Filosofia naturale del dolore

1. Introduzione

Oltre al male direttamente dovuto all’umana perversità, noi vediamo anche la crudeltà della natura; oltre ai morti sotto le macerie della guerra, vediamo i morti provocati dalla violenza degli uragani o dei terremoti, o dalla malignità di tanta patologia. E non è altrettanto facile per la ragione accettare anche i molteplici volti dell’iniquità di quella stessa natura che con le sue bellezze e il suo ordine parla, a parere di molti, di una Divinità creatrice.

Image Image

Armonia e bellezza sono proprietà di questo mondo, e la bellezza si può trovare persino quando è sicuramente inutile, come nelle forme dei microscopici scheletri dei Radiolari e Foraminiferi che si trovano accumulati nei fondi marini e dei quali esistono migliaia di specie. Le figure ne riportano un esempio (Acanthodermia corona) che nell’ingrandimento ricorda la foggia di una corona regale, e un secondo esemplare (Actissa princeps) in cui si realizza uno dei giochi geometrici di infinite fantasie nella costruzione di capsule, gabbie, spine. (Fotografie dall’American Museum of Natural History Library.)

Image

L’immagine riguarda un caso di errore genetico: sindrome di Roberts, con malformazioni, cecità, deficit mentale (M.V.R. Freeman et al. Clinical Genetics, Munksgaard International Publ., Copenhagen).

Tutte le figure rappresentano aspetti dello stesso creato, da un lato armonia e bellezza, dall’altro malattia e dolore (inutili anche questi?).

Certo l’armonia dell’universo richiede il mutarsi delle sue parti; e Agostino (De Civitate Dei, XX, 2) indica la radice metafisica del male nella deficienza di essere delle realtà temporali. Ma lo stesso Agostino, raccontando della morte del ventenne amico di Tagaste, esprime disperazione, incapacità di dare significato.

È infatti bensì comprensibile che il divenire, l’essere nel tempo, sia già morire, dolere; ma ciò che fa scandalo è «il modo assurdo in cui spesso si muore. Ciò infatti non avviene soltanto per un processo biologico naturale, come vediamo nel frutto maturo quando cade dal ramo: si constata invece nelle circostanze più ripugnanti al nostro senso di pietà».1 È questo l’aspetto del dolore di cui vogliamo occuparci.

«Il tragico […] è proprio tale in quanto, posta ogni incomprensibile sciagura, mette in crisi il sentimento religioso, destando il sospetto di una sconnessione totale dell’essere […].»2

2. La risposta darwinista

La risposta darwinista è proprio su questa linea.

La filosofia naturale quale è suggerita dalla biologia dopo Darwin è infatti prevalentemente una filosofia della disperazione umana. Come diceva J. Monod,

È vero che la scienza attenta ai valori. Non direttamente, poiché non ne è giudice e deve ignorarli; però essa distrugge tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione animistica, […] ha fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti, le interdizioni. […] L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso.3

E in effetti la coesistenza dell’armonia e della precarietà non destano meraviglia se vige il regno del caso, se l’Universo è accidentale.

Un saggio più recente della stessa filosofia è quello di D.C. Dennet dove dice: «Darwin ha cambiato per sempre quello che significa domandare, e rispondere, alla questione del Perché». «Non c’è futuro per alcun mito sacro». E cita un passaggio di Locke definendolo il «blocco concettuale» esistente prima della rivoluzione darwiniana… «la Materia non può mai cominciare ed essere; se supponiamo che essa esista ab aeterno come pura e semplice Materia senza Moto, il Moto non può cominciare ad essere; se supponiamo Materia e Moto preesistenti o eterni, il Pensiero non può mai cominciare a essere».4 Darwin dice invece: datemi tempo, e io vi produrrò evoluzione, complessificazione, disegno, pensiero, attraverso l’opera della selezione tra mutazioni prodotte dal caso.

Nella generalizzazione dell’uso dell’algoritmo (selezione tra varianti equiprobabili) scoperto da Darwin, e divenuto poi, nell’applicazione all’evoluzione prebiologica e cosmologica, «onnivoro» (secondo la definizione dello stesso Dennet), risiede la ragione dell’evoluzione del darwinismo stesso da modello scientifico a filosofia del caso e della necessità. Secondo l’applicazione che ne fa P.W. Atkins «… universi sono continuamente creati e la presente collezioni di universi è infinita». Se ne deduce che è necessario che il nostro apparentemente ordinato universo esista, perché, dice Atkins, «qualunque evento si realizza quale che sia la sua probabilità purché non sia assolutamente impossibile», o in altri termini, la selezione tra infinite varianti è un gioco dal successo sicuro, gioco nel quale l’algoritmo darwiniano sfocia in una sorta di metafisica che è quella dell’infinito materiale in atto.5

Ma con simili ragionamenti, cioè invocando la condizione di tempo e materia infiniti, il concetto di probabilità è annullato, e si può dimostrare tutto (e il contrario di tutto).

Il darwinismo ignora cause interne dell’evoluzione, leggi preferenziali per la stabilità delle strutture senza cui, se anche si formassero, la loro permanenza non si spiega, forme, archetipi, attrattori.

L’integrazione fondamentale, per una teoria dell’evoluzione, richiede la presa d’atto della unità degli insiemi capaci di autoorganizzazione: così, la vita può avere le sue origini in una sorta di cambiamento di fase, improvviso, in cui una rete di molecole, replicantisi in virtù della loro interdipendenza, sorse da un primitivo insieme di reazioni chimiche indipendenti. L’emergenza di comportamenti collettivi tramite azioni di lungo raggio consente la generazione di nuove forme nell’ambito della complessificazione.6 Anche la biologia ritrova in questi concetti la sua specificità, al di sopra del riduzionismo che non permette di uscire da una prospettiva di aggregati di componenti tenuti insieme da accidentali incontri, fortunati nella selezione ambientale. Sfugge a questa prospettiva il significato dell’unità formale, che è oggi compreso e sempre più approfondito dallo studio dei sistemi complessi nella loro interezza.7

La complessità (in senso tecnico) compare nei sistemi non lineari e lontani dall’equilibrio termodinamico (cosiddetti sistemi dissipativi, quali sono anche i viventi). La massima complessità è rappresentabile come quella di una struttura che contiene una quantità di informazioni non comprimibile in un algoritmo, o meglio, descrivibile soltanto da un algoritmo composto di un numero di bits d’informazione comparabile a quello della struttura stessa: la complessità cioè corrisponde alla dimensione del programma di calcolo necessario per descriverla; e si definisce complessità fondamentale quella di una struttura (per es. una sequenza) che non avendo limiti di simmetria, periodicità, ridondanza, ma un ordine aperiodico, possiede per tal modo il prerequisito per il massimo possibile contenuto d’informazione, anche se non si riesce a trovarne un’espressione analitica.

J. Monod, non avendola trovata per la sequenza di aminoacidi di una proteina, ne dedusse la assoluta casualità,8 non tenendo conto della geniale definizione che E. Schrödinger già da tempo aveva dato delle proteine: «cristalli aperiodici».9 La filosofia naturale di Monod è stata capace di lasciare un marchio pesante sulla visione del mondo di molti uomini, di scienza e non; e che pesa tuttora. Nondimeno, quella filosofia ha dei presupposti totalmente erronei.10

Monod esprimeva la sua fede nell’assenza di qualsiasi disegno per la costruzione dell’ordine biologico affermando che il messaggio, pur oggettivamente carico di significato, contenuto nella sequenza di 200 aminoacidi di una proteina, costituita dai 20 diversi tipi di aminoacidi disponibili, è scritto a caso, da un «gioco completamente cieco», dato che conoscendo 199 aminoacidi nessuno potrebbe dire quale viene per duecentesimo. Ma questo significa identificare il gioco non cieco con la ridondanza, con la simmetria: viceversa, la simmetria può essere un limite al contenuto d’informazione, come ad es. nel caso di una sequenza omogenea fatta della ripetizione monotona di un solo simbolo e che si caratterizza per il massimo della simmetria, ma non certo per il massimo di intelligenza e creatività. L’equivoco si spiega se si ricorda che la quantificazione matematica di entropia (l’entropia è una misura del disordine ed è il logaritmo del numero dei possibili microstati) è analoga a quella di complessità, e infatti l’incomprimibilità algoritmica del programma d’informazione, richiesto per specificare un sequenza del tutto casuale, trova analogia con l’incomprimibilità di quello richiesto per descrivere una sequenza che si caratterizzi per il massimo di complessità, cioè proprio per l’assenza di limiti di simmetria al contenuto d’informazione (incomputabilità): il messaggio nella proteina non è il prodotto del cieco caso, ma della raggiunta complessità, che trova spiegazione nei principi di autoorganizzazione e nei campi delle forme più che nella sufficienza del tempo di un gioco cieco.[^11]

3. L’ordine come autoorganizzazione

Darwin non avrebbe mai potuto sospettare le stupefacenti potenzialità della materia quando sono presenti sia le dinamiche non lineari che i vincoli di non equilibrio, cioè in quelli che Prigogine ha chiamato «sistemi dissipativi».11

Le mutazioni rendono i fenotipi abbastanza fluidi per cambiare, la selezione implementa prefenzialmente particolari cambiamenti, ma il risultato complessivo, la direzione del flusso evolutivo, è da attribuire come per un corso d’acqua al paesaggio che lo condiziona, pur essendo in questo caso invisibile, paesaggio composto dai potenziali fenotipi più prossimi e condizionato dal contesto, lo spazio degli stati matematico che include non solo ciò che si realizza ma anche quello che sarebbe potuto accadere in alternativa. Questo spazio si fa sentire costringendo le dinamiche potenziali entro il comportamento che effettivamente osserviamo.

Sistemi con microstruttura altamente complessa tipicamente sviluppano macrodinamiche riconoscibili e, come dimostrano alcuni modelli matematici di reti Booleane, la microcomplessità dà luogo a emergente macrosemplicità.12 È per questi motivi che molti aspetti dello sviluppo degli organismi e della loro evoluzione sono profondamente robusti, e il percorso evolutivo assai meno contingente di quanto pensano i darwinisti, perché costretto dalla topologia del proprio spazio delle fasi.

È per questi motivi che l’evoluzione, in tempi relativamente brevissimi, ha potuto costruire la sequenza dei 100 aminoacidi caratteristica del citocromo-c con i 20 diversi tipi di aminoacidi disponibili, scegliendola tra tutte le sequenze teoricamente possibili, e che se si volesse vedere riprodotta per caso facendo un tentativo ogni secondo impiegherebbe 10120 anni per comparire (l’età dell’Universo è dell’ordine dei 1010 anni). Una proteina di 100 aminoacidi assume poi spontaneamente e pressoché istantaneamente una struttura tridimensionale altamente specifica e complessa, capace di una mobilità intramolecolare, che ne condiziona la funzione. È stato calcolato che un super computer che applichi regole plausibili per il ripiegamento molecolare necessiterebbe di 10127 anni (da sommare ai precedenti!) per trovare la forma finale di una tale proteina.13 La natura non trova tanto difficile il problema della computabilità, e anzi appare evidente che gli stati autoorganizzati permessi dalla fisica del non equilibrio vengono prodotti con probabilità uno.

L’ordine da autoorganizzazione risulta da un campo morfogenetico, da archetipi attrattori sia pure attraverso l’instabilità del moto associato alle dinamiche caotiche, che permette al sistema di esplorare il suo spazio delle fasi, trovandovi le forme.14 Ciò significa che la materia, come dice Cramer è «a priori filled with ideas».15 Torniamo al confine con la filosofia, che non è più quella di Monod, ma quella espressa nel titolo dell’ultima opera di Kauffman: At Home in the Universe, libro che chiude con le parole: «In the beginning was the Word».16 Ma se, come s’è detto, l’incomprensibile sciagura non fa problema in una filosofia del caso, altrettanto non si può dire quando si pensa che in principio era la Legge.

Si tratta di un problema di significato, quindi filosofico e non scientifico, ma strettamente implicato dalla dimostrabile incompletezza dell’ordine nella natura, e in particolare in quella biologica. Infatti il riconoscere che le grandi linee dell’evoluzione (prebiologica e biologica) sono segnate da «idee» a priori e quindi dovute a cause interne, indipendentemente dalla selezione, non implica il rifiuto ma soltanto un’integrazione del darwinismo.

4. L’indeterminazione nell’ordine biologico

Caratteristica delle macchine biologiche è di avere strumenti mono-macromolecolari costituiti da delicate e instabili molecole organiche, il che è abbastanza ovvio se si pensa che il loro assetto funzionale se fosse decisamente stabile non sarebbe funzionale.

È ben noto che l’indeterminazione quantistica gioca un ruolo su eventi di scala submicroscopica, a livello atomico/molecolare. Se però viene interessata la molecola del DNA, e risulta alterato nel gioco dell’indeterminazione il messaggio genetico in essa contenuto, l’effetto della mutazione molecolare viene amplificato e diviene macroscopico nell’organismo vivente che dipende dal messaggio genetico, scritto e trascritto nell’alfabeto molecolare ma tradotto e riflesso in struttura e funzionamento o malfunzionamento di cellule, tessuti e organi. Questa azione amplificatrice è caratteristica notevole dell’ordine biologico, nella misura in cui il fenotipo dipende dal genotipo cioè dalle macromolecole informazionali.

Ora, la forza dei legami chimici in una macromolecola può variare con le fluttuazioni dell’energia vibrazionale, responsabili di un certo ambito d’incertezza, che consente alle mutazioni di aver luogo imprevedibilmente. Nel processo replicativo del DNA, la catena molecolare che funge da modello deve formare complessi ternari attivati con l’enzima e con una delle 4 basi (nucleotidi), che costituiscono le 4 lettere dell’alfabeto del codice genetico, che vanno montate via via secondo la loro compatibilità con quelle della catena modello. L’accuratezza del processo è dovuta alla specificità dei legami (di tipo intermolecolare) per cui il corretto accoppiamento di una determinata base necessita di una energia di attivazione del complesso ternario minore di quella richiesta per l’accoppiamento di una base sbagliata.

Questa differenza di energia (condizionata anche da vincoli strutturali e superstrutturali del DNA) è in generale superabile, sia pure con scarsa probabilità, dalle fluttuazioni termiche possibili alla temperatura e alle condizioni fisiologiche: può cadere in tal modo il confine dell’ordine codificato preesistente, la barriera contro le mutazioni. Al di fuori delle condizioni fisiologiche, mutazioni possono essere facilitate o indotte da un varietà di «perturbazioni» da parte di agenti chimici e fisici.

I principi comunque implicati nelle mutazioni sono due:

  1. la seconda legge della termodinamica, che promuove errori di replicazione quali vie attraverso le quali si accresce la casualità configurazionale, e questo assicura che ci siano mutazioni;
  2. l’indeterminazione quantistica dell’energia termica, per le ragioni esposte sopra, e questo assicura che le mutazioni colpiscono a caso.17

Di qui, l’apertura all’evoluzione ma insieme necessariamente al dolore, perché in biologia errore vuol dire dolore, anche nella forma della più incomprensibile sciagura, come la sofferenza e la morte di un bambino.

L’indeterminazione submicroscopica ha più d’un modo per riflettersi su scala macroscopica nel mondo biologico: uno è quello dell’amplificazione che una mutazione molecolare del genotipo subisce nel corso dell’espressione fenotipica del gene mutato; l’altro è proprio dei microeventi statistici che generano una sorta di rumore biochimico accoppiato attraverso una soglia critica a macroeventi cellulari quantali tramite la legge del tutto o niente. Questo secondo meccanismo di comportamento dipendente da fluttuazioni (imprevedibili) entra in gioco quando il numero delle molecole o ioni intracellulari interessati è relativamente basso, non se esso è superiore a 60.000 per cellula. Ad esempio, la concentrazione degli ioni Ca++ nelle cellule a riposo è intorno a 100nM, quindi non ve ne sono più di 20.000 in una cellula-tipo; il numero dei recettori di membrana per molti agonisti è ancora più basso, il numero dei canali per il trasporto trans-membrana dei principali cationi è, in molte cellule, dell’ordine di poche centinaia ecc.18 Per fare un esempio familiare, gli atomi rarefatti di un tubo al neon danno un comportamento macroscopico all’accensione che tutti sanno caratterizzato da incertezza. Allo stesso modo, stante il ruolo dei recettori e degli ioni di cui sopra nei comportamenti cellulari, questi non appaiono deterministici, in quanto, pur essendo osservabili su larga scala, sono connessi non a una media di grandissimi numeri di stati submicroscopici indipendenti, ma ad un piccolo numero o anche a uno solo di tali microstati, per ciascuno dei quali vige l’indeterminazione.

Di qui, oltre alla possibilità del dolore come errore, deriva però anche la garanzia, per l’esercizio della libertà, rappresentata da un sia pur controllato grado di indeterminismo, a livello di azione mentale sulla materia cerebrale.

J. Eccles ha descritto a tale proposito l’incertezza quantistica dimostrabile nelle giunzioni tra neuroni, note come sinapsi, nelle quali lo stimolo passa da un neurone all’altro attraverso la liberazione di quanti biochimici di sostanze conosciute come neurotrasmettitori.19

Questi sono contenuti in vescicole la cui membrana può fondersi, per effetto di azioni prodotte dallo stimolo nervoso, con quella della giunzione (membrana presinaptica) provocando lo svuotamento della vescicola e l’emissione del neurotrasmettitore.

Si potrebbe comprendere che nelle sinapsi corticali gli eventi mentali (ossia l’intenzione, l’atto di volontà) interferiscano sulle probabilità di emissione di questi quanti biochimici, le vescicole, e quindi sull’attività neuronale, se per il rapporto di tali vescicole con la griglia presinaptica, cioè nello stadio di prefusione, si potesse applicare la relazione di incertezza degli stati quantici. La massa di una vescicola sinaptica, infatti, non è tale da esorbitare dai limiti della relazione d’incertezza di Heisenberg, e quindi potrebbe risentire la grandezza dell’effetto prodotto da un’onda di probabilità della quanto-meccanica.

Infatti, secondo la usuale equazione d’incertezza quale adottata da Margenau per situazioni non-atomiche e riportata da Eccles:

Δ x Δ v >= k/m (k = h/2 π)

(dove con Δ si indicano le piccole incertezze delle quantità x, che esprime la posizione, e v, che esprime la velocità, incertezze ineliminabili perché il loro prodotto non può essere inferiore alla costante di Planck h divisa per 2 π e per il valore della massa m) essendo la massa (m) di una vescicola sinaptica, del diametro di circa 40 nm, 3×10-17 g, per Δ x di una vescicola nella zona attiva pari a 1 nm risulterebbe Δ v = 3,5 nm/msec, che non è lontano dal giusto ordine di grandezza, tenendo presenti le distanze delle vescicole dalla membrana presinaptica e i tempi del processo di esocitosi.20

Ciò conferma quanto sostengono R. Penrose, R. Swinburne e altri, che se anche l’unica fonte di indeterminismo nel mondo fisico fosse quella degli stati quantici, ciò basterebbe a garantire uno spazio di non computabilità, una possibilità di comportamento non legato a processi algoritmici per l’azione della intelligenza e della libertà umane.21

Eccles riprende l’analogia di Margenau che paragona la mente a un campo di probabilità della quantomeccanica, del quale condivide l’immaterialità e il confinamento spaziale, e la capacità di azione.22 È in fondo l’antico discorso con cui già Epicuro e Lucrezio cercavano di descrivere una indeterminatezza (clinamen) dei moti atomici come giustificazione della libertà del volere.23 Si tratta infatti, in ogni modo, di una imprevedibilità connessa ad amplificazioni su scala macroscopica di fluttuazioni submicroscopiche, sia che queste amplificazioni siano legate a dinamiche non lineari in presenza di vincoli di non equilibrio, sia che risultino come eventi cellulari quantizzati, prodotti secondo la legge del tutto o niente, in seguito ad effetti soglia, quando questa viene superata da fluttuazioni per le quali vige l’indeterminazione.

Se alla mente umana è possibile modificare parametri chiave dell’attività neuronica producendovi variazioni inferiori all’entità della loro incertezza di Heisenberg, allora l’uomo è libero di produrre eventi ed effetti senza rompere alcuna legge fisica.

5. Un mondo non Laplaciano e la libertà

Le proprietà fondamentali della vita (quale conosciamo), l’autonomia e la reattività cellulari, la stessa esistenza di individui senzienti, prima che di soggetti potenzialmente liberi, non sono coerenti con l’ipotesi di un universo strettamente deterministico.

L’organizzazione vivente opera tipicamente con strumenti monomolecolari costituiti da delicate e instabili molecole organiche. L’instabilità è necessaria perché se l’assetto funzionale fosse stabile non sarebbe funzionale. Per esempio il trasporto dell’ossigeno da parte dell’emoglobina avviene sulla base di un legame che dev’essere abbastanza stabile da non venire scisso dall’energia termica e abbastanza instabile per permettere la scissione (cessione dell’ossigeno) per fini regolazioni ambientali che agiscono sulla struttura e sui legami intermolecolari della instabile proteina. Questa qualità, l’instabilità, è una caratteristica propria del livello elementare, atomico prima che molecolare, della materia.

P.W. Atkins lo esprime così:

La tenuità della parte esterna dell’atomo dimostra la debolezza del controllo che esercita il nucleo centrale sugli elettroni che lo circondano. Questa debolezza è alla base della ricchezza della vita. Essa implica che gli atomi possono essere allontanati da una molecola usando soltanto una gentile persuasione, e che inoltre una struttura di atomi può trasformarsi in una nuova struttura. Data la debolezza dei legami, le strutture non sono congelate in schemi immutabili ma possono rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente. La struttura debolmente legata degli atomi e delle molecole porta alla sensibilità verso l’esterno: quando l’ambiente esterno esercita una leggera pressione, cambiamenti possono aver luogo. Se le strutture fossero state più compatte, solo stimoli violenti come quelli delle esplosioni nucleari avrebbero potuto produrre cambiamenti; non avrebbero potuto evolversi i raffinati e delicati meccanismi della percezione e della presa di coscienza. L’evoluzione, che è ora costruttiva, sarebbe stata distruttiva.

La fragilità della struttura molecolare, mentre da una parte permette alla materia di rispondere alle leggere pressioni esercitate dall’ambiente e di sviluppare delicati meccanismi di risposta, acquistando complessità, continua a contribuire d’altra parte alla complessità culturale delle specie. Finché le molecole presenti in un organismo possono reagire alle influenze dell’ambiente, l’organismo può osservare. La sensibilità delle strutture porta con sé una sgradevole vulnerabilità. Piccole fluttuazioni rispetto alla norma rischiano di uccidere. Il calore che riscaldava può, al di là di una certa soglia, scottare e bruciare. È per questo che è così facile morire.24

Quali sono le leggi del mondo molecolare e atomico/subatomico che sottostanno alla fenomenologia di cui sopra? Secondo Penrose, le nostre qualità sono radicate in qualche strano e meraviglioso aspetto di quelle leggi fisiche che effettivamente governano il mondo in cui siamo… e cioè noi «in qualità di esseri senzienti dobbiamo vivere in un mondo quantistico» nel quale vige l’incertezza di Heinsenberg.25

Alla radice di una vera (non apparente) instabilità, delle fluttuazioni, di ogni evento realmente casuale, deve esserci un certo ambito di indeterminazione, in assenza della quale non avrebbe senso parlare di impredicibilità. Diceva Hofstadter: «Il principio di indeterminazione non è una legge epistemologica riguardante l’osservazione, ma piuttosto una semplice conseguenza del fatto che la costante di Planck non è uguale a zero».26 La presenza della costante di Planck nella relazione d’incertezza di Heisenberg indica che la situazione è conseguenza della natura ondulatoria della materia.

Sul piano della filosofia della natura ammettere questo ambito di impredicibilità e indeterminazione non vuol significare che esistano eventi senza causa tout court.

Sembra necessario ipotizzare l’azione di cause immanenti responsabili dell’indeterminatezza dell’esito di un’azione della causa efficiente esterna: la condizione si realizza nella sovrapposizione delle possibili alternative (forme) di uno stato quantico dove la causa formale entro certi ambiti non è deterministica. L’ambito del caso è limitato, ma esiste, ed è alla radice di qualunque vera contingenza fisica, della creatività dell’evoluzione, dell’esistenza di soggetti senzienti e liberi.

Non vi sarebbe mai nulla di accidentale se questa radice di intrinseca indeterminazione mancasse. Essa esiste almeno nel mondo quantistico sub-microscopico, e anche nei punti di biforcazione dei sistemi caotici, i quali sono degli amplificatori di variazioni accidentali anche minime.27 Il caos è detto deterministico ma può apportare impredicibilità e indeterminazione, se si considera in connessione con quella quantistica: sia perché le sue dinamiche sono caratterizzate dalla sensibilità a piccole variazioni delle condizioni iniziali; sia perché nelle biforcazioni vi sono momenti di indeterminismo che azioni esterne veramente accidentali possono orientare anche casualmente (ma sono tali solo se esiste in qualche luogo una radice di indeterminazione intrinseca alla materia).

Se non fosse così il mondo sarebbe nonostante tutto Laplaciano, perché la catena delle cause non ammettendo niente di indeterministico quindi niente che sia realmente accidentale darebbe luogo ad un’evoluzione unica e necessaria per quanto multiforme e complicata. In un tale mondo il messaggio (anche fosse un numero irrazionale) che un sistema fisico legge dall’ambiente è letto in un tempo finito, predeterminato dalla successione delle cause (il numero irrazionale è troncato dopo una predeterminata e quindi non casuale serie di decimali che viene letta dal sistema), quindi non può esserci novità, creatività, o soluzione accidentale di una instabilità. I viventi sono automi, alcuni dei quali con la predeterminata ma falsa convinzione di essere liberi: tutte le azioni causali sono univoche e necessarie, nessuna è realmente contingente.

G.F. Basti, che si rifà a S. Tommaso, giustifica la possibilità della libertà solo se le cause per sé necessarie alla produzione di un effetto sono in sé contingenti, per cui «l’effetto rispetto alla causa di un processo fisico, differentemente dalla conseguenza rispetto alla sua premessa in una procedura logica, non deriverà univocamente dall’esistenza della stessa». Basti specifica che se «tutto è predeterminato fin dall’inizio» […] «la libertà dell’uomo diviene un’illusione».28

Ovviamente sarebbe un’illusione parlare di contingenza delle singole cause in un universo Laplaciano dove il caso è apparenza ma non esiste, e tutto il processo è necessario e univoco. Nonostante il concorso di varie cause possa sembrare accidentale, se ogni causa singola è necessaria anche il risultato finale lo sarà.

Se invece vale l’ipotesi che esistano momenti, eventi e forme in cui vige una causalità non deterministica, si apre lo spazio anche per l’esercizio della libertà umana e della responsabilità. La responsabilità entra in gioco se si realizzano due condizioni: a) che l’uomo sia libero di scegliere e individuare le proprie azioni, b) che l’azione determinata dalla libertà abbia delle conseguenze, delle ripercussioni significative sul resto del mondo (un’azione insignificante e senza conseguenze non chiama in causa la responsabilità). In questo senso (soprattutto per il punto b) le dinamiche caotiche, che implicano la sensibilità alle condizioni iniziali e l’amplificazione delle piccole perturbazioni, allargano notevolmente lo spazio della responsabilità umana. L’uomo, qualsiasi uomo, con la sua piccola azione libera può «creare» il futuro e di questa possibilità reca la responsabilità.29

Si è detto che i sistemi naturali lontani dall’equilibrio presentano comportamenti dinamici complessi, al limite tra ordine e caos. Questa classe di comportamenti dinamici è stata rappresentata per analogia come una transizione di fase tra le due classi fondamentali, fase «solida» (ordine, computabilità) e fase «fluida» (caos, incomputabilità), dei comportamenti dinamici in generale. È intuitivo che in tale condizione-limite un sistema è dotato di un certo grado di ordine ma insieme ne è svincolato e possiede una certa creatività e libertà.

A livello mentale — si suggerisce — il caos come amplificazione di fluttazioni potrebbe essere il motore della creatività e come generatore di imprevedibilità potrebbe essere garanzia di libero arbitrio, pur in un mondo governato da leggi esatte. «L’emergenza di stati mentali — sostiene K. Mainzer — è spiegata dall’evoluzione di parametri d’ordine (macroscopici) di insiemi di unità cerebrali che vengono causati da interazioni non-lineari (microscopiche) di cellule nervose in strategie di apprendimento lontano dall’equilibrio termico».30 La capacità del cervello di rispondere in modo flessibile alle sollecitazioni del mondo esterno e di generare nuovi tipi di attività, compreso il concepire idee nuove, è connessa alla tendenza di ampi gruppi di neuroni a passare bruscamente e simultaneamente da un quadro complesso di attività ed un altro in risposta al più piccolo degli stimoli. Questa capacità è una caratteristica primaria di molti sistemi caotici.

Secondo la scienza classica deterministica dei tempi di Laplace, ogni evento naturale dovrebbe avere la sua specifica causa dello stesso ordine di grandezza. Ciò significa che cause di entità relativamente trascurabile non potrebbero generare eventi notevoli. Ma recentemente sono state fornite molte dimostrazioni del fatto che sistemi caotici di vario tipo possono essere influenzati e addirittura «regolati» da minime perturbazioni dei parametri di controllo del sistema.31

In conclusione si può fare l’ipotesi che eventi mentali attraverso piccole perturbazioni potrebbero interferire per esempio sulla frequenza del campo elettromagnetico che può modulare azioni di neurotrasmettitori, e infine modificare dinamiche del sistema, attrattori e campi delle forme. Questa ipotesi non fa che estendere la prospettiva di azione degli eventi mentali quale ipotizzata come analoga a quella dei campi di probabilità della meccanica quantistica su eventi probabilistici sinaptici. L’influenza mentale sugli eventi sinaptici potrebbe infatti esponenzialmente amplificarsi attraverso la nota, estrema sensibilità delle dinamiche caotiche alle piccole perturbazioni. La presenza di caos deterministico è stata dimostrata su semplici sistemi neuronali «in vitro», e così pure la possibilità di controllare i sistemi caotici, cioè di rendere il loro comportamento regolare o periodico; o viceversa di «anticontrollare» comportamenti periodici inducendo il caos.

Qui sorge tuttavia una domanda alla quale sembra difficile dare risposta: la «flessibilità», la «plasticità», l’«indeterminazione», permesse o amplificate dalle dinamiche caotiche, e che sono certamente condizione necessaria per l’esercizio della libertà, ne sono anche condizione sufficiente?

La questione può essere sintetizzata come segue. Il problema della libera scelta riguarda la possibilità che un sistema avente una indeterminazione o instabilità fondamentale, come quello delle reti neurali, possa essere orientato in modo che dopo la scelta esso possa trovarsi in un solo stato, dei suoi 2n stati possibili, tale compressione (riduzione di entropia) essendo corrispondente all’atto del libero volere. La riduzione di entropia degli stati sinaptici, operata da una scelta mentale, ogni volta che abbia luogo sarà necessariamente accompagnata (come insegna la termodinamica) da scambi di calore con l’ambiente o da equivalenti variazioni dell’entropia di una memoria. Se il sistema è materiale, infatti, esso deve spendere qualche energia per attuare l’orientamento (riduzione di entropia) della instabilità, il quale dovrebbe in ipotesi corrispondere all’atto del libero volere: cioè il sistema dovrebbe voler spendere energia, quindi l’atto libero sarebbe precedente e diverso dall’orientamento dell’instabilità e anche dalla relativa spesa d’energia. Ma cosa sarebbe? Ne viene un ricorso all’infinito.

Si può evitarlo se si dispone di un sistema che non richieda mezzi fisici nell’atto di scegliere: occorre una causalità non causata, una intelligenza immateriale che qualunque sistema esclusivamente fisico (nel quale per ogni bit d’informazione cancellata dev’essere simultaneamente dissipata un’energia di kT loge 2)32 non ha e non è. Oppure l’uomo non è libero.33

6. Un mondo non Laplaciano e il dolore

Se in qualche modo si considera che l’uomo sia dotato di libertà permessa dalla indeterminatezza e dalla incompletezza algoritmica che caratterizza i sistemi complessi, può essere interessante notare che, nell’ambito della stessa incompletezza, si deve considerare necessaria l’esistenza del dolore: libertà e dolore sono strettamente correlati. È a tutti evidente che tanta parte della sofferenza umana viene dalla libera scelta degli uomini, dal cattivo uso della libertà. Questa sofferenza così provocata pone certamente dei problemi interpretativi, ma in qualche modo è spiegabile perché la sua causa sta nell’esistenza di esseri liberi, come tali capaci di scegliere fra diversi possibili comportamenti. Se non si vuole annullare la libertà, si deve accettare che esista questo male, anche nell’estensione e nell’intensità che rappresenta uno scandalo come Auschwitz.

Ma vi è anche un’altra sorta di male, che non è così direttamente imputabile alla cattiveria umana, e che tuttavia provoca tanta apparentemente ingiusta sofferenza, scandalo dunque ancora maggiore perché sembra implicare una cattiveria radicale della natura: chi ha visto gli occhi scavati e smarriti di un bambino leucemico ne ha riportato un’impressione, come quella che si può avere di fronte al dolore e alla morte prodotti dalle diverse calamità naturali.

Tradizionali interpretazioni del dolore e della morte hanno attribuito in definitiva anche questo tipo di male all’uso (e all’abuso: peccato originale) della libertà da parte dell’uomo. Qui non affrontiamo questo tema, ma vogliamo esporre alcune considerazioni sul rapporto tra complessità, libertà e dolore.

Oggi i fisici parlano di «principio antropico» per interpretare l’universo.34 Secondo tale principio, perché fosse possibile la presenza di osservatori, quali noi siamo, questo universo doveva proprio essere per tanti aspetti così com’è: dovevano esserci pianeti termostatati, stelle capaci di radiazioni energetiche costanti per miliardi di anni, ecc. Spostando un poco il punto di vista, un’applicazione del principio antropico potrebbe essere la seguente: se gli osservatori, quali noi siamo, dovevano essere dei soggetti dotati di libertà, allora era necessario che la stoffa dell’universo non fosse strettamente condizionata da leggi deterministiche, risultando rigida come l’inferriata di una prigione; viceversa essa avrebbe dovuto garantire un certo ambito di aleatorietà dei processi, di non determinazione, uno spazio e un modo perché l’influenza della volontà libera potesse esplicarsi, perché gli eventi mentali potessero causare eventi neurali.

Ma una materia non completamente determinata nella successione degli eventi possibili, se può servire a supporto di soggetti con libertà d’azione, è però un orologio che può sbagliare il tempo, è un congegno passibile di errore, ed errore in biologia vuol dire spesso dolore. L’estensione del principio antropico ci consente dunque di dire: perché fosse possibile la presenza di osservatori liberi, quali noi siamo, questo universo doveva essere così com’è, doveva essere luogo di dolore.

Ogni sorta di male ha dunque una relazione causale con la libertà, o perché può essere provocato dalla libera volontà defettibile: il male di Caino; o perché la stessa esistenza della libertà, di soggetti liberi, in questo universo è permessa soltanto da quella incompletezza della algoritmicità dalla quale sono permesse anche le catastrofi, e che viene descritta oggi dalle teorie dell’indeterminazione e del caos. Le leggi che governano la natura non sono rigidamente deterministiche, ma lasciano ampi spazi all’indeterminazione, all’imprevedibilità, quindi all’incomprensibile sciagura.35 Solo una stoffa materiale di questo tipo può d’altra permettere l’esistenza di soggetti capaci di esercitare la libertà in questo universo).36

7. Dolore e onnipotenza creatrice

La scelta creatrice è stata doppiamente limitativa dell’originaria onnipotenza perché: 1) contemplando l’esistenza di soggetti liberi 2) ha permesso una misura di casualità che introduce contingenza e imprevisto limitando l’azione delle leggi matematiche fisse. La libertà dell’uomo è consentita dalla «libertà» della natura. L’introduzione della stocasticità a un livello fondamentale (il carattere intrinsecamente statistico degli eventi atomici) può implicare, sia pure entro un limitato ambito, una sorta di attenuazione del principio di ragione sufficiente dato che «ciascun individuale evento quantistico può essere genuinamente impredicibile, mentre una collezione di tali eventi è conforme alle previsioni statistiche della quantomeccanica».37

Da un lato è evidente una «impressionante simmetria» sottesa all’universo, ma d’altro lato vediamo che le simmetrie «sono invariabilmente quasi simmetrie, e che le piccole violazioni che osserviamo sono altrettanto necessarie alla nostra esistenza».38 Vi è dunque un piccolo ma fondamentale spazio lasciato a «cause indeterministiche» o, ciò che è lo stesso, parzialmente al di fuori del principio di ragione sufficiente, spazio di creatività lasciato alla creatura, e che è quindi anche non-creazione (del male), mancanza di essere partecipato e cioè di bene, penetrazione del Niente39 nell’evoluzione. In vista della libertà delle creature Dio ha dovuto lasciare al caso (al Niente) una parte della creazione.

La difficoltà del concetto di onnipotenza quale abitualmente inteso è nota ed è antica, da Epicuro a H. Jonas,40 e condivisa da R. Panikkar.41 «Il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente»…42 Prescindendo dal male dovuto direttamente all’azione degli uomini, non si tratta infatti solo di male metafisico legato alla finitezza del creato, ma anche di privazione di perfezioni dovute, perché l’incompletezza algoritmica e l’indeterminazione, che ne sono causa, sono qualità non necessarie di una materia finita. Divengono necessarie per garantire, come s’è detto sopra, la possibilità della libera autodeterminazione ed è per questo fine, per questo bene, che il creatore ha dovuto lasciare al caso una parte della creazione. Secondo N. Venturini «è necessario che tra bene superiore voluto e male permesso ci sia […] un nesso tale che non sia possibile volere l’uno senza permettere l’altro, ma a noi questo nesso non è dato di coglierlo».43 Forse questo pessimismo è eccessivo?

M. Ruse riporta motivi ed esempi che dimostrano come i mali naturali non possano essere evitati se i viventi devono fare parte della natura come esseri senzienti, e conclude: «The hard nature of physical existence and being is not therefore a rebuke against an all-powerful God».44

Resta in ogni caso una difficoltà in relazione all’onnipotenza: perché il dolore (nella forma di sciagura) non viene sempre miracolato? Il rispetto del Creatore per il creato e le sue leggi fino a che punto può essere in causa? Non v’è dubbio che il rispetto della libertà delle creature fatte a Sua immagine nella carne deve permettere loro la facoltà di decidere il compimento di atti autonomamente determinati anche se questi comportano male e sciagura. Potrebbe essere miracolato chi riceve il male dalla natura, la cui «libertà» potrebbe essere annullata in ogni opportuna occasione? Ma se non si può salvare Abele, si può nella giustizia salvare l’uomo che viene ucciso dalla tigre? o dall’uragano? Si può salvare almeno il bambino dalla leucemia? Ma fino a che età?

Se tuttavia il creato «era cosa molto buona» (Gn 1,31) agli occhi dell’onnipotenza, si deve anche considerare che la sofferenza implicita potesse avervi un senso entro l’orizzonte dell’amore che salva. Il dolore, che potrebbe non avere un senso su un determinato piano (ad esempio, sul piano cellulare e organico perché incurabile e «non-curante»), potrebbe assumere un senso se visto in un contesto diverso, che tiene conto dei rapporti dell’uomo — in quanto uomo — con i propri simili o con il Creatore.

Si entra qui in un campo in cui la scienza sa e dice poco, forse nulla. Tuttavia, il «modo di pensare» secondo il paradigma della complessità induce a sostenere che analogie esistano tra i diversi piani della realtà, dal microcosmo al macrocosmo, che le leggi della complessità siano applicabili alle molecole, alle cellule come alla vita psichica e relazionale.45 Perciò una prospettiva di apertura all’altro-da-sé e quindi al trascendente non solo non è irrazionale ma è profondamente funzionale alla natura stessa dell’uomo e della sua evoluzione e ciò in quanto l’uomo, così come ogni altro essere vivente, come sistema aperto e dissipativo, mantiene il proprio ordine interno per il continuo flusso di energia, materia e informazione che lo attraversa e per la continua dispersione di entropia nell’ambiente. Analogamente quindi secondo la prospettiva della complessità anche il dolore può essere vissuto nell’apertura del sistema-uomo a qualcosa d’altro o a qualcun altro-da-sé, apertura che faccia sperimentare un ri-assestamento del proprio io verso uno stato di maggiore armonia e di maggiore consapevolezza.46

  1. Il discorso tecnico che ha portato Monod alle sue conclusioni è interessante ed è forse utile cercare di esprimerlo in termini semplici. Egli dice: le proteine, cioè le molecole organiche complesse fondamentali per la vita, anche se hanno tutte una precisa funzione, si sono formate per caso. Le proteine sono sequenze di 20 diversi tipi di molecole più piccole, i mattoni della costruzione, che si chiamano aminoacidi. Una proteina è come un discorso molto lungo fatto con sole 20 diverse parole e queste parole si succedono l’una all’altra senza una regola apparente. Se noi conosciamo la serie in sequenza di 199 aminoacidi che compongono una proteina che ne ha 200, l’ultimo non possiamo prevedere quale sia, tra i 20 diversi tipi possibili, perché non c’è una regola della loro successione, della loro distribuzione in fila. Dunque non c’è un ordine, è il caso che ha costruito la proteina, anche se essa ha oggettivamente una funzione biologica precisa, cioè un alto contenuto di informazione. Questa è la conclusione di Monod. È importante a questo punto stabilire quale significato tecnico dare ai termini ordine e informazione. Intuitivamente si pensa che un messaggio che contiene informazione debba essere anche ordinato, con un ordine analizzabile e descrivibile, non casuale nella sua composizione. Per esempio una serie, una sequenza di parole può rappresentare un messaggio più o meno ricco di informazione. Se le parole vengono cambiate di posto non si capisce più niente. La domanda che ci poniamo è: una sequenza di parole è tanto più ricca d’informazione quanto più è ricca di ordine apparente? Per esempio se in un discorso vedo una certa parola ripetuta ogni cinque altre, riconosco un certo grado di ordine. L’ordine è dato da una distribuzione delle parole in cui si riconosca qualche simmetria, qualche periodicità, qualche regola fissa, un algoritmo. Una sequenza ripetitiva di una sola parola (per es. questo, questo, questo…) avrà quindi il massimo di ordine. Ma non potremo certo dire che ha il massimo di informazione. Invece di una serie di parole tutte uguali facciamo una sequenza di parole diverse l’una dall’altra, per es. diciamo questa è una scuola, un liceo. Se noi trascuriamo, ignoriamo il significato ossia l’informazione, come se la leggesse uno che non conosce l’italiano, le parole sembrano disposte a caso. Le parole qui appaiono come gruppi di lettere disposti senza nessun ordine nella successione: per esempio non viene prima la più piccola poi le altre in ordine di grandezza, né si alterna una grande e una piccola, ecc., sembra che la sequenza sia messa lì senza un ordine apparente, quindi a caso, ma sappiamo bene che è assai più ricca di significato di quella, sicuramente più ordinata, formata di altrettante parole tutte uguali messe in fila. È chiaro dunque che ordine e informazione non coincidono. Monod doveva chiedersi da dove viene l’informazione, non da dove viene l’ordine, che può esserci e non esserci. È vero che non c’è una regola, una periodicità, nella sequenza degli aminoacidi. Ma questa sequenza forma una proteina che ha una funzione, cioè significato, informazione.

    Anche il numero π ha una serie di decimali non periodici, ma tutti i matematici sanno quanta informazione contiene. L’ordine com’è comunemente inteso è una cosa, il contenuto di informazione è una cosa diversa. È del resto intuitivo che una sequenza senza tante regole d’ordine ricorsivo può essere più inventiva, libera, creativa, meno limitata nel contenere fantasia e ricchezza d’informazione. L’ordine come l’abbiamo definito è dunque addirittura un limite al possibile contenuto d’informazione, e noi possiamo concludere che il massimo d’informazione deve coincidere con il minimo di ordine, con buona pace di Monod.


  1. A. Moschetti, E Agostino mi risponde, Gregoriana, Padova 1989, p. 65. ↩︎

  2. Ivi, p. 68. ↩︎

  3. J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970, p. 138 e 143. ↩︎

  4. D.C. Dennett, «Darwin’s Dangerous Idea», The Sciences, 1995, 35, pp. 34-40. ↩︎

  5. P.W. Atkins, Creation Revisited, Freeman, Oxford 1997, p. 134. ↩︎

  6. S.A. Kauffman, The Origins of Order, Oxford Univ. Press, New York 1993. ↩︎

  7. I. Prigogine, I. Stengers, La Nouvelle Alliance, Gallimard, Poitiers 1979; R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi, Torino 1980; G. Nicolis, I. Prigogine, La complessità, Einaudi, Torino 1987; F. Cramer, Chaos and Order, VCH Verlagsgesellschaft Weinheim 1993. ↩︎

  8. J. Monod, cit. alla nt. 3, p. 84. ↩︎

  9. E. Schödinger, Che cos’è la vita, Sansoni, Firenze 1947, p. 12. ↩︎

  10. M. Zatti, «Il caso e la complessità», Kos, 1996, XIII, pp. 36-41. ↩︎

  11. I. Prigogine, La Nouvelle Alliance, cit. alla nt. 7↩︎

  12. S.A. Kauffman, At Home in the Universe, Oxford Univ. Press, New York 1995; I. Stewart, «Emergent macrosimplicity», Nature, 1996, 379, p. 33. ↩︎

  13. J.L. Casti, «Confronting Science’s Logical Limits», Sci. American, 1996, 275 (4), pp. 78-81. ↩︎

  14. R. Thom, cit. alla nt. 7↩︎

  15. F. Cramer, cit. alla nt. 7, p. 172. ↩︎

  16. S.A. Kauffman, cit. alla nt. 13↩︎

  17. J.S. Wicken, Evolution, Thermodynamics, and Information, Oxford Univ. Press, New York 1987, p. 91. ↩︎

  18. M.B. Hallett, «Unpredictability of Cellular Behaviour», Persp. Biol. Med., 1989, 33/1, pp. 110-19. ↩︎

  19. J.C. Eccles, «Do Mental Events Cause Neural Events Analogously to the Probability Fields of Quantum Mechanics?», Proc. R. Soc. London B, 1986, 227, pp. 411-28. ↩︎

  20. Risultano, all’analisi delle trasmissioni sinaptiche, possibili influenze di modificazioni della membrana post-sinaptica, fermo restando il significato presinaptico di alcuni dei parametri (n, numero delle zone attive; 1, probabilità di rilascio di un pacchetto quantico). H. Korn, D.S. Faber, «Quantal Analysis and Synaptic Efficacy in the CNS», Trends in Neurosciences 1991, 14, 439-45; J.M. Bekkers, C.H. Stevens, «Presynaptic Mechanism for Long-Term Potentiation in Hippocampus», Nature 1990, 346, 724-29; R. Malinow, R.W. Tsien, «Presynaptic Enhancement Shown by Whole-Cell Recordings of Long-Term Potentiation in Hippocampal Slices», Nature 1990, 346, 177-80. Punto critico dell’attività neuronale è l’attivazione dei canali del Ca2+ voltaggio-dipendenti e la successiva esocitosi presinaptica del neurotrasmettitore, contenuto in vescicole la cui proteina p65 interagisce con le sintaxine della zona attiva della membrana presinaptica. La letteratura descrive: variabilità quantali di queste attività giunzionali, proprietà stocastiche delle interazioni tra recettori e trasmettitori, possibilità di interferenze di vario tipo sull’efficienza della comunicazione tra cellule nervose (D.S. Faber, W. . Young, P. Legendre, H. Korn, «Intrinsic Quantal Variability Due to Stochastic Properties of Receptor-Transmitter Interactions», Science 1992, 258, 1494-501; P. Greengard, F. Valtorta, A.J. Czernik, F. Benfenati, «Synaptic Vesicle Phosphoproteins and Regulation of Synaptic Function», Science 1993, 259, 780-88). Una delle variabili è rappresentata da variazioni del numero delle vescicole del pool di riserva rispetto a quello rilasciabile in una terminazione sinaptica, con una transizione regolata dalla fosforilazione/ defosforilazione di una proteina. Nel complesso si può dire che è molteplice l’ambito delle fluttuazioni sulle quali potrebbe esercitarsi l’influenza di un’onda di probabilità della quantomeccanica. ↩︎

  21. R. Penrose, The Emperor’s New Mind, Oxford Univ. Press, New York 1989; R. Swiburne, The Evolution of the Soul, Oxford Univ. Press, New York 1986. ↩︎

  22. H. Margenau, Il miracolo dell’esistenza, Armando, Roma 1987, p. 105. ↩︎

  23. B. Mondin, Corso di storia della filosofia, Massimo, Milano 1983, pp. 174-77. ↩︎

  24. P.W. Atkins, La creazione, Zanichelli, Bologna 1985, pp. 23-25. ↩︎

  25. R. Penrose, The Emperor’s New Mind, cit. alla nt. 22, p. 226. ↩︎

  26. D.R. Hofstadter, «I paradossi della meccanica quantistica», Le Scienze, 1986, 33, p. 13. ↩︎

  27. F. Cramer, cit. alla nt. 7↩︎

  28. G.F. Basti, Filosofia dell’uomo, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1995, pp. 264-65. ↩︎

  29. P. Bellavite, M. Zatti, «Il paradigma della complessità nelle scienze e in medicina», Nuova Secondaria, 1996, XIII (7), pp. 45-53. ↩︎

  30. K. Mainzer, Thinking in Complexity, Springer Verlag, Berlin-Heidelberg 1994, p. 7. ↩︎

  31. G.P. Williams, Chaos Theory Tamed, Taylor & Francis, London 1997. ↩︎

  32. R. Landauer, «Dissipation and Noise Immunity in Computation and Comunication», Nature, 1988, 335, pp. 779-84. ↩︎

  33. D.C. Dennet, Consciousness Explained, Little, Brown 1991. ↩︎

  34. Autori vari, Il principio antropico, a cura di B. Giacomini, Spazio Libri Editori, Ferrara, 1991. ↩︎

  35. Si intende che questo può valere nel caso di sciagura che anche soltanto indirettamente possa essere riferita alla creatività dell’evoluzione nei suoi aspetti più rigorosamente darwiniani (i quali non sono certo annullati dalle capacità autoorganizzative che segnano le linee maestre del processo evolutivo). ↩︎

  36. M. Zatti, Il dolore (nel) creato, Dehoniane, Bologna 1994. ↩︎

  37. P. Davies, The Mind of God, Simon & Schuster, London 1992, pp. 192-93. ↩︎

  38. J.D. Barrow, J. Silk, La mano sinistra della creazione, Mondadori, Milano 1985, p. 232. ↩︎

  39. K. Barth, Dio e il Niente, Morcelliana, Brescia 2000, p. 152. ↩︎

  40. N. Venturini, Perché il male?, Rubettino, Catanzaro 2000. ↩︎

  41. R. Panikkar, La pienezza dell’uomo, Jaca Book, Milano 1999, pp. 140-41. ↩︎

  42. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Melangolo, Genova 1989, p. 32. ↩︎

  43. N. Venturini, Perché il male?, cit. alla nt. 41, p. 311. ↩︎

  44. M. Ruse, Can a Darwinian be a Christian?, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2001, p. 136. ↩︎

  45. K. Mainzer, Thinking in Complexity, cit. alla nt. 34, p. 289. ↩︎

  46. P. Bellavite, M. Zatti, cit. alla nt. 33↩︎