Karl Jaspers e la torre di Hölderlin

1. Dalla perla alla conchiglia

Le fasi della malattia di Hölderlin vengono descritte da Jaspers1 attraverso la ricostruzione fattane da W. Lange.2 Seguendo Lange, dunque, si possono riscontrare nella patografia di Hölderlin le prime avvisaglie dell’incipiente schizofrenia a partire già dal 1800, quando Hölderlin aveva trent’anni: compaiono i primi segni di «spaesamento e solitudine»,3 accompagnati da momenti di «irritabilità eccessiva».4 Nel 1801-1802,5 la malattia diventa palese agli occhi degli amici e nel 1806 verrà internato presso la clinica psichiatrica dell’Università di Tubinga a causa della frequenza con cui si ripetono violenti squassi emotivi. Dal 1807 viene ospitato da un falegname svevo, Ernst Zimmer, che gli aveva fatto visita dopo aver letto Hyperion, e che si era offerto di prendersene cura. Zimmer alloggiò Hölderlin in una torre di sua proprietà sulle rive del Neckar, dove il poeta attraversò lo stadio finale di una schizofrenia catatonica che lo accompagnerà fino alla morte, avvenuta nel 1843.

Dopo questo breve excursus, Jaspers delimita il campo della sua indagine: dal punto di vista psichiatrico, il valore estetico di un’opera o il giudizio che ne da il suo autore diventano secondari6 rispetto al discorso vertente sul rapporto malattia/arte. Entrambi quei momenti interpretativi, infatti, portano a considerare l’opera d’ arte come avente una vita propria, circoscritta dal suo solo valore estetico, come «prodotto della natura»7 per dirla con Jaspers, dunque indipendente da circostanze di sorta, come la malattia. Ciò che qui interessa invece, è stabilire proprio il nesso dell’opera d’arte con la psicosi, ragion per cui la vita dell’artista diventa momento fondante dell’analisi. Non a caso, dunque, la prima circostanza su cui Jaspers si intrattiene è quella che verte sulla forte discordanza esistente tra i giudizi sull’opera di Hölderlin nel periodo che va dal 1801 al 1805, e che vede la schizofrenia farsi strada nella psiche di Hölderlin. Così, se Lange considera la poesia di Hölderlin di questi anni decisamente inferiore a quella espressa precedentemente, Von Hellingrath vi rinviene invece l’acme del suo magistero. E Jaspers si chiede:

La poesia di Hölderlin ha veramente subito, dal 1801 in poi, cambiamenti che le hanno dato un volto nuovo?8

La risposta passa, date le premesse, per un’analisi di tipo non contenutistico (dunque estetico) dell’opera di Hölderlin ma di natura oggettiva, strutturale, stilistica, legata insomma alla «vita propria dell’opera poetica»:9 la poesia come fatto consentirebbe di individuarne l’eventuale nesso con la vicenda morbosa.

Tuttavia, il momento estetico non è del tutto eludibile. Jaspers avverte infatti che una ricerca documentale resta fine a sé stessa se non è accompagnata da una interpretazione estetica, da un lavoro interiore di comprensione.10 È stata del resto, proprio l’etichetta di incomprensibile riservata da molti alla poesia di Hölderlin di quegli anni, a farne il semplice parto d’un folle, qualcosa di confuso, vuoto, privo di reale valore artistico e dunque di poco momento dal punto di vista di un’evoluzione stilistica, reale o presunta che sia: la psicosi ha fatto il suo ingresso, la poesia è uscita di scena. Jaspers invece, si sforza di comprendere il portato estetico della poesia di Hölderlin, senza dimenticare quell’analisi oggettiva che proviene dagli specialisti dello stile. Cosa ci dicono dunque gli specialisti?

Jaspers confronta le opinioni di Von Hellingrath e di Dilthey, che paiono convergere sul fatto che il nuovo stile inaugurato da Hölderlin dopo il 1801 sarebbe ingenerato da uno sviluppo meramente intellettuale; la psicosi semmai vi gioca un ruolo coadiuvante: essa non determina ex se la «particolare indipendenza ed energia delle immagini»11 cui si riferisce Dilthey a proposito dei Canti della notte. Il dato stilistico più rilevante appare essere la conversione al verso libero di Hölderlin:

La cosa più ricca di avvenire in quest’ultima epoca di Hölderlin è che tutta la sua evoluzione poetica urgeva verso la totale liberazione dal ritmo interiore del sentimento dalle forme metriche chiuse.12

Per la verità Dilthey colloca questo passaggio già in epoca precedente all’insorgere della malattia. Sennonché di tale evoluzione praeter morbum egli porta come esempio i Canti della notte, che però sono coevi alla schizofrenia. Ma allora, si chiede Jaspers, esiste o no «qualcosa che si possa designare come specificamente schizofrenico»?13 Peraltro la domanda non investe solo la produzione di Hölderlin dal 1801 al 1805. Jaspers rileva infatti come il periodo successivo sia caratterizzato da una nuova metamorfosi: le poesie di Hölderlin si fanno «più semplici, più infantili, si potrebbe anche dire più vuote».14 La risposta, per Jaspers, può derivare soltanto da una comparazione tra «il sorgere dello stile nuovo e la curva del processo morboso».15

Volgiamoci dunque a considerare i contenuti di tale processo, anche in rapporto a ciò che lo ha preparato, per vedere se e come questo abbia avuto un riflesso sull’opera di Hölderlin.

2. La progressiva derealizzazione del mondo

Se volessimo rifarci alla nomenclatura junghiana dei tipi psicologici, Hölderlin rientrerebbe nella categoria del «tipo introverso [che] si rivolge a forme di percezione e di conoscenza che rappresentano la disposizione soggettiva e ricettiva di fronte allo stimolo sensoriale» e che «non parte dall’esperienza concreta per ritornare alle cose oggettive ma mira al contenuto soggettivo»; i fatti pertanto, «hanno un’importanza secondaria, mentre hanno valore lo sviluppo e l’esposizione dell’idea soggettiva, dell’immagine simbolica originaria che in forma più o meno oscura è sempre presente nello sguardo del tipo introverso».16 E tale introversione certo si manifestava, in quanto lontananza dal mondo, già prima della psicosi (vicenda che non si compie mai tutta d’un colpo, ma che ha antecedenti a volte assai lontani nel tempo), come è dato di riscontrare attraverso le testimonianze raccolte da Dilthey17 come quella che vede Hölderlin affermare, nel 1798: «Vorrei vivere per l’arte alla quale appartiene il mio cuore, e invece debbo faticare tra gli uomini, tanto che spesso sono assai stanco di vivere». O nel 1795: «Il disgusto di me stesso e di quello che mi circonda mi ha sospinto all’astrazione».18

Con l’insorgere della malattia Jaspers rileva come «questa coscienza di sè [diventi] a poco a poco, serena e ferma»:19 la dolorosa frattura con il mondo viene ora compensata da un’accettazione sempre più consapevole della propria solitudine, che assume però adesso una valenza catartica. Scrive Hölderlin nel 1801:20

Finalmente lo sento, solo nella forza piena è amore pieno. […] Più sicuro un uomo è di sé, più è raccolto nel meglio della sua vita, più facilmente il suo spirito abbandona i sentimenti inferiori per ritrovare ciò che gli è essenziale.

Quali gli effetti sull’opera? Jaspers pone in evidenza come la poesia di Hölderlin rifletta sempre più questa distanza dalla realtà. Ma c’è di più. In Hölderlin c’è non solo un progressivo congedarsi dalla dimensione ontica. È la stessa epoca contemporanea a venir meno: Hölderlin si sceglie una nuova patria, la Grecia antica. Il presente è obliato. Il mondo classico apre le porte ad un universo mitico nel quale il poeta consumerà il suo esilio dal mondo e dal tempo. Va detto che in Hölderlin il senso di una vicinanza dell’uomo al mondo greco, al divino, alla natura, precede la malattia. Ma si tratta sempre di una nostalgia della bellezza e dell’assoluto. Durante la psicosi invece, si riscontra

Un sentimento di presenza immediata che lo colma e lo innalza in una sfera più vasta, più impersonale e fuori dal tempo. Hölderlin avverte una presenza mitica nella quale la cosiddetta realtà dell’uomo atteggiato naturalisticamente non è separata dall’assoluto, dal divino. Ecco perché l’anelito si ritira, e aumenta in lui un senso di appagamento.21

Nel 1802 Hölderlin scrive:

Più la studio, più la natura della mia patria mi tocca profondamente. Il temporale […] in quanto potenza e forma fra le forme del cielo, la sua luce che plasma nelle nazioni e nei principi il destino acciocché qualcosa ci appaia sacro, il suo andare e venire, il carattere particolare delle foreste e l’incontro in uno stesso luogo di vari aspetti della natura, così come tutti i luoghi sacri della terra sono raccolti in uno stesso punto, e la luce filosofica nella mia finestra, ecco cos’è la mia gioia.22

È proprio lo slancio di Hölderlin verso il mondo classico a comportare quella liberazione dalle forme metriche tradizionali già rilevata da Dithley e ribadita da Jaspers, il quale sostiene che essa rappresenta «il risultato di una visione laboriosamente disciplinata, un sensualismo immediato» e che «in questa intensità si può ravvisare la causa dell’eccitazione morbosa, insieme euforica e metafisica. »23

Fin qui dunque, si assiste di sicuro ad un nuovo registro di pensiero, ad un ritorno in termini creativi di inedite pulsioni. Ma non abbiamo ancora reso contezza della natura dei rapporti eventualmente istituibili tra i nuovi valori estetici espressi da Hölderlin con l’insorgere della malattia, la mutata concezione del mondo e la malattia stessa.

Jaspers propone una soluzione di sintesi. Da un lato è possibile affermare che l’evoluzione stilistica di Hölderlin sia in linea con le sue aspirazioni di sempre, che il delirio avrebbe solo rafforzato. Dall’altro si potrebbe concepire la schizofrenia come fattore condizionante dell’opera. Per Jaspers, tra le due soluzioni non si da contraddizione. Posto che «la schizofrenia in sé non è d’ordine spirituale»,24 lo spirito essendo al di là dell’opposizione salute/malattia, come dimostra il fatto che «molti malati non si esaltano in una visione del mondo»,25 e che dunque dipende non dalla schizofrenia ma dal «terreno sul quale la malattia si impianta»,26 l’an ed il quomodo della creazione artistica, si può allora dire che

La schizofrenia permette talvolta all’uomo di conferire un senso alla sua malattia e di valorizzarla legandola alla propria esperienza spirituale.27

Non esiste una maestria schizofrenica, come non esistono i maestri schizofrenici di Prinzhorn. Esiste la poesia. Il resto è questione di fertilizzanti.28 Certo non si nega come alcuni siano più potenti di altri, e di come la schizofrenia consenta quella «unica fioritura impensabile nell’uomo normale» e che finisce poi «per distruggere tutto».29

3. L’ ombra di Tantalo

Si è detto30 come in Hölderlin, compaia con la malattia un’unificazione della natura umana con il divino e con il mondo greco da cui deriva un sentimento di appagamento e serenità. Ma ciò costituisce solo un lato della medaglia: ciò che consola al tempo stesso spaventa. Scrive Hölderlin nel 1801:

Prima esultavo alla scoperta di una nuova verità, d’una nuova concezione di colui che è sopra di noi, ora temo che mi accada come al vecchio Tantalo che ricevette dagli dei più di quanto potesse digerire.31

Vediamo ora cosa ciò comporti, secondo Jaspers, sul piano dell’espressione poetica (ciò che poi equivale a far luce, per taluni aspetti, sul mondo sconosciuto e inconoscibile portato a galla dalla psicosi). Se il poeta, come Dioniso, si fa intermediario tra l’uomo e la divinità per trasmettere al primo «ciò che di mortale vi è nel divino, già da lui assimilato e reso inoffensivo»,32 resta pur sempre vero che il poeta, in quanto uomo, si ritrova sulle spalle un fardello pericolosamente pesante: la rivelazione divina rischia di farsi folgorazione divina. Da ciò derivano i timori di Hölderlin, che avverte tale minaccia come sempre incombente, malgrado l’amore nutrito per il mondo mitico e per la sua nuova patria.

Dobbiamo però chiarire meglio cosa significhi tutto questo per Hölderlin. Jaspers ha infatti cura di avvertire che tale sentimento non è nuovo per Hölderlin, né esso è riscontrabile solo in un contesto patologico. Da un lato, infatti, esso è già presente nell’Hölderlin de La morte di Empedocle , dall’altro l’esperienza del divino è presente tanto nell’opera di molti artisti non schizofrenici, quanto nella tensione mistica di persone non impegnate in attività artistiche.

Ergo? Ne La morte di Empedocle, la condanna di quest’ultimo è giustificata dall’aver egli detto l’ indicibile:

deve vivere

come lui e morire come lui, nel dolore e nella pazzia, chi

tradisce il divino e, stravolgendo ogni cosa,

consegna nelle mani dell’uomo

il potere nascosto!33

Empedocle, dunque, si rende colpevole di rivelazioni che dovevano restare segrete.

Di tutto quello che i profeti e i geni apportano agli uomini, cos’è bene per loro e che cos’è dannoso?34

Deve scoprire Edipo la verità o dare ascolto a Tiresia? Qui la partita si gioca sul fronte della scelta da parte dell’uomo di testimoniare il senso della propria esistenza, pagandone il prezzo o appagarsi di ciò che sa. Quanto poi al richiamo al trascendente, operato dall’artista o da chiunque avverta in sé, come dice Jaspers il richiamo di una «naturale angoscia dell’uomo, del destino, dello slancio dell’illimitata visione»,35 trattasi di esperienze che non si iscrivono necessariamente in un processo patologico. Ma quando Hölderlin scrive, riferendosi alla rivelazione divina:

Poiché non sempre il debole vaso potrà contenerla.

Solo di rado l’uomo sopporta la pienezza divina.36

Ciò che dice vuol essere preso alla lettera, e tutta la sua vita lo conferma. Un’esperienza come questa, autentica, veramente pericolosa, non può prodursi che nella follia.37

Se il poeta plasma il messaggio divino per renderlo intelligibile all’uomo, quando tale messaggio lo minaccia in prima persona, la sensazione è quella di essere destinati ad una ricchezza troppo grande per poter essere sopportata. E di tale tensione l’opera di Hölderlin nel periodo che stiamo esaminando è affatto pervasa. Cerchiamo adesso di capire se tale tensione è solo esternamente coincidente con la curva del processo morboso o se la schizofrenia abbia invece in tutto ciò un ruolo fattuale.

Si potrebbe pensare, osserva Jaspers a proposito del mutamento di stile di Hölderlin nel quinquennio in esame, che si tratti di

un’evoluzione ininterrotta, indipendente dalla malattia, che solo più tardi viene sviata bruscamente dalla psicosi. Oppure si può asserire che questa evoluzione non dipenda dalla malattia ma ubbidisca ad una legge propria. O ancora, che coll’inizio della malattia si producano dei mutamenti che non possono essere attribuiti che ad essa.38

In linea con le argomentazioni precedenti, Jaspers è per quest’ultima possibilità. La schizofrenia non determina l’opera. Essa rende possibile l’impossibile. Fornisce un varco altrimenti destinato a rimanere chiuso. In questo senso si può parlare della schizofrenia come condizione dell’opera. Ciò che è confermato anche dal fatto, dice Jaspers, che Hölderlin «è incomparabile» e che le opere del quinquennio «sono un fenomeno unico nella letteratura».39

4. La notte di Tubinga

Il periodo della vita di Hölderlin che va dal 1805-1806 fino alla morte, avvenuta nel 1843, è ormai completo appannaggio della follia e i versi sono «versi in sfacelo».40 Jaspers vi rintraccia un nuovo cambio di rotta nella produzione di Hölderlin:

Il ritmo pare abbandonarsi al caso, e le rime non sono più che assonanze; vi sono dei versi quasi inaccessibili anche a un grande sforzo di comprensione.41

La ricostruzione della patografia di Hölderlin, in una con l’evoluzione della sua poesia, presentata da Jaspers, permette dunque di individuare intorno al 1801 il passaggio dalla salute alla malattia; nel periodo che va dal 1801 al 1805 la fase che egli definisce intermedia e che segna l’evolvere progressivo della malattia con momenti di forte crisi che spesso si fanno violente, e che vede la produzione di Hölderlin toccare vette, per Jaspers, irraggiungibili, e nella fase successiva, dominata dalla follia, un verso che si disgrega insieme alla psiche. Hölderlin dunque è morto con la sua poesia nel 1805?

Per tentare di rispondere chiediamoci innanzitutto: chi è Hölderlin dopo il 1805? Innanzitutto Hölderlin non è più Hölderlin. Come riferisce Zweig: «e per altri quarant’anni sulle torbide acque del tempo galleggia senza coscienza, soltanto il suo cadavere spirituale, quel profilo deformato e spettrale che lui ignaro di se stesso, chiama a volte ‘il Signor bibliotecario’ a volte ‘Scardanelli’».42 Egli appare trasandato, veste in maniera bizzarra, suona per ore sempre gli stessi motivi alla spinetta, si abbandona a verbigerazioni senza senso e riserva ai suoi visitatori un profondo ossequio, ai limiti dell’insopportabilità. Il diciottenne Waiblinger, poeta che per due anni si dedicherà pressoché esclusivamente ad Hölderlin, facendogli spessissimo visita, scrive del suo incontro con il poeta:

Si esita dubbiosi prima di bussare a quella porta, dominati da un interiore inquietudine; infine si bussa e una voce forte e veemente invita ad entrare. Si entra e al centro della stanza appare una figura magra che si inchina profondamente e si produce in complimenti eccessivi, con gesti che sarebbero pieni di grazia se non esprimessero un che di spasmodico. Le poche espressioni di circostanza vengono accolte con le più cortesi riverenze e con discorsi del tutto privi di senso e che sconcertano l’estraneo. L’estraneo si sente apostrofare con «Sua Maestà», «Sua Santità», «Gentile Signor Padre». . .43

Non possiamo qui affrontare il complesso tema del manierismo44 riscontrabile in processi psicotici come quello occorso ad Hölderlin, ma ci sembra che possa aiutare la comprensione del comportamento di Hölderlin, quest’annotazione di Weiblinger, che si era stabilito in una casetta nella vallata del Neckar:

Salivamo lassù ed entrando nella stanza, Hölderlin si inchinava ogni volta raccomandandosi in maniera assolutamente pressante alla mia benevolenza e al mio affetto. Si produceva costantemente in vuote frasi di cortesia come se in questo modo volesse tenere a distanza gli altri. Se si desidera individuare un senso nel suo comportamento non può essere che questo.45

Si sarebbe tentati di dire che l’ossequio prestato da Hölderlin a chi non stimava, per circa dieci anni, compaia e si risolva qui non solo nella resa mimica di un’esperienza traumatica, ma anche in un atteggiamento di diffidenza che sa di vendetta: ora è lui a decidere a chi riconoscere onorificenze, chi mettere alla porta e quando.

Una volta menzionati tali aspetti della schizofrenia catatonica — sulla diagnosi pare esservi assoluta concordia tra gli esperti — che colpì Hölderlin, diventa forse più facile dire qualcosa della sua produzione tarda. In particolare vogliamo accennare ad un’interpretazione diversa dell’ultimo Hölderlin, che si contrappone a quella jaspersiana e che suscita una riflessione anche sul rapporto arte/malattia in generale. Si tratta della tesi propugnata da Blanchot nel saggio La folie par excellence, pubblicato come Preface all’edizione francese dell’opera di Jaspers del 1953.46 Secondo Blanchot, la tesi di Jaspers per cui sussisterebbe una corrispondenza tra la curva del processo psicotico e i mutamenti di stile, tale che, dopo il 1805, la poesia avrebbe smesso di trovare in Hölderlin una compiuta espressione, non è condivisibile. Dice Blanchot, riprendendo Hellingrath:

Non c’è svolta nell’opera di Hölderlin, ma uno sviluppo continuo, una suprema fedeltà ai suoi fini, ai quali si avvicina poco a poco con un approfondimento paziente e una padronanza sempre più grande e più appropriata alla verità di quel che sente e di quel che vede.47

Dal momento in cui Hölderlin approda all’inno, di cui l’Empedocle, che è precedente al 1800, costituisce il primo esempio, la sua poesia non subisce cambiamenti radicali, per Blanchot:

Le opere più tarde, con la tensione più grande, la densità scabra del linguaggio, possono sembrare corrispondere ad un momento nuovo; ma questo momento non è del tutto nuovo, indica solo che il linguaggio poetico non si mantiene al punto già raggiunto, ma continua il suo movimento che lo porta al di là, più vicino al suo punto estremo e realizzando quanto Hölderlin, in un epoca ben anteriore, anche nella sua giovinezza, aveva nelle sue concezioni teoriche considerato come la forma poetica essenziale.48

Hölderlin, secondo Blanchot, resta quindi fedele ai suoi ideali poetici, fedeltà che non si arresta di fronte al pericolo che reca con sé una coscienza sempre più chiara di cosa voglia dire lasciarsi determinare dall’indeterminato e, in ultima analisi morire a sé stessi per farsi pura voce della poesia. Da quest’ultimo punto di vista, Blanchot sostiene che quello di Hölderlin è il destino del

poeta che si fa mediatore del sacro, […] per comunicarlo agli uomini, comunicazione che esige che il poeta rimanga in piedi, ma tuttavia sia colpito, mediazione […] che è […] cancellazione nel seno della parola che, scomparsa l’esistenza, continua, si afferma da sola.49

In quest’ottica, la schizofrenia non è altro che

La proiezione in un certo momento e su un certo piano, il punto della traiettoria dove la verità dell’esistenza nel suo insieme, divenuta la pura affermazione poetica, sacrifica le condizioni normali della possibilità, continua a risuonare dal fondo dell’impossibile come pura parola, la più vicina all’indeterminato e tuttavia la più alta, parola non fondata, fondata sull’abisso — il che si annuncia con questo fatto: il mondo è distrutto.50

Blanchot, ci pare di capire, sostiene, in ultima analisi, che vi sia un quid indeterminato e indeterminabile che erige la poesia ad esperienza totale, che permea di sé la vita psichica tutta, non lasciando a chi ne sia coinvolto altra via che quella di morire perché la verità poetica stessa viva e si compia. Il destino dell’autore non gli appartiene più: è il destino poetico che egli decide di compiere, accettando che la propria ragione si faccia «trasparenza impersonale»,51 accettando di varcare cancelli che si chiuderanno per sempre alle sue spalle. La schizofrenia è solo, si direbbe, qualcosa che si incontra lungo il cammino, su cui si proietta il verbo poetico, per attingere ancor più da vicino l’insondabile: e nel cammino della volontà infinita e divina, per dirla con Cartesio, non v’è orizzonte cogitante che tenga, per la buona ragione che alla ragione s’è rinunciato per sempre.

La portata straordinaria delle asserzioni di Blanchot, non certo nuovo ad interpretazioni originali della storia del pensiero, ci pone dinanzi ad un concetto del poetico che non esitiamo a definire trascendente, e per vicinanza al divino, comunque inteso, e per la lontananza immemorabile dal mondo. Sono affermazioni sconvolgenti e che mettono in crisi la ricostruzione jaspersiana. Appare assai arduo propendere per una tesi o per l’altra, non foss’altro che la schizofrenia, come l’attività creativa, hanno a che fare con profondità di cui non si possono predicare categorie. Sappiamo solo che ci sono. Che cosa vi accada concretamente è impossibile dire.

Ciò che possiamo fare noi, nell’ambito ristretto del tema che ci occupa, è solo cercare di confrontare i risultati di Blanchot con quelli del nostro Jaspers. Incominciamo col dire che tra le prospettive dei due autori non si da radicale antinomia. Se Blanchot riconduce l’opera di Hölderlin ad un orizzonte di senso in cui il vero poetico rimane inconcusso ed alieno dalla vicenda patologica, e pur vero che Jaspers ribadisce a più riprese l’estraneità dello spirito ai fatti della schizofrenia: lo spirito non conosce la contrapposizione tra salute e malattia, tra normale e anormale.52

Il punto è che mentre Blanchot rigetta la coincidenza, rilevata da Jaspers tra la «curva del processo e i cambiamenti che modificano profondamente lo stile creatore»,53 Jaspers invece vede in questo un momento assai importante nell’individuare il nesso tra la genesi dell’opera d’arte e la malattia. Tale nesso, rinvenibile peraltro anche, sebbene con accenti diversi, anche negli altri autori esaminati da Jaspers, segue, in Hölderlin, in ciò vicino a Van Gogh, un percorso di cui è possibile fornire le direttrici essenziali, seppur con le inevitabili cautele legate al darsi di procedimenti schematizzanti in contesti piuttosto fluidi come quelli afferenti alla schizofrenia.

Jaspers distingue quindi uno stadio preliminare, in cui si rileva una certa euforia per una nuova visione del mondo, il che comporta un primo mutamento nella propria produzione artistica. Segue una prima crisi acuta (Jaspers cita quella che colpisce Hölderlin nel 1802, e che lo costringe ad abbandonare il suo posto di precettore a Bordeaux per tornare in Germania con addosso i segni evidenti della follia) ,54 seguita a breve da altri accessi. In questa fase, dominata dallo sforzo di opporsi alla minaccia del caos psichico, la creatività si esplica in novità stilistiche legate ad una tensione metafisica che approda ad una dimensione mitica e la produttività aumenta. Infine, quando ormai la malattia ha preso il sopravvento, le capacità creative evaporano e l’atmosfera delle poesie si fa confusa, spesso incomprensibile pur nella presenza di una certa semplicità del verso.

Come si è già avuto modo di rilevare, la valenza che Jaspers da alla schizofrenia come fattore condizionante dell’opera va intesa nel senso che la psicosi «favorisce l’irruzione di questa forza [demoniaca] »,55 che Jaspers definisce come «perenne superamento e compimento di sé, questo vivere in estrema vicinanza con l’assoluto, in beatitudine e orrore, eppure in eterna inquietudine»56 in modi sconosciuti all’individuo sano, che pur ne è portatore, sebbene in forme assai più moderate. Ora, precisa Jaspers, «l’esistenza demoniaca»57 è avulsa dalla psicosi, ma la psicosi le consente di svilupparsi in forme inusitate e sconvolgenti. Grazie alla schizofrenia, argomenta Jaspers, si liberano «forze che prima erano inibite. La malattia abolisce quest’inibizione. L’inconscio si fa strada, la restrizione culturale non regge più. Da ciò proviene la somiglianza con il sogno e il mito, e con la psiche infantile. »58

La psicosi dunque, non detiene certo la paternità dell’opera, come vorrebbe Lange, ma di sicuro, nella prospettiva jaspersiana, essa conferisce all’opera quell’«atmosfera schizofrenica» da intendersi come ciò che disvela orizzonti nuovi, a patto però che si sia disposti a ricomprendere la schizofrenia «tra i fatti essenziali ed inquietanti dell’esistenza»,59 che pongono il fruitore dell’opera, come insegna la semiotica, al cospetto di qualcosa di «eccezionale».60

5. Hölderlin, l’albatro

Il nesso che Jaspers rintraccia tra l’opera e la malattia, permette anche, a nostro avviso, di cogliere quel fenomeno peculiarissimo dell’esperienza artistica, ma non solo, che riguarda l’emersione dell’inconscio. Ed avendo presente il caso Hölderlin vorremmo chiudere questo breve lavoro con qualche osservazione in proposito. E ci piace a tale scopo rifarci alle splendide osservazioni del compianto Aldo Carotenuto61 sul tema in questione. Scrive Carotenuto:

Caos e armonia, […] sono anche gli elementi primigeni della creatività individuale, sia artistica che psicologica. […] «Fare anima — scrive Hilman — comporta la distruzione d’anima».62 Solo se questi due elementi — caos e armonia, costruzione e distruzione — sono compresenti senza che l’uno sovrasti l’altro, c’è produzione d’opera.63

Carotenuto cita Van Gogh, lo stesso Hölderlin o Picasso, quali esempi di come la «sofferenza, la lacerazione, e un profondo, angosciante sentimento di distruttività possano orchestrare la produzione di un artista. » Ma l’artista corre il rischio di pagare un prezzo altissimo, la propria disgregazione psichica, per conseguire il risultato della ri-scrittura della realtà. Qui viene infatti a mancare una coesione interna, una capacità di sintesi tra l’Io e il sé.64 Se è vero che «ogni processo creativo ha un carattere regressivo-progressivo che è solo parzialmente sotto il controllo volontario e cosciente dell’individuo»65 data la tensione riscontrabile nell’opera d’arte «tra passato e futuro, tra concezione individuale e collettiva, e anche tra fantasia e realizzazione, tra l’ideale e la realtà. »66 pur vero è che la «qualità del creativo è proprio quell’equilibrio di confine tra coscienza e inconscio, tra realtà e sogno».67 Quando tale equilibrio si rompe, il pericolo della dissociazione mentale è in agguato. Come scriveva Schnitzler:

Gli uomini dimorano per lo più solo nel piano mediano della loro casa della vita, la dove si sono confortevolmente sistemati con buone stufe e comodità varie. Raramente scendono nei locali disotto, dove sospettano l’esistenza di fantasmi che potrebbero terrorizzarli; raramente salgono sulla torre, da dove lo sguardo nel profondo e nella lontananza fa venire loro le vertigini. […] alcuni amano dimorare proprio in cantina, poiché essi si sentono più a loro agio nei luoghi paurosi e bui […] altri poi si arrampicano volentieri sulla torre per lasciare vagare lo sguardo in lontananze imperscrutabili […] I più infelici però sono quelli che corrono inquieti su e giù per le scale fra la cantina e la torre, lasciando che i locali propriamente destinati all’abitare si ricoprano di polvere e vadano in rovina.68

Hölderlin ebbe a che fare con le cantine e finché poté, finché il suo Io cercò di aggrapparsi ad un ordine, ad una disciplina, egli tentò di vincere l’inquietudine e il terrore soggiornando in quella zona mediana di cui parla Schnitzler. Poi, quando la sua coscienza andò in deliquio, non gli restò che la sua torre e la valle del Neckar. Come nota Carotenuto, «anche nella patologia [la natura interiore] resiste sotterraneamente e preme per realizzarsi».69 Ma questa realizzazione, questa ricerca dell’individuazione, è in lotta con la sofferenza e l’angoscia che derivano dal frapporsi di interferenze che impediscono la realizzazione di sé, e che provengono da una realtà percepita come infinitamente deludente e ripetitiva.

E allora non sarà forse azzardato ritenere che Hölderlin crollò proprio in seguito al fallimento della propria realizzazione. Basti riflettere sul fatto che per tutta la vita egli rinvenne il senso di sé nell’attività poetica, ma in pari tempo dovette fare l’esperienza orribile di vivere tra gente di brutale insensibilità, dovette assistere al crollo degli ideali a cui aveva creduto, dovette rinunciare all’amore, mentre la madre lo tormentava con lo scudiscio dell’idiozia borghese. E se a ciò s’aggiunge una sensibilità fuori del comune, ci chiediamo: come poteva mai realizzarsi? Come ha scritto Jung: «Ogni passo avanti rappresenta una lotta per sradicarsi dal seno materno universale della primitiva incoscienza, in cui vive la grande massa del popolo. »70

Hölderlin affrontò prove molto dure nella sua vita, ed è lecito ritenere che esse abbiano avuto una parte importante nella sua vicenda patologica. Ma egli visse anche quell’esperienza dello «smarrimento», come dice Blanchot, che è tutta interiore, che prescinde dalla realtà, e che ha a che fare con una vita interna a immagine e somiglianza della Poesia. Hölderlin scrisse infatti:

… Ma vi sono così tanti eventi

E nessuno diviene azione vera, perché noi siamo senza coraggio, ombre…^[71]

Lo smarrimento — dice Blanchot — è un momento della verità, è l’attesa che la intuisce, […] l’oblio, l’intimità della memoria sacra. In questo smarrimento è il silenzio per cui chi non c’è più, il divino, il vero, tuttavia c’è, c’è nel modo dell’attesa, del presentimento […] È perché il poeta vi deve acconsentire: occorre che ad un certo momento divenga cieco.71

Se questo smarrimento abbia portato Hölderlin, come Nietzsche, verso Dioniso, come vuole Blanchot, e quindi verso l’esperienza di quella coincidentia oppositorum irrazionale e inaccessibile alla struttura della nostra coscienza, l’eccessiva confidenza con la quale può generare un totale annientamento, non è dato sapere. Quello che possiamo dire è che finché in Hölderlin la coscienza ebbe un ruolo, egli, in modo sovrano, «tradusse dal silenzio», per dirla con Bousquet, poi tacque e (forse) tacque la poesia. Per questo abbiamo privilegiato il punto di vista di Jaspers, poiché esso ci mette in condizioni di poter almeno tentare un approccio ad un fenomeno complesso e vastissimo com’è quello della schizofrenia, e del suo rapporto con l’opera d’arte.

In conclusione, sia concesso a chi scrive lo spazio per una modesta opinione personale. Che il destino di Hölderlin sia stato non il suo ma, come afferma Blanchot, quello della poesia stessa, è opinione rimessa alla libertà di giudizio dell’interprete. Ma questo almeno ci sentiamo di dire: in Hölderlin ci pare di intravedere, come lo si potrebbe intravedere in Sofocle, un momento altissimo della storia del pensiero: quello in cui la consapevolezza del divino non si placa nella rassegnazione ad un volere superiore, ma scopre, con la miseria e il disastro esistenziale, anche il senso ultimo d’una grandezza insondabile come il mistero stesso dell’essere.

Hölderlin non fu Icaro. Se fosse caduto forse si sarebbe salvato e magari avrebbe potuto dire, come disse Rimbaud a Demeny che gli chiese perché avesse abbandonato la letteratura: «Je ne pense plus à ça». Ma Hölderlin non fu Icaro. Egli visse invece il dramma, diremmo opposto, di Tantalo. Non cadde, dunque. Ma continuò il suo volo d’albatro verso cieli da dove, lontano, lontanissimo da tutto e da tutti, non fece mai più ritorno.


  1. Karl Jaspers, Genio e follia. Strinberg e Van Gogh, trad.it., Milano, 2001. ↩︎

  2. Wilhelm Lange, Hölderlin. Eine Pathografie, Stuttgart,1909. ↩︎

  3. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 119. Cfr., comunque, infra, n. 18. ↩︎

  4. Ivi. ↩︎

  5. È del 1802 l’episodio riportato da Lange e citato da Jaspers, che vede Hölderlin abbandonare Bordeaux, dov’era istitutore, a causa di una forte crisi di agitazione, cui seguiranno crisi anche di natura violenta e stati di estrema lontananza dal mondo, testimoniati, tra gli altri, dall’amico Schelling. ↩︎

  6. Sebbene, ha cura di precisare Jaspers: «così come una perla nasce dal difetto di una conchiglia, la schizofrenia può far nascere opere incomparabili. E come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di un’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era condizione della sua nascita». (Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 120). ↩︎

  7. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p.120. ↩︎

  8. Ivi, p. 121. ↩︎

  9. Ivi. ↩︎

  10. Cfr. ivi: «Identificare i sintomi suppone già una certa comprensione interiore, un’interpretazione razionale dei dati non sarebbe sufficiente.». ↩︎

  11. Wilhelm Dilthey, Esperienza vissuta e poesia, tr.it., Genova, 1999, pp. 465-466, cit. in Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p.122. ↩︎

  12. Ivi. ↩︎

  13. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 124. ↩︎

  14. Ivi. ↩︎

  15. Ivi. ↩︎

  16. Carl G. Jung, Tipi psicologici, tr.it., Milano, 1992, passim. Questa visione junghiana non ci pare configgere con il tentativo, spesso disperato, di adattarsi alla realtà, di essere «capaci di vivere», per dirla con Kafka. È anzi proprio la delusione, il senso di inadeguatezza e di inappartenenza al mondo a generare spesso quel ripiegamento su sé stessi, quella presa d’atto della propria alterità che tormentò Hölderlin. ↩︎

  17. Wilhelm Dilthey, Esperienza vissuta e poesia, cit., p. 382, cit. in Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 125 e ss. ↩︎

  18. Esula dai nostri fini una compiuta analisi delle ragioni che spingevano Hölderlin a fuggire dal mondo, rilevando solo il nesso tra l’estraniazione e le sue conseguenze sul piano creativo. Riteniamo tuttavia opportuno accennarvi, seppur brevissimamente, poiché le delusioni vissute da Hölderlin non hanno solo valenza psichiatrica. Ché, certo, esse hanno influito sulla sua poesia. Basti pensare alla fine del suo rapporto con Susette (la Diotima delle liriche), moglie del banchiere Gontard di Francoforte, presso il quale fu precettore a partire dal 1796: verrà messo alla porta a causa delle chiacchiere dei servitori (ma con ogni probabilità l’amore per Susette fu solo platonico). I due anni più belli della sua vita, per la presenza di quest’ unico vero rapporto affettivo, terminano così nel peggiore dei modi. Ecco la traduzione in versi di un dolore che dev’essere stato lacerante: «Poco ho vissuto. Ma spira fredda/già la mia sera. E cheto, come le ombre,/sono già qui e, senza ormai più canto,/mi dorme in petto il cuor rabbrividito». (Friedrich Hölderlin, Le liriche, tr.it., Adelphi, Milano, 1993). E ancora: gli ideali e i sogni giovanili sono assassinati dagli orrori della Rivoluzione francese, orrori che Hölderlin constatò di persona durante il viaggio nella Vandea: Ma ora quegli uomini/sono salpati per le Indie,/[…] Il mare dona e toglie il ricordo;/l’amore fissa i suoi occhi fedeli./Ma il poeta fonda ciò che resta. (Ivi). Per non parlare poi del desiderio mai esaudito di aver vicino quella figura paterna che non conobbe mai o una figura comunque sostitutiva, come fu il suo patrigno, che morirà quando Hölderlin aveva nove anni e a cui era legatissimo. Per avere idea di quale conflitto ciò generasse in Hölderlin basterebbe analizzare il suo rapporto con Schiller. O dell’atmosfera bigotta ed ottusa che si respira in casa Hölderlin, dove la madre sogna per il figlio un avvenire da pastore e che il figlio rifuggirà con tutte le sue forze, ottenendo in cambio da parte dell’odiata madre una vera e propria persecuzione che durerà tutta la vita. Ce n’è abbastanza per sconvolgere, o almeno turbare, chiunque. È facile quindi immaginare gli effetti di tutto questo sulla sensibilità, già di per sé assai acuta, di Hölderlin. Allontanato dall’unico amore della sua vita, spettatore del crepuscolo degli dei e degli ideali, costretto a fuggire da un rapporto, quello con Schiller, alimentato al contempo da grande ammirazione e timore di non valer niente per chi rappresenta tutto, costretto a servire quella borghesia che disprezza per valori e modo di vivere, lui che vide nella libertà il senso della vita d’un poeta, braccato dalle ossessioni materne nutrite da ideali della stessa risma, Hölderlin si ripiegherà sempre di più su se stesso, riscrivendo la realtà secondo gli ideali del mondo greco. ↩︎

  19. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 127. ↩︎

  20. Ivi. ↩︎

  21. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 128. ↩︎

  22. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 129. ↩︎

  23. Ivi. ↩︎

  24. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 120 e 129. ↩︎

  25. Ivi. ↩︎

  26. Ivi. ↩︎

  27. Ivi. ↩︎

  28. Accenniamo en passant che a simili conclusioni si è giunti anche nell’ambito di esperienze relative agli stati alterati di coscienza. Da Boudelaire a Cocteau ad Huxley, la natura di quel fenomeno che Huxley descrive come «ingresso nella psiche dell’Intelletto in Genere» dipende dalle predisposizioni e dalla formazione individuali: «Un pastore continuerà a vedere pascoli e vacche» dice Baudelaire nei Paradisi artificiali↩︎

  29. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 130. ↩︎

  30. V. supra, p. 9. ↩︎

  31. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 131. V. anche nota 17. ↩︎

  32. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 133. ↩︎

  33. Friedrich Hölderlin, La morte di Empedocle, tr.it., Torino, 1990, cit. in Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 132. ↩︎

  34. Ivi. ↩︎

  35. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 134. ↩︎

  36. Friedrich Hölderlin, Le liriche, tr.it., Milano, 1977, cit. in Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 134. ↩︎

  37. Ivi. ↩︎

  38. Ivi. ↩︎

  39. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 134. ↩︎

  40. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 128. ↩︎

  41. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 124. ↩︎

  42. Stefan Zweig, La lotta con il demone, tr.it., Milano, 1992. ↩︎

  43. Wilhelm Waiblinger, Hölderlin, vita, poesia, follia, tr.it., Milano, 1986, p. 26. ↩︎

  44. Per il manierismo in quanto fonte di neologismi e di scomposizione fonetica v. Carl G. Jung, Psicologia delle malattie mentali, tr.it., Torino, 1978; per il manierismo in quanto fenomeno generato da un qualche complesso, si può vedere Harry S. Sullivan, La moderna concezione della psichiatria, tr.it., Milano, 1992. ↩︎

  45. Ivi, p. 34. ↩︎

  46. Ora in Karl Jaspers, Genio e follia, cit., pp. 189-212. ↩︎

  47. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 200. ↩︎

  48. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 201. ↩︎

  49. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 202. ↩︎

  50. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 203. ↩︎

  51. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 204. ↩︎

  52. Cfr. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., pp. 116, 166. ↩︎

  53. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 200. ↩︎

  54. Ma episodi piuttosto traumatici si erano verificati già in precedenza. Cfr. supra, n. 18. ↩︎

  55. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 117. ↩︎

  56. Ivi. ↩︎

  57. Ivi. ↩︎

  58. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 170. Cfr. supra , n. 20. ↩︎

  59. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 166. ↩︎

  60. Ivi. ↩︎

  61. Aldo Carotenuto, «Distruzione, caos e il rischio creativo», in Rivista di Psicologia Analitica, 57, V, Roma, 1998. ↩︎

  62. James Hilmann, Il mito dell’analisi, tr.it., Milano, 1979, p. 50. ↩︎

  63. Ivi, p. 120. ↩︎

  64. Cfr. supra, n. 21. ↩︎

  65. Ivi, p. 122. ↩︎

  66. Ivi. ↩︎

  67. Ivi. ↩︎

  68. Arthur Schnitzler, «Aforismi», in Opere, Milano, 1988, p. 1362, in Aldo Carotenuto, «Distruzione, caos» cit., p. 125. ↩︎

  69. Aldo Carotenuto, «Distruzione, caos» cit., p. 127. ↩︎

  70. Carl G. Jung, «Il problema psichico dell’uomo moderno», in Opere, Torino, 1985, p. 110, cit. in Aldo Carotenuto, «Distruzione, caos» cit., p. 133. ↩︎

  71. Karl Jaspers, Genio e follia, cit., p. 207. ↩︎