corso dell’evoluzione si è modificato profondamente, rimangono tracce anche nella percezione più matura. Un «minimo di unipatia non specificata è assolutamente costitutivo per l’apprensione di ogni essere vivente»35 e anche per esperienze socio-affettive più evolute, come la simpatia tra soggetti umani, ovviamente nella forma più elementare. Non a caso i modi del sentire con altri, che Scheler descrive secondo un ordine preciso al fine di chiarire l’esperienza dell’autentica simpatia (Mitgefühl), indicano il differenziarsi, nelle varie specie animali, di questa disposizione di base. Nell’essere umano, diversamente dall’animale, si è specificata ulteriormente, secondo le direzioni dell’ambiente psichico e delle relazioni fra gli individui a vari livelli d’esistenza, e si è «notevolmente offuscata».36
Più la rete si definisce nei punti di presa, che l’azione possibile sulle cose fissa nei nodi, e più si riduce la capacità di avvertire il tutto a cui siamo originariamente aperti. Traspare nella selezione sempre più esclusiva delle informazioni funzionali al riconoscimento degli oggetti, e all’orientamento nell’ambiente (anche psichico) che a poco a poco si configura.
9. Corpi e anime
Emergere dalla rete significa, in parte, spogliarsi della natura; passare dalla prima comunità di vita a forme di convivenza più definite dal punto di vista sociale e psicologico. Nel più evoluto sistema ambiente-soggetto umano, l’io altrui rimane, nel corpo, un piccolo campo animato, nel quale cogliamo immediatamente le sue esperienze, spesso modellate secondo gli schemi psico-sociali più comuni.
Se nel contatto vitale la natura si manifesta come un unico campo espressivo, sul cui sfondo si staccano le singole unità viventi; se il sapere intorno agli altri esseri psicovitali è cooriginario a quello sulla natura, allora anche lo psichico e il corpo vivo (Leib) — nell’essere umano — si manifestano primariamente in unità espressive. Muovendo dal sapere primitivo del cosmo animato, è possibile seguire, nelle sue fratture, le direzioni che esso assume, o le diverse forme di conoscenza: da un lato verso i corpi (Leib-körper), dall’altro verso le anime (Innenwelt), degli esseri umani.37 La percezione esterna e quella interna, così intese, non rinnovano un dualismo cartesiano ma, nell’orientamento dell’atto, confermano la realtà del contenuto intuitivo complessivo e le articolazioni della rete, ovvero, «la direzione di un’attività più critico-negativa che positiva».38
Orientamento verso l’esterno: verso la natura come totalità materiale indeterminata, unità cosale; e sullo sfondo, il singolo momento, ad esempio il corpo altrui e il nostro, quel corpo che è anche cosa (Körperleib). Orientamento verso l’interno: verso lo psichico, come flusso indistinto di vissuti; e sullo sfondo, il singolo momento psichico, ad esempio, l’io proprio o l’io altrui (Leibseele) con le relative esperienze. In un atto di percezione interna, dunque, A accoglie già l’io di B e la sua esperienza. Non deve ricorrere a processi analogici — inferire lo stato di B in base all’analogia tra le modificazioni corporee di B e quelle che si producono nel corpo di A, quando A si trova nello stesso stato.39 Inoltre, il fatto che il corpo vivo, proprio e altrui (Leib), si offra indifferentemente nella percezione esterna (come Körperleib) e in quella interna (come Leibseele), esclude che esso abbia un rapporto privilegiato con la seconda: non è necessario confrontare una mano sentita nella percezione interna con la mano vista in quella esterna: «è la “stessa mano” che io vedo qui e in cui trovo già lì questo dolore».40 Il problema è capire se sono davvero io che vivo quell’esperienza.
Certo, in condizioni normali non abbiamo dubbi. Del resto, quelle sensoriali, sono le uniche esperienze che rimangono chiuse nel corpo. Essendo localizzate e strutturate secondo le unità organiche, non possono essere sentite insieme con qualcuno, ma solo imitate.41 Il problema, semmai, si pone al livello in cui la coscienza della soggettività altrui, nei linguaggi e nelle pratiche, è parte di noi — e lo è in maniera esplicita — ovvero nelle forme quotidiane di convivenza. E si pone perché l’autentica appartenenza di un vissuto a un individuo non è garantita dalla percezione interna, nella quale, appunto, si dà anche l’esperienza altrui, la stessa che già «riconosco» sul piano vitale o, nella peggiore delle ipotesi, in un semplice giudizio sull’esistenza dell’altro.
Quali vissuti, allora, appartengono all’ambiente psichico in cui siamo immersi? Quali, invece, possiamo realmente rivendicare come «nostri»?
10. Le direzioni d’illusione prevalenti
La vita «anonima» non è solo quella del bambino ancora imprigionato nelle idee o nei giudizi «ereditati», ma anche quella dell’adulto, che spesso vive secondo i clichés dominanti.
Le illusioni sulla conoscenza di sé e degli altri si annidano nel punto di mediazione tra l’atto della percezione e il possibile contenuto, dipendono cioè dall’«analizzatore del percepire»,42 o senso esterno (nella percezione esterna), che ha il compito di selezionare quanto risulta significativo per l’essere vivente. Per la percezione interna Scheler parla, analogamente, di un «senso interno». Poiché l’effettiva percezione di un vissuto psichico si realizza soltanto se si traduce in intenzione di movimento e in espressione, dunque se comporta una qualche variazione dello stato corporeo, i vissuti che non riescono a superare «la soglia del senso interno»43 rimangono in una zona retrostante: un regno silenzioso ma popolato, suscettibile di essere illuminato, o espresso in parole nuove, capaci di risvegliare dal torpore delle abitudini pratico-biologiche.
È chiaro quindi — una volta in più — che il contenuto complessivo della percezione, non si riduce ai momenti puramente sensoriali o concettuali. Lo prova anche un postulato della psicopatologia, che Scheler sottoscrive: «nel contenuto della percezione normale è da considerarsi dato tutto ciò la cui mancanza patologica o il cui incremento o diminuzione modifica il contenuto della percezione in qualche direzione da accertare».44 Sebbene non si manifesti come un contenuto figurale, possiamo avvertirne la presenza, quando annuncia qualcosa di reale che rimane, tuttavia, indefinito. Si tratta correlativamente di quel sapere implicito, più esteso della coscienza-di, che ci accompagna nel corso delle nostre esplorazioni nel mondo, anche nelle fasi più mature della vita. Una coscienza tacita perciò, quella assiologica, che in alcuni casi può risultare in parte compromessa.
Il fatto che le qualità di valore svolgano soprattutto il ruolo di segnali per determinate azioni pratiche, o si riducano a gusci vuoti, una volta poste al servizio di determinati beni (soprattutto economici), e di significati verbali, coniati in funzione di quei beni e di quelle azioni, tutto questo non parla ancora contro la ricchezza assiologica dei fenomeni e delle possibili esperienze. Lo mostra anche l’arte, ogni volta che allarga le maglie della rete e permette, a livello d’individuazione secondaria, di scoprire nuovi sentimenti o nuove idee che, all’improvviso diventano pubblici. Così avanziamo nella conoscenza di noi stessi e degli altri. Un sentimento che sfugge alla «censura» del senso interno, e si traduce nell’espressione di un poeta, è un’esperienza «urbanizzata». Messo in circolo e assimilato, nulla esclude che possa usurarsi, come le frasi dei cioccolatini, e allora avrà bisogno di essere rispolverato, da un altro «scopritore»45 dell’anima e della realtà che ci circonda. Rimane un fatto: quel sentimento ora è alla «portata di tutti» perché qualcuno, un giorno, lo ha strappato «dal terribile mutismo della nostra vita interiore.»46
Nella vita ordinaria, però, i vissuti che hanno maggior visibilità, e buone possibilità di esser scoperti o riconosciuti in noi stessi, sono quelli che riflettono gli interessi vitali e sociali della nostra cerchia ristretta. Possono essere suggeriti dall’atmosfera generale che si respira, e il «contagio affettivo» non è affatto raro. Sebbene sia un processo involontario, può essere sfruttato dal volere cosciente, ad esempio, quando «partecipiamo a una festa […] “per distrarci” […] D’altra parte, la coscienza della possibilità del contagio dà luogo anche a una particolare angoscia del contagio, come accade in tutti i casi in cui uno […] evita l’immagine dei dolori […], cercando di tenerla fuori della sfera della propria esperienza.»47 Spesso «simpatizziamo» con gli altri, «sentiamo immediatamente-con» loro una sofferenza, o ne «ri-sentiamo» i vissuti solo perché siamo impigliati nelle reti emotivo-linguistiche, che la società getta sull’esperienza, e i vissuti si offrono come nostri solo «per via d’illusione».48 Pensiamo di amare una persona, ma siamo semplicemente attratti dal ruolo di prestigio che ricopre; «crediamo di essere tristi, quando seguiamo un funerale, sebbene uno sguardo dietro la periferia della nostra coscienza potrebbe mostrarci che non siamo affatto tristi […] Proviamo il sentimento, ma in modo “solo inautentico”: il sentimento è come un’“ombra” di quello vero. Così la serenità, sublimità o la tetraggine di un paesaggio […] sembrano traboccare in noi.»49
Di conseguenza, le illusioni più comuni sono quelle che si formano nell’orientamento spontaneo verso le cose e le persone, quando consideriamo «proprio l’estraneo».50 Non indicano ancora una patologia dell’intenzionalità, un’inversione della direzione del sentire, ma solo una prevalenza delle idee o dei sentimenti collettivi sui nostri vissuti più profondi e, in quanto tali, meno accessibili — anche a noi stessi. Accade perché la nostra esperienza e il nostro io sociale si configurano innanzitutto secondo le «direzioni del sentire del nostro ambiente»,51 o perché, in certi casi, la maturità affettiva di un individuo non corrisponde ai suoi dati anagrafici.
Anche il «contagio affettivo» come fenomeno di massa non è il segno di una rottura con la società, ma un processo amplificato di un’illusione di per sé naturale. È una sorta di reazione a catena che crescendo, tuttavia, si sposta pericolosamente verso l’identificazione. E dove viene meno la coscienza vuota dell’estraneo, gli effetti dell’intenzionalità collettiva possono essere tragici. La massa si nutre di se stessa, travolge e si lascia travolgere da progetti senza autore, cancellando ogni forma di responsabilità individuale, o nascondendola, così come nasconde la persona. Si spiega allora il ruolo che il «contagio» può avere nella formazione «dei movimenti psicopatici di gruppo».52
È possibile forse prevenire le illusioni, e le conseguenze di una vita emotiva contraffatta, liberando il pensiero dagli schemi convenzionali e «trasformando» il modo di sentire (Gesinnungswandlung, Herzenswandlung).53 Una delle sfide per ogni sapere di formazione, che non indietreggi di fronte alle scoperte scientifiche (ad esempio, della neuropsicologia dello sviluppo), è proprio quella di promuovere un’autentica competenza assiologica. Si tratta di affinare la sensibilità alle differenze dei valori, quindi dei vissuti, per imparare a vedere anche quelli che non comportano una variazione immediata dello stato corporeo e non hanno perciò una finalità pratica. Si tratta in fondo di esercitare la capacità di spostare i confini, anche quelli dell’io:
Per egocentrismo intendo l’illusione di considerare il proprio «ambiente» come il «mondo» stesso, ossia la datità illusoria del proprio ambiente come «il» mondo.54
11. Le inversioni della direzione d’illusione e le disfunzioni affettive
È vero, spesso siamo preda di un’illusione e tendiamo a vivere in maniera eccentrica rispetto al nostro io individuale, «importando» vissuti che non ci appartengono realmente. Questo però non accade sempre, altrimenti saremmo dei soggetti smithiani, che si lasciano plasmare dalla lode e dal biasimo di un «osservatore disinteressato»;55 oppure dei «vampiri», che si nutrono delle vite altrui.
Indipendentemente dai processi inconsapevoli, o dal peso che attribuiamo ai valori sociali e agli interessi pratici, una cosa è certa: nella maggior parte dei casi puntiamo dritti all’altro, così come puntiamo ai valori e alle cose. Ovviamente la direzione di un’intenzione muta (sono offeso «per» questo o per quello), e in parte dipende dalle variazioni individuali. Un moto affettivo può anche assumere una direzione centripeta, se si risolve in una reazione, tuttavia non viviamo di soli input sensoriali e nemmeno facciamo della realtà intera uno strumento di piacere (o dispiacere). È qui che per Scheler si gioca tutta la differenza tra la direzione di un’illusione prevalente e un’autentica inversione della direzione, di un comportamento cioè che tende al patologico, o davvero lo è: quando si considera «estraneo ciò che è proprio» o ci sente «tutt’uno con le persone estranee»56 — come nel delirio o nei casi limite del contagio — e quando si considera ciò che è realmente fisico come presumibilmente psichico e ciò che non è realmente psichico come presumibilmente fisico57 — come nei casi in cui si mettono i fenomeni al proprio servizio. Infatti, «in tutte le psicosi, in cui si verifica un’accresciuta eccitabilità del sentimento, perlopiù collegata con una durevole fissazione del malato sugli stati dell’io corporeo, avviene […] una siffatta inversione. L’intero ambiente con i suoi processi è «dato» qui solo come somma di mutevoli mezzi di eccitazione per i sentimenti e in particolare per i sentimenti corporei sensoriali del malato. Il mondo gli è dato realmente […] come la sua “rappresentazione”.»58
Ecco perché non c’è dualismo che tenga: chi rimane imprigionato nel corpo, rimane schiavo della mente, dei suoi film, e scivola in un idealismo che non ha nulla d’astratto, ma solo la concreta pesantezza di uno spettacolo che must go on, anche senza di lui. Un automatismo lo tiene in scacco. E via lui, via gli altri. Vivere soprattutto negli stati corporei, significa precludersi l’esperienza psichica delle altre persone, oltreché la propria.59 Non ha voce, il vissuto, né il suo né il loro. La relazione si spezza nell’inversione, e il dialogo possibile si trasforma in un monologo. Alla passività degli umori corrisponde l’attività frenetica di una mente solitaria. Come se potesse compensare in tal modo l’assenza di quel contenuto che, restituendo la parola ai vissuti, ne illustra la varietà e il carattere interlocutorio. Sulle qualità del reale, come sulle «note» di un enorme spartito, dovrebbe essere modulato il nostro sentire con gli altri. Anche quando si tratta di musica dodecafonica.
Si può essere vicini a se stessi, alla pancia e al prurito del naso, ma lontani dalle persone, estranei a se stessi:
Che lontananza reciproca […] tra ciò che uno esperisce vitalmente e ciò di cui, vivendolo, sa di poter «dire» che cosa vive.60
Il mondo dunque non è una rappresentazione,61 tanto meno si offre in una serie d’associazioni meccaniche che, girando a vuoto, indicano piuttosto un disturbo della percezione. Certo, è anche rappresentazione, così com’è espressione ed azione, nel senso però che possiamo dirlo, rappresentarlo, dipingerlo nei modi infiniti in cui lo abitiamo con altri. Possiamo anche negarlo, negando tutti, o criticarlo, per risvegliare, sotto i simboli che lo ricoprono, nuovi strati che lo rendano degno di essere abitato.
Le inversioni della direzione d’illusione prevalente mostrano, al tempo stesso, l’errore d’ogni teoria dell’empatia, intesa come proiezione dei nostri vissuti in altri. Essa non descrive affatto la normale comprensione tra le persone, ma indica già una tendenza contraria. Una sorta di «perturbamento della direzione del sentire»,62 che consiste nello spiare i nostri vissuti, invece di farli «retrocedere […] per ascoltare semplicemente l’altro»,63 il racconto dei suoi.
Un’autentica inversione può manifestarsi anche nella sfera pratica. Si comprendono così le patologie della vita volitiva, l’insistente concentrazione sui passi da compiere, per realizzare il contenuto di coscienza — il voluto — che invece sfuma. Ad esempio, il «malato, che “vuole” lasciare la stanza, indugia presso il contenuto “andare alla porta”, quindi “premere la maniglia” ecc.»64
Altre anomalie socio-affettive, che sembrerebbero coinvolgere esclusivamente gli atti emozionali superiori — l’atto di amare o la simpatia — rinviano al contrario a una disfunzione del sentire che, in quanto tale, si sottrae a ogni giudizio morale. Il fatto che il malinconico, prima della malattia, fosse una persona altruistica, e ora si colpevolizzi per non essere più in grado di provare dei sentimenti, non significa che possa davvero essere accusato di una «carenza etica».65 Non si tratta dell’amare, o dell’incapacità di compiere un atto altruistico adeguato alla situazione, e non si tratta nemmeno del mancato orientamento al vissuto altrui, come se dipendesse da una presa di posizione personale. La sofferenza dell’altro, infatti, deve essere già data nel sentire immediato, per richiamare uno sguardo premuroso. L’inversione della direzione del sentire, che in ogni caso si registra, è il sintomo di un problema di base: l’impossibilità di scorgere la sofferenza altrui nel fenomeno espressivo. Come la gioia si dà nel riso, la sofferenza si dà nelle privazioni del corpo, negli occhi che implorano. Se una madre malinconica, che amava profondamente il suo bambino, adesso lo guarda soffrire con indifferenza, è perché vede «solo “un bambino urlante con la faccia rossa e blu”, e non vede il suo avere fame e soffrire, che possono esserle dati a livello associativo o mediante il giudizio e la conclusione»66 E con le qualità di valore incarnate, rischia di venir meno anche la coscienza della realtà dello stato d’animo del bambino che, appunto, potrebbe esistere in una ricostruzione concettuale della madre, senza che lei tuttavia fosse in grado di sentire direttamente la sua presenza.
Anche al bambino isterico, che si volta per vedere se il mondo dietro di lui esiste ancora, sembra estranea quella «qualità di “familiarità” e “certezza” che […] verosimilmente si connette a un fattore di sentire intenzionale, che interviene in ogni percezione normale».67
12. Coscienza o conoscenza degli altri?
La percezione di sé dunque è percezione dell’altro, ma ciò che permette essenzialmente di distinguere un vissuto come «proprio» è l’individuale.68 Anche la simpatia in un certo senso è cieca nei confronti dei valori individuali; o almeno lo sarebbe se la funzione del sentire, in essa implicita, non fosse guidata da un atto capace discernere la differenza essenziale di una persona.69
Se il corpo è un campo espressivo, che riflette prevalentemente gli interessi vitali e le convenzioni sociali (l’utile così definito, ad esempio, perché qualcuno l’ha detto) di un ambiente, è possibile tuttavia cogliere sul corpo altrui la sofferenza del rimorso, di un’amicizia delusa, o un una sorta di disagio nei confronti del suo milieu, così dissanguato dal punto di vista assiologico. Il soggetto, di conseguenza, è una figura: l’unità di corpo e psiche. L’io individuale, o la persona, è lo sfondo (l’intero d’appartenenza) da conquistare, dietro la natura e la società, perché il centro d’ogni atto della percezione è il correlato intenzionale di un mondo che dice la ricchezza dell’esperienza, e l’infinita possibilità di farne. Allargare le maglie della rete significa aprirsi di nuovo alla realtà, scoprendo però il tratto individuale del sentire.
Non è mai oggettivabile, la persona, ma come atto compiuto con altri (Mit-vollzug) — nelle forme autentiche (non trasmesse dal milieu) di simpatia, nel volere- (Mit-wollen) o nel pensare-insieme (Mit-denken), ecc. — in tutti questi casi, «per quanto concerne l’esistenza», è «capace di partecipazione all’essere».70 È capace di condividere, oltre la sfera propriamente vitale e le reti sociali, quel sapere originale che precede ogni conoscenza oggettivante, rispetto al quale la «coscienza-di» è solo un modo del sapere: il sapere «mediante riflessione».71 Dal punto di vista dell’esser-così (Sosein), invece, la persona è soltanto «comprensibile»;72 dove la comprensione è la forma fondamentale e originale della conoscenza dell’identità essenziale di qualcuno che, a sua volta può sottrarsi liberamente ad essa. Le persone, infatti, possono «tacere e tenere nascosti i loro pensieri»,73 e il tacere non consiste affatto nel semplice «non-parlare».74 Non basta dunque la comprensione per conoscere una persona.
Riconosciamo però — con Robinson e le api — non solo una relazione eidetica75 tra le qualità di valore e l’esistenza d’altri individui, ma anche un atto capace d’orientare il sentire verso nuovi e più alti valori, e di nutrire così la comprensione: l’atto di amare. Non neghiamo, con questo, il movimento inverso dell’odio, che mira appunto all’esistenza di valori inferiori (e negativi) della persona odiata. E spera anzi di annientare l’esistenza possibile di un valore superiore, sia pure negativo.76
L’atto di amare non si esaurisce mai nella percezione affettiva. È lui che «vede lontano», e si dirige sul «nucleo di valore»77 di un individuo scoprendone, per un momento, il volto «ideale»:
Nell’amore noi sentiamo certamente […] la bellezza, la grazia e la bontà di una persona, ma questo può accadere anche se non amiamo quella persona. L’amore esiste soltanto dove al valore già dato «come reale» nella persona, si aggiunge il «movimento», l’intenzione verso possibili valori «superiori» rispetto a quelli già esistenti e dati — ma «non» già dati come qualità positive. Essi sono co-intesi soltanto come possibile «fondamento» della struttura di un intero e di una forma [Ganzheits- und Gestaltstruktur] . L’amore pertanto anticipa sempre un’«immagine» «ideale» del «valore» della persona empiricamente data per così dire, un’immagine che viene però colta a un tempo come la sua autentica esistenza.78
Ma questo è un altro modo per parlare del corpo come campo espressivo, e dello sfondo, che traspare nella struttura dinamica dell’individuo. E insieme dimostra l’intreccio indissolubile tra persone e mondi.
Come una cosa è sempre in mezzo ad altre cose, una persona è sempre in mezzo ad altre persone e fa parte di un immenso campo che è la realtà. Così, se guardiamo lontano, e non ci fermiamo al nostro corpo (starnutisce come me, si tratta di un’allergia…) e alle ragnatele psico-sociali (la gioia contagiosa di una festa, il volto sorridente e un po’accaldato di un amico), intuiamo i valori co-intesi sullo sfondo di un soggetto: le direzioni di un sentire individuato, la vita più profonda di una persona o i suoi scenari possibili.
12.1. Mondi fior di farina
Perché quegli occhi arrossati e gonfi di pianto non sono una semplice venatura rossa della foglia che si stacca dall’albero, l’azzurro trasparente delle lacrime non si confonde con lo spicchio di cielo sopra di noi e non una, delle qualità espressive di quel corpo, sfocia nell’unità della tristezza o della depressione, ma tutte convergono nel valore della gioia commossa… perché la leggo sullo sfondo di quel paesaggio fior di farina, tra gli alberi e le foglie, sotto un cielo tormentato dal vento che è il mondo di quella persona che avevo imparato ad amare: con la musica di Mozart e la Ungargasse che corre veloce, gli indiani e l’azulejo… Solo una nube stira le ciglia e vola via. Vola via perché la veda. Smetto di starnutire. La guardo. Vedo anche il portamento elegante, il passo fiero, sulla via del ritorno.
La conoscenza delle individualità essenziali è certamente una forma di comprensione, ma una comprensione maturata in un atto di amore… o di odio, perché è sempre possibile deviare, ostacolare un’esistenza e recidere addirittura i fili sottili che la muovono, prima ancora che affiorino in superficie, nel vivo delle cose. Il mondo allora può essere un inferno.
13. Oltre la soglia
Poi c’è lei.
È una professoressa di Scienze animali alla Colorado State University e progetta impianti per la gestione del bestiame. Le accarezza, le mucche. Le accompagna teneramente all’ingresso del «paradiso»,79 e permette loro una morte degna. Non perché possa decidere della loro vita e della loro morte; perché, al contrario, lei stessa «ha imparato a non avere paura della morte, ad accettare il suo essere mortale».80 L’ha imparato dalle mucche, delle quali ha fatto lo scopo della sua vita, cercando di migliorarne il trattamento e riducendo la loro sofferenza. Forse ancora ne segue il respiro, l’ultimo, e condivide con loro quel senso di pace, un attimo prima che tutto finisca. Perché «è importante che gli animali non siano profanati al macello.»81
Strano lavoro.
Si chiama Temple Grandin. Il nome è noto. Un «cervello» famoso — anzi più d’uno — s’è interrogato a lungo dopo averla letta, lei che si metteva volentieri nei panni del grande logico dello spazio, il dottor Spock, e si sentiva suo malgrado un «antropologo su Marte». Soprattutto riusciva a dirlo. Esistono libri con la sua firma. E parlano a tutti.
Incontrandola per la prima volta, Oliver Sacks la descrive così: «Era una donna alta, solida, sui quarantacinque anni; indossava un paio di jeans e un golfino, e calzava stivali da cowboy […] mi diede l’impressione di una robusta allevatrice, un tipo serio e quadrato indifferente alle convenzioni sociali, alle apparenze e alle cerimonie, priva di arie, schietta di modi e di mentalità.»82 Dopo il viaggio però avrebbe gradito scambiare con lei qualche frase di circostanza, di quelle che «rompono il ghiaccio», era anche un po’stanco e affamato, e l’ostentava, sperando gli venisse offerto almeno un caffè, ma no, lo «fece sedere senza complimenti o preliminari: nessun rituale sociale […] subito si lanciò a parlare del suo lavoro […] stalle, recinti, mattatoi».83
Un tipo singolare, certo, come il suo lavoro.
Presto tuttavia Sacks dovette ammetterlo. Si trovava di fronte alla stessa persona che aveva trovato le «parole» per raccontare la sua storia, quella Grandin che all’improvviso, quando lo presentò alle segretarie del suo Dipartimento, dava davvero «la sensazione di qualcuno che avesse imparato a grandi linee «come comportarsi», in tali circostanze, senza avere però una grande percezione di come si sentissero gli altri, senza avvertire le sfumature e le sottigliezze sociali.»84 Dava l’impressione, sempre più, d’essere quello che «era», un’«autistica ad alto funzionamento».
Strano termine.
Eppure è lei che ha guidato gli abitanti di Marte, invitandoli a spostare i loro confini, nel suo regno di simboli. Codici segreti, un po’distanti dal linguaggio «che va da sé» o dalla spontaneità dei gesti immediatamente condivisi. Meno convenzionali, tuttavia, di certi passe-partout sociali. È riuscita a comunicare con i «marziani» grazie ai bovini e alle loro emozioni primitive.
Sappiamo della sua mente — la «videoteca mentale»85 — e delle sue associazioni; di un pensiero che lavora con le immagini, e non secondo modalità verbali o sequenziali — «La mia immaginazione funziona come i programmi grafici del computer che hanno creato i dinosauri animati di Jurassic Park.»86 Indoviniamo i suoi silenzi, da bambina, mentre esamina la sabbia che le scivola tra le dita, granello per granello; il suo desiderio di rompere una «fortezza» che non era affatto vuota. Solo non trovava la «chiave». Come per gli abbracci… se avesse potuto dirigere lei il gioco, sarebbe stato diverso. Invece si sentiva persa davanti a un gesto d’affetto che arrivava come un’onda impetuosa di stimoli, e la costringeva alla fuga, «come un animale selvatico».87 Così i suoni, i rumori che giungevano da fuori la investivano, schegge impazzite di una realtà alla quale si sforzava di imporre un senso dall’esterno, senza sapere come.
Poi la chiave si materializzò. Era lì, nascosta nelle sue capacità visuali — «Pensavo alla pace immaginando una colomba, un calumet degli indiani».88 Crescendo imparò a servirsene per aprire, con la sua fortezza, le porte che si aprivano sugli altri, le immagini simboliche. Il mondo così appariva meno disarticolato e lei si sentiva meno straniera sulla terra. Aveva capito che poteva modellare il proprio comportamento secondo lo sguardo di un osservatore esterno, quello che lei diventava per se stessa, scrutandosi più o meno come un granellino di sabbia. Con le sue parole: «Utilizzando la mia capacità di visualizzazione, osservo me stessa a distanza — chiamo questa operazione “il mio piccolo scienziato nell’angoletto” — come fossi un uccellino che osserva dall’alto il mio stesso comportamento.»89
Per sdoppiarsi tuttavia deve mettersi nei panni di un altro essere, un uccellino, come un bovino. La relazione nasce da qui. Anzi, con un animale non serve nemmeno la pura razionalità che invece la soccorre nei rapporti con le persone, delle quali non riesce a leggere direttamente gli indizi emozionali più complessi. Con una mucca no, è tutto più semplice. L’immagine si sposta verso la metafora e tende ad annullare il «come se»:
Quando mi immagino al posto di una mucca, devo «essere» realmente quell’animale e non una persona travestita da mucca. Uso le mie abilità di pensiero visivo per simulare cosa vedrebbe e sentirebbe un animale in una determinata situazione. Immagino di collocarmi all’interno del suo corpo e di avere le sue percezioni. È il sistema più avanzato di realtà virtuale, ma si avvale anche dei sentimenti empatici di delicatezza e gentilezza che ho sviluppato, così che la mia simulazione è più di un modello robotico fatto al computer.90
La distanza si riduce e facilita la comprensione tra due esseri. Grandin confessa: «Quando vedo che qualcuno sta stringendo troppo una bestia nel passaggio, mi sento male dappertutto.»91 Ma trattandosi di un’immagine, impiegata come uno strumento scientifico, per afferrare la «logica» del mondo — non un’immagine arbitraria — non si confonde con l’animale e non ne invade lo spazio.
E davvero non si tratta solo di realtà virtuale. La sua sensibilità, per certi versi infantile, che grazie a loro ha coltivato, le permette di condividere le emozioni elementari delle mucche, quelle che seguono esclusivamente le linee di tensione di un ambiente: un cancello che stride, o un dettaglio impercettibile fuori posto, che rompe l’equilibrio del cosmo animale. Anche lei, del resto, lega le sue emozioni più forti a determinati luoghi, e il senso di pace e di gioia che prova lavorando col bestiame, è «come galleggiare sulle nuvole».92 Nella maggior parte dei casi si tratta di soddisfazioni intellettuali, ad esempio l’eccitazione per la risoluzione di un problema tecnico, che tuttavia esprime così: «Quando provo questa sensazione, mi viene voglia di saltare. Sono come una mucca che sgambetta in un prato in un giorno di primavera.»93 Come i bovini, teme i passaggi bloccati e cerca un «varco», perché si sente una «specie da preda», sempre sotto pressione, con i sensi in allerta:
Per me, cercare queste aperture e brecce è simile al modo in cui un animale guardingo esplora i nuovi territori per assicurarsi percorsi e passaggi sicuri per la fuga, oppure attraversa una pianura aperta che potrebbe essere piena di predatori […] Avevo reazioni simili quando mi avvicinavo alle mie porte simboliche. Avevo un po’paura di trovare la porta chiusa a chiave, bloccata come l’apertura ostruita della tana sotterranea di un animale. Era come se si attivasse un sistema di protezione contro i predatori nel profondo del mio cervello.94
Sono le mucche, infatti, che le hanno suggerito l’idea di una «macchina per gli abbracci»:95 una stringitrice automatica che, munita di pannelli imbottiti di gommapiuma, l’avvolge su comando. Con una pressione regolata, Grandin prova il piacere del contatto e, rilassandosi, educa le proprie emozioni. Così come si rilassa il bestiame, quando non si sente intrappolato nel passaggio che li immobilizza per le vaccinazioni.
Adesso non è più la ragazzina che scalciava, il «contatto» l’ha ammorbidita, l’ha resa più gentile. Adesso capisce il concetto di reciprocità e tenerezza che la lega a sua madre; anche quello di un amore, intollerabile nell’abbraccio, che l’ha aiutata tuttavia a diventare quello che è: un individuo unico e insostituibile.96 È convinta che, se non avesse usato regolarmente la stringitrice, sarebbe stata «dura e insensibile come una pietra».97
«Grazie» all’autismo è riuscita a guardare la realtà con gli occhi di una mucca. Grazie alle mucche ha scoperto la chiave simbolica dell’empatia e l’ha usata per aprirsi un varco in mezzo agli altri:
Stanotte ho aperto la porticina e sono entrata. Per sollevare la porta e vedere l’ampia distesa del tetto al chiaro di luna davanti a me. Ho messo sulla porta tutte le mie paure e le mie ansie verso le altre persone. Usare la botola è rischioso perché se fosse chiusa a chiave non avrei alcuno sbocco di sfogo emozionale. Dal punto di vista intellettuale la porta è soltanto un simbolo, ma a livello emozionale il gesto fisico di aprire la porta mi suscita paura. L’atto di attraversare la porta è il superamento, da parte mia, delle paure e dell’ansia verso le altre persone.98
E col suo posto nel mondo, ha scoperto il senso della propria identità.
Per una volta, dovremmo prendere sul serio le parole di una persona autistica, che ha saputo esercitare con straordinario talento la propria «dis-funzione» socio-affettiva:
Se potessi schioccare le dita e diventare non autistica, non lo farei, perché non sarei più io. L’autismo è parte di chi sono io.99
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M. Scheler, Gli idoli della conoscenza di sé (1912), in Id., Il valore della vita emotiva, a cura di L. Boella, Guerini e Associati, Milano, 1999, p. 49. Cfr. anche il saggio introduttivo di L. Boella, Il paesaggio interiore e le sue profondità, ivi, pp. 11-45 ↩︎
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In molti punti, Fenomenologia della percezione testimonia una conoscenza diretta, da parte di Merleau-Ponty, dei lavori fondamentali di Scheler e conferma, di conseguenza, l’importanza della sua eredità, non sempre riconosciuta, nel dibattito attuale sulla Social Cognition. Esistono tuttavia delle eccezioni e, negli ultimi tempi, si avverte sempre più la necessità di valorizzare, anche in funzione della comprensione dei disturbi del senso comune, lo sfondo teorico che accomuna Merleau-Ponty e Scheler - al di là delle differenze, che pure rimangono e che un confronto storico-filosofico potrebbe meglio illuminare. Su questi punti cfr. ad esempio D. Zahavi, Beyond Empaty. Phenomenological Approaches to Intersubjectivity, in «Journal of Consciusness Studies», 8, n. 5-7, 2001, pp. 151-167; G. Stanghellini, Psicopatologia del senso comune, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006. Più recentemente, sulla psicopatologia dell’alterità, cfr. A. Ales Bello, A. Ballerini, E. Borgna, L. Calvi, Io e Tu. Fenomenologia dell’incontro. Omaggio al Prof. Bruno Callieri per il suo LXXXV anno, a cura di G. Di Petta, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2008. Per quanto riguarda Scheler, e la specificità del suo approccio alla percezione dell’altro - rispetto a quello di Husserl, Stein, Heidegger o Merleau-Ponty - sono grata a Roberta De Monticelli per i numerosi suggerimenti, che mi ha dato negli anni di collaborazione alle sue cattedre di «Filosofia della persona» e «Mente e persona» (Università Vita-Salute San Raffaele), di cui questo contributo reca più di una traccia. Per un approfondimento della «conoscenza personale» rinvio all’ormai classico R. De Monticelli, La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini e Associati, Milano, 1998. ↩︎
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Per un approfondimento di questo punto, e in una prospettiva estetico-assiologica, mi permetto di rinviare a R. Guccinelli, Per una fenomenologia della percezione estetica: atti creativi e qualità terziarie sulle tracce di Max Scheler, in «Materiali di Estetica», n. 15, gennaio 2009. ↩︎
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M. Scheler, Essenza e forme della simpatia (1923), tr. it. di L. Pusci, Città Nuova, Roma, 1980, p. 353 (si tratta di Schiller). ↩︎
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Ivi, p. 313. ↩︎
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Sui modelli esplicativi dell’autismo cfr. F. Barale e S. Ucelli, La debolezza piena. Il disturbo autistico dall’infanzia all’età adulta, in A. Ballerini, F. Barale, V. Gallese, S. Ucelli, Autismo. L’umanità nascosta, a cura di S. Mistura, Einaudi, Torino, 2006, pp. 51-206 (in particolare cfr. il § 4. L’autismo nel laboratorio psicologico. Modelli esplicativi recenti, pp. 80-97). ↩︎
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V. Gallese, La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività, in A. Ballerini, F. Barale, V. Gallese, S. Ucelli, Autismo. L’umanità nascosta, cit., pp. 211. ↩︎
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Sulla «sintonizzazione degli affetti» cfr. D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino (1985), tr. it. di A. Biocca e L. Marghieri Biocca, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pp. 147-168. ↩︎
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M. Iacoboni, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 145. ↩︎
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L’atto di amare non va inteso in un’accezione «sentimentale», ma come l’atto mediante il quale è possibile scoprire il nucleo individuale dell’altro e favorirne la «crescita». ↩︎
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Cfr. D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, cit., pp. 180-188. ↩︎
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Stanghellini, Psicopatologia del senso comune, cit., p. 73. Stanghellini si riferisce qui all’eboidofrenia e a un tipo particolare di dissociazione schizofrenica come «scacco dell’essere sociale», spesso ricondotte a un alterato sviluppo della capacità di sintonizzazione. ↩︎
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M. Scheler, Gli idoli della conoscenza di sé, cit., p. 115. ↩︎
-
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano, 2003, p. 24. ↩︎
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Ivi., p. 44. Merleau-Ponty ha presente il concetto di «rete» di Scheler che, a sua volta, si riferisce alle ricerche sulla percezione di Jaensch. Cfr. M. Scheler, Conoscenza e lavoro. Uno studio sul valore e sui limiti del motivo pragmatico nella conoscenza del mondo (1926), Presentazione di G. Morra, tr. it. e saggio introduttivo di L. Allodi, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 248. ↩︎
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Ivi, p. 60. ↩︎
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Ivi, p. 72. ↩︎
-
D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, cit., p. 44. Per Stern, in particolare, l’esperienza consiste nell’integrazione, in parte fondata su capacità innate, di reticoli che progressivamente emergono e indicano una sensibilità precoce, anche del bebé, per le interazioni sociali. ↩︎
-
Cfr. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 311. ↩︎
-
Ivi, p. 150. ↩︎
-
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 47. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Ivi, p. 36. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Ivi, p. 60. ↩︎
-
Ivi, p. 74. ↩︎
-
Ivi, p. 81. Nell’esempio riferito, Scheler ha presente le ricerche di Bergson sulla «simpatia». ↩︎
-
Id., Conoscenza e lavoro…, cit., p. 265. ↩︎
-
Id., Essenza e forme della simpatia, cit.,, pp. 331-333. ↩︎
-
Ivi, p. 326 (tr. it. lievemente modificata). ↩︎
-
Ivi, p. 273: «Nell’ordine di datità originale di un moto pulsionale, l’orientamento al valore esiste già a un livello della coscienza in cui la coscienza del tendere stesso può ancora mancare, perciò è ancora possibile reprimere l’eventuale tendere il cui germogliare s’«annuncia» attraverso la coscienza assiologica.» (Tr. it. lievemente modificata) ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Ivi, p. 82. ↩︎
-
D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, cit., p. 44. ↩︎
-
M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 82. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Ivi, pp. 311-312. Scheler, in particolare, si riferisce al problema dell’origine della coscienza dell’altro e della comunità in generale, non allo sviluppo empirico, dall’infanzia all’età adulta, della coscienza d’altri soggetti. In ogni caso, distingue sempre il piano psicologico-genetico empirico da quello propriamente eidetico. ↩︎
-
Id., Conoscenza e lavoro…, cit., p. 235. ↩︎
-
Id., Essenza e forme della simpatia, cit., p. 351. ↩︎
-
Id., Gli idoli della conoscenza di sé, cit., p. 86. ↩︎
-
Cfr. ad es. Id., Essenza e forme della simpatia, cit., p. 59. ↩︎
-
Id., Gli idoli della conoscenza di sé, cit., p. 89. ↩︎
-
Ivi, p. 90. La dipendenza di un vissuto dal corpo proprio non è quella sostenuta dal parallelismo psicofisiologico, e nemmeno quella dualistica dell’interazione causale. Su questo punto cfr. ad es. Ivi, pp. 132-133. ↩︎
-
Ivi, p. 113. ↩︎
-
Id., Essenza e forme della simpatia, cit., p. 356. ↩︎
-
Ibid. (tr. it. lievemente modificata). ↩︎
-
Id., Essenza e forme della simpatia, cit., p. 63. ↩︎
-
Id., Gli idoli della conoscenza di sé, cit., p. 146. Sulle diverse forme della simpatia, cfr. Id., Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 58-90. ↩︎
-
Ivi, p. 115. Su questo punto cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., pp. 489-490. ↩︎
-
M. Scheler, Gli idoli della conoscenza di sé, cit., p. 119. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Id., Essenza e forme della simpatia, cit., p. 62 (nota 13). ↩︎
-
Cfr. ivi, pp. 120-121. ↩︎
-
Ivi, p. 119 (tr. it. lievemente modificata). ↩︎
-
Ivi, p. 51. ↩︎
-
Id., Gli idoli della conoscenza di sé, cit., p. 119. ↩︎
-
Ivi, p. 109: «Nella normale visione del mondo naturale la direzione di illusione preminente è di considerare ciò che è realmente psichico come presumibilmente fisico e ciò che non è realmente fisico come presumibilmente psichico. A mio parere, è da considerarsi un fenomeno patologico l’instaurarsi presso individui o intere epoche della prevalenza della direzione di illusione opposta.» ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Id., Essenza e forme della simpatia, cit., p. 359. ↩︎
-
Id., Gli idoli della conoscenza di sé, cit., p. 94. ↩︎
-
Così Scheler: «Il mondo è tanto poco, anche solo «in prima istanza», la sua rappresentazione - come ciancia l’«idealismo» - che l’uomo si accorge a stento della labile struttura della sua rappresentazione, del suo oscillare e della sua incessante metamorfosi dietro le cose solide, che essa simbolizza.» (Ivi, p. 108). ↩︎
-
Ivi, p. 119. ↩︎
-
Ivi, p. 103. ↩︎
-
Ivi, p. 110. ↩︎
-
Ivi, p. 118. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Ivi, pp. 112-113. ↩︎
-
Ivi, p. 144. ↩︎
-
Cfr. Id., Essenza e forme della simpatia, cit.,, p. 222: «Proviamo spesso simpatia per una persona che non amiamo […] Anche in questo caso tuttavia i moti di simpatia sono fondati dall’amore: l’amore fondante verte allora o su un tutto, di cui la persona è parte o membro (famiglia, popolo, genere umano, perfino «un» essere vivente), o su un oggetto universale, del quale costituisce per noi un esempio […] Ciò significa che l’oggetto sul quale verte l’amore nel fenomeno non deve essere necessariamente lo stesso oggetto della simpatia.» (tr. it. lievemente modificata) ↩︎
-
Ivi, p. 319. ↩︎
-
Ivi, pp. 319-320. ↩︎
-
Ivi, p. 320. ↩︎
-
Ivi, p. 321. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Sulla relazione tra gli stati di cose assiologici e le corrispondenti credenze di valore, dalla quale risultano «evidenze «cognitive» emozionali» (emotionale Wissensevidenzen) dell’esser valore - e dell’esistenza (Dasein) - d’altre persone» cfr. Ivi, p. 326 (tr. it. lievemente modificata). ↩︎
-
Ivi, p. 232. ↩︎
-
Ivi, p. 228. ↩︎
-
Ivi, p. 234 (tr.it. lievemente modificata). ↩︎
-
«Scala per il paradiso» è il nome del progetto che T. Grandin aveva ideato per apportare migliorie al macello Swift. Si trattava della costruzione di una nuova rampa e di un sistema di immobilizzazione a nastro trasportatore. Cfr. T. Grandin, Pensare in immagini e altre testimonianze della mia vita di autistica (1995), tr. it. di C. Calovi, Edizioni Erickson, Gardolo (TN), 2008 (1ª ed. 2001), pp. 210-211. ↩︎
-
Ivi, p. 101. ↩︎
-
Ivi, p. 208. ↩︎
-
O. Sacks, Un antropologo su Marte (1995), tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano, 2006 (1° ed. 1995), p. 344. ↩︎
-
Ivi, pp. 344-345. ↩︎
-
Ivi, p. 346. ↩︎
-
T. Grandin, Pensare in immagini…, cit., p. 25. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Ivi, p. 69. ↩︎
-
Ivi, p. 38. ↩︎
-
Ivi, p. 149. ↩︎
-
Ivi, p. 156. ↩︎
-
Ivi, p. 167. ↩︎
-
Ivi, p. 98. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Ivi, pp. 102-103. ↩︎
-
O. Sacks, Un antropologo su Marte, cit., p. 352. ↩︎
-
Alla madre, non a caso, Grandin dedica il libro: «Dedico questo libro a mia madre. Senza il suo amore, la sua dedizione e la sua perspicacia, io non avrei potuto riuscire.» (T. Grandin, Pensare in immagini…, cit., p. 7.) Cosi Scheler: «L’essere in questione è precisamente quell’«essere ideale» […] che non è né un essere empirico-esistenziale né un «dover essere», bensì un terzo, ancora indifferente a questa distinzione: lo stesso «essere», ad esempio, che si trova nella proposizione: «Diventa quel che sei», che dice appunto qualcosa di diverso rispetto a «Devi essere così e così», ma anche qualcosa di diverso rispetto all’«essere empirico esistenziale.» E ancora: «Se l’amore è assente, al posto dell’«individuo» subentra immediatamente la «persona sociale» (M. Scheler Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 241-242 tr. it. lievemente modificata) Cfr. anche Id., Gli idoli della conoscenza di sé, cit., pp. 152-154. ↩︎
-
T. Grandin, Pensare in immagini…, cit., p. 91. ↩︎
-
Ivi, pp. 103-104. ↩︎
-
O. Sacks, Prefazione, ivi, p. 22. ↩︎