Due percorsi: una rivisitazione del carteggio tra Martin Buber e Franz Rosenzweig

1. Un vero scambio di lettere, non un «disbrigo di corrispondenza»

Ella deve sapere che, quando ho scritto una vera lettera, me ne stupisco sempre; spesso, per settimane, ne scrivo venti, trenta in un giorno di lavoro, solo per il «disbrigo» della mia corrispondenza, e pur non scrivendone alcuna senza tentare di rendermi presente il destinatario, senza donare realmente il mio essere in alcuna. C’è qualcosa che vi fa ostacolo. In fondo, io non sono principalmente, come Ella avrà probabilmente già notato, un «uomo di lettere»; un tempo mi sono interessato allo scrivere, ma da un pezzo me ne occupo realmente soltanto quando e perché vengo chiamato a farlo. Ella è uno dei pochi uomini con i quali ho potuto «scambiare» lettere in questo decennio; spesso Ella mi trae fuori dalla tana; a volte questa è più forte.

Così scrive Martin Buber a Franz Rosenzweig il 28 settembre 1922,1 in una lettera volta a dissipare un piccolo malinteso occasionato da un suo precedente biglietto, il cui intento umoristico era stato travisato dall’interlocutore.2

La lettera risale a uno dei momenti più significativi del carteggio tra i due autori: appena un paio di settimane prima Rosenzweig, in una lunga lettera,3 ha manifestato con grande franchezza a Buber i suoi rilievi critici all’impianto teoretico di Ich und Du,4 ovvero di quell’opera che costituisce il fondamentale contribuito dell’autore al pensiero dialogico. La corrispondenza di tale periodo evidenzia come Rosenzweig percepisca sempre più chiaramente i punti di convergenza e le differenze tra il proprio percorso intellettuale e quello di Buber.

All’epoca, il trentaseienne Rosenzweig ha già pubblicato il libro della sua vita, La stella della redenzione,5 mentre Buber, che pure ha otto anni più di lui, sta per dare alle stampe il suo Ich und Du. Molto diverse le loro esperienze formative: Buber, in seguito alla separazione dei genitori, ha trascorso buona parte dell’infanzia e dell’adolescenza presso i nonni a Lemberg (Leopoli), in Galizia, ovvero in un ambiente culturale in cui si mantengono vive le tradizioni proprie dell’ebraismo dell’Europa orientale; Rosenzweig è cresciuto invece nella Germania Occidentale, a Kassel, in una stimata famiglia di ebrei liberali ove sopravvive ben poco dell’osservanza delle norme rituali e liturgiche della fede che pur si continua a professare.

Negli anni della formazione, Buber — grazie al nonno paterno, Salomon, grande studioso della tradizione midrashica — ha la possibilità di imparare l’ebraico e di accedere ai testi religiosi originali. Il giovane Rosenzweig non ha analoghe sollecitazioni nella sua famiglia (se si eccettua forse il prozio Adam, che esorta il piccolo Franz a non dimenticare mai la sua identità ebraica), e acquisirà una solida formazione religiosa con un certo ritardo, in seguito alla sua convinta adesione alla fede ebraica, che egli situa nel 1913. Buber, già nell’adolescenza, può conoscere dal vivo l’universo religioso dell’ebreo orientale, e in particolare quella sua peculiare espressione costituita dal chassidismo, al quale dedicherà in seguito lunghi anni di studio. Rosenzweig viene a conoscere in qualche modo quella cultura religiosa quando ha già più di trent’anni, allorché, da sottufficiale dell’esercito tedesco, viene inviato in Polonia per frequentare un corso di addestramento.

Sia Buber che Rosenzweig, comunque, debbono molto alla formazione ricevuta nelle università tedesche e, più in generale, alla Bildung tedesca del primo Novecento. Goethe, Hölderlin, Kant, Kierkegaard, Nietzsche sono tra gli autori familiari a entrambi. Buber ha studiato — oltre che a Vienna, Lipsia, Zurigo — a Berlino, dove ha avuto tra i suoi docenti Georg Simmel e Wilhem Dilthey, e il suo debito intellettuale nei loro confronti è abbastanza evidente negli scritti anteriori a Ich und Du. Più contrastata l’esperienza universitaria di Rosenzweig, che abbandona gli studi di medicina per dedicarsi alla storia e alla filosofia sotto la guida di Friedrich Meinecke, trovando dopo la conversione un valido punto di riferimento intellettuale in Hermann Cohen, autore per il quale Buber non dimostra invece — almeno in quegli anni — un grande interesse.

Ancora, nel 1922 Buber, pur non avendo pubblicato la sua opera più nota, svolge da alcuni lustri una intensa attività di scrittore, giornalista e promotore di importanti iniziative editoriali, grazie alla quale ha acquisito notevole prestigio sia tra gli intellettuali ebrei che tra i cristiani. Rosenzweig ha già dato alle stampe, oltre alla Stella, un notevolissimo studio sul pensiero di Hegel,6 alcuni brevi saggi e qualche traduzione, ma la sua notorietà non va oltre il ristretto ambito di alcune cerchie di intellettuali.

A poco più di vent’anni, Buber ha preso parte a iniziative politiche di stampo socialista e ha aderito al sionismo, che per lui è un’idea direttiva alla quale si manterrà fedele, e che trascende l’ambito della politica. Rosenzweig, da parte sua, non ha vissuto esperienze analoghe, e resta sempre ben lontano dal sionismo, in quanto convinto assertore della rilevanza spirituale e culturale della presenza ebraica nel mondo nelle modalità rese possibili dalla Diaspora. Nel 1914, insieme ad altri intellettuali, Buber ha progettato, senza poterla realizzare, un’iniziativa volta a scongiurare la guerra e a promuovere la collaborazione internazionale. Nel settembre di quell’anno, allo scoppio della guerra, Rosenzweig presta servizio nella Croce Rossa; nel 1915, arruolato nell’esercito tedesco, viene destinato al fronte balcanico.

Rosenzweig vive la sua conversione alla fede ebraica nel 1913, all’età di ventisette anni, volgendo improvvisamente le spalle al progetto di convertirsi al cristianesimo passando attraverso l’ebraismo; Buber situa invece una «crisi religiosa» negli anni dell’adolescenza, allorché si è immerso nella lettura di Kant e Nietzsche, e una «conversione» in quelli della piena maturità, durante il primo conflitto mondiale. Questa conversione, tuttavia, non costituisce per lui un ritorno alla fede dei padri — che, del resto, egli non ha mai rinnegato — ma il maturare in lui di una nuova «religiosità», affatto diversa da quella vissuta fino allora. La religiosità autentica non gli si manifesta più come una «esperienza interiore» — un Erlebnis — che, nell’eccezionalità del suo accadere possa squarciare la trama degli avvenimenti e degli incontri quotidiani, non è più «rapimento, distacco, estasi», ma è, al contrario, l’assunzione piena delle «richieste e responsabilità di ogni ora mortale».7 La religiosità, in altre parole, coincide con la vita stessa se questa è vissuta nella responsabilità, senza sottrarsi alle relazioni che la strutturano.

Per caratterizzare il rapporto tra il suo percorso intellettuale e quello di Buber, Rosenzweig ricorre a una perspicua metafora, ravvisando in essi due gomitoli misteriosamente legati l’uno all’altro per una estremità:

Avviene — quando due pensano così — che i loro pensieri, come due gomitoli aggrovigliati l’uno all’altro, debbano incrociarsi cento volte e cento volte separarsi; debbano separarsi, per potersi incrociare di nuovo. Se li si vuole separare l’uno dall’altro, bisogna trovare le estremità, quelle libere, poiché le altre sono annodate chissà da quale altra mano. Dalle estremità libere essi si lascerebbero separare, il che era ciò che io tentavo di fare la volta scorsa;8 questa volta dovrei lasciarli stare aggrovigliati così come si trovano, e lasciare che corrano lungo le spire, con cuore nuovamente sospeso a ogni incontro e ad ogni intreccio. Perché, come potrebbero essere i gomitoli aggrovigliati l’uno all’altro, se quell’altra Mano non li avesse legati insieme per una estremità?9

Al tempo cui risalgono i brani citati, lo scambio epistolare tra i due autori, che si sono incontrati per la prima volta nell’aprile 1914 e corrispondono da alcuni anni, è già abbastanza assiduo. Nel complesso, il carteggio è davvero cospicuo: presso il Martin Buber Archiv di Gerusalemme risultano depositate 239 lettere, spedite da Rosenzweig a Buber tra il 1921 e il 192910 e oltre 380 lettere scritte tra il 1915 al 1929 dal secondo al primo.11 Come nota Grete Schaeder, curatrice del Briefwechsel di Buber, si tratta della più importante e profonda tra le corrispondenze epistolari intrattenute dall’autore, di un vero «scambio di lettere… che può darci un’idea adeguata dell’intensità e della rilevanza di questa comunione di spiriti».12

Per comprendere il valore di tale carteggio, e non arretrare davanti alle oscurità che non di rado il testo delle lettere presenta, bisogna considerare che esse «accompagnano e completano i colloqui»13 che si svolgono al tempo a casa di Rosenzweig, a Francoforte sul Meno, dove Buber, che risiede nella non lontana Heppenheim, si reca con discreta frequenza. Lo stile delle lettere attesta come il loro rapporto, già dai primi anni Venti, sia improntato alla franchezza e alla confidenza che connotano la vera amicizia, sebbene il passaggio dal «lei» al «tu» avvenga soltanto nel 1925.14 Nel 1922, Rosenzweig — già costretto all’immobilità da una grave malattia neurologica, la sclerosi laterale amiotrofica — scrive a Buber: «La prego di venire tranquillamente da me… non sono più in condizioni tali da potere chiedere a chiunque di sopportarmi, ma Ella è tra le persone alle quali desidero chiederlo».15

Sono molteplici, in effetti, i motivi di interesse che il carteggio presenta sia sotto il profilo teoretico che storiografico. Quanto al primo aspetto, sono di notevole rilevanza, tra le altre, alcune lettere risalenti all’estate del 1924, che documentano due diverse concezioni del rapporto tra rivelazione e legge.16 Di non minore importanza le notazioni riguardanti nuclei tematici che impegnano in modo tutt’altro che marginale la riflessione dei due autori, quali la religione, la preghiera, la magia, il rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Riguardo all’aspetto storiografico, il carteggio evidenzia, tra l’altro, l’importanza che le osservazioni, gli incoraggiamenti e le critiche dell’uno hanno nei riguardi della ricerca dell’altro. Si direbbe quasi che l’uno cerchi nell’altro la conferma della fecondità del cammino intrapreso e che, per converso, sia disposto a tralasciare ricerche già avviate e intraprendere nuovi percorsi su sollecitazione dell’altro. Così, ad esempio, i colloqui con Rosenzweig contribuiscono a far sì che Buber abbandoni il progetto di una poderosa opera in cinque volumi, della quale Ich und Du costituisce il «fragile inizio».17 D’altra parte nel 1925, allorché i due autori, su invito della casa editrice berlinese Lambert Schneider, intraprendono la «versione in tedesco» (Verdeutschung) della Scrittura, Rosenzweig, anche grazie all’assiduo confronto con Buber, si convince ad abbandonare definitivamente il suo progetto originario di una revisione della traduzione di Lutero.

Il carteggio documenta peraltro l’opera svolta da ciascuno nella promozione degli scritti e delle iniziative editoriali dell’altro; si pensi, per quanto riguarda il solo Rosenzweig, ai saggi, di capitale importanza per la comprensione del suo pensiero, Die Bauleute18 e Das Neue Denken,19 nonché alla sua traduzione delle poesie di Yehudah haLevy.20 Quest’ultima opera viene da lui dedicata proprio a Buber, cui scrive:

Ho adesso una grande preghiera, al pensiero della quale gioisco da molto tempo. Difatti l’ho rinviata soltanto fino a quando il problema dell’editore fosse stato liquidato.21 Vorrei dedicare a Lei lo Yehudah haLevy, poiché, a prescindere dal resto (abgesehen von dem Überhaupt), del quale probabilmente non ho bisogno di parlarLe, sono debitore di questo piccolo libro a Lei — al Suo elogio e alle Sue sollecitazioni — Le sono debitore del suo venire alla luce, e persino della sua forma, poiché, senza i suoi buoni auspici, non mi sarei mai deciso ad aggiungere i brani in prosa. Essenziale, tuttavia, è per me il «resto». Mi scriva dunque per darmi il Suo assenso. La forma [sarà] certo assolutamente semplice: «Dedicato a Martin Buber».22

Tra le lettere pubblicate, la più antica è quella in cui Buber invita Rosenzweig a collaborare alla rivista che al tempo dirige, «Der Jude».23 Si tratta di un mensile «che, senza essere in alcun modo orientato in senso partitico, deve servire a una trattazione approfondita dei problemi ebraici, un’adeguata realtà ebraica e una giusta ed energica difesa della lingua ebraica».24 L’ultima lettera è, in realtà, uno scarno biglietto che Rosenzweig riesce a dettare il 9 dicembre 1929, un giorno prima di morire: «e ora, essa viene, la pointe di tutte le pointe, che il Signore mi ha realmente concesso in sogno: la pointe di tutte le pointe per la quale esso…».25

2. I riferimenti alla Stella della redenzione

In una lettera dell’estate 1919, la prima in ordine cronologico tra quelle inviate da Rosenzweig e pubblicate, l’autore della Stella della redenzione sottopone l’opera all’attenzione di Buber. Egli ricorda, tra l’altro, come alcuni anni prima, un suo breve scritto sulla «teologia atea»,26 da lui inviato quale contributo al secondo numero dell’annuario «Vom Judentum», peraltro poi non pubblicato, fosse stato rifiutato da Buber:

… fui ben contento allorché il mio contributo mi fu rimandato indietro; poiché se per me era chiaramente fissata la direzione nella quale sarei andato, altrettanto immaturo e non adatto alla pubblicazione appariva a me stesso tutto ciò che allora avrei potuto dire. La lettera e il discorso erano allora, e lo sarebbero stati per altri anni ancora, la sola occasione in cui esprimermi convenientemente. Credevo di non potere dare nulla alle stampe ancora per lungo tempo.27

Tra il 1918 e i primi mesi del ’19, tuttavia, Rosenzweig è riuscito a dare definitiva espressione a quanto ha meditato negli anni precedenti «in un libro più ampiamente sistematico». Nel periodo in cui era impegnato nella stesura, egli non credeva opportuno pubblicare la Stella se non alla sua morte,28 per non inficiarne il carattere di opus posthumum: si trattava per lui dell’opera della sua vita, alla quale non si sarebbe potuto accostare alcun altro scritto successivo. All’inizio dell’estate del 1919 — la stesura è stata ultimata già in febbraio — l’autore rivede le sue convinzioni al riguardo, e si decide a pubblicare il libro. Rosenzweig ritiene ora che l’opera possa contribuire a fargli superare la condizione di isolamento e di anonimato rispetto alla comunità ebraica di Francoforte, città ove si è stabilito: qui egli non potrebbe avviare l’attività formativa che aveva progettato qualche anno prima restando uno «sconosciuto» («meglio famigerato che nessuno»).29

Scrivendo a Buber, egli precisa che intende dare al volume una collocazione editoriale «che già esteriormente lo caratterizzi per quello che esso doveva diventare nella mia intenzione e che spero sia anche diventato: un libro ebraico».30 Non si tratta di un problema di facile soluzione: gli editori ebrei — e tra questi lo Jüdische Verlag e Löwit — frappongono difficoltà perché il libro è assolutamente estraneo agli orientamenti allora prevalenti nel sionismo, oppure perché il libro non si inserisce nell’alveo della Wissenschaft des Judentums (l’autore teme che Kaufmann possa presentargli tale obiezione, ma è proprio presso questo editore che l’opera sarà pubblicata nel 1921). Rosenzweig — che respinge fermamente l’idea di pubblicare il volume presso una casa editrice cristiana, pur prospettatagli da alcuni suoi amici — chiede allora aiuto a Buber affinché presenti favorevolmente l’opera presso gli editori ebrei di sua conoscenza («Temo … che finirò con l’essere costretto a cacciarmi sotto un editore tedesco, se Ella non potrà dire una buona parola in mio favore»).31 Egli non è sicuro che la Stella susciti l’interesse del corrispondente, il cui orientamento intellettuale gli appare «lontano» dal suo, sebbene non come lo è da ogni «corrente scolastica» dell’«idealismo».

Nelle parole con cui Rosenzweig accompagna l’invio del manoscritto a Buber, pregandolo di leggerne almeno una parte, è evidente la consapevolezza che l’opera costituisce e costituirà un unicum nella sua produzione:

… credo di poterLe assicurare che solo per questa unica volta Le rivolgo una preghiera simile. Questo perché non scriverò di nuovo qualcosa del genere. Ho l’insopprimibile sensazione di avere tracciato qui la summa della mia esistenza spirituale e che tutte le cose che verranno dopo saranno soltanto aggiunte, così come forse l’attimo e le sollecitazioni esteriori potrebbero occasionalmente carpirmi. Ciò che è in me di più autentico, per quanto si possa dare ciò che è di più autentico di se stessi in un libro, io l’ho dato qui. Solo nella vita, non più nello scrivere, io vedo ancora futuro davanti a me.32

Rosenzweig non vuole più «scrivere libri», in quanto per lui è maturo il tempo per compiere irreversibilmente il salto dal libro al «non-più-libro», perseguendo un altro genere di opera, nella quale inverare, confermare — bewähren — quella «verità» che, più che essere comunicata in uno scritto, vuole essere testimoniata nella vita (in questa forte convinzione, che sostiene tutto il suo impegno negli anni successivi, Gianfranco Bonola ravvisa opportunamente «una sorta di prammatismo testimoniale»).33

Scrivendo a Buber, Rosenzweig si dimostra abbastanza fiducioso nella possibilità che la Stella abbia una certa diffusione («essa si procurerà il suo pubblico, credo, nel corso degli anni»).34 Con il passare del tempo egli dovrà tuttavia constatare che il libro ha avuto poche centinaia di lettori, che per lo più hanno travisato l’intento dell’autore. Se Rosenzweig ha acquisito una qualche notorietà nel mondo in cui si è prefisso di operare, ciò è avvenuto in buona misura grazie al fatto che i più non hanno letto la Stella, e che i pochi lettori l’hanno fraintesa. Egli accetta questo risultato come un «destino» del libro, che lo rende — si potrebbe aggiungere — un opus posthumum in un senso che va al di là dell’intenzione originaria dell’autore. Significative, al riguardo le lettere da lui inviate tra il 1924 e il ’25 al cugino Hans Ehrenberg, al collaboratore Ernst Simon e a Margrit Rosenstock-Huessy, moglie del filosofo.35

In un’altra lettera a Buber, risalente al 1922, il dibattito sul concetto di «paganesimo», fornisce a Rosenzweig il contesto per una digressione in cui cogliamo interessanti notazioni riguardo alla genesi dell’idea fondamentale della Stella, ovvero al «rapporto tra creazione e rivelazione»:

… mi sembra che la nostra differenza sia qui una differenza nella visione della storia, dunque della visione del mondo, e non nel modo di accogliere la vita. Perciò non è importante. Io conosco paganesimi, religioni pagane. Ma di pagani non ne conosco neanch’io.36 Quel conoscere è un sapere, un éidetai,37 quindi un avere visto. E se anche fosse? Allora questo non conoscere è un non vedere, un non vedere del tutto presente, che sempre ci è attuale (ganz präsentes, immer gewärtiges), che sempre è disponibile. Eppure è proprio questa la cosa decisiva. A gettare il ponte tra quel non avere visto e questo non vedere è il concetto (trovato comunque da Strauß38 proprio sul suo cammino) del «sempiterno pagano», che corrisponde in gran parte a ciò che ella chiama «paganesimo in tutti i popoli». Per questa soluzione proprio di questo problema ho impiegato tre anni, dalla primavera del 1914 fino all’autunno del ’17. Quando la trovai — di notte, incespicando in una pianta orribilmente spinosa sulla strada dal fronte verso Prilep, in Macedonia — allora seppi «tutto»; fu il momento in cui concepii il mio libro (non ancora come libro); seppi il rapporto tra creazione e rivelazione, dal quale poi, allorché sei settimane dopo cercavo di esprimerlo in parole a partire dal sapere senza parole, seguì per me, come da sé, tutto il resto.39

Nella parte pubblicata del carteggio non si coglie alcun giudizio esplicito di Buber sulla Stella (certo, egli non ha mancato di manifestare a viva voce la sua impressione all’autore40); da parte di Rosenzweig, i riferimenti all’opera sono alquanto discreti. Nel 1924 l’autore scrive di considerare «sempre vera»41 la visione dell’ebraismo presentata nel libro; ancora nel 1927, egli ammette che alcuni suoi scritti cronologicamente vicini a quello sono ormai estranei alla sua sensibilità e al suo pensiero, ma precisa, al contempo, di non essere affatto «lontano dalla Stella».42 In una lettera del 1923, egli ringrazia Buber «per la proposta della Stella agli italiani»43 e gli confida il progetto di una traduzione in ebraico: «E questa un giorno verrà. Voglia Iddio che colui che la intraprende conosca anche il tedesco. Alla maniera di Hölderlin (Hölderlinsch), intendo naturalmente».44

3. La critica di Rosenzweig, «cavaliere dell’Esso», a Ich und Du

È lo stesso Buber, prima ancora di pubblicare Ich und Du, a sollecitare vivamente Rosenzweig a manifestargli la sua opinione sull’opera. L’amico non si sottrae al compito, e gli scrive:

In questi giorni ho dimorato (gewohnt) nel Suo libro, e mi è andata come deve proprio andare anche a un lettore: l’estraneità del primo giorno è svanita, mi sono familiarizzato, mi ci sento a casa (eingewöhnt- eingewohnt), e proprio ciò che mi è più lontano (detto fuor di metafora: ciò che io ritengo sbagliato) mi ha attratto più di tutto, anzi affascinato, solitamente più di quelle parti dei suoi strumenti domestici, ai quali sono anch’io abituato a casa mia (mi viene in mente che a Lei è andata proprio così con la Image: la prima parte e la seconda parte del III libro La hanno toccata più da vicino che la seconda parte del II, a Lei più strettamente affine).45

Ma, al di là di tutto ciò, mi perseguita in questi giorni il problema di che cosa significhi innanzitutto il fatto che «anche» «un altro» pensi. Laddove si tratta di un pensiero estraneo, realmente estraneo, poniamo quello di Simmel, questo problema non sorge affatto; non ci riguarda proprio per nulla. E laddove il cammino vitale del pensiero è proceduto, in modo completo o a tratti, in comunione (sia pure nella comunione del combattere l’uno contro l’altro), il problema dà a se stesso la risposta; la cosa ci riguarda. Ma laddove non si tratta né di un caso né dell’altro e si incontrano ora le idee stesse, si incontrerebbero anche se noi non ci fossimo mai incontrati, il problema si ingigantisce.46

In un’altra lunga lettera, Rosenzweig non manca tuttavia di esprimere i suoi rilievi riguardo alla tesi centrale del libro.47 Egli afferma di non ritenere esaustiva la netta dicotomia instaurata da Buber tra le parole fondamentali, invero coppie di parole, Io-Tu e Io-Esso, che fondano ed esprimono, rispettivamente, la relazione autentica — con esseri della natura, gli altri uomini e le «essenze spirituali» — e il rapporto con un essere considerato quale «cosa» tra le cose, da analizzare, rubricare, utilizzare.

In primo luogo, nota Rosenzweig, l’Io-Tu ha, nell’Io-Esso presentato in Ich und Du, soltanto «uno storpio per antagonista»; sebbene «questo storpio governi il mondo moderno, non cambia nulla riguardo al fatto che è uno storpio».48 Si tratta del «falso» Esso, del prodotto del «grande inganno», affermatosi in Europa da meno di trecento anni, insieme con il soggettivismo del pensiero moderno. Per Buber l’Io-Esso può essere detto, sebbene non «con l’intero essere» ma avvalendosi delle sole risorse dell’intelletto, Rosenzweig ritiene invece che, insieme a questo Esso, l’Io non venga affatto «detto», ma soltanto «pensato». L’Io-Esso, pertanto, non è affatto una «parola fondamentale», ma un «pensiero fondamentale», un «pensiero di punta, una punta del pensiero, una pointe» della filosofia moderna, che procede dalla scissione tra «soggetto» e «oggetto».

Ancora, per Rosenzweig, correlativamente all’Esso, al vero Esso messo in ombra da Buber, non l’Io umano può essere detto, ma l’Egli, ovvero quel pronome che, nella Verdeutschung della Scrittura, sarà scelto quale traduzione del Nome divino. L’Egli-Esso, e non l’Io-Esso nella declinazione buberiana, è parola fondamentale, la quale può altresì essere detta «con l’intero essere» dall’uomo aperto al mistero della creazione, consapevole che «Egli fa morire e richiama in vita»,49 come recita un’espressione del Cantico di Anna, recitata giornalmente dall’ebreo osservante nello Shemonh-’esreh («Preghiera delle diciotto Benedizioni»).

Buber sembra dimenticare l’Egli-Esso e, nell’«ebbrezza» procuratagli dalla scoperta delle due parole fondamentali, «getta tutto il resto (proprio letteralmente) ai morti»; in ciò — continua Rosenzweig — egli commette lo stesso errore di Ferdinand Ebner, il filosofo austriaco che un anno prima, nel 1921, ha pubblicato la sua opera capitale, i Frammenti Pneumatologici.50 Per Rosenzweig, poiché l’Io-Esso in Ich und Du contrassegna un ambito ove manca l’autentica relazione, un mondo ove regna la morte, Buber è costretto ad «elevare» tutto ciò che egli «non vuole lasciare cadere dentro questa valle dei morti, perché è troppo vivo, al regno della parola fondamentale Io-Tu, che perciò dovrà essere allargato in modo enorme».

Hermann Cohen, a differenza di Buber, era «spaventato» dalla stessa scoperta. Nota Rosenzweig:

Accade a Lei esattamente il contrario di ciò che è accaduto a chi, con Lei, ha fatto la scoperta, Cohen. Davvero una storia come quella: «coloro che penetrarono nel giardino»:51 egli scoprì l’Io-Tu come la grande eccezione alla regola e per amor suo fece aggiunse un’ala al suo edificio già ultimato, invero badando sempre a non deturpare quello ultimato. Il che naturalmente non gli riuscì; egli volle introdurvi molto, troppo, ovvero ciò che aveva trovato il suo posto nella vecchia casa; così l’ala aggiunta minacciava di crescere fino a diventare una casa vera e propria, nella quale ora meno di tutte si ritrovano quelle cose, che già avevano frequentato la vecchia casa. Ella, al contrario, erige fin dal principio una nuova costruzione, fa della creazione un caos, buono proprio quanto basta a fornirLe il materiale da costruzione per il nuovo edificio; ciò che non vi sta, diviene inessenziale. Cohen era spaventato dalla sua scoperta. Ella ne è inebriata; cosi gli Altri52 seguiranno Lei e saranno «quelli che recidono le piante». Vi è però anche in questo giardino uno «che entrò e uscì sano e salvo». Riferito a Lei: esistono accanto all’Io-Tu due parole fondamentali altrettanto essenziali, parole fondamentali delle quali una metà sta altrettanto bene all’intero essere della rispettiva altra metà come nell’Io-Tu. Di una, l’Egli-Esso, la parola dell’«ingresso», ho già parlato. La parola dell’«uscita», proprio di quella uscita53 dice: Noi-Esso (posso pure essere così conciso nel formularlo di fronte a Lei?). Questo è il secondo modo, di dire l’Esso «con l’intero essere». Io non posso (l’Io non può?) dirlo dire Esso in modo essenziale, ma Egli lo può e Noi lo possiamo. (NB: nel Noi-Esso riposano le risposte per tutti quei problemi, cui la filosofia cerca risposta nella pseudo-parola fondamentale Io-Esso). Mentre però Noi diciamo Esso, l’Esso diviene: Esso. Cosicché ne risulta ora la seguente serie, nella quale l’Io- Tu deve costituire il centro, perché soltanto in questo giardino governa l’intero equilibrio, poiché l’Io-Tu si può in ogni attimo svelare nell’Io-Tu e del pari in ogni attimo nell’Io-Tu:

Egli-Esso, Io-Tu, Noi-Esso Io-Tu Io-Tu

L’inizio e la fine di questa serie, congiunti, danno la grande espressione di Schelling: «E allora il panteismo sarà vero».

Nel mondo non ancora redento, per l’autore della Stella, l’uomo non può pronunciare l’Io-Esso, ma la Redenzione abiliterà la comunità umana a pronunciare coralmente, e «con l’intero essere», il Noi-Esso, anzi il Noi-Esso, in quanto soltanto allora (nel «compimento» che comporta la «pienezza della fine», ovvero nella Vollendung che è Voll-endung) tutto quanto è creato attinge la pienezza del suo essere.

Rosenzweig si dichiara pertanto «cavaliere molto disinteressato dell’Esso», pur precisando di essere «interessato… soltanto all’Io e Tu». L’Io-Tu, comunque, non può estendersi al punto di «inghiottire il mondo intero e insieme ad esso il creatore». L’universo delle realtà dialogiche è per lui, ben più che per Buber, un «pluriverso» ove trovano posto, oltre all’Io-Tu, l’Egli-Esso e il Noi-Esso. Significativamente, Rosenzweig conclude la lettera scrivendo: «Per amor Mio e amor Tuo ci deve essere dell’altro oltre al Me e al Te!»54»

Buber accetta di buon grado la critica («grande, grandiosa»55), sebbene ritenga di non avere fatto un torto così grave alla realtà dell’Esso e protesti di non essere mai stato «inebriato» dalla scoperta delle parole fondamentali. In realtà, egli ha condotto tutta la sua ricerca con una «sobrietà» paragonabile «alla composizione di qualcuno che, avendo appena una qualche competenza musicale, si sforzi di seguire completamente una difficile sinfonia».56 Si tratta, per l’autore di Ich und Du, di una ricerca che è stata costantemente animata, come del resto quella di Rosenzweig, dal solo intento di «dire… nient’altro che la Parola», quella Parola che egli «ha servito a lungo e seriamente».57

Se Buber ritiene di non avere misconosciuto in Ich und Du la realtà dell’Esso, per Rosenzweig è vero piuttosto che anche nell’opera, al di là delle intenzioni dell’autore, tale realtà riesce a trovare una qualche espressione:

invero in alcuni passi si realizza per l’Esso il suo pieno diritto, ma ciò non è merito Suo, ma dell’Esso; questi passi cadono al di fuori del procedere del Suo pensiero: la effettiva realtà creata, precedendo tutto l’Esso fittizio, sgorga per Lei dentro il concetto (Konzept), grazie a Dio (realmente!). Dovrei riavere qui il testo, per evidenziarLe i passi, e uno in particolare (non sono quelli in cui l’Esso rimane indietro come residuo triste, dopo che il Tu è evaporato; tali passi sono conseguenti). La realtà effettiva si fa strada qui, come nella professione di fede lungo il cammino, in questa decisiva professione, si fa strada. E come, non-confessata (un-bekannt), ma reale, si fa strada in tutto il libro. Come accoglierebbe Ella volentieri Buddha nel Suo paradiso,58 giardino59 sul quale sta scritto Io-Tu! Come accoglierebbe volentieri il gatto domestico e tutte le pie anime pagane e maestri di coloro que sanno.60 Ma non Le riesce; essi pure arrivano in definitiva solo in un meraviglioso posto nell’antinferno, all’Esso. E non sarebbe affatto necessario che fosse un anti- inferno, esso sarebbe un vero anti-paradiso, se Ella si fosse lasciata appioppare non soltanto il dannato Io-Esso dei filosofi, ma anche il benedetto Egli-Esso dei bambini e di Goethe e del Creatore.61

4. Le sollecitudini per il Lehrhaus

La corrispondenza epistolare tra i due autori si fa più assidua a partire dalla fine del 1921, allorché Rosenzweig coinvolge Buber nell’attività didattica del «Freie Jüdische Lehrhaus» di Francoforte sul Meno, da lui diretto dal 1920.62 È, questo, un istituto per la formazione permanente degli adulti, aperto anche ai non ebrei. Vi si tengono corsi di lezioni e seminari di approfondimento su discipline che vertono sulla religiosità, la cultura e la lingua ebraica. Nelle parole di Richard Koch, medico di Rosenzweig e collaboratore di «Der Jude» nonché del «Lehrhaus», quest’ultimo è: «Non è una scuola, non un istituto, non un seminario, né un’accademia… È una scuola di formazione della gente, nel senso più ampio del termine».63

Rosenzweig, che pure ha profuso tante energie nell’improntare ai suoi principi l’attività formativa del «Lehrhaus», manifesta talora a Buber il suo pensiero riguardo ai rischi e i limiti cui soggiace l’insegnamento. Questo apre comunque delle strade che un giorno altri percorreranno. Gli scrive:

Per quale ragione cerchiamo di insegnare? Ella sa, e anch’io lo so, che nella pratica il migliorare e il convertire, tanto se stessi quanto il prossimo, solo ben di rado fanno rima con l’insegnare, perciò in ogni modo l’impegnare grandi istituti al riguardo non ripaga. Invero ciò che è immediato, decisivo, può certo accadere anche nell’insegnamento, ma pure altrettanto bene allorché si è a pranzo. Ma l’insegnare agisce normalmente (e solo con riguardo alla normalità si possono fare istituti, «fare» in generale), agisce normalmente solo in modo mediato, solo preparando, rimuovendo ostacoli per così dire in riserva (in questo «in riserva» risiede il pericolo dell’insegnare)…

Vi è proprio, lo debbo ora ripetere, la preparazione, l’aprire le strade, il costruire la casa. Il fatto che perciò nessuno debba ancora percorrere la strada, entrare nella casa, che a percorrere la strada e ad abitare nella casa possano essere inetti fantasmi, certo! Il costruire deve perciò essere un lavoro inutile?64

Nel dicembre 1921, Rosenzweig invita Buber a tenere un ciclo di conferenze al «Lehrhaus», che potrebbe vertere su «Dio e Mondo»,65 e delle annesse «esercitazioni sulle fonti» («Penso a tale abbinamento, poiché ho sempre fatto in me stesso l’esperienza che la simultaneità di ampiezza e profondità è quanto di più efficace sul piano pedagogico. Si deve avere il maestro ora lontano ora vicino, mai semplicemente l’una cosa o l’altra»).66 Buber accetta la proposta, precisando però di potere svolgere un corso su un argomento ben delimitato, il cui titolo potrebbe essere «Religione come Presenza» («Religion als Gegenwart»), nonché delle letture di alcuni testi religiosi.

Rosenzweig illustra al corrispondente i criteri che ispirano l’attività didattica del «Lehrhaus», richiamando uno scritto programmatico da lui pubblicato nel 1920, Bildung und kein Ende (si potrebbe tradurre: Formazione, a non finire). Nell’intento di porre in pratica gli assunti teorici esposti nello scritto, egli, con Richard Koch e Eduard Strauß, ha già avviato una piccola «tradizione di corso in forma di conversazione», nel quale l’allievo è sollecitato a partecipare alla discussione, al Mitreden. Rosenzweig, comunque, lascia libero Buber riguardo al metodo della sua attività didattica («resta sempre possibile la lezione pura e semplice»).67 In ogni caso, il «Lehrhaus», rispetto all’Università, offre al relatore la possibilità di «essere molto più conciso, più diretto, più positivo».68

In effetti, dal gennaio al marzo 1922, Buber tiene al «Lehrhaus» un ciclo di conferenze dal titolo «Religion als Gegenwart»,69 il cui testo costituisce, sia sul piano storiografico che su quello teoretico, l’antecedente più diretto di Ich und Du. Il corso da lui svolto nell’anno successivo, «Le forme originarie della vita religiosa»,70 è articolato in quattro nuclei tematici: magia, sacrificio, mistero e preghiera. Nello scambio epistolare Rosenzweig si mostra per lo più d’accordo con lui riguardo ai temi da trattare, ma non manca di manifestargli la sua diversa concezione della magia e della preghiera. Per lui «magia e preghiera sono … i due fenomeni religiosi originari, proprio in quanto non sono specificatamente religiosi, come sacrificio e mistero, ma fenomeni di tutta la vita».71 Per Buber, la magia «non appartiene alla vita “religiosa”: essa è ciò che fa ostacolo, che agisce in senso contrario, che si oppone»72 alla religiosità autentica. Rosenzweig ravvisa in ciò una nozione alquanto ristretta della magia; in realtà questa si afferma allorché la volontà umana riconosce solo in se stessa il proprio principio. Quella fortissima volontà umana che alimenta la preghiera autentica può, nel suo delirio di autosufficienza, pervertirsi, e aprire la strada alla magia. La preghiera non è per lui soltanto un «abbandonarsi all’essere-ascoltato» (G. Ebeling) ma una invocazione che vuole essere esaudita:

Potrei dirmi d’accordo sul fatto che la magia sia ciò che fa ostacolo, che agisce in senso contrario, che si oppone; ma non è così solo quando si rende autonoma? Di solito è la magia, o piuttosto la volontà — quella che conduce alla magia allorché si fa «principio» — proprio ciò che dà alla preghiera il massimo peso di realtà effettiva. Vale a dire la volontà che anche la preghiera venga esaudita. Esistono tuttavia uomini dalla mente distorta che vorrebbero più di tutto che la preghiera fosse completamente libera da questa volontà. Una tale preghiera «pura» mi è sempre apparsa, come lo stesso suo opposto cattivo, quale magia pura, un insipido, estenuato disporre di sé, come quello è un volere troppo ardente, uno stravolere (Gewolle). La vera preghiera è vera, perché quelle pulsioni, che possono condurre alla magia, sono accolte in essa. Lo stesso «che si faccia la Tua volontà» è ciò che è solo perché almeno questo stesso, questo «che la volontà di Dio si compia», (è) per l’orante un desiderio così appassionato come solo un mago può desiderarlo. Senza questa violenza della passione essa si farebbe vuota frase, unzione, agli occhi di Dio sicuramente di valore inferiore rispetto a un’energica preghiera per l’ascesa o la caduta del dollaro. Tuttavia è così, credo, con il pagano in generale. Come elemento, essa è imperitura, perché è indispensabile. Essa si fa impedimento, reazione, forza antagonista, quando costituisce se stessa, quando fonda il proprio regno; essa diviene veicolo, forza, intercessione, quando entra nel Regno di Dio.73

Con il progredire della sua malattia, Rosenzweig manifesta a Buber le sue preoccupazioni riguardo al prosieguo dell’attività del «Lehrhaus». Non gli basta che esso sopravviva, ma gli sta a cuore che continui la sua opera formativa nel rispetto di quei principi che lo rendono diverso da una qualsiasi «Università Popolare Ebraica». A partire dall’estate del 1922, il carteggio attesta come Rosenzweig veda in Buber uno dei collaboratori che possono aiutarlo al fine di scongiurare questo pericolo e gli confidi le preoccupazioni che nutre per il futuro della scuola. Allorché individua il suo successore alla direzione del «Lehrhaus» nell’orientalista Rudolf Hallo («un amico di dieci anni più giovane, alla cui formazione ebraica… ho contribuito senza volerlo, anzi contro la mia volontà»74), egli può scrivere di nutrire una rinnovata speranza.

Il problema della sopravvivenza del «Lehrhaus» si ripropone l’anno successivo, poiché Rudolf Hallo lascia la direzione della scuola già al termine del semestre estivo 1923.75 In una lettera diretta ai suoi più vicini collaboratori — oltre a Buber, Eduard Strauß, Richard Koch ed Ernst Simon — Rosenzweig cerca di delineare l’organigramma dell’istituto nel prossimo futuro. Egli esamina la possibilità di affidare la direzione a un «consiglio a quattro» (composto appunto dai destinatari della lettera) e chiede ai collaboratori di manifestargli le loro proposte in ordine all’attuazione del progetto. Nel contempo, il filosofo sottolinea ancora una volta ciò che rende il «Lehrhaus» profondamente diverso dalle altre scuole e istituti di formazione:

… il «Lehrhaus» si inseriva in una situazione ebraica ben determinata. Essa si può esprimere così: vi erano allievi, ma nessun insegnante. Gli insegnanti che c’erano, per questi allievi, non erano veri insegnanti. Si trattava allora di trovare insegnanti a questi nuovi allievi, insegnanti che dessero risposte a coloro che domandavano. L’audace manovra doveva essere osata nella cerchia in si celavano gli insegnanti: piuttosto, nella cerchia degli stessi allievi. Non era vero, anzi, che la spiritualità ebraica si fosse volatilizzata d’un tratto con l’emancipazione; la quantità non era certamente scemata, come pure la qualità; solo, sotto l’aspetto dell’ebraismo, questi liberi docenti, che erano subentrati al posto dei vecchi Talmide chachomin,76 erano Amhaarazim.77 Così bisognava rendere pedagogicamente proficuo questo Amhaarazus.78 Era questo il compito preminente del direttore. Egli stesso deve essere abbastanza Amhoorez, per non disprezzare, da specialista, le possibilità pedagogiche. Egli deve avere la disponibilità a trasformarsi egli stesso in ogni momento da insegnante ad allievo ma anche la disponibilità alla trasformazione in senso contrario. Allora, di fronte agli insegnanti al contempo il loro insegnante e il loro allievo, di fronte agli allievi, al contempo, colui che insegna con loro e impara con loro; egli stesso sarà non soltanto il direttore, ma piuttosto il baricentro del «Lehrhaus». Senza di lui, il pensiero degli insegnanti Amhoorez perde la sua generale autorevolezza; nel singolo caso può ancora andar bene; sul piano dei principi — in modo che si possa chiudere un occhio anche sui colpi andati a vuoto — tale pensiero non ha più ragion d’essere. Ma, quando egli rigetta l’idea che lo fonda, l’idea fondamentale, che cosa rimane del «Lehrhaus»? Una università popolare, più o meno buona. Non vale la pena darsi da fare per questo.79

In non pochi passi del carteggio Rosenzweig esprime dure critiche nei confronti della formazione impartita dalle università tedesche. Va detto, comunque, che prima di dare avvio al «Lehrhaus», egli ha coltivato l’idea di promuovere una facoltà di teologia giudaica all’Università di Francoforte. Il progetto — condiviso da intellettuali ebrei e cristiani80 — fallisce, ma pochi anni dopo, viene istituita, su richiesta della comunità ebraica, una cattedra di «Scienza della Religione e dell’Etica ebraica» all’interno di quella Università. Lo studioso che la comunità stessa propone al governo quale titolare della cattedra, l’eminente rabbino Nehemia Nobel, uomo nel quale Rosenzweig riponeva la più grande stima, muore prematuramente nel 1922. Nel marzo di questo stesso anno viene proposto Rosenzweig che, nel rifiutare l’incarico per l’aggravarsi della sua malattia, si riserva comunque la possibilità di influire sulla scelta del successore. Egli intende proporre alla cattedra Buber, e ne chiede l’assenso prima di pronunciarsi:

Ora, io vorrei che Ella riflettesse sulla possibilità di assumersi l’incarico. La cosa è ancora in uno stadio tale che ne può venire fuori di tutto. Naturalmente il rischio è che sia un qualche rabbino a farlo, e che la «Facoltà» che ne verrà fuori (già ora si parla di 3 insegnamenti) diventi un istituto di formazione di rabbini che si aggiunge ad altri. Questo avrei dovuto evitarlo ed è da evitare. In nessun altro luogo una tradizione si costituisce in modo così rapido come nell’Università; la durata di una generazione, difatti, risulta al più di due anni e in conseguenza di ciò gli studenti che arrivano al terzo anno, guardano già a quello che vi trovano come se esso vi fosse da sempre. E chi primo arriva, primo alloggia; non si occupano le altre cattedre, senza consultare il titolare della prima e, innanzitutto: non le si occupano in modo che la seconda e la terza risultino di rango inferiore rispetto alla prima. Si tratta dunque di una piccola maniglia che apre una grande porta. La grande porta reca però l’iscrizione: Facoltà Teologica; ma dietro vi può stare l’universalità teologica alla quale noi tutti lavoriamo per amore tanto della teologia che de-teologizza quanto dell’Università che universalizza.

Come mi immagino la cosa per Lei? Comincia al più presto in maggio, con tutti i possibili ritardi verosimilmente in novembre… I temi biblici se li risparmi per le lezioni serali al «Lehrhaus»… Veda allora: delle pure esercitazioni… Questo non lo può fare nessuno che non sia libero da qualsivoglia soggezione nei confronti dell’Università esistente e al contempo non apporti un prestigio tale che l’Università riponga davvero fiducia in lui.

Mentre vado dettando, ciò mi appare sempre più plausibile. Se ho il Suo consenso in generale, farò marciare le truppe.81

La proposta incontra il vivo interesse di Buber («Con la sua lettera sull’incarico di insegnamento, Ella ha risvegliato qualcosa in me»),82 che tuttavia manifesta anche i suoi timori circa la possibilità di potere insegnare in piena libertà all’interno di una Università statale.83 L’insistenza e le rassicurazioni di Rosenzweig («credo che non ci sia nulla da temere per la libertà di insegnamento…»)84 lo aiutano a vincere le sue perplessità, ed egli accetta: anche in questo caso l’amico riesce a trarlo fuori dalla sua «tana».85 La nomina giunge alla fine del 1923 e Buber insegnerà all’Università di Francoforte per circa dieci anni, fino all’ascesa al potere di Hitler.

5. La Verdeutschung della Scrittura, «intrapresa da M. Buber insieme a F. Rosenzweig»

Già nel 1923, allorché Rosenzweig è impegnato con la traduzione delle poesie di Yehudah ha Levy, il problema della traduzione impegna talvolta le sue conversazioni con Buber, secondo la testimonianza di quest’ultimo:

quando… arrivammo a discutere, sulla base degli esempi addotti dall’uno e dall’altro, la problematicità del tradurre e i problemi inerenti a tale compito, ci si presentarono, senza che sapessimo come — quale sfondo della nostra conversazione, sulle prime illuminato solo a tratti, e poi però in modo sempre più imperioso, quale suo centro magnetico — le domande: La Scrittura è traducibile? È già effettivamente tradotta? Che cosa rimane adesso da fare? Poco? Molto? La cosa decisiva? Come può essere fatto? Nel rapporto che una rielaborazione ha con una classica opera di traduzione? In un nuovo inizio che ha del temerario? L’epoca offre lo spazio nel quale possa respirare un nuovo inizio? La vocazione, la forza, l’aiuto, l’orecchio? E soprattutto: come va tradotta la Scrittura? Come va tradotta in questa epoca?86

All’inizio del 1925, il giovane editore berlinese Lambert Schneider, progettando tra le sue pubblicazioni una traduzione dell’Antico Testamento, chiede a Buber se è disposto a assumere tale compito. Una richiesta siffatta, proveniente da un editore cristiano, appare a questi «come un segno».87 Buber comunica la proposta a Rosenzweig, aggiungendo che risponderà affermativamente solo se questi collaborerà all’impresa. L’amico accetta di iniziare un tentativo di traduzione.

Inizia così la storia della Verdeutschung, immane compito condotto per alcuni anni insieme da due autori e, dopo la morte di Rosenzweig, continuato da Buber, che lo porterà a termine nel 1961.88 Si comprende allora come i problemi relativi alla traduzione costituiscano negli anni tra il 1925 e il ’29 uno dei temi principali del loro scambio epistolare.89

I due studiosi iniziano il lavoro tentando una revisione della traduzione di Lutero. Rosenzweig è al tempo convinto che «una nuova traduzione ufficiale della Bibbia sia semplicemente impossibile», e che si possa porre mano soltanto a una «Bibbia di Lutero rivista ebraicamente».90 Ricorda Buber:

Prendemmo in considerazione un verso dopo l’altro e, sulla base della nostra conoscenza linguistica e coscienza linguistica ebraica, modificammo ciò che ci sembrava avere bisogno di modifiche. Dopo un giorno di lavoro eravamo davanti a un ammasso di macerie. Si era dimostrato che su questa strada non si arrivava da nessuna parte. Si era dimostrato che l’«Antico Testamento» di Lutero per tutta la sua estensione rimaneva un’opera magnifica, ma già allora non era più una traduzione della Scrittura.

Allora intrapresi l’abbozzo di una versione in tedesco del primo capitolo di Genesi secondo la mia idea. Appena Rosenzweig ebbe letto il manoscritto, mi scrisse: «La patina è andata via, perciò è pura come se fosse nuova, e questo è anche ciò che conta».91 Questa frase costituì l’avvio di puntuali osservazioni, già precedute del resto da tante altre, e che nel complesso formavano un capolavoro di critica favorevole. Con ciò il lavoro comune era cominciato.92

Nell’intenzione degli autori, non si tratta di condurre in porto una mera «traduzione»93Übersetzung — della Scrittura, né una Eindeutschung che «germanizzi» la Bibbia, quale esito di un movimento unidirezionale dal testo ebraico al tedesco,94 ma di offrire una «versione in tedesco», una Verdeutschung che possa fare risuonare nell’oggi il ritmo stesso della parola biblica. In tal modo il tedesco stesso, mutuando dalla «lingua santa» moduli espressivi inusitati, rivela potenzialità inattese, la «patina» cui si riferiva Rosenzweig, che nel corso dei secoli l’intervento dei traduttori ha sovrapposto alla Parola, viene rimossa, e il lettore può riscoprire la Gesprochenheit,95 ovvero «l’essere-parlato» originario della Bibbia, che è Voce, prima ancora che Libro. Al riguardo, l’autore esprime in lettera una netta critica a Gershom Scholem, allorché nota: «Come è strano che Scholem prenda per rivelazione il «nudo», ovvero il testo stampato, e per arte quello parlato. Ma ciò caratterizza la tendenza a chiudersi il cammino verso la rivelazione, in quanto le si mette addosso un costume da buffone».96

L’esito della Verdeutschung può essere talora, nelle parole dello stesso Rosenzweig, «sorprendentemente tedesco» e, paragonato ad esso, «Lutero è quasi yiddish».97 Per lui, quest’opera può trovare accoglienza presso l’ebreo come presso il cristiano, aiutando quest’ultimo a riscoprire nell’Antico Testamento la rivelazione comune alle due fedi, la Parola all’origine di entrambe. Troppo spesso, lamenta l’autore, il cristiano del suo tempo «per Bibbia intende… soltanto il Nuovo Testamento», concorrendo così a realizzare «la situazione auspicata dai nuovi marcioniti».98

La traduzione esige dai due studiosi un impegno continuo; Rosenzweig confida che fin dal 1920 la traduzione è la sua «parte feconda»,99 e che la Verdeutschung ha catturato ben presto tutto il suo interesse, «ovvero entrambi gli istinti, quello buono e quello cattivo»,100 mentre Buber, nei momenti di maggiore stanchezza, si dice disposto a sacrificare o a limitare qualcuno degli altri impegni assunti, ma non il lavoro sulla Scrittura.101

Quest’ultimo nota che nel corso di tale lavoro in comune la Scrittura si va rischiarando a entrambi, «nello spazio di un influsso scambievole».102 All’inizio dell’impresa, in un biglietto in cui invia al collaboratore le sue osservazioni riguardanti la traduzione di un passo di Genesi, Rosenzweig pone in rilievo, in modo estremamente sintetico quanto efficace, la complementarietà dei ruoli assunti da ciascuno dei due: «… io, qualora andassi oltre Lutero, cercherei di superarlo nella ebraicizzazione della sintassi, mentre Ella, di fronte alla sintassi debraicizzata, nello scavo del contenuto ebraico della singola parola».103 Se Rosenzweig scrive all’amico che l’opera comune lo ha indotto a rivedere alcune sue precedenti convinzioni riguardo alla traduzione («… proprio Lei mi ha convertito, nel modo più radicale, attraverso il lavoro che mi è toccato»104), Buber ammetterà in seguito di avere mutuato da lui l’attenzione alla «riproduzione sintattica» nel tedesco delle forme ebraiche.105 La «conversione» maturata nel corso della Verdeutschung è stata dunque reciproca («… in verità ci eravamo convertiti l’un l’altro»).106

Nel carteggio tra i due filosofi si possono cogliere peraltro gli echi delle critiche ricevute per l’esito del loro lavoro, delle valutazioni molto favorevoli107 come delle stroncature più nette, provenienti non di rado dai rabbini, dai teologi riformati o, più in generale, dai «cavalieri di Lutero».108 Per Eduard Strauß, mentre Lutero «voleva essere fedele all’ebraico e lo fu al tedesco», essi sono vogliono «essere fedeli al tedesco e lo sono all’ebraico».109 Per il rabbino liberale Leo Baeck, l’opera non costituisce affatto una «traduzione»;110 egli, tuttavia, se ne avvale nelle sue esercitazioni e ne esprime un giudizio molto favorevole, in quanto essa «restituisce» la parola della Bibbia.111 Nelle recensioni e nei giudizi, qualcuno indulge alla retorica e all’iperbole, come lo scrittore e poeta Karl Wolfskehl, che parla di «evento linguistico che scuote la Germania».112

Di fronte alle critiche più dure, Rosenzweig crede talora che sia opportuno rispondere, in altre occasioni si astiene dal replicare in tono polemico («… la mia spada è sazia e vorrei avere in mano soltanto la cazzuola»).113 Allorché lo storico Gerhard Ritter si indigna addirittura perché la Verdeutschung fa scempio del «testo originale», egli commenta ironicamente:

In fondo, l’indignazione che grava su di noi soltanto è un’indignazione che riguarda il testo originario. È di una comicità spaventosa il modo in cui anche questo Ritter tralascia completamente di considerare che tutte le cose che gli riescono sgradevoli stanno nel testo; con grande ingenuità, egli prende Lutero quale originale. Inoltre, sono fermamente convinto che non abbia mai letto Genesi nella versione di Lutero. Comici, questi ebrei! Si indignano nello spirito di una mammina protestante, ferrata in campo biblico.114

Alcuni lettori, in ragione delle loro invincibili precomprensioni, si precludono il senso della Verdeutschung. Tra questi, Rosenzweig include tutti coloro che attendono soltanto «un’opera d’arte», e osserva:

… Chi si aspetta un’opera d’arte non ci può capire. Anche se essa lo è. Ma è visibile come tale soltanto a chi non vi cerca un’opera d’arte, a somiglianza del fatto per cui l’eleganza di una dimostrazione matematica si dischiude solo a colui che vi si accosta mosso da un interesse matematico, non a chi vi cerca eleganza. Del resto, arrivo a credere che anche in ciò che di solito si intende per opera d’arte il giusto, crudo interesse per il materiale è l’unica strada legittima per accedervi e che la nostra estetica e il nostro estetismo ci sbarrino pure la strada all’opera d’arte, non solo la strada a ciò che è più-che-opera-d’arte.115

6. Due diverse concezioni del rapporto tra rivelazione e legge

Non di rado il comune lavoro nella Verdeutschung contribuisce a fare emergere le diverse posizioni dei due autori non soltanto riguardo ai problemi — non solo di ordine filologico e stilistico, ma anche teologico e filosofico — posti dal testo biblico. Talora, la lettura degli scritti di Buber induce Rosenzweig a evidenziare i punti di divergenza. Egli non condivide, ad esempio, la concezione del male nell’uomo come «mancanza di decisione» e di «orientamento» presentata nell’introduzione a Die chassidischen Bücher.116

Buber, invero, in varî suoi scritti, risalenti a periodi diversi della sua produzione, ritorna su questa visione del male, che egli rinviene, prima ancora che nel chassidismo, nella dottrina che riguarda la necessità di dare «orientamento» al cuore umano, sviluppata all’interno del fariseismo,117 movimento cui l’autore ascrive il merito di avere contribuito a preservare il nucleo più autentico della fede ebraica dalle commistioni con elementi estranei, provenienti dalla cultura religiosa dell’ellenismo. Secondo la dottrina dei farisei, il cuore può ricevere questo orientamento non dallo spirito dell’uomo — il cuore è, sul piano naturale, privo di orientamento — ma soltanto «da una vita vissuta secondo la volontà di Dio».118 In Ich und Du, prospettando il male non come principio contrapposto al bene, ma come «non-decisione», Buber scrive che «se ci fosse il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi».119 L’agire dell’uomo, pertanto, è «cattivo» se manca di «direzione».

Anche se l’azione cattiva non è diretta contro Dio, non si può considerare — nota invece Rosenzweig — «semplicemente un non decidersi per lui».120 Per lui, l’azione cattiva è tale soltanto a un livello inconscio, e pertanto accessibile a Dio ma non all’agente, mentre per la coscienza di questi è «passare oltre Dio», e su un piano sovraconscio — piano che riguarda colui che la compie, e che ne è dunque realmente responsabile — è aperta ribellione contro Dio:

In casi anomali (rari presso la maggior parte degli uomini, mentre sono la maggior parte in taluni, che sono rari) può essere due cose: ribellione o semplice non-decisione. Ma normalmente essa è agire passando-oltre Dio (an Gott vorbei), consapevole politica dello struzzo nei confronti di Dio, agire distaccato-da-Dio121 (qui distaccato-da-Dio è inteso non come ingiuria ma come descrizione). A questo livello, chiaramente, l’azione è, in se stessa, davanti alla vista dell’uomo. Al di sotto di questo (parlo ora del caso normale) vi è un livello nel quale il male è effettivamente solo mancanza di direzione, etc. Dio vede all’interno di questo livello metafisico, allorché, dei «peccati di presunzione», egli fa dei «peccati involontari»; a noi è permesso penetrare, con gli occhi di Dio, negli altri, ma in noi stessi, naturalmente, no. Ma l’azione cattiva ha anche un aspetto sovraconscio (überbewußte), metafisico. Qui essa è ribellione contro Dio, come pure lascia intendere chiaramente la storia del peccato originale (proibizione, le parole del serpente — solo Eva davanti all’albero e il tendere la mano è di nuovo normale psicologia da struzzo).

In noi, questa visione metafisica ci riguarda — negli altri, naturalmente, no.122

Il filosofo ritorna in una lettera successiva sull’impossibilità di ricondurre il male a «mancanza di decisione» e, sulla consapevolezza del male come «coscienza» e «cattiva coscienza», precisa:

Riguardo al male, in verità volevo risponderti soltanto quando tu non avresti più potuto correggere nulla; anche la prima volta ciò non era inteso alle correzioni. Ma ieri Ludwig Strauß123 raccontava come tuo nipote si pone di fronte al problema, e adesso debbo sfruttare subito l’inattesa società cooperativa «Martin» contro Martin. Quando Martin junior fa qualcosa di proibito, dice: «No, no! E, nello stesso attimo, lo fa». Questo è esattamente ciò che intendo io: non è un non-decidersi e non è decidersi-contro, ma un deciso fare finta di non vedere (Vorbeisehen) ciò che si sa perfettamente. Questo sapere è «coscienza» (Dieses Wissen ist das «Gewissen»), che proprio nel novantanove per cento di tutti i casi in cui si esercita, allo stesso tempo funge, come tale, da «cattiva coscienza» . Eva non è affatto sciocca, sa perfettamente ciò che è proibito, ma, allettata dal gusto, svicola dal suo sapere; ella dice: «No, no! «, e, al contempo, lo ha già fatto. Questo, che non è quindi né non-decidersi, né decidersi-contro, ma un decidersi-sviato, è il caso normale. Il non-decidersi che, nella prospettiva metafisica, sta al fondo di ciò, è soltanto una circostanza attenuante, l’effetto metafisico dell’inimicizia con Dio soltanto un rimprovero religioso mosso a se stessi. Dal punto di vista dell’anima, l’uno e l’altro sono «oltre», un mistero.124

Se sulle diverse prospettive riguardo al problema del male la parte pubblicata del carteggio offre soltanto queste pur dense annotazioni di Rosenzweig, essa costituisce una documentazione molto più ampia del dibattito sul rapporto tra rivelazione e legge, che impegna i due autori nell’estate del 1924, già prima, dunque, dell’avvio della Verdeutschung.

Proprio in quell’anno Rosenzweig pubblica su «Der Jude» il saggio Die Bauleute «I costruttori», nella forma di lettera aperta a Martin Buber. Nello scritto egli esprime la sua concezione della dottrina e della legge, prendendo le distanze dal destinatario, in particolare riguardo alle ragioni per le quali la legge vale universalmente per gli ebrei. È lo stesso Buber a sollecitarlo a pubblicare lo scritto, nella lettera in cui precisa il carattere che potrebbe assumere una sua risposta, e sottolinea la differenza che per lui corre tra rivelazione e legge:

Se un giorno potrò scrivere una risposta, essa non contesterà… proprio in alcun modo qualcosa di particolare in ciò che Ella dice; piuttosto, sul piano di questa lettera, ho da dire soltanto sì a tutto. Ma non posso proprio dire sì a quel piano. E ciò non soltanto perché la mia fede me lo proibisce. Ella sa, caro amico, che non adopero questa parola con leggerezza; qui è al suo posto. Non credo che la rivelazione sia legislazione (Gesetzgebung); e nel dato di fatto che la si renda sempre legislazione, io vedo il dato di fatto della resistenza opposta dall’uomo, il dato di fatto proprio dell’uomo. Non posso allo stesso tempo accogliere questo dato di fatto nella mia volontà e attendere pure la Parola e la sua ora. Non posso concepire l’idea che ciò possa cambiare per me, poiché in questo «non-allo-stesso-tempo» ho il mio Essere. So bene che per altri uomini può andare diversamente; ciò è per me qualcosa di incomprensibile, che rispetto. Ma non mi è lecito toccare la legge come fatto, e, in qualche modo, neanche come concetto, come se me ne potessi occupare adeguatamente a partire da qualcosa d’altro rispetto alla mia fede.125

Rosenzweig replica che neanche per lui la rivelazione è legge. La Legge, in realtà, vincola all’osservanza se è assunta nella volontà quale «comandamento»:

La rivelazione non è comunque, neanche per colui che osserva (hält) la legge, ciò che Ella chiama legislazione. «In questo giorno»:126 questa è la teoria dell’esperienza per lui, e lo è per Lei. Il fatto che dal nuovo comandamento possa essere tratta la vecchia legge, viene sentito da lui come una sventura, come lo è da Lei. Non il dato di fatto che ogni comandamento possa essere trasformato in Legge viene accolto nella volontà, ma il dato di fatto — ben conosciuto da Lei — che la Legge possa ogni volta di nuovo ritrasformarsi in comandamento. Quel dato di fatto, accolto nella volontà (Willen) e non soltanto con volontà contraria (Unwillen), sarebbe inconciliabile con l’attesa della Parola dell’ora. Questo dato di fatto, accolto nella volontà o, piuttosto, nella speranza, è conciliabile con quell’attesa come… orbene, come il Lulowbenschen127 fatto sul cavallo con quello sulla palma vera e propria … Questa è forse l’intera estensione della nostra differenza; in quanto essa è una differenza nella fede è pertanto molto piccola, non è nulla di incomprensibile…128

Nel carteggio, Rosenzweig sembra dunque, attenuare le differenze di prospettiva, che ha invece espresso in modo alquanto netto in Die Bauleute. La sua precisazione, comunque, non basta a Buber, per il quale «la linea decisiva della trasformazione grazie a ciò che l’uomo fa corre proprio tra rivelazione e comandamento».129 Quanto a «statuti e comandi «, egli li accetta solo dopo essere chiesto: «È detto a me questo, a ragione è detto a me? È detto a me questo, a ragione è detto a me? Cosicché io una volta posso ascrivermi a Israele, che viene interpellato, e un’altra, molte altre volte, no. E allorché io posso, con cuore indiviso, chiamare qualcosa comandamento nella mia propria vita, proprio così io faccio e così lo lascio (so ist es eben dies, daß ich so tue und so lasse)».130

Nella risposta, Rosenzweig evidenzia ancora una volta gli elementi comuni tra le due prospettive:

Caro amico, se Ella pone la linea di divisione qui, allora Ella pure fa sul piano dei principi proprio ciò che i «Costruttori» fanno. Questo non Le è chiaro? Naturalmente Ella può dire: ma non [faccio] ciò che fa l’ebreo di stampo antico. Naturalmente ciò sarebbe giusto. Ma io replicherei: certamente non ciò che faceva l’ebreo, ma l’unica cosa che oggi siamo in grado di fare per adempiere ciò che la Legge richiede, e nel modo in cui lo richiede. Colui che la osserva come legge, alla stessa stregua di «leggi e comandi», la osserva, in quanto comandamento, in quanto mitzwa, peggio di noi, con il nostro «fare così e lasciare così»…

Altrettanto convinto si mostra Buber nell’insistere sulla divergenza:

… la cosa non mi è chiara. Poiché, come Le ho detto, per me Dio non è un legislatore, piuttosto è l’uomo a ricevere la legge, questa non vale per me universalmente, ma soltanto con riguardo alla persona, ovvero vale ciò che di essa io posso riconoscere come detto a me (per esempio, più vecchio divento e più in profondità riconosco che il mio essere è in-quieto, tanto più nel giorno di riposo).131 I «Costruttori», però, mi vogliono indurre ad accogliere la legge quale universalmente valida, perché io accolgo la dottrina in tal modo, come qualcosa che per principio va appresa integralmente (ganz zu Lernendes) . Ma l’analogia che Ella afferma non sussiste. In modo indiretto, Le si presenterà alla mente il fatto che non sussiste, se Ella considererà che si può fare penitenza per qualcosa che si è compiuto, ma non per qualcosa che si è appreso (erfahren); ciò prova che il fare non ha semplicemente un peso più grande dell’apprendere, ma ha un altro peso. E in modo diretto, le si presenterà alla mente, se Ella considererà come sia diverso il rapporto dell’uno e dell’altro con il fatto del quale si tratta per noi, il fatto dell’imperativo, naturalmente non quello filosofico, ma dell’imperativo divino e umano. Io sono responsabile per ciò che faccio e tralascio in altro modo che per ciò che apprendo e lascio non appreso. Perciò la separazione tra rivelazione e dottrina (dottrina dell’uomo) non è per me pungolo né prova, ma la separazione tra rivelazione e legge (legge dell’uomo) è l’uno e l’altra.132

Rosenzweig non è d’accordo sulla diversa responsabilità in ciò che si fa rispetto a quella che riguarda ciò che si apprende. Si è responsabili e si può essere chiamati a «fare penitenza» anche per il pensiero. La sua conversione, personale, del resto, ha coinvolto in modo determinante «il pensiero»:

L’universalità io l’affermo per la legge come per la dottrina soltanto quanto all’ascoltare, non quanto al fare e, rispettivamente, quanto al pensare. Soltanto se Ella sentisse non necessario per il Suo essere ebreo il dire sì o no — in ogni singolo caso — soltanto allora Ella si separerebbe da me. Il fatto che Ella dica sì oppure no, è irrilevante. Dicevo recentemente a Goldner, al quale ho nuovamente sottoposto il manoscritto: «la pointe è che il No di Buber è più importante per la «costruzione» che il Sì di Ernst Simon, il mio e il Suo».

Certo, tra l’imparare e il fare non esiste alcuna analogia. Ma questa esiste tra il pensare e il fare. Per il pensiero l’uomo può realmente «fare penitenza». La grande conversione nella mia propria vita è avvenuta proprio nel pensiero; ora, ai pensieri hanno si sono aggiunte pure le azioni; ciò che prima era permesso o persino comandato, dopo non era più permesso; ma ciò era solo la conseguenza; e allorché «dopo» rivolsi lo sguardo al «prima», mi fecero inorridire non le azioni, che erano proprio soltanto conseguenze, ma l’intera cerchia di idee, nella quale vivevo allora …

Le apparirà chiaro che la separazione tra Rivelazione e Dottrina è anche per Lei pungolo e prova, qualora Ella pensi come Dottrina non ai piccoli midrashim,133 ma al dogma cristiano. No, noi non siamo responsabili per ciò che non apprendiamo o lasciamo non-appreso, ma per ciò che pensiamo o lasciamo non-pensato.

Neanche per me Dio è legislatore. Egli comanda. Soltanto l’uomo, nella sua indolenza, fa dei comandamenti, per il modo in cui li osserva, legge sistematizzata, «fattibile», legge che può essere eseguita anche senza essere scosso dall’essere… Ma probabilmente qui sta lo stesso una differenza tra noi; ma forse non sta neanche qui… . Se però «In questo giorno» diventa Schulchan aruch,134 allora sono parzialmente panteista e credo che Dio in questo c’entri, poiché egli si è venduto a noi con la Torah. Ma, in fondo, anche in questa fede noi siamo uniti.135

Altre dense notazioni riguardo al problema dell’assenso alla legge si rinvengono nel corrispondenza del 1925, allorché Rosenzweig fa notare a Buber come egli nei suoi Discorsi sull’ebraismo136 non abbia esposto adeguatamente ai suoi giovani destinatari qual è il suo rapporto con la Legge.137 A Buber, che manifesta allora la sua convinzione circa lo iato tra rivelazione e legislazione («La rivelazione non è legislazione. Per questa proposizione spero di essere pronto a morire in una chiesa mondiale ebraica che avesse il potere dell’Inquisizione»138), Rosenzweig risponde:

… Se la Legge «è» o no Legge di Dio, non lo so neanch’io; lo so altrettanto poco, anzi meno, di quanto so che Dio «è». Non vale nulla sapere o non sapere di fronte all’esperienza fatta. Nella stessa misura in cui Ella ha fatto l’esperienza che la Legge non è Legge di Dio — e questa esperienza è al fondo della sua proposizione — è degno di rispetto soltanto l’ateismo che abbia sperimentato che Dio non è, mentre non ci può sgomentare l’ateismo che soltanto non sa che egli è, oppure che non sa se egli sia o no.

Così la rivelazione non è certo legislazione; essa è assolutamente soltanto: rivelazione. Essa ha immediatamente se stessa come contenuto, con «Egli scese» è veramente già compiuta (fertig) — per non parlare dell’«Io»139- e con «Egli parlò» comincia già l’interpretazione. Ma dove smette di essere legittima tale «interpretazione»? Non oserei mai dirlo con una asserzione generale, ma qui comincia il diritto di testimoniare, negativamente e positivamente, l’esperienza.140

7. L’umorismo di un «prigioniero di Dio»

Lo scambio epistolare tra Buber e Rosenzweig, oltre ad attestare un rapporto di intensa collaborazione protrattosi per buona parte degli anni Venti, consegna agli studiosi un insieme di pregevoli osservazioni, commenti e spunti polemici riguardanti persone, istituzioni accademiche e movimenti culturali del tempo, nonché interessanti rievocazioni di incontri e di esperienze e notazioni autobiografiche permeate talora di garbata autoironia. Questa corrispondenza pertanto, ancor più che gli altri scritti dei due autori, offre una vivida testimonianza di due personalità che — pur nella manifestazione delle loro umanissime predilezioni e idiosincrasie — confermano la loro eccezionale statura intellettuale e spirituale, e permette altresì di accedere al loro finissimo e proteiforme humour.

È, questo, lo spirito arguto che costituisce quasi il sapere di un sapçre che tradisce in entrambi gli intellettuali la confluenza di varî elementi, tra i quali la familiarità con la Scrittura e con la letteratura religiosa dell’ebraismo, l’eredità spirituale del chassidismo, la cultura degli ebrei tedeschi, la formazione ricevuta nelle università tedesche. Si tratta di un umorismo sempre vivo in Buber e, forse ancora di più, in Rosenzweig, sebbene provato dalla malattia invalidante; in quest’ultimo, in particolare, anche le boutades recano non di rado l’impronta del genio. Qui intendiamo, in particolare, presentare alcune di queste briciole di umorismo, scelte tra le tante disseminate nelle lettere inviate a Buber.

In ragione della ricchezza e complessità della formazione culturale di Rosenzweig, si comprende come il suo humour trovi espressione in diverse lingue: oltre al tedesco, l’ebraico antico, il latino, il greco, il francese, lo yiddish, nonché il gergo proprio di alcune correnti dell’ebraismo del tempo. Tale umorismo, peraltro, si modula in diversi registri linguistici, tra i quali il rimprovero, l’esortazione, la narrazione, lo schizzo caricaturale, la metafora, il componimento poetico, la bordata polemica, oppure il ricorso alla citazione dotta che, per una convenzione vigente tra le persone colte, vale in realtà a «coprire» un’interiezione che esprimerebbe un determinato stato d’animo in maniera molto più immediata, ma implicherebbe una concessione alla parlata volgare.

Talvolta una divergenza di vedute manifestatasi tra i due intellettuali su un determinato problema, o su una particolare terminologia, offre a Rosenzweig l’occasione per esprimere con un ardito paragone o una sapida metafora le ragioni della sua posizione. Così, nel 1925, allorché viene avviata in comune la Verdeutschung della Scrittura, Rosenzweig si oppone alla proposta di figurare nel contratto editoriale dell’opera insieme a Buber in quanto intende restare un po’ in ombra, quale «Musa» dell’impresa, una «Musa che vigila sulla precisione (Diotima e Santippe in una persona)».141

Proprio perché svolge questo ruolo, egli rifiuta inoltre ogni tipo di compenso, e scrive al collaboratore:

Ella pensa di dividere con me l’onorario. Ciò è del tutto impossibile, Ella è il Poeta, io sono la Musa. Le Muse, anche se vengono munte con la più grande energia, non aderiscono a contratti editoriali. Questo è il nostro point d’honneur di Muse. Di solito il nostro farci visibili è postumo, raramente — è il caso di Yehudah haLevy — già prima della morte in una dedica [a Buber], il che è il massimo e accade soltanto in casi assolutamente sporadici; ma allora in questo caso, la misura di musofania che ci è permessa è un frontespizio: «reso in tedesco da Martin Buber in collaborazione con (o, più bello: insieme a) Franz Rosenzweig».142

Ancora, quando Buber scrive a Rosenzweig di volere denominare «Religione come Presenza» il corso da tenere al Lehrhaus,143 questi non può che manifestare l’invincibile avversione che nutre per la parola iniziale del titolo:

Sono molto soddisfatto del tema, così come Ella lo ha formulato ora. La parola «religione» non mi piace, poiché è diventata troppo spesso una tana di volpi, dal retro della quale scappano i pretesti dell’idealismo, appena uno creda di avere la volpe e crede pure che questa non potrebbe più sfuggirgli. Ma il pubblico, proprio per questa sicurezza data dalle molteplici uscite, si arrischia a entrare nell’antro di questa parola, piuttosto che nell’antro, senza uscite, del leone, della parola di Dio (le tracce conducono non al di fuori di questo antro, ma solo verso l’interno).144

Rosenzweig precisa che nella Stella non figura mai la parola «religione»: e ricorda come nel 1920, presentando l’opera al pubblico di Kassel, egli avesse ammesso di avere voluto contrastare in quelle pagine «la concezione che vede la religione come un cassetto nel cassettone della cultura».145

Entrambi gli autori tendono spesso a sintetizzare in una sola parola o in una breve locuzione i tratti salienti di una personalità. Rosenzweig, in particolare, riesce non di rado a farlo anche nei confronti di Buber e di se stesso. Per lui, in fondo, il più assiduo dei suoi corrispondenti è un «epicureo riverente»,146 un «epicureo garantito»147 e, in virtù di questa sua peculiarità, può venire in aiuto di un ebreo che, come Rosenzweig, è un «convertito», ovvero del giovane Rudolf Hallo. Al direttore del «Lehrhaus», allorché il progredire della malattia preclude ogni tipo di attività pubblica, Hallo sembra l’uomo giusto per succedergli nella direzione della scuola, purché Buber, proprio in quanto «epicureo», lo segua nella sua maturazione, affinché «rinsaldi il suo ebraismo» molto «problematico».

All’inizio del 1923, come abbiamo visto, Rosenzweig ravvisa in Buber lo studioso più adatto ad ricoprire la cattedra di Dottrina Religiosa ed Etica Ebraica alla Facoltà Teologica all’Università di Francoforte. Proprio perché fondamentalmente e irremissibilmente «epicureo», egli è in grado di insegnare in quel contesto («Ella non deve essere la futura Facoltà stessa, ma dare al suo progetto formativo l’orientamento caratterizzante attraverso la Sua presenza e la Sua personalità “epicurea”»).148 Rosenzweig è convinto che, grazie all’interesse suscitato dalla sua fama e all’originalità del suo insegnamento, Buber riuscirà a «carpire» con l’astuzia (herauslocken) i migliori studenti di quella Università.149 Sebbene egli desideri vivamente che l’amico ottenga la cattedra, tanto da indurlo a vincere le perplessità che la proposta suscita in lui, vuole al contempo che questi riservi le sue energie migliori al prosieguo della sua collaborazione al «Lehrhaus». Nella lettera, risalente a quasi un anno dopo, in cui Rosenzweig comunica all’interessato il conferimento dell’incarico di insegnamento, lo invita a «escogitare una bella combinazione con il Lehrhaus, in modo che questo si accaparri il testo e l’Università, come le conviene, le note».150

In altri passi del carteggio, come abbiamo accennato, si colgono forti critiche nei confronti del tipo di formazione impartita nelle università tedesche. Rosenzweig, in particolare, non si stanca di rimarcare ciò che distingue, nel metodo e nei contenuti, la proposta formativa del «Lehrhaus» da quanto l’Università riesce ad offrire, che consiste in realtà non in una valida formazione (Bildung), ma in una contraffazione di questa, una Verbildung.151 Al riguardo egli osserva che, se all’Università gli studenti «chiedono che si raccontino loro le false opinioni degli altri, delle quali si interessano persino di più che non delle proprie, fondate opinioni», chi frequenta i corsi del «Lehrhaus» è indenne da questa «stortura», in quanto «vuole soltanto ascoltare l’uomo che gli sta di fronte e non sentire qualcosa sulla materia, o sulle opinioni su alcunché».152

L’ironia di Rosenzweig sa inserirsi, inattesa quanto efficace, nelle lettere di più diverso contenuto, e non risparmia collaboratori, intellettuali ebrei e cristiani, editori, grandi figure del passato, atteggiamenti diffusi tra il «pubblico» dei suoi lettori e tra i suoi critici. Prendendo di mira gli eccessi di intellettualismo propri di alcuni critici, egli osserva: «La più grande conoscenza acquisita dal Viktor di Imago rimane questa: se a sinistra vi è un cartello: “Ingresso al Paradiso” e a destra un manifesto: “Conferenza sul Paradiso”, tutti correranno verso destra».153 Il pubblico dei lettori non è da meno dei critici, se è vero che «lascia stare il cibo più buono (o, ancora peggio, lo manda giù distrattamente), se non gli viene messo il menu sotto il naso».154

Generalmente, si tratta comunque di un’ironia che non lascia trasparire alcun astio o spirito di rivalsa; per converso, non si può certo dire che la difficile virtù dell’autoironia faccia difetto in lui, soprattutto allorché egli rievoca a Buber i suoi orientamenti intellettuali del passato o sottopone alla sua attenzione nuovi scritti. Ad esempio, sollecitando l’amico a esprimere un parere sulla collocazione editoriale del saggio Il nuovo pensiero, egli scrive: «Ella non dice se ritiene pubblicabile e degna di pubblicazione l’istruttiva tigre reale. Se essa non è abbastanza ammansita per una rivista, va bene in volume? Oppure Ella ritiene che essa si possa ammansire, in modo che non morda più e che tutti dicano: o, che bella pelliccia rigata! Poiché, anzi, è questo l’effetto a cui si mira».155

Per quanto attiene al suo passato, Rosenzweig ha accenti di severa autocritica allorché si rimprovera per tempo che ritiene di non avere impiegato bene (». . lo stesso anno 1919, che pure ho proprio sciupato nei piaceri, speso nei viaggi e nelle fantasticherie»).156 Nella lettera in cui il «Lei» lascia il posto al «tu», egli modula attraverso l’autoironia l’espressione della sua amarezza, scrivendo: «a vent’anni Tu era già un uomo «pubblico», mentre io a trenta danzavo ancora pronunciando le parole di Rumpelstilzchen».157

L’autore rievoca inoltre con accenti analoghi la simpatia nutrita un tempo per la teologia di Karl Barth, ovvero un certo suo «barthismo», atteggiamento che l’amico Eugen Rosenstock-Huessy — autore il cui contributo al pensiero dialogico non può essere sottaciuto — gli ha «asportato» (wegoperiert), quasi si trattasse di un’insidiosa neoplasia, intorno al 1913.158

Nella sua critica all’orientamento affermatosi nella teologia evangelica negli anni successivi al primo conflitto mondiale, Rosenzweig accomuna talvolta Karl Barth e Friedrich Gogarten. A suo giudizio, mentre in Kierkegaard i paradossi del pensiero si confermano nelle contraddizioni della vita, ciò non vale per questi teologi. La vita ben ordinata di Barth, in particolare, appare all’autore come il contrario di quella che egli dovrebbe condurre per confermare il suo pensiero. Qualora si ritenga, con Pirandello, che l’umorismo nasca dall’«avvertire il contrario», non si può non riconoscere una connotazione autenticamente umoristica in quanto Rosenzweig scrive a proposito del rapporto vita/pensiero in Barth. In una sua lettera a Buber del dicembre 1922, leggiamo:

Ma perché accostandosi a Kierkegaard ci si sente in tutt’altro modo che accostandosi a Barth e Gogarten? Eppure, non è semplicemente perché quegli è l’originale e questi sono le copie, poiché si tratta di copie così splendide che vale la pena osservarle per se stesse. Ma dietro a ogni paradosso di Kierkegaard si avvertono gli absurda biografici, e per questo gli si deve credere. Al contempo, dietro le colossali negazioni barthiane non si percepisce che la parete alla quale esse sono dipinte, e questa parete è bianca di intonaco: una vita molto ben ordinata e irreprensibile. E perciò questi dipinti sono anche credibili solo quali dipinti. Non che siano non credibili, Ella comprende. Ma si tratta proprio di una credibilità indifferente. Questo pensiero non è trasparente, dentro vi è tutto bello e perciò non vi è più nulla dietro di esso.159

Quando Rosenzweig traccia questa severa critica, ha preso da tempo le distanze da una teologia che, a suo giudizio, non riesce a dire realtà quali «fede, rivelazione, grazia, redenzione, resurrezione, Regno di Dio» nel linguaggio della vita di tutti i giorni e che, pertanto, degrada queste stesse realtà a Schabbesschmus, «dicerie del sabato». Per converso — egli precisa — chi, pur non essendo teologo o filosofo, riesce a trasferirle «nelle sei giornate della realtà», non ha bisogno di alcuna conoscenza o scienza da «libero docente», perché egli sa ciò che crede, e lo sa proprio perché crede.

8. Alcuni componimenti poetici di Rosenzweig

Non vogliamo concludere questa breve rivisitazione del carteggio tra Buber e Rosenzweig senza citare qualcuno dei componimenti poetici che il secondo inserisce nelle lettere spedite all’amico, con maggiore frequenza nel periodo in cui l’impegno comune nella Verdeutschung della Scrittura rende più assiduo lo scambio epistolare. Così, alla conclusione della traduzione del libro dell’Esodo (intitolato «Namen», dalla parola che caratterizza la frase iniziale), Rosenzweig invia una poesia sul mistero del rapporto tra nomi delle dodici tribù di Israele e il Nome divino, che si conclude con questi versi:

Dodici nomi, e al di sotto Un cuore vibra, Un Nome, vissuto in tredici modi:160 la salvaguardia del nome dell’uomo e di Dio la indica il libro dei Nomi della Rivelazione.161

Anche nei componimenti poetici di Rosenzweig non mancano espressioni di fine umorismo, come nella poesiola in cui si diverte a canzonare coloro che si lasciano prendere la mano dal virtuosismo delle allitterazioni ad effetto, a scapito della congruenza semantica:

Dal laboratorio della traduzione della Bibbia: Martin Buber a Franz Rosenzweig: «Avvertenza riguardo agli eccessi del metodo» Si abbia cura dell’allitterazione, dove ancora va bene, dove va già bene, già, eppure si lasci il compito, ai rari, agli ingrati e a coloro, stranamente, grati tanto serio è il compito, in tutte le cose, di non eccedere proprio nel servizio al senso. Se tu vuoi chiamare «canestro» (Korb) il piedistallo, per non separarlo dal paiolo (Kessel) — poiché allitterativamente lo ha scelto, e gli si è sposato162 — allora devi pure la preziosa trovata allontanare, si intende, dalla tua bocca quando si leva un vero canestro e ti mostra ciò che esso vive: poiché questo ha dell’«essere-canestro» (Korbestum) la pretesa, è questa la sua chiamata, la sua gloria; se tu gliela rubi, immediatamente fuggirà via da te, acceso di rabbia, correndo dritto verso Padre Senso: «Oh, vendica ciò che a me, povero ragazzo» supplica «la gente ha strappato, quella che si fa vedere mentre va alla ricerca che tu voglia mandarla a casa con un canestro!»163

Di tutt’altro tenore un componimento inviato da Rosenzweig in occasione della festa dello yom kippur (per gli ebrei tedeschi: Versöhnungstag, ovvero Giorno della Riconciliazione). Si tratta di una rielaborazione della kol nidre («tutti i voti»), preghiera che viene recitata nella liturgia dello yom kippur, nella quale si chiede al Signore di essere sciolti da tutti i voti e le promesse fatte nei suoi confronti («Ci pentiamo di tutti i voti, contratti, giuramenti e anatemi, che abbiamo fatto… Siano considerati aboliti, dimenticati, annullati, abrogati…»).164 Nel 1913 questa preghiera, in particolare, aveva suscitato in lui una profonda impressione, allorché aveva partecipato a quella liturgia, nel periodo in cui egli voleva conoscere più da vicino la fede ebraica, in modo da convertirsi al cristianesimo da «ebreo». Riportiamo gli ultimi versi della rielaborazione poetica della preghiera compiuta da Rosenzweig:

Da ciò che ci legava noi siamo sciolti. Il nostro giuramento sia come non fatto. Che sia perdonato all’intero popolo di Israele E al forestiero che presso di lui trova ospitalità, Valga per tutto il popolo: era solo un vaneggiare. Ora sia dunque lode a Te, o Dio Tu, nostro Dio e Re dell’universo. Manda a noi forza di vita Dacci fermo sostegno In questo Tu ci hai creato Fino a questo Oggi.165

Del settembre 1925, ovvero del periodo in cui nello scambio epistolare il «tu» soppianta il «Lei», è quest’altra poesia, nella quale, lanciando uno sguardo retrospettivo che giunge fino al momento in cui ha ultimato la Stella, Rosenzweig esprime il senso del suo impegno nel tempo della prova. Non si è trattato solo di uno «scrivere», che ha surrogato l’opera della mano e della lingua, paralizzate dalla malattia, ma di un servizio alla Scrittura, servizio che è il senso di una vita, che è, anzi, «nella vita»:

Caro amico, che ogni inizio sia fine, questo l’ho compreso. «Nella vita»,166 scrissi, libero da ogni dovere di scriverlo, dopo appena due anni si paralizzò la mano che tanto voleva fare, la lingua che tanto voleva dire, così mi rimase solo la scrittura. Pure, questa fine fu inizio: ciò che scrissi, non è affatto — per esso ti ringrazio, caro — rimasto fissato per iscritto. Noi abbiamo scritto la parola del principio, l’atto originario che garantisce per il senso della fine. E così iniziò La Scrittura.167


  1. M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, Lambert Schneider, Heidelberg, 1972 -75, 3 volumi, II, lettera n. 110, p. 139. Esiste una traduzione italiana, parziale, del secondo volume: La modernità della Parola. M. Buber. Lettere (1918-38), a cura di Francesca Albertini, Giuntina, Firenze 2000. ↩︎

  2. F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften I. Briefe, tomo II (1918 -1929), Martinus Nijhoff, The Hague 1979, lettera del 29 settembre 1922, n. 815, pp. 831-2; la lettera è riportata anche in M. Buber, Briefwechsel…, cit., vol. II, p. 140, con il numero 111. ↩︎

  3. Id., Briefe, n. 812, pp. 824-7; M. Buber, Briefwechsel II, n. 103, pp. 124-8. La lettera, riportata senza data, è stata scritta probabilmente qualche giorno prima del 14 settembre 1922, data della risposta di Buber (lettera n. 104 di Briefwechsel II, pp. 128-30). ↩︎

  4. M. Buber, Ich und Du, 1. edizione Insel- Verlag, Leipzig 1923; traduzione italiana: Io e Tu, alle pp. 57-157 di Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993. ↩︎

  5. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Kauffmann, Frankfurt am Main 1921, traduzione it. La stella della redenzione, Marietti, Genova 1985. ↩︎

  6. Id., Hegel und der Staat, ultimato nel 1912 e pubblicato nel 1920 (Oldenburg Verlag. München / Berlin); traduzione italiana: Hegel e lo stato, Il Mulino, Bologna 1976. ↩︎

  7. M. Buber, Zwiesprache, Schocken Verlag, Berlin 1930; traduzione italiana Dialogo, in Il principio dialogico…, cit. p. 199. ↩︎

  8. Nella lettera, già menzionata, in cui pone in rilievo le differenze tra la sua prospettiva teoretica e quella espressa da Buber in Ich und Du↩︎

  9. F. Rosenzweig, 20 settembre 1922, Briefe, lettera n. 813, p. 829. La lettera è riportata parzialmente anche nel Briefwechsel di Buber, con il numero 107, alle pp. 134- 136 del secondo volume. ↩︎

  10. A causa dell’immobilità indotta dalla malattia, solo per una piccola parte le lettere di Rosenzweig sono scritte di suo pugno. Va aggiunto che tra il 1925 al 1929 egli invia a Buber una grande mole di biglietti contenenti i suoi suggerimenti e le sue critiche in ordine alla traduzione in tedesco della Scrittura da loro intrapresa. Una selezione è stata pubblicata nelle citate Gesammelte Schriften, e costituisce il secondo tomo del quarto volume, dal titolo Sprachdenken. Arbeitspapiere zur Verdeutschung der Schrift↩︎

  11. Debbo l’informazione a Margot Cohn, la quale è stata l’ultima segreteria di Buber. Buona parte delle lettere di Rosenzweig depositate presso il citato archivio — 186 su 239 — è riportata nel secondo volume dei Briefe dell’autore. Molto meno ampia è la selezione accolta nella prima edizione dei Briefe, curata da Edith Rosenzweig (vedova dell’autore) e da Ernst Simon, edita nel 1935 presso lo Schocken Verlag di Berlino; non vi è riportata, ad esempio, la lettera in cui Rosenzweig esprime le sue critiche a Ich und Du . Delle 380 lettere di Buber, soltanto 37 vengono invece riportate nel Briefwechsel, e quasi tutte nel secondo volume. ↩︎

  12. G. Schaeder, Einleitung. Martin Buber. Ein biographischer Abriß, scritto introduttivo a M. Buber, Briefwechsel I, p. 77. Il corsivo è nel testo. ↩︎

  13. Ibidem↩︎

  14. Lettera di Rosenzweig n. 1048, 29 settembre 1925, p. 1062 di Briefe, riportata anche nel Briefwechsel di Buber (n. 197, p. 238 del secondo volume). ↩︎

  15. Lettera n. 798, 19 agosto 1922, p. 811 di Briefe, parzialmente riportata in Briefwechsel II (n. 96, pp. 114-5). ↩︎

  16. Si tratta in particolare delle lettere scambiate dal 24 giugno al 16 luglio 1924, alle pp. 196-203 del Briefwechsel II di Buber, parzialmente riportate alle pp. 975-979 dei Briefe di Rosenzweig. Alcune delle lettere scritte da Buber in quel periodo — insieme ad altre, risalenti al 1922 — sono state da lui pubblicate, con il titolo Offenbarung und Gesetz. Aus Briefen an Franz Rosenzweig, in Almanach der Schocken Verlag auf das Jahr 5697 [1936-7], alle pp. 147-154. ↩︎

  17. Lettera di Buber, 19 settembre 1922, n. 105, Briefwechsel II, p. 130. Nell’Archivio Martin Buber si rinviene il seguente schema riguardo al contenuto di ciascuno dei cinque volumi: I. Io e tu 1. Parola 2. Storia 3. Dio; II. Forme originarie della vita religiosa 1. Magia 2. Il Sacrificio 3. Il Mistero 4. La Preghiera; III. Dottrina di Dio e Legge di Dio 1. Mito 2. Dogma 3. Legge 4. Dottrina IV. La persona e la comunità 1. Il Fondatore 2. Il Sacerdote 3. Il Profeta 4. Il Riformatore 5. Il Solitario. V. La Forza e il Regno. Nella lettera del 14 novembre 1922 (n. 113, p. 142 di Briefwechsel II) e in quella «senza data», scritta dopo il 12 gennaio 1923 (n. 123, pp. 150-2, ibidem), Buber scrive di volere dare all’intera opera il titolo Das wirkliche Leben [La vita reale]. ↩︎

  18. F. Rosenzweig, Die Bauleute. Über das Gesetz, Philo Verlag, Berlin 1925. Riportato in Zweistromland. Kleinere Schriften zur Religion und Philosophie (d’ora in poi indicata con Z.) Philo Verlag 1926, pp. 48-65; Kleinere Schriften (K. S.), Schocken Verlag, Berlin 1937; Zur jüdische Erziehung. Drei Sendschreiben, Schocken Verlag, Berlin 1937; Gesammelte Schriften III, Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken (G.S. III), pp. 699 -712; traduzione italiana I costruttori. Sulla legge, in La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova Editrice, Roma 1991, pp. 205-21. ↩︎

  19. Id., Das Neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum »Stern der Erlösung«, «Der Morgen», 4/ 1925, riportata in Z., pp. 240-68, in K. S., pp. 373-98, e in G.S. III, cit., pp. 139-61; traduz. it. «Il nuovo pensiero. Alcune note supplementari a “La stella della redenzione”», in La Scrittura…, cit., pp. 257-82 . ↩︎

  20. Id., Sechzig Hymnen und Gedichte des Jehuda Halevi, deutsch. Mit einem Nachwort und mit Anmerkungen, O. Wöhrle, Konstanz 1924; seconda edizione ampliata (riporta 92 poesie, a fronte delle 60 della prima): Zweiundneunzig Hymen und Gedichte, deutsch. Mit einem Nachwort und Anmerkungen, Lambert Schneider, Berlin 1926; ora in G. S., vol. IV, tomo I, con il titolo Jehuda Halevi. Fünfundneunzig Hymnen… (traduzione it.: Non nella forza ma nello spirito. Novantacinque inni e poesie scelte da Franz Rosenzweig, a cura di G.D. Cova, Marietti, Genova 1992). ↩︎

  21. Il prodigarsi di Buber alla ricerca di un editore per le sue traduzioni delle poesie di Yehudah haLevy. ↩︎

  22. 22 febbraio 1923, in Briefe, n. 853, p. 895, riportata parzialmente in Briefwechsel II, n. 124, p. 159. Come osserva Greta Schaeder, curatrice del Briefwechsel, il senso di questa dedica emerge più chiaramente da un passo della lettera inviata da Rosenzweig il 5 dicembre 1923 (Briefe, n. 896, p. 933): «Il libro dimora adesso nel centro della mia vita, il che, certamente, parla non semplicemente a favore del libro, ma anche contro la mia vita attuale. Tuttavia, contrariamente a tutto ciò che ho fatto di altro, non è per nulla qualcosa che sia in qualche modo fatto su ordinazione e dunque da sbrigare bene o male, qualcosa che resta da ultimare, come per esempio il Cohen [il riferimento è alla Einleitung zu Cohens Jüdischen Schriften, Schwetschke & Sohn, Berlin 1924], ma un puro dono di questo e solo di questo tempo. Perciò è bene che Le sia dedicato, poiché anch’Ella stessa lo è per me». La risposta di Buber nella lettera del 25 febbraio 1923 («La dedica sanziona una sorta di appropriazione, che nel segreto del mio cuore avevo già compiuto… «, Briefwechsel II, n. 125, p. 159). ↩︎

  23. Riguardo a questa rivista, cfr: E. Lappin, Der Jude 1916-1928. Jüdische Moderne zwischen Universalismus und Partikularismus, Mohr Siebeck, Tübingen 2000;A. Kilcher, Zur Therapie der Assimilation. Martin Bubers Zeitschrift »Der Jude«, in «Neue Zürcher Zeitung», 29 nov. 2000, pp. 1-2. ↩︎

  24. Lettera inviata da Zehlendorf (Berlino), il 22 novembre 1915, in M. Buber, Briefwechsel I, n. 280, p. 404. ↩︎

  25. Lunedì 9 dicembre 1929, in F. Rosenzweig, Briefe, n. 1275, p. 1237. ↩︎

  26. Id., Atheistische theologie, 1914, riportato in K. S., pp. 278-90, e ora in G.S. III, pp. 687-97; traduzione italiana Teologia atea, in La Scrittura…, cit., pp. 229-240. Sebbene nello scritto non sia citato Buber, vi si coglie una decisa critica della concezione dell’identità ebraica da lui espressa nei Discorsi sull’ebraismo↩︎

  27. Lettera risalente presumibilmente agli ultimi giorni dell’agosto 1919, Briefe, n. 606, p. 643; nel Briefwechsel di Buber la lettera, con il n. 43, è alle pp. 52-6 del secondo volume. ↩︎

  28. Lettera dell’1 marzo 1921 alla scrittrice Margarete Susman-von Bendemann, autrice della recensione del libro sulla «Frankfurter Zeitung» (Briefe, n. 650, p. 696). ↩︎

  29. «Lieber noch berüchtigt, als Niemand», lettera spedita da Berlino al cugino Hans Ehrenberg, Briefe, n. 600, p. 635 («Come Nessuno non combino nulla e non mi inserisco da nessuna parte, da famigerato — da “eretico” — sono almeno “interessante” e sono nominato in quanto tale»). ↩︎

  30. Ibidem, p. 644. Riguardo alle vicissitudini editoriali dell’opera, vedi il saggio introduttivo all’edizione italiana del libro: G. Bonola, Franz Rosenzweig ai lettori della Stella (pp. VII-XXVII). ↩︎

  31. Lettera n. 606, cit., Briefe, p. 644. ↩︎

  32. Ibidem. Cfr. la lettera scritta alcuni mesi dopo alla fidanzata, Edith Hahn: «Vedi, io non posso più scrivere più nessun “libro”, ogni cosa deve ora tradursi alla lettera nella realtà, per il fatto che ho bisogno di vedere l’altro». 16 gennaio 1920, in Briefe, n. 623, p. 663. ↩︎

  33. G. Bonola, op. cit., p. 9. ↩︎

  34. Lettera n. 606, cit., Briefe, p. 645. ↩︎

  35. 11 marzo 1925 a Hans Ehrenberg, Briefe, n. 1001, p. 1026; 18 settembre 1924 a Ernst Simon, ibidem, n. 955, pp. 988-9; 18 agosto 1924 a Margrit Rosenstock-Huessy, ibidem, n. 948, p. 981. ↩︎

  36. Nei Tagebücher di Rosenzweig, in data 23 agosto 1922, ossia il giorno successivo all’invio di questa lettera, si legge: «Den Heiden gibt es, den Juden wird es geben. Heiden gibt es nicht, Juden gibt es», «il pagano c’è, l’ebreo ci sarà. Di pagani non ce n’è, di ebrei ce n’è». L’espressione è riportata, subito dopo questa lettera, alla p. 817 di Briefe, con il numero 803. ↩︎

  37. «Sapere», propriamente «avere visto». Nel testo riportato nel Briefwechsel di Buber — dove questa lettera è alle pp. 117-8 del II volume, con il numero 98 — leggiamo eidénai↩︎

  38. Eduard Strauß (1872 -1956), fu biochimico, cultore di scienza delle religioni, amico di Rosenzweig e suo collaboratore al «Lehrhaus». È proprio un suo scritto — Jesus von Nazareth, pubblicato in «Der Jude», VI, pp. 686 ss. — a dare l’avvio al dibattito sul concetto di «pagano» e di «paganesimo» tra Buber e Rosenzweig. ↩︎

  39. 22 agosto 1922, Briefe, n. 802, pp. 815-6 . Cfr. lo scritto inviato da Rosenzweig a Rudolf Ehrenberg il 18 novembre 1917, che l’autore stesso ha individuato poi quale «cellula originaria», Urzelle, de La stella della redenzione. Il testo è riportato in K. S., pp. 157-172, e in G.S. III., pp. 125-138, nonché, parzialmente, in Die Schrift…, cit., pp. 177-85. Traduzione italiana: «“Cellula originaria” de La stella della redenzione», in La Scrittura…, cit., pp. 241- 256. ↩︎

  40. Il 4 gennaio 1922 Rosenzweig scrive alla moglie che Buber ha apprezzato vivamente, in particolare, nel terzo libro («La figura o l’eterno sovra-mondo») la seconda parte («I raggi o la via eterna», sul cristianesimo) e, per la sua connessione a questa, la prima («Il fuoco o la vita eterna»), pur non condividendone l’impianto (lettera n. 695, Briefe, p. 736). Tale preferenza viene confermata nel passo, che citiamo infra nel testo, della lettera inviata da Rosenzweig a Buber il 20 settembre 1922 (ibidem, n. 813, p. 828). ↩︎

  41. 29 maggio 1924, ibidem, n. 933, pp. 966. Nelle lettere relative a tale periodo i riferimenti alla Stella, sebbene per lo più restino alquanto fugaci, si fanno più frequenti. Cfr. *, ibidem*, 16 aprile 1924, n. 920, p. 956; 27 aprile 1924, n. 924, p. 958;. ↩︎

  42. 29 luglio 1927, ibidem, n. 1169, p. 1169 («non sono affatto lontano dalla Stella, sebbene, naturalmente, oggi non potrei più scrivere vari elementi di dettaglio, o li potrei soltanto scrivere diversamente. Un uomo non è affatto una corrente uniforme, ma una corrente dai molti rami»). ↩︎

  43. 10 aprile 1923, ibidem, n. 860, p. 903. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. La seconda parte del secondo libro riguarda la Rivelazione. ↩︎

  46. 20 settembre 1922, cit., Briefe, p. 828. ↩︎

  47. F. Rosenzweig, ibidem, n. 812, pp. 824-7; M. Buber, Briefwechsel II, n. 103, pp. 124-8. ↩︎

  48. «Sie geben dem Ich-Du im Ich-Es einen Krüppel zum Gegner»: F. Rosenzweig, ibidem, p. 824. ↩︎

  49. Nella lettera l’espressione è citata in ebraico. ↩︎

  50. F. Ebner, Das Wort und die geistigen Realitäten. Pneumatologische Fragmente 1ª ed. Innsbruck, Brenner 1921; traduzione italiana La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998. ↩︎

  51. Pardes — «giardino», della stessa radice del greco della parola greca paradies, «giardino di delizie». La storia cui Rosenzweig si riferisce — Arba’a nikhnessu Lepardes: «furono in quattro a entrare nel Giardino della conoscenza proibita» — occupa tre pagine nel Talmud Babilonese (Chagiga 14b e ss.). Due di loro erano troppo curiosi e di questi uno morì (Shim’no Ben Azzai), l’altro divenne pazzo (Shim’on Ben Zoma); il terzo, Ben Avuya ovvero Acher (propriamente» Altro», nomignolo di Elisha ben Abuja, tannaita che, a quanto si diceva, si era convertito al cristianesimo) «recise le piante», ovvero apostatò e diffuse dottrine false. Soltanto uno, rabbi ‘Aqiva, entrò e uscì sano e salvo. Il celebre esegeta Rashi così spiega: «Ben Avuya non era interessato a introdurvisi che per comprendere il presente, quindi perse la fede. Rabbi ‘Aqiva, si interessava all’avvenire più lontano, e quindi ne uscì sano e salvo; Ben Zoma e Ben ‘Azzai si interessarono alle origini della Creazione, e per questo furono puniti» (riportato in E. Wiesel, Célebration talmudique, Elirion Associates Inc, 1991, traduz. it. Celebrazione talmudica. Ritratti e leggende, Lulav, Milano 2002, p. 241, nel capitolo «Shim’on Ben Azzai e Shim’on Ben Zoma. La pericolosa attrattiva di un divieto»). ↩︎

  52. «Acherim», plurale di «Acher» (parola che nel racconto designa il dotto che aveva apostatato, in quanto si era convertito al cristianesimo). ↩︎

  53. La parola ebraica nel testo, di genere femminile, ha una notevole estensione semantica e può anche significare «venir fuori», «farsi visibile», «divenire libero» (riferito agli schiavi). ↩︎

  54. Lettera n. 812, cit., p. 827. ↩︎

  55. 14 settembre 1922, in Briefwechsel II, n. 104, p. 128. ↩︎

  56. Ibidem, p. 129. ↩︎

  57. Ibidem, p. 128. ↩︎

  58. In italiano nel testo. ↩︎

  59. In ebraico nel testo. ↩︎

  60. Così nel testo. Citazione della Divina Commedia, verso 131 del quarto canto. Dante si riferisce qui in particolare ad Aristotele, «maestro di color che sanno», che egli colloca, insieme ad altri filosofi vissuti prima di Cristo, nel limbo. ↩︎

  61. Pur essendo di Rosenzweig, questa lettera è riportata soltanto nel Briefwechsel di Buber, con il n. 108 (il passo citato è alla p. 137 del secondo volume). ↩︎

  62. Riguardo ai principi ispiratori dell’attività didattica del «Lehrhaus», cfr. F. Rosenzweig, Bildung und kein Ende. Wünsche zum jüdischen Bildungsproblem des Augenblicks insbesondere zu Volkshochschulfrage, Kaufmann, Frankfurt am Main, 1920, riportato in: K. S., pp. 79 -93; Zur jüdische Erziehung…, cit.; G.S. III, pp. 491-510. Circa la concezione rosenzweighiana della Bildung, cfr. Id., Zeit ist’s. Gedanken über das jüdische Bildungproblem des Augenblicks, Verlag der Neuen Jüdischen Monatshefte, Berlin / München 1917 (2ª ed. 1918); riportato in Z., pp. 7-31; K. S., pp. 56-78; Zur jüdische Erziehung…, cit.; G.S. III, pp. 461-82. ↩︎

  63. R. Koch, Freie jüdische Lehrhaus, in «Der Jude», 7/1923, p. 95, cit. in P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio. Franz Rosenzweig (1886-1929), Studium, Roma 1989, p. 58. ↩︎

  64. 27 agosto 1922, in Briefe, n. 804, pp. 818-9 (parzialmente riportata in Briefwechsel II, n. 100, pp. 120-3). ↩︎

  65. 6 dicembre 1921, Briefe, n. 688, p. 731. ↩︎

  66. Ibidem↩︎

  67. 21 dicembre 1921, ibidem, n. 692, p. 735. ↩︎

  68. Lettera risalente agli ultimi giorni dell’ottobre 1922, ibidem, n. 825, p. 840. ↩︎

  69. Il testo è riportato in R. Horwitz, Buber’s Way to “I and Thou”. The Development of Martin Buber’s Thought and His “Religion as Presence” Lectures, The Jewish Publications Society, New York 1988, pp. 43-152. ↩︎

  70. Cfr. la lettera di Buber del 15 agosto 1922, in Briefwechsel II, n. 95, pp. 112-3, ove l’autore esprime il suo progetto di un corso su «Le forme fondamentali della vita religiosa». ↩︎

  71. 22 agosto 1922, in Briefe, n. 802, p. 816 (lettera parzialmente riportata in Briefwechsel II, n. 98, pp. 117-8). ↩︎

  72. 24 agosto 1922, in Briefwechsel II, n. 99, pp. 119. La magia, come la gnosi, si oppone per Buber alla religiosità autentica che è devotio e fiducia (’emunah) in Dio. Cfr. M. Buber, Christus, Chassidismus, Gnosis, in «Merkur», VIII, ottobre 1954, riportato in Werke, vol. III, Kösel und Lambert Schneider, München / Heidelberg 1962-4, pp. 951-8. ↩︎

  73. 27 agosto 1922, cit., pp. 817-8. ↩︎

  74. Lettera del 19 agosto 1922, in Briefe, n. 798, p. 810 (il testo è parzialmente riportato in Briefwechsel II, n. 96, pp. 114-5). Cfr. 1 settembre 1922, n. 807, ibidem, p. 821. ↩︎

  75. Lettera del 9 luglio 1923, ibidem, n. 867, p. 911. ↩︎

  76. Variante linguistica, propria degli ebrei ashkenaziti, di talmide chachamim, ovvero «allievi dei saggi, dotti». ↩︎

  77. Plurale di am-haarez (o amhoorez): nel linguaggio degli studiosi del Talmud, la parola designa la «gente di campagna», ovvero di coloro che non sono stati formati allo studio della Scrittura, in contrapposizione ai dotti. ↩︎

  78. La condizione di ignoranza propria dell’am-haarez↩︎

  79. Lettera inviata a M. Buber, E. Strauß, Richard Koch ed E. Simon il 17 luglio 1923, in Briefe, n. 869, p. 913. ↩︎

  80. Tra questi, l’islamista Joseph Horovitz, lo storico Karl Lamprecht, e i teologi evangelici Martin Rade e Willy Staerk, studiosi citati nella lettera spedita da Rosenzweig a Buber il 12 gennaio 1923, in Briefe, n. 844, p. 878 (testo riportato in Briefwechsel II, n. 117, pp. 146-50). ↩︎

  81. 12 gennaio 1923, cit., Briefe, pp. 880-1 (riportata anche in Briefwchsel II, Buber, n. 118, pp. 150-2). ↩︎

  82. Lettera senza indicazione di data — scritta comunque tra il 12 e il 18 gennaio 1923 — in Briefwechsel II, n. 118, p. 150. ↩︎

  83. «Sarei tanto indipendente, sarei responsabile soltanto nei confronti dell’Istanza legittima, da poterlo fare senza alcuna riserva?», ibidem↩︎

  84. 16 gennaio 1923, Briefe, n. 845, p. 881. ↩︎

  85. Cfr. lettera del 28 settembre 1922, cit. (nota 1). ↩︎

  86. M. Buber, Zu einer Verdeutschung der Schrift. Beilage zu dem Werk «Die fünf Bücher der Weisung» verdeutscht von M. Buber in Gemeinschaft mit F. Rosenzweig, Jakob Hegner Verlag, Köln und Olten 1954. Cito qui dal testo riportato in appendice all’edizione del 1992 della Verdeutschung (Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart), ove il passo si legge alle pp. [37-8]. ↩︎

  87. Ibidem, p. [38]. ↩︎

  88. La prima edizione dell’opera, comprendente dieci libri dell’Antico Testamento, venne pubblicata, in due volumi, tra il 1926 e il ’27 (Die Schrift. Zu verdeutschen unternommen von M. Buber gemeinsam mit F. Rosenzweig, Schocken Verlag, Berlin). La prima edizione completa risale al 1962, ed è pubblicata dallo Jakob Hegner Verlag. ↩︎

  89. In questo stesso periodo, inoltre, la corrispondenza testimonia dell’interesse con il quale Rosenzweig segue la rivista «Die Kreatur» avviata nel 1926 da Buber, insieme al protestante Viktor von Weizsäcker e il cattolico Joseph Wittig. Cfr., in particolare, le lettere del 19 giugno 1925 e del maggio 1926, rispettivamente in Briefe, n. 1025, pp. 1044-5 e n. 1091, pp. 1094-5. Un suo giudizio favorevole sull’articolo di presentazione della rivista nella lettera del 28 aprile 1926, n. 1089, pp. 1092-3. ↩︎

  90. Lettera del 25 gennaio 1925, in Briefe, n. 992, p. 1021. ↩︎

  91. Buber cita qui una lettera del maggio 1925, parzialmente riportata in Briefe, n. 1013, p. 1035. Il testo completo è alle pp. 3-6 di F. Rosenzweig, G.S. Sprachdenken. Arbeitspapiere…, cit. ↩︎

  92. M. Buber, Zu einer Verdeutschung…, cit., [p. 39]. ↩︎

  93. Osserva Rosenzweig: «… tradurre è così facile, che ognuno lo fa volentieri» (lettera del 25 gennaio 1925, cit.). ↩︎

  94. Cfr. p. RICCI SINDONI, op. cit., p. 77 e pp. 355-86. ↩︎

  95. M. Buber, Was soll mit dem zehn Geboten Geschehen? Antwort auf eine Rundfrage, 1929, in Hinweise. Gesammelte Essays, Manesse Verlag, Zürich 1953, p. 178. ↩︎

  96. Lettera n. 1091, cit., p. 1094. ↩︎

  97. 19 giugno 1925, cit., ibidem, p. 1044. ↩︎

  98. 29 luglio 1925, n. 1039, p. 1055. Per «nuovi marcioniti», Rosenzweig intende coloro che seguono l’indirizzo teologico promosso da A. von Harnack (Marcion. Das Evangelium von fremden Gott, Leizig 1921) che, analogamente ai marcioniti del secondo secolo, tende a recidere il legame tra Antico e Nuovo Testamento. Per lo gnostico Marcione (100-165), l’Antico Testamento era da rigettare in quanto il Dio che vi si rivela non è il Dio misericordioso del Nuovo Testamento. ↩︎

  99. 29 luglio 1927, cit., Briefe, p. 1169. ↩︎

  100. Lettera riportata, con la data «estate 1925», in Briefe, n. 1038, p. 1055. ↩︎

  101. 31 gennaio 1926, in M. Buber, Briefwechsel II, n. 202, p. 242. ↩︎

  102. Id., Zu einer Verdeutschung…, cit., p. [40]. ↩︎

  103. F. Rosenzweig, G.S. Arbeitspapiere…, cit., p. 15. ↩︎

  104. Lettera del 17 agosto 1925, in Briefe, n. 1044, p. 1059. Buber, in Zu einer Verdeutschung…, p. [42], cita la lettera, ma con la data del 14 agosto. ↩︎

  105. M. Buber, Zu einer Verdeutschung…, cit. p. [42]. ↩︎

  106. Ibidem↩︎

  107. «Blau ha telefonato entusiasta; l’ebraico, egli lo conosce davvero. Ha detto che era questo ciò di cui gli ebrei avevano bisogno oggi, ciò che Mendelssohn era stato per secoli, solo, al contrario: allora essi avrebbero dovuto imparare il tedesco, oggi l’ebraico! Per il momento, anche Ernst Simon è entusiasta; anche il Nome divino incontra la sua approvazione…». Lettera di Rosenzweig, 31 dicembre 1925, Briefe, n. 1062, p. 1072. Julius Blau, avvocato, era allora presidente della comunità ebraica francofortese. Riguardo ai «giudizi intelligenti e pieni di rispetto» e ai «commenti favolosamente sciocchi», cfr. la lettera n. 1080, riportata ibidem alla p. 1086, con il n. 1080 e l’indicazione «all’incirca febbraio 1926». ↩︎

  108. Lettera di Rosenzweig, 19 giugno 1927, Briefe, n. 1161, p. 1158. ↩︎

  109. 21 ottobre 1925, ibidem, n. 1049, p. 1063. ↩︎

  110. Lettera dei primi di ottobre 1926, n. 1103, p. 1105. ↩︎

  111. Baeck a Rosenzweig, 9 gennaio 1927, parzialmente riportata in Briefe, p. 1124. ↩︎

  112. Rosenzweig a Buber, 10 ottobre 1926, ibidem, n. 1106, p. 1108. ↩︎

  113. Lettera n. 1090, del «maggio 1926», ibidem, p. 1093. L’autore è evidentemente stanco delle schermaglie polemiche («la mia spada è sazia») e vorrebbe tornare ai suoi consueti strumenti di lavoro. ↩︎

  114. 28 aprile 1926, cit., p. 1093. ↩︎

  115. 2 settembre 1927, Briefe, n. 1173, p. 1171 (e, in Briefwechsel II, n. 249, p. 290). ↩︎

  116. M. Buber, Die chassidische Bücher, Gesamtausgabe, Jakob Hegner Verlag, Hellerau 1928. ↩︎

  117. Id., Zwei Glaubensweisen, Manesse Verlag, Zürich 1950; 2ª edizione Lambert Schneider, Gerlingen 1994; ora nel primo volume di Werke, Kösel e Lambert Schneider, München/ Heidelberg 1962-4, in tre volumi). Traduzione italiana Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, p. 109. ↩︎

  118. Ibidem↩︎

  119. Id., Io e tu, in Il principio dialogico…, cit., p. 96. Cfr., tra le opere della tarda maturità, Id., Bilder von Gut und Böse, Jakob Hegner Vrlag, Köln und Olten 1952 (Immagini del bene e del male, Comunità, Milano 1965, 2ª ed. 1981). ↩︎

  120. 4 novembre 1927, n. 1181, p. 1175. ↩︎

  121. «Gott-los Handeln». ↩︎

  122. 4 novembre 1927, cit., Briefe, pp. 1175-6. ↩︎

  123. Studioso di Hölderlin, nonché poeta e narratore, genero di Buber; sarebbe poi emigrato in Palestina. ↩︎

  124. 11 novembre 1927, ibidem, n. 1182, p. 1176. ↩︎

  125. 24 giugno 1924, in Briefwechsel II, n. 153, p. 196, e Briefe, p. 974. ↩︎

  126. Probabile riferimento a Deuteronomio 5, 3, che Rosenzweig cita nel passo centrale di Die Bauleute: «nicht mit unsern Vätern hat ER diesen Bund geschlossen, / nein, mit uns, mit uns selber, diesen hier heut, uns Lebendigen allen» («Non con i nostri padri Dio ha stipulato questo patto, ma con noi, noi questi qui di oggi, con noi tutti, i viventi», I costruttori…, in La Scrittura…, cit. , p. 217). ↩︎

  127. M. Buber, «Was macht es aus», in Die Erzahlungen der chassidim, , in Werke III, p. 281 [Nella citata traduzione I racconti dei Hassidim l’episodio, dal titolo «Che importa» è alla p. 135. Vi si narra che Rabbi Mardocheo, recatosi al capoluogo per comprarvi il più bel frutto di cedro per la Festa delle Capanne, si imbatte per strada in un uomo che si dispera per un incidente occorso al suo cavallo. Il Rabbi gli dà il suo denaro affinché compri un altro cavallo e deve quindi rinunciare a comprare il cedro. Si consola dicendo tra sé e sé: «Che importa… tutti diranno la benedizione sopra il cedro, e dirò la mia benedizione su questo cavallo». Tornato a casa, Mardocheo trova un bellissimo cedro, donatogli dagli amici. L’espressione del testo è in yiddish la formula di benedizione (dal latino benedicere) sulla Lulaw, ramoscello di palma che viene gioiosamente agitato in alto — insieme a rami di cedro, salice e mirto — in occasione della Festa delle Capanne, secondo quanto prescrive Lv 23, 40. . ↩︎

  128. 29 giugno 1924, Briefe, n. 943, p. 975 (in Briefwechsel II, n. 154 pp. 197-8). ↩︎

  129. 1 luglio 1924, Briefwechsel II, n. 155, p. 198 (rip. in Briefe, p. 976). ↩︎

  130. 5 luglio 1924, Briefwechsel II, n. 157, p. 88 (Briefe, p. 977). ↩︎

  131. Nel testo: «je älter ich werde und je tiefer ich die Un-Ruhe meines Wesens erkenne, um so mehr der Ruhetag» (Briefwechsel II, p. 200). ↩︎

  132. 13 luglio 1924, in Briefwechsel II, n. 159, pp. 200-1 (Briefe, pp. 977-8). ↩︎

  133. Plurale di midrash («interpretazione, studio»), libera esegesi della Scrittura praticata dagli studiosi dell’epoca post-biblica. La parola indica pure i libri che la raccolgono. ↩︎

  134. «La tavola imbandita»: compendio della legislazione rituale e del diritto ebraici, redatto nel sedicesimo secolo da Josef Caro, che ancor oggi è vincolante per gli ebrei ortodossi. ↩︎

  135. 16 luglio 1924, Briefe, n. 946, pp. 978-9, parzialmente riportata in Briefwechsel II, n. 160, pp. 201-2. ↩︎

  136. M. Buber, Reden über Judentum, Rütten & Loening, Frankfurt a. M. 1923. Edizioni italiane: Sette Discorsi sull’Ebraismo, Israel, Firenze 1923; Carucci, Assisi /Roma 1976; Discorsi sull’Ebraismo, Gribaudi, Torino 1996. ↩︎

  137. 1 giugno 1925, Briefe, n. 1019, p. 1038. ↩︎

  138. 3 giugno 1925, Briefwechsel II, n. 182, p. 222 (Briefe, p. 1039). ↩︎

  139. Prima parola del decalogo. ↩︎

  140. 5 giugno 1925, Briefe, n. 1019, p. 1040 (Briefwechsel II, n. 183, pp. 222-3). ↩︎

  141. Lettera scritta all’inizio del maggio 1925, Briefe, n. 1012, p. 1035. ↩︎

  142. 29 giugno 1925, ibidem, n. 1028, p. 1048. ↩︎

  143. 8 dicembre 1921, in Briefwechsel II, n. 71, p. 92. Il corso fu effettivamente tenuto con tale titolo. ↩︎

  144. 9 dicembre 1921, Briefe, n. 689, pp. 732-3; la lettera è parzialmente riportata in Briefwechsel II, n. 72, p. 93. ↩︎

  145. 29 maggio 1924, ibidem, n. 933, p. 966; cfr. 9 giugno 1927, ibidem, n. 1158, p. 1155. L’immagine della «religione» quale «cassetto tra tanti altri» («Fach unter Fächern») ricorre anche in F. Rosenzweig, Bildung und kein Ende, cit., in G.S. III, p. 493. ↩︎

  146. «Epicureo», nella parlata yiddish, sta per «eretico, spirito libero, non conformista». La parola è in ebraico nel testo. ↩︎

  147. Lettera del 16 gennaio 1923, in Briefe, n. 845, p. 882 («… quando Ella è nell’“ebraico”, Ella parla. Qui non è d’aiuto alcun “epicureismo”; eppure si tratta di un epicureo “garantito”…»). ↩︎

  148. 12 gennaio 1923, lettera citata, ibidem, p. 881. ↩︎

  149. 16 gennaio 1923, cit. ↩︎

  150. 20 dicembre 1923, ibidem, n. 897, p. 934. ↩︎

  151. Lettera spedita sul finire dell’ottobre 1922, ibidem, n. 825, p. 840. ↩︎

  152. Ibidem↩︎

  153. 17 giugno 1924, ibidem, n. 941, p. 973. Viktor è il personaggio principale dell’Imago del poeta svizzero Carl Spitteler (1845-1924). In tale racconto, ben noto nei paesi di lingua tedesca, si ironizza sulla spiccata propensione, propria dei tedeschi, a ponderare i pro e i contro di ogni possibile esperienza prima di compiere qualsiasi scelta. ↩︎

  154. 20-24 dicembre 1922, ibidem, n. 841, p. 875. ↩︎

  155. 3 aprile 1925, ibidem, n. 1006, pp. 1029-30. ↩︎

  156. 29 settembre 1925, ibidem, n. 1048, p. 1062. ↩︎

  157. Ibidem. Rumpelstilzchen — il nome è reso nelle traduzioni italiane con «Strepitolino» oppure «Tremotino» — è il protagonista di una fiaba dei fratelli Grimm. Si tratta di un misterioso omino, che suole danzare attorno al fuoco pronunciando le parole: «Oh, com’è bello che nessuno sappia che mi chiamo Rumpelstilzchen!». ↩︎

  158. 14 febbraio 1923, ibidem, n. 852, p. 893. ↩︎

  159. Lettera del 20-24 dicembre 1922, n. 841, cit. ↩︎

  160. Le tredici proprietà di Dio in Namen 34, 6 ss. ↩︎

  161. Riportata, con la data «maggio 1926» e il n. 1093, in Briefe, p. 1096. ↩︎

  162. Allusione all’assonanza che viene ravvisata in tedesco tra «canestro» (Korb) e «paiolo» (Kessel), ma non tra quest’ultimo e «piedistallo» (Gestell). ↩︎

  163. Riportata in Briefe, dopo la lettera n. 1104 del 6 ottobre 1926, a p. 1105 . ↩︎

  164. Cfr. C. Di Sante, La preghiera di Israele, Marietti, Genova 1985, p. 217. ↩︎

  165. Riportato con il n. 816, in Briefe, p. 833. ↩︎

  166. «Ins Leben», ovvero la chiusa della Stella↩︎

  167. Ibidem, n. 1047, p. 1061. ↩︎