Fenomenologia e religione: un itinerario di affinità?

1. Alle cose stesse come correlati intenzionali e costitutivi di senso

Tentare una fenomenologia della religione intesa come evento vissuto, implica la ridefinizione del senso di un’esperienza originaria che si attesta sull’orizzonte di un dato indeducibile; ciò implica, in altre parole, un costante processo di Sinngebung. Il fenomeno in questione sarà analizzato in particolare a partire da quell’evento costitutivo di un mondo della vita (Lebenswelt) che è la preghiera, il cui atto pone la stessa consistenza di senso. Essa, infatti, diviene Vorgabe e Gabe, premessa e dato entro cui il senso si dispiega e si costituisce come l’intenzionalità della coscienza.

Dunque l’atto-evento del pregare permette in realtà una sorta di ritorno alle cose stesse, presenti, però, nella loro connessione di senso; in ultima analisi in quanto datità originarie, intenzionate nella struttura trascendentale della stessa coscienza. Qui esse si presentano sotto la specie di un daß indeducibile, che manifesta l’orizzonte di mistero su cui poggia il loro esser-ci. In tal senso esse possono essere afferrate intuitivamente attraverso l’orizzonte di apertura all’esistente nel quale la stessa coscienza si trova e in cui sperimenta il darsi delle cose come evento.

La fenomenologia della preghiera riguarda, perciò, un’originaria esperienza dell’essere, profondamente intessuta nel mondo della vita. Essa stessa necessita di un’epoché, specie di quella concernente il mondo come risultato oggettivo di un’attività teoretica che ne pone i principi originari secondo le connessioni proprie dell’intelletto. Al contrario, il mondo determina l’orizzonte a partire da cui l’essere accade come evento di senso che si costituisce per me avanti ogni oggettivazione gnoseologica. Che cosa sono dunque le cose stesse? Null’altro che l’Ereignetes Ereignis in grado di tenere insieme il mondo come unità di senso.

L’evento del pregare non può, d’altro canto, che rinviare ad un’ulteriorità rivelatasi nello stesso fenomeno originario del mondo, pur persistendo in un’evidenza per sé che si intreccia all’opacità dell’Erlebnis, dandosi al contempo alla vista spirituale. Potremmo dire si tratti qui dell’altro volto del mondo. Non solo quello delle essenze eidetiche come correlato intenzionale della coscienza, quanto anche quello che, wittgensteinianamente mostra sé come il mistico.

Una traccia di questo è ravvisabile in una pagina del teologo Romano Guardini, tratta da Fenomenologia e teoria della religione che recita come segue:

Una risposta suona: il divino è il mondo stesso; precisamente però il suo mistero, «l’altro sua volto». Esso è ciò che ogni elemento del mondo è, in modo autentico e proprio anche se non immediato.1

L’epoché che qui eventualmente si prospetta riguarda in tal senso, non solo la sospensione del giudizio sul come del mondo, essa apre bensì la possibilità di riceverne la manifestazione in quanto dato originario entro cui comprendere il senso dei propri vissuti intenzionali. È questo l’orizzonte entro cui si dà la possibilità di un’esperienza religiosa che apre lo spazio di riflessione filosofica circa il suo eventualizzarsi. Per ricondurci a questa esperienza è necessario rinunciare alle vie tradizionali al fine di riformulare una theo-logica che si attesti su di una fenomenologia del dono e che rinnovi le coordinate ermeneutiche del dato rivelato.

Questa avrebbe alla base il fenomeno della preghiera in quanto Sinngebung, nonché la condizione di incarnazione che sottende l’esser-ci nel mondo. Il mondo si dà nel mistero della sua originaria rappresentazione; in questo darsi l’essere si riconosce a partire dal proprio commercio con il sé. In questo esser-ci si è Leib, ma ad un tempo, persönlich. Dunque l’acquisizione dell’esser-ci perché persona si dà da una trascendentale apertura all’Ergebnis del mondo, rivelatosi in un’oscura trasparenza. Tuttavia essa si dà altrettanto nella condizione di incarnazione, per cui si vive come invio nel mondo e come riserva di senso, intenzionando il suo oltre che suggerisce il mistero di quel dato originario.

L’essere alle prese con il mistero come cifra della propria trascendenza rende alla filosofia, in quanto atto exercitus dell’uomo, il suo statuto di riflessione seconda, per cui essa stessa è un riconoscimento dell’avvento dell’Originario di cui deve intenzionare il senso nel mondo della vita. Questa intenzionalità può risultare, in ultima analisi, come dono di senso, che nasce dalla possibilità di un incontro con l’alterità del mondo e dell’altro, grazie a cui si verifica la possibilità di ricevere anche il proprio sé come dono. È quanto Simone Weil chiama attention, che già Malebranche definiva come preghiera naturale dell’anima.

Questo stesso concetto viene espresso da Casper in un’opera che traccia le linee portanti dell’ermeneutica religiosa, Das Ereignis des Betens. Il filosofo tedesco scrive:

Soltanto nel momento in cui io mi rimetto all’evento del dono dell’altro che si trova al di là del confine del mio temporalizzarsi sincronizzante mi ritrovo donato a me stesso, posso in effetti essere me stesso. Soltanto in questo prescindere da me stesso nell’evento che implica l’attenzione al dono dell’altro mi trovo donato a ciò per cui ne va di me stesso, ovvero al mio poter essere uomo.2

Trattasi, allora di una teoria in grado di assumere la passione della verità aprendosi ad essa nell’originale stupore della ragione sulla scorta della domanda Quid est veritas? Qui non si vuole indicare un criterio oggettivante della verità, quanto un carattere euristico della stessa fenomenologia sempre coinvolta in un orizzonte di interpellazione per cui tale domanda riguarda le condizioni del costituirsi di un senso che è senso per me. Tale Sinngebung non è però una costituzione solipsistica; essa appare bensì al centro di un nucleo rivelativo luminoso in grado di orientarla speculativamente e di renderla alla propria condizione di esistenziale fondamentale.

L’orizzonte in cui questo dono di senso è dono di me a me stesso in quanto attenzione al dono dell’alterità che assume i connotati del mondo e dell’altro si collega ad una struttura bipolare ragione-passione che ne lascia comprendere la portata rivelativa. L’analisi di questo nodo teoretico permetterà di evincere le masse di vita filosofica inerenti al fenomeno religioso.

2. Theoria come passione della verità:dalle essenze eidetiche all’Erleben

Teoria ha il suo correlato semantico in theoros, che ha il significato di colui che guarda partecipando. In proposito è illuminante la pagina di Hans Georg Gadamer, che osserva:

Theoros, come si sa, è colui che prende parte ad una delegazione invitata ad una festa (…) Il theoros è dunque lo spettatore nel senso autentico della parola, che prende parte agli atti della festa per il fatto di assistervi e perciò stesso acquista una qualificazione dei diritti sacrali, per esempio l’immunità.3

Lo spettatore non si limita alla mera osservazione, ma partecipa di fatto all’evento di senso che nella festa si dispiega. Tale evento è in grado di istituire un novum e di modificare lo spettatore che fa un’esperienza di senso, che possiamo certo qualificare come esperienza veritativa. Gadamer prosegue in tal senso evidenziando che

La theoria non va pensata però anzitutto come un modo di determinarsi del soggetto, ma va vista anzitutto in riferimento a ciò che il soggetto contempla. La theoria è partecipazione reale, non un fare ma un patire (pathos), cioè l’esser preso e come rapito dalla contemplazione. Su questa base si è di recente cominciato a chiarire lo sfondo religioso della concezione greca della ragione.4

Qui viene sottesa la reale partecipazione alla verità, che si dà come a-letheia, ed il pathos che prende colui che vi partecipa ne determina altresì la capacità intenzionale attraverso cui egli costituisce e vive un’esperienza di senso, riconoscendosi parte di questa istanza rivelativa. Tale evento è un dato originario che si dà come fenomeno di realtà, nonché come cosa stessa all’intenzionalità, per cui si costituisce come oggetto di senso. Intenzionare questa partecipazione significa quindi custodire l’orizzonte trascendentale in virtù di cui si attuano le condizioni di possibilità di questa stessa esperienza di verità. Da questo punto di vista l’adequatio della coscienza alla verità non è un mero percipi per modum percipientis, quanto invece la capacità di apertura prospettica all’orizzonte inesauribile della verità che giunge alla vista spirituale.

Per riconoscere la portata veritativa di questa esperienza è necessario epochizzare ogni altro concetto di verità, nonché ogni deduzione concettuale. Occorre, in altri termini, tornare ad essere recettività pura per riappropriarsi speculativamente di sé come dato/dono ricevuto ed accolto al fine di essere disponibile per ogni impiego e rispondere all’interpellazione della verità, di cui non si chiede possesso, ma nella cui prospettiva ci si scopre chiamati a dare ragione attraverso l’atto autentico della propria esistenza.

3. Riappropriazione di sé come apertura all’evento di senso

La verità che si dona e si invia nell’evento è in tal modo il correlativo dell’intenzionalità che struttura la coscienza in quanto la pone sempre come coscienza di qualcosa. Se, alla luce di questo, esaminiamo il concetto husserliano di sintesi passiva, questo risulta appropriato specie se intendiamo tale passività secondo l’accezione più propria della mistica, quella di passio. La stessa esperienza mistica necessita di una sorta d’epochizzazione; si tratta di quel particolare processo di svuotamento dell’io psicologico e dei suoi riferimenti gnoseologici che Giovanni della Croce denomina spossessamento.

Se nella fenomenologia il cammino dell’epoché alle cose stesse portava alla fondazione di una strenge Wissenschaft, nella mistica il cammino dell’Entleerung conduce all’esperienza dell’Originario nella quale si configura un incontro con il sé. Tale Selbstbegegnung assurge a polo d’intenzionalità che richiama la manifestazione della verità nel suo nudo eidos.

La mistica della profondità di sé non è ancora giunta al grado della facultas unitiva con Dio, ciononostante essa prepara la via di una ricerca di Dio, che resta l’orizzonte trascendente nel fenomeno originario del sé. Come spiega G. M. Hopkins in due sue liriche mirabili il self rappresenta il più nobile altro (other nobler than me) inerente alla stessa struttura trascendentale dell’io. E questo sé è capace di intenzionare l’al di dentro delle cose in una comunione con gli altri sé (selves), di cui riceve la manifestazione come del mistero infondato delle cose, percettibile alla vita spirituale. Il self ed i selves esibiscono ut sic il mistero sottratto dell’esistenza, il quale viene così a costituire il nucleo polare che li rende eventi di senso, attestandosi, in ultima analisi, come l’inafferrabile daß, il puro esistente.

Dall’Entleerung si passa in tal senso all’Andacht, a quel pensare rammemorante il e nel proprio fondo originario, che per primo ha pensato il sé; in tal senso questi assurge a luogo intenzionale della stessa profondità di Dio. Tutto questo è connotato in quella sorta di epochizzazione mistica che è lo spossessamento. Eckhart parla in tal senso di fondo dell’anima o di apex mentis. Si prepara in tal senso la via per un approccio che vuol partire da un’istanza speculativa tout court per pervenire ad una trascendenza costitutiva di senso e costituente la stessa possibilità di appropriazione di sé in virtù dell’apertura a questo evento.

Il sé si riappropria dunque della sua connotazione di trascendenza approdando ad un esito di polarità dialogica che spezza il soplipsismo soggettivistico schiudendo ad un’alterità, che- nel suo sottrarsi permane presso il suo Un-grund ed inerisce alla vita stessa della coscienza. Da questo punto di vista non possiamo non ricordare Meister Eckhart e la sua concezione della scintilla dell’anima (die Funke der Seele) Citando Agostino, il mistico altotedesco afferma: «Io mi accorgo di qualcosa in me che recita dinanzi alla mia anima e le fa luce; se ciò fosse portato ad un permanente compimento, questo sarebbe la vita eterna».

Il qualcosa presente nel fondo dell’anima costituisce un dato originario che appare come apice di luce là dove ci si svuota di ogni manifestazione psicologica attingendo un Nulla che implica il vuoto colmato da un invio cui si consente partecipandovi e patendone l’evento.

Echtes Nicht è Dio, sciolto da qualsivoglia determinazione obiettivante, ma corrisponde al nulla dell’anima ricondotta alla sua pura fenomenologia, giacché essa si pone come dono di un più originario Donante. Evento appropriante, l’Un-grund comunica all’anima il suo essere in-fondata e perciò stesso recettività assoluta del suo sé intenzionale che manifesta un indeducibile polo di alterità. Potremmo forse individuare qui, un ulteriore punto di contatto fra fenomenologia ed esperienza mistica. Come asserisce Elmar Salmann:

La verità e la positività dell’essere come di Dio possono diventare veri solo nella spoliazione sempre di nuovo esercitata ed accettata di ogni conoscenza, nell’annichilimento e nella morte, nel vivere intensamente l’angoscia e l’inconsistenza, nell’esser-consegnati, e questi potranno apparire a colui che cerca poco più che processo di autoalienazione e autorinnegamento. Ogni positivo si ha così solo nella forma della privazione, nel contrario di se stesso, finito e infinito si dischiudono solo nella loro rispettiva sporgenza nel sempre altro.5

Leit-motiv di questo contatto può essere l’impiego di due termini, rispettivamente eidos nella fenomenologia, e Gottheit nella mistica, specie eckhartiana. Parlare di eidos significa infatti sottintendere il nudo fenomeno di realtà che viene alla vita spirituale antecedentemente ad ogni prospettiva di comprensione obiettivante. Esso si presenta alla memoria che esercita nei suoi confronti un’azione di ritenzione necessaria alla sintesi costitutiva ed allo slancio tensivo che induce lo stesso orizzonte di senso, ponendosi come intuizione trascendentale. Il mondo epochizzato come per un processo di rinunzia viene ridonato in tutta la sua eventualità. Esso è Ereignis, per il fatto di rinviare ad un’origine dischiudentesi come fondamento misterioso e sottratto dell’esistere; d’altro canto esso si mostra come un tutto di senso che pure sfugge alla cattura totalitaria. Sul suo orizzonte rimane la domanda della ragione non più sottesa al concetto quanto riguardante l’accoglienza ed il riconoscimento di questo evento in quanto dono originario.

4. Lo spazio della nuda deità: fenomenologia dell’esperienza mistica

In questo donarsi, la ragione stessa si trova costituita e restituita a sé quasi in un salvifico capovolgimento nella sua finitudine, in altri termini scalfita e ferita da un’alterità irriducibile. La fenomenologia può dunque rappresentare una «via apofatica» di riconoscimento e accoglienza della verità; essa è, in tal caso, non più solo Strenge Wissenschaft, quanto anche un luminoso orizzonte entro cui ci si riconosce appartenenti al mondo della vita. In esso è possibile altresì riconoscersi, per la stessa condizione di incarnazione, parabola di gratuità.

Il registro della mistica si avvale della medesima grammatica; datità originaria è infatti il puro Nulla: epochizzazione delle determinazioni che confluiscono in una sorta di docta ignorantia. Qui è altresì consentita un’inversione della ragione che si riconosce custodia accogliente di un’Alterità che scandisce la sua possibilità di fondazione ontologica. Due Nulla vengono così a fronteggiarsi specularmene: l’Echtes Nicht della Deità ed il nulla creaturale dotato di capacità intenzionale. La mistica inizia dunque con un atto di demistificazione che intende raggiungere il puro fenomeno di realtà. Tale demistificazione si esplica in due fasi: l’adscensus ed il descensus, ove l’apparente passività costituisce de facto la possibilità di ricezione di un senso che non si dà se non attraverso questa sorta di misterioso passaggio dell’Inattendibile che si manifesta come intrinseca tessitura della ragione.

Se i due Nulla si fronteggiano, è tuttavia possibile pensarli insieme come una sorta di polarità originaria di tipo unitivo nella quale l’orizzonte del Dono originario si distende nel dinamismo intrinseco fra donante e donato. Questo stesso dinamismo viene a determinare una relazione di tipo fondativi per cui si danno i fenomeni originari del mondo e dell’uomo i quali sono per così dire abitati da questa indeducibile alterità nella quale si possono riconoscere come invio. In tal senso potremmo definire la mistica come scienza della kenosis, specificando subito, con questa stessa definizione il suo statuto filosofico-speculativo.

Occorre naturalmente distinguere di che istanza speculativa si tratti. Qui non si vuole sottintendere la speculazione di tipo dialettico di stampo hegeliano improntata ad una rigorosa razionalizzazione dell’Assoluto conforme al pensiero. Intendiamo, al contrario, l’orizzonte di illuminazione entro cui il pensiero si riconosce come ri-flessione di una gratuità originaria. In altre parole, come asserisce Salmann, si tratta di un dover e poter definire e comprendere se stessi come intimità toccata e illuminata da parte del fondo e orizzonte del proprio pensare, amare ed essere.6

Dotata di questo statuto speculativo, la mistica può aprire la via ad una filosofia della grazia, evidenziando dunque come, a partire da un dato rivelato sia possibile elaborare una riflessione in quanto dono di senso. Altrettanto, nel suo carattere speculativo, essa chiarifica quella che abbiamo definito come inversione della ragione afferrata e fondata ab intrinseco dall’alterità dell’infinito che essa custodisce in sé, essendone scalfita come da una misteriosa ferita. Si intuisce in tal senso la sua potenza passiva.

Essa sottende, in ogni caso, anche uno sbilanciamento della ragione protesa sull’ulteriorità che le si è donata in un misterioso sottrarsi, permettendole di sussisterle dinanzi senza dileguare in fughe irrazionalistiche, ma rientrando in un pensoso interrogare il proprio sé. La ragione viene dunque a trovarsi nell’ultima solitudine della sua ecceità che l’oscuro abisso della deità illumina. Nulla e Mistero Assoluto vengono pertanto a coincidere nel fenomeno originario di questa manifestazione, rivelandosi come trascendenza che costituisce il fondo stesso della ragione ed il suo sforzo di esistenza come protensione verso l’inedito. Si ha, da questo punto di vista, un intimo raccogliersi ed un abbandono che sottendono una pura esperienza del divino, portata al linguaggio più con la preghiera e con la lirica che non attraverso la trattazione ed il sistema. Il linguaggio della preghiera costituisce, in effetti, l’attestazione di questa Alterità che abita ed afferra dall’interno e che costituisce l’istanza di superamento della nostra ek-sistenza. Esso ci rivela, altresì, gli orizzonti di una diversa conoscenza: quella per connaturalità affettiva, che può facilmente connettersi alla sfera della Lebenswelt.

La nuda Gottheit avvolge come il Nulla abissale che annichila e spossessa, ma rivela altresì, nell’apex mentis, il kairos della nascita dell’anima all’eterno. Essa inerisce alla struttura trascendentale dell’anima che implica il polo dell’intenzionalità affettiva in grado di patirne il mistero come un più di senso cercato, secondo la propria natura. Misteriosa resta questa tangenza dei due abissi che si pone come non confusa unità in cui le due alterità sono l’una dinanzi all’altra, accomunate rispettivamente dalla facoltà generativa del Verbo e dalla capacità di serbarlo in un dialogo interiore.

Tuttavia, è proprio forse la struttura dialogica che rende ragione di tale distanza originaria che rende possibile questa esperienza di essere afferrati ab intrinseco. Questa originaria esperienza del dono/invio permette di riconoscere la stessa apertura esistenziale alla verità. Si potrebbe obiettare che questa esperienza possa prescindere dalla condizione di incarnazione a favore di una struttura trascendentale posta in modo astorico. Al contrario, tuttavia, è proprio la stessa condizione di incarnazione, tradotta nella sua cifra di quotidianità, che intenziona la verità come forma di manifestazione del senso nonché come evento. Così essa è anche in grado di cogliersi nell’orizzonte dell’essere, presso questa apertura originaria. Casper osserva a questo proposito:

la quotidianità implica il modo, la maniera consueta in cui cominciamo nuovamente qualcosa con noi stessi. Nella quotidianità rimaniamo con il nostro inizio sempre nuovo, e al contempo siamo presso di esso come presso ciò che abbiamo già avuto.7

Essere presso questo novum è cogliersi come ciò che è stato pensato da un originario pensiero, il quale ci costituisce nel nostro fondo trascendente e presso il quale il nostro esser-ci, la nostra condizione di incarnazione si raccoglie. Ecco dunque perché l’esperienza del pensare, in quanto esperienza originaria, è heideggerianamente l’esperienza del ringraziare, secondo il gioco linguistico di denken-danken. Questo non può che darsi a partire da quel raccoglimento nel fondo originario che per primo ha pensato l’esistente come fenomeno del suo indeducibile mistero.

Il dato fenomenologico della mistica si attesta sul presupposto dell’esser-ci in quanto essere incarnato e perciò stesso sintesi originaria, o per meglio dire, metafora vivente di un essere donato che non ha altro fondamento metafisico se non l’evento continuo di un’originaria donazione. In questo processo di donare/essere donato si può cogliere la via filosofica per ripensare il mistero cristiano della kenosis come passiones Dei ed ancor più quello trinitario come dinamismo del donante/donato convocati nell’orizzonte del dono, che assurge a dato indeducibile, a quel daß che stupisce e supera la ragione conducendola all’incontro con la sua alterità che il suo stesso interrogare custodisce. Si intuisce, così, il debito filosofico con la categoria teologica della grazia, specie se si vuole cercare un nuovo paradigma ontologico.

D’altro canto, specularmene, il contributo della fenomenologia, può risultare prezioso per meglio definire il senso delle cose stesse come quell’originale ubi consistam che fondandole in quanto essenze eidetiche determina la condizione del superarsi, nonché del loro apparire in quanto grazia. Non si tratta di tornare a posizioni ancillari, che oggi specialmente, non avrebbero senso, quanto invece di sviluppare una consapevolezza filosofica che nasce da una più originaria coscienza ermeneutica in grado di leggere il dato rivelato a partire da una connessione vitale (Lebensbezug) con la propria condizione esistenziale di finitudine interrotta ed attraversata dall’infinito, perciò stesso sbilanciata e salvata in questa sorta di sapienza vissuta.

5. Conclusione

Correlare due fonti così apparentemente diverse come fenomenologia e religione significa assumere un paradigma dialogico che qualifichi il pensiero come desiderio di senso e che tracci una diversa topologia del sapere. Se è vero che un autentico pensiero filosofico non possa sussistere senza tenere presente l’orizzonte dell’ontologia, è altrettanto pregnante il fatto che, dicendosi l’essere in molti modi, esso si misuri con un’eccedenza indeducibile che gli dia la forma dell’evento e lo leghi alla naturale vocazione della persona alla verità come ricerca e come dialogo con un’originarietà vivente.

La sfida è dunque quella di aprire un sentiero inatteso, ove le sollecitazioni dell’ermeneutica al dialogo e all’ascolto si uniscano a quelle della fenomenologia intesa come cammino di senso e nuovo vedere, nonché a quelle del linguaggio recuperato nel suo ambito ontologico, in virtù di una sosta fra due terre, quella greca e quella ebraica. Esso si snoda sicuramente nell’ambito di un dialogo con la teologia per gli apporti fecondi che essa può fornire, a partire, come visto dalla categoria della grazia, ma anche nel riprendere quel dato fenomenologico irriducibile ad ogni sistema che è la vita. Ciò, infatti, depone a favore di un riconoscimento del daß misterioso con cui le cose ed il mondo si fanno incontro, con cui l’essere si dona e si eventualizza nell’adesione dell’uomo al suo appello.

Fenomenologia e religione possono avere allora un altro luogo di intersezione che è quello di un’antropologia come domanda radicale di senso e come partecipazione al mistero dell’essere. Se è possibile interpretare l’uomo come colui che è chiamato (gesprochensein), è altrettanto necessario evidenziare che l’appello inafferrabile da cui è afferrato lo invita a rientrare in sé per ritrovare la sua origine e per ricever-si come donato. Questo sottende una stretta connessione con l’esperienza mistica e con l’evento del pregare, se, lo intendiamo latu sensu, come quel riconoscimento di un altrove da cui si è abitati e che è il rivelarsi ad ogni istante della verità che interpella. Ritenzione e protensione possono legittimamente coniugarsi con la memoria e l’ad-tesa; nel primo caso si tratta dell’intenzionalità come atto di trascendenza spirituale aperta al dono di senso, nel secondo dell’intima partecipazione alla Parola creatrice e salvatrice. In entrambi i casi, tuttavia, primeggia die Geste des Lassens und nicht des Fassens,8 ovvero una passività che non è sic et simpliciter assenza di azione ma capacità di accoglienza della verità che è correlato intenzionale del proprio esser-ci, che lo orienta ma non si esaurisce nel suo atto. Ciononostante essa non può mostrarsi che obliquamente nell’atto stesso che la testimonia. Se la fenomenologia sfocia nella traducibilità dell’intenzionalità nella sfera affettiva ed empatica, in modo tale che la realtà sia sempre incontro, altrettanto si potrà parlare di incontro nell’esperienza della preghiera che rivela l’eccedenza immemoriale della Parola dentro le parole prefigurando sempre una relazione con l’Altro e al contempo istituendo la possibilità di apertura agli altri. In entrambi i casi ne va sempre di una domanda di senso; al di là di ogni atteggiamento ingenuamente naturalistico, la fenomenologia insegna a ritrovare, andando alle cose stesse, l’originaria donazione del reale, laddove l’evento del pregare, mentre dice wittgensteinianamente di un senso del mondo oltre il mondo, sancisce altresì la promessa di quella luce della redenzione già anticipata dal pensiero, unica luce della conoscenza (Adorno).


  1. Abbiamo tratto questo brano dal testo antologico di F. Ardusso, G. Ferretti, A. M. Pastore, U. Perone, La teologia contemporanea, Marietti, Genova 1980, p. 293. ↩︎

  2. B. Casper, Das Ereignis des Betens, Grundlinien einer Hermeneutik des religiösen Geschehen, Alber Phänomenologie, Freiburg 1998, p. 29. Riportiamo qui di seguito il testo tedesco: «Erst indem ich mich freigebe in das Jenseits der Grenzen meines synchronisierenden Mich-zeitigens liegende Ereignis der Gabe des anderen finde ich auch zu mir selbst, darf ich in Wirklichkeit selbst sein. Im Absehen von mir selbst finde ich mich doch erst selbst. Erst in diesem Aufmerksamkeit auf die Gabe des anderen find eich zu dem, worum es mir geht, nämlich dazu, als Mensch zu sein». ↩︎

  3. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1965, trad. it. di G. Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, II ed., Milano 2000, p. 271. ↩︎

  4. H.-G. Gadamer*, Wahrheit…*., trad. it. cit., p. 273 ↩︎

  5. E. Salmann, Presenza di Spirito: il Cristianesimo come gesto e pensiero, Messaggero, Padova 2000, pp. 399-400. ↩︎

  6. Ivi, p. 198. ↩︎

  7. Cfr. B. Casper, op. cit., p. 120. Qui di seguito il testo tedesco: «Die Alltäglichkeit meint die eingefahrene Art und Weise, in der wir jeden Tag neu etwas mit uns selbst beginnen. In der Alltäglichkeit bleiben wir mit unserem immer neuen Beginnen doch zugleich immer bei dem “wie gehabt”». ↩︎

  8. Casper, op. cit., p. 44. ↩︎