Solipsismo e intersoggettività nella fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl

Questo articolo vuole essere un contributo all’analisi e chiarificazione di un’ambiguità di fondo che sembra sottesa alla filosofia fenomenologico-trascendentale di Edmund Husserl, al suo stesso impianto metodologico, ovvero quella tra «solipsismo» e «intersoggettività». Se infatti a Husserl si è spesso rimproverato, se non l’esito, almeno il punto di partenza «solipsistico», come una sorta di limite interno della sua fenomenologia, è altrettanto fuori discussione che lo stesso Husserl ha condotto una riflessione approfondita e instancabile sul problema dell’«intersoggettività», come testimoniano i volumi XIII, XIV e XV delle Gesammelte Werke.1 Proprio la conoscenza, ormai diffusa, degli «inediti», della sterminata produzione manoscritta cui Husserl in molti casi ha affidato l’elaborazione più concreta delle tematiche fenomenologiche, manifesta un risvolto paradossale: il filosofo che, apparentemente, si è arrovellato per lunghi anni sulla questione del «solipsismo», muovendo da un io monadico e chiuso, dunque esponendosi alle classiche aporie dell’idealismo soggettivo (così bene illustrate da Heidegger in Essere e tempo), è altresì, essenzialmente, un pensatore radicale dell’«intersoggettività», della soggettività plurale.2 Di quest’ultima, egli ha fornito non solo un vasto repertorio analitico, scandagliandone le forme e le connessioni interne, ma anche esibito i fondamenti filosofici più elementari (e, come tali, decisivi), che affondano le loro radici nella vita percettiva, corporea e temporale dell’io, e dunque nell’esperienza concreta. Ma il contributo di Husserl ad una teoria dell’intersoggettività come «comunità monadica trascendentale» (per riprendere una nota espressione delle Meditazioni cartesiane) non si esaurisce neppure in questa ricerca incessante delle origini, delle «fonti concrete», degli strati precategoriali e prescientifici che sottostanno ad ogni prodotto intersoggettivo già strutturato, già costituito, e dunque per lo più assunto come «ovvio»; ciò che distingue Husserl dagli altri fenomenologi dell’intersoggettività (pensiamo qui a Sartre, Merleau-Ponty, ma anche al primo Heidegger) è non tanto l’assenza di un orizzonte ontologico esplicito, quanto un’elaborazione filosofico-sistematica del nesso strutturale che sussiste tra le «categorie fenomenologiche» di soggettività, oggettività, intersoggettività: per Husserl, queste categorie non corrispondono propriamente a campi fenomenologici distinti (sebbene «astrattivamente» debbano essere considerati tali), ma formano per così dire il «tessuto connettivo» della fenomenologia, una fitta rete di rimandi interni senza la quale ogni nostra esperienza di cose risulterebbe incomprensibile.3 Sotto questo profilo, ci sembra che qualcosa di significativo sia andato perduto nella progressiva «esistenzializzazione» della fenomenologia dopo Husserl; se il rifiuto dell’impostazione trascendentalistica ha aperto indubbiamente nuovi orizzonti alla fenomenologia novecentesca, va anche detto che questa impostazione non appare priva di rigore, nella misura in cui la definizione della soggettività concreta come intersoggettività, sulla quale in linea generale concorda il movimento fenomenologico post-husserliano, non solo è fatta propria da Husserl, ma è in Husserl anche più ampiamente illustrata ed argomentata.4 Ciò premesso, vi è davvero spazio nella fenomenologia husserliana per un’assunzione del soggetto trascendentale come solus ipse? Fino a che punto il problema del solipsismo in Husserl si differenzia da quello tradizionale, di impronta «cartesiana»?5 Esiste effettivamente un livello dell’esperienza del soggetto da cui è assente ogni riferimento ad altri soggetti? Come si configura il passaggio dalla fenomenologia «soggettiva» alla fenomenologia «intersoggettiva», dentro il medesimo orizzonte trascendentale, se è vero che per Husserl solo un’articolazione convincente di tale «passaggio» potrebbe dissipare lo spettro del solipsismo, recuperando il senso autentico della «trascendenza» dell’alter ego? Nelle pagine che seguono, solo un primo inquadramento della problematica, cercheremo di verificare come dietro la «tensione essenziale» del rapporto tra solipsismo e intersoggettività si annunci non un’unica questione, ma un contesto di esigenze diverse, anche se correlate. Illuminare questi aspetti, significa ritrovare le ambiguità ed i limiti della filosofia trascendentale fenomenologica, ma anche comprenderne meglio le possibilità operative.6

1. Fenomenologia come egologia: il «solipsismo trascendentale»

Tra i luoghi comuni sulla fenomenologia husserliana, vi è talvolta la convinzione che il problema dell’intersoggettività si affacci in Husserl come «reazione» o «risposta» all’obiezione di solipsismo mossagli dai suoi avversari o, forse, dai suoi allievi, insoddisfatti della svolta compiuta dal maestro in direzione dell’«idealismo trascendentale».7 In realtà, come ci si può agevolmente rendere conto scorrendo il primo dei tre volumi sull’intersoggettività cui abbiamo accennato, la genesi del problema intersoggettivo nella riflessione husserliana è autonoma, è per certi versi un fattore che sollecita la stessa apertura trascendentale della fenomenologia,8 ed appare subito strettamente connessa alle esigenze di una teoria dell’oggettività e della ragione. Alcuni scritti del periodo 1905-1908 già ravvisano chiaramente, anche se in forma embrionale, il problema dell’alter ego e dell’empatia, e i nessi che legano la costituzione fenomenologica dell’«oggetto», della cosa, alla molteplicità dei flussi di coscienza; significativamente, è di questo periodo una breve riflessione di Husserl sulla «monadologia» (Hu XIII, 5-sgg.), che sarà tema di interesse centrale dai primi anni ’20 fino alle Meditazioni cartesiane. Nelle lezioni del 1910-11 Problemi fondamentali della fenomenologia, Husserl abbozza un progetto di sistema fenomenologico e la connessione tra i vari elementi è fondata sull’«acquisizione della pluralità delle monadi» (Hu XIII, 183); qui Husserl prende seriamente in considerazione, per la prima volta, la possibilità di una estensione della riduzione fenomenologico-trascendentale9 alla sfera dell’intersoggettività (Hu XIII, 189-190). Questa estensione è dunque di tipo immanente, è imposta dalle stesse linee teoriche e programmatiche della filosofia di Husserl, in quanto il mondo naturale da cui il fenomenologo deve prendere le mosse è immediatamente assunto come «intersoggettivo» come mondo-per-tutti,10 ed occorre trasformare il dato naturale della pluralità degli ego in un campo fenomenologico rigorosamente elaborato.

Ma anche la questione del «solipsismo», così carica di ambiguità e di tradizione, non riveste in Husserl una mera valenza polemica, di difesa della propria prospettiva filosofico-trascendentale da palesi fraintendimenti o radicali incomprensioni. O meglio, la polemica a tratti veemente, l’atteggiamento fermo e risoluto con cui Husserl puntualmente respinge ogni tentativo di identificare la fenomenologia trascendentale con una qualche forma di solipsismo, hanno un significato ed una legittimità di fondo solo perché l’istanza solipsistica appare interna all’orizzonte metodologico della fenomenologia;11 in altri termini, è nel porre la mia soggettività trascendentale, il mio io puro, come centro funzionale della donazione di senso e, quindi, della costituzione di validità di ogni possibile essente, che Husserl deve sollevare la questione del solipsismo, riconoscendola realmente come «problema». La riduzione fenomenologica o epoché è, al principio e per ragioni essenziali, nient’altro che la messa in luce della vita soggettiva originaria e dei suoi correlati intenzionali. Scrive per esempio Husserl nelle Meditazioni cartesiane: «L’epoché, come può anche dirsi, è il metodo radicale e universale con il quale io colgo me stesso come io puro assieme alla mia propria vita di coscienza pura, nella quale e per la quale è per me l’intero mondo oggettivo, nel modo appunto in cui esso è per me. […] Il mondo non è per me in generale altro di quello che esiste consapevolmente in tale cogito e che vale per me. Esso ha il suo senso intero, universale e speciale, e il suo valore d’essere solo in base a tali cogitationes» (MC, 54).

È dunque in quanto egologia, in quanto indagine rivolta innanzitutto alla soggettività (pura) del fenomenologo, all’«io» nel quale soltanto il mondo è dato e da cui trae tutto il suo senso, che la fenomenologia trascendentale può (ed, entro certi limiti, deve) presentarsi come una rinnovata filosofia del «solus ipse». Husserl è talmente consapevole di ciò, da ritenere che l’identificazione della fenomenologia con il «solipsismo» sia qualcosa di più di un semplice equivoco, e riposi su una sorta di illusione necessaria, «naturale»; in Logica formale e trascendentale, è significativo il ricorso al concetto kantiano dell’«apparenza trascendentale» per designare la tesi secondo cui la riduzione fenomenologica condurrebbe ad una forma di solipsismo, seppure sui generis. «Se tutto quello che può avere valore d’essere è costituito nel mio ego, sembra allora che di fatto ogni esistere sia un semplice momento del mio proprio essere trascendentale» (LFT, 298-299). Il primo passo da compiere, allora, è distinguere con chiarezza i termini del discorso, mostrando che sotto la generica etichetta di «solipsismo» si celano due problemi radicalmente differenti: «Una fenomenologia trascendentale può dunque, a quanto pare, essere possibile solo come egologia trascendentale. Come fenomenologo io sono necessariamente solipsista (als Phänomenologe bin ich notwendig Solipsist), anche se non in quel senso comune e ridicolo (lächerlich) che ha le sue radici nell’atteggiamento naturale; tuttavia lo sono proprio in senso trascendentale» (Hu VIII, 174). L’obiezione di solipsismo, almeno finché si mantiene ad un sufficiente livello di generalità, sembra dunque cogliere un aspetto reale della fenomenologia, nella misura in cui lo stesso Husserl afferma che, accanto al solipsismo «naturalistico» (la cui natura cercheremo di determinare tra breve), vi è un «solipsismo trascendentale» fenomenologicamente legittimo, addirittura necessario, purché fissato rigorosamente nella sua accezione e nei suoi limiti. L’«apparenza» del solipsismo che la fenomenologia trascendentale proietta nel suo movimento di autoconfigurazione andrà dunque svelata e risolta in senso diverso, a seconda che a produrla sia il residuo di un concetto pre- od extra-fenomenologico di «soggettività», oppure un’arbitraria assolutizzazione della dimensione trascendentale «egologica» a scapito di quella «intersoggettiva».12

Il solipsismo che ha le sue radici nell’atteggiamento naturale può essere ricondotto, in ultima analisi, ad una concezione dogmatica dell’«esperienza», ad un fraintendimento essenziale dell’intenzionalità della coscienza; se infatti «l’esperienza non è un buco in uno spazio di coscienza, attraverso il quale traluca un mondo esistente prima di ogni esperienza», e se per me, per l’io che fa esperienza di qualcosa, «l’essere esperito è «là», con l’intero contenuto e il modo d’essere che l’esperienza gli attribuisce» (LFT, 288), non si dà possibile via di accesso (cognitivo) a questo essere se non quella che l’esperienza stessa ci indica, nella struttura dei suoi rimandi intenzionali. In tale ottica, l’esperienza di un alter ego, anzi di una molteplicità di soggetti diversi da me e con me in relazione, è non meno evidente ed affidabile dell’esperienza che ho delle cose; nella Fremderfahrung, non mi è data una semplice «rappresentazione» o «immagine» dell’altro, ma l’altro stesso, l’altro come tale. Dubitare dell’esistenza di altri soggetti mentre ne ho concreta esperienza è dunque (fenomenologicamente parlando) impossibile, poiché è solo l’esperienza, la forma peculiare della Fremderfahrung, che può rivelarmi l’altro come «reale», come esistente. Se per «solipsismo» si intende la negazione o il dubbio che altri vi siano, al di fuori della mia coscienza, occorre osservare che sul piano trascendentale questo «fuori», questa «trascendenza» degli altri è essa stessa un contenuto dell’esperienza, e nell’esperienza si delineano i criteri di evidenza e le possibilità di verifica che il suo senso richiede. Posto dunque che ogni esperienza ha il suo senso, condizioni di validità e limiti interni, nondimeno «ciò che volta a volta viene esperito: le cose, l’io stesso, gli altri ecc. — e tutto quello che ancora resterebbe da esperire […] — assolutamente tutto è incluso intenzionalmente nella coscienza stessa come questa intenzionalità attuale e potenziale, la cui struttura posso sempre interrogare» (LFT, 289).

Anziché interrogare la struttura intenzionale della coscienza, il «solipsista» ingenuo confonde l’immanenza trascendentale (che in sé racchiude ogni possibile trascendenza, come «senso») con l’immanenza psicologica, e solo permanendo in questo equivoco di fondo egli può ritenere che l’esperienza di altri sia «soggettiva» in senso limitativo e che la loro reale esistenza debba essere «dimostrata» (Hu XIII, 154). Certo per Husserl la Fremderfahrung, nelle sue forme concrete, non è mai definitiva ed esige una continua verifica; un alter ego che inizialmente mi si dava «in carne e ossa», in presenza concreta, potrebbe in seguito rivelarsi un’illusione. In linea di principio, la mia esperienza dell’alterità è sempre presuntiva, è esposta alla possibilità del dubbio e della negazione, e dunque è fallibile e finita;13 ma ciò non significa che l’altro si riduca ad una variazione interna del mio flusso di coscienza, ad una mia sintesi privata, né che il carattere intersoggettivo del mondo della vita abbia bisogno di «dimostrazione». Se il problema in discussione è quello relativo all’esistenza fattuale di soggetti diversi da me, di essa non si può esibire una vera e propria prova; gli altri mi sono dati nell’empatia e nei molteplici gradi della comunicazione intersoggettiva, ogni Fremderfahrung è inserita in un sistema aperto di possibili esperienze di conferma. Tuttavia, la possibilità che io sia solo al mondo, nonostante tutta l’evidenza empirica degli altri soggetti, non è di per sé assurda, non è in contrasto con le leggi essenziali della mia coscienza trascendentale e dunque rimane pensabile. Il contesto in cui Husserl prende in considerazione, del tutto seriamente, tale possibilità, è quello della via cartesiana,14 come specifico percorso di approccio alla soggettività trascendentale; non si tratta, è bene sottolineare, di una pura possibilità logica, basata sul principio di non contraddizione. Il solipsismo, ricompreso fenomenologicamente e depurato dei tratti più ingenui che gli derivavano dall’atteggiamento naturale, è una possibilità «vuota», a favore della quale l’esperienza non dice nulla e contro la quale dice tutto; ma non è da escludere che la stessa esperienza che finora mi ha attestato con continuità e coerenza un mondo intersoggettivo, una pluralità di ego, si mostri improvvisamente riluttante a mantenere il suo stile consueto. Invitandoci a compiere un esperimento mentale, Husserl ci prospetta una rottura integrale dei nessi percettivi attraverso cui si costituisce, per noi, un mondo di cose e di uomini, e chiama Weltvernichtung questa sorta di «erosione» e dissoluzione dei fondamenti della certezza empirica.15 Al limite, non avremmo che una serie di percezioni totalmente sconnesse, un caos fenomenico, ed è in tale condizione di radicale impoverimento della vita cognitiva che l’ipotesi di un soggetto realmente «solo» (solus ipse, appunto) diventa assai meno «ridicola» di quanto potesse apparire sulle prime. Scrive infatti Husserl: «Se io riconosco la possibilità di quella trasformazione in un mero caos di fenomeni, in cui si dissolve ogni unità della credenza, così che per me non si potrebbe più parlare di un mondo «esistente» empiricamente indubitabile, la conseguenza necessaria da trarre è che per me non si potrebbe nemmeno più parlare di animali e uomini esistenti» (Hu VIII, 64).

A fronte di simili considerazioni, disseminate un po’ovunque nei testi husserliani e certamente problematiche, ci si può legittimamente chiedere se Husserl, anziché una «confutazione» del solipsismo, ne abbia invece fornito una vera «fondazione», riconoscendo che ad un livello fenomenologico puro l’istanza solipsistica, anche nel suo significato più letterale, non può essere contrastata in maniera definitiva. Naturalmente, tutto dipende da ciò che questa domanda, in ultima analisi, sottintende; la questione del «solipsismo», come detto, non offre un quadro omogeneo, e forse proprio la filosofia fenomenologica può aiutarci a districarne la complessità. Per quel che abbiamo visto fin qui, Husserl riconduce la questione sul terreno dell’esperienza: è su questo terreno, indagato trascendentalmente, che si disegnano le possibilità e i limiti di una teoria dell’intersoggettività. Se l’ipotesi della Weltvernichtung sembra portare nuova linfa teoretica alla possibilità di concepire un soggetto «solo», privo di mondo e di altri,16 è pur vero che a ciò non si accompagna alcun tentativo di svalutazione scettica della nostra effettiva esperienza dell’alterità; nella misura in cui la possibilità del solipsismo è per Husserl inconfutabile, ma vuota, pienamente sensata come modificazione del tessuto esperienziale, ma proprio per questo «differita» e «inattuale», nulla ci impedisce di seguire le linee che l’esperienza traccia e che, di fatto, sono l’unico percorso realmente alla nostra portata. In termini più precisi, il fatto che per me non si dia altra via d’accesso all’alter ego (e alle cose) che quella di un’interrogazione continua dell’esperienza, e che l’essere dell’altro non vi possa comparire come certezza assoluta, non vuol dire che questo essere sia dubbio in sé, o sotto tutti gli aspetti, come potrebbe affrettarsi a concludere uno scetticismo dogmatico. Se è lecito parlare qui di «relatività» della Fremderfahrung, il che comporta una sua fallibilità di principio, nel senso che il concreto processo dell’esperienza rimane l’unico fondamento per decidere dell’esistenza di altri soggetti, in maniera mai definitiva e sempre rivedibile nei singoli casi, si tratta tuttavia di una relatività «essenziale»: «Il fatto che gli altri si costituiscano in me come altri è l’unico modo possibile in cui essi possono avere per me senso e valore di essere nelle loro determinazioni. Poiché gli altri hanno un tal senso in virtù delle risorse di una costante verificazione, è anche vero che sono, questo io non posso non ammetterlo; però essi sono pur esclusivamente in quel senso in cui sono costituiti» (MC, 147). Solo in quanto fallibile e finita (ed, entro questi limiti, legittima e fondata) la Fremderfahrung è possibile, l’essere estraneo, l’«altro» mi è dato in questo modo e non può darsi altrimenti, per il suo stesso senso.17 L’assunzione del solipsismo come vuota possibilità, cui l’esperienza attuale non può assegnare alcun peso, restituisce tutto il valore della presenza effettiva degli altri nel contenuto della mia vita soggettiva; perciò l’ipotesi del solus ipse, in Husserl, ci appare sì giustificata, ma anche depotenziata, cioè privata di quei risvolti scettici imbarazzanti che tradizionalmente le si associano e che, in realtà, tradiscono un’ingenua naturalizzazione della soggettività.

Un altro aspetto della questione ha un carattere più marcatamente metodologico ed è di gran lunga quello più importante nella fenomenologia husserliana: quando infatti Husserl parla di «solipsismo trascendentale» si riferisce sempre ad un momento interno del metodo fenomenologico, che suscita questa «apparenza» in modo necessario. In parole diverse, il nucleo autentico del «solipsismo trascendentale» non riguarda tanto la possibilità teorica che il soggetto autoconsiderantesi sia «solo» (possibilità che comunque Husserl riconosce fondata ed anche filosoficamente significativa), quanto la determinazione di rapporti strutturali interni tra le sfere in cui si articola il terreno complessivo dell’«esperienza fenomenologico-trascendentale». Se la riduzione fenomenologica, com’è noto, mi lega indissolubilmente al flusso dei miei vissuti, come originaria dimensione di evidenza cui non è possibile sottrarsi senza ricadere in forme insostenibili di dualismo gnoseologico, «può sembrare che il suo primo ed unico oggetto sia il mio io, l’io trascendentale del filosofo e che solo questo può essere il suo oggetto» (MC, 61). A questo punto, l’obiezione solipsistica che potrebbe essere mossa alla fenomenologia trascendentale assume contorni più chiari e pertinenti, poiché non ha di mira il problema fattuale dell’esistenza di altri uomini, diversi da me, bensì, fondamentalmente, l’estensione o la «portata» del campo fenomenologico-trascendentale, le possibilità e i limiti di una filosofia che consapevolmente si presenta come «egologia», avendo nell’io il suo terreno nativo: «Se io che medito, mi riduco, mediante l’epoché fenomenologica, al mio assoluto ego trascendentale, non sono allora divenuto il solus ipse e non rimango tale, fin tanto che sotto il titolo «fenomenologia», svolgo un’autoesplicazione conseguente? E la fenomenologia, che voleva risolvere i problemi dell’essere oggettivo e darsi già come filosofia, non sarebbe allora da stigmatizzare come solipsismo trascendentale?» (MC, 113). «Solipsismo trascendentale», in tale ottica, vorrebbe significare che una trattazione del problema dell’intersoggettività all’altezza dei suoi nodi concettuali più importanti e delle sue articolazioni specifiche non sia possibile, per principio, entro un quadro «egologico», quale dichiaratamente è quello della fenomenologia husserliana.18 Se questa obiezione fosse fondata, se cioè l’intersoggettività costituisse realmente il «punto debole» della metodologia trascendentale fenomenologica, vi sarebbero certamente seri dubbi sulla capacità di quest’ultima di dar vita, come auspica Husserl, ad un programma filosofico integrale, in sé compiuto, non bisognoso di apporti o «integrazioni» dall’esterno (Idee, 917).

Comunque possano stare le cose in proposito, va detto che Husserl ha concentrato la massima attenzione sul tema cruciale del «passaggio» da una fenomenologia egologica ad una fenomenologia intersoggettiva, all’interno del medesimo orizzonte trascendentale. Di fatto, l’«apparenza» del «solipsismo trascendentale», nel senso appena spiegato, è del tutto naturale per chi non tiene conto che con l’espressione sintetica di «fenomenologia trascendentale» si indicano in realtà due gradi dello svolgimento del lavoro filosofico, in una sequenza metodologica compatta, anche se articolata; «nel primo grado» — scrive Husserl nelle Meditazioni cartesiane — «si dovrà percorrere una prima volta […] l’immenso dominio della esperienza trascendentale di sé, e per di più in pura e semplice dedizione all’evidenza immanente in questa esperienza lungo il suo corso concordante», laddove «il secondo grado della ricerca fenomenologica riguarderebbe […] la critica dell’esperienza trascendentale e, in conseguenza, dell’esperienza trascendentale in generale» (MC, 61). Se la riduzione fenomenologico-trascendentale, al suo inizio, deve porre come esistente unicamente l’ego e ciò che vi è incluso come contenuto intenzionale, e dunque l’unica soggettività che possa definirsi realmente «trascendentale-costitutiva» è la mia, rimane il fatto che per Husserl il grado «egologico» della fenomenologia «non [è] ancora filosofico in senso pieno» (Ibidem). Affermazione assai significativa, che ci fa comprendere come per Husserl l’«estensione» della riduzione fenomenologica al di là dei limiti della mia sfera soggettiva, in direzione dell’intersoggettività, non sia propriamente un ampliamento della fenomenologia trascendentale (Hu XV, 17), del suo campo tematico, ma una condizione essenziale affinché si possa parlare, a tutti gli effetti, di una filosofia trascendentale fenomenologica. In altre parole, come Husserl spesso sottolinea, un’«esperienza» condotta al livello solipsistico-trascendentale, in cui l’altro non compare ancora o tutt’al più vi è assunto come mero fenomeno mondano, non è «trascendentale» in senso pieno, non raggiunge per ragioni di principio quella dimensione filosofica fondamentale che la fenomenologia deve perseguire; l’«esperienza trascendentale», come tale, è strutturalmente intersoggettiva. Rispondendo alle più classiche critiche anti-trascendentalistiche, quelle di «solipsismo» e «idealismo»,19 Husserl difende la coerenza di fondo del programma fenomenologico-trascendentale, rilevando che l’«idealismo fenomenologico», non solo non dissolve l’essere del mondo e degli altri in rappresentazioni soggettive, ma offre l’unica fondazione filosofica possibile del realismo empirico (Idee, 928); se è corretto asserire che il mondo reale è «relativo» alla soggettività trascendentale, «assoluta» nel suo modo d’essere, «tutto ciò trova il suo pieno senso soltanto quando l’esplicitazione dell’ego trascendentale è portata fino al punto in cui l’esperienza, che esso implica, di altri soggetti, viene ridotta all’esperienza trascendentale, quando cioè risulta che la «soggettività trascendentale» in quanto datità della esperienza trascendentale non significa soltanto, per chi compie la riflessione: io in quanto io-stesso trascendentale, concretamente nella mia vita trascendentale di coscienza, ma anche i co-soggetti che si rilevano come trascendentali nella mia vita trascendentale nella comunità del noi, che insieme con loro viene alla luce. Nell’intersoggettività trascendentale si costituisce dunque il mondo reale, il mondo obiettivo, il mondo essente per «chiunque». Il mondo reale ha questo nesso sia che noi possediamo un esplicito sapere in merito sia che non lo possediamo» (Idee, 928-929).

Il nodo dell’«apparenza trascendentale» che erroneamente conduce ad identificare fenomenologia ed egologia, può sciogliersi ponendo in luce il significato metodologico del «solipsismo», come livello iniziale (necessario sì, ma del tutto insufficiente) dell’esperienza fenomenologico-trascendentale resa accessibile dalla riduzione. Quest’ultima, considerata nella sua accezione più ampia, non dà come «residuo» il mio ego trascendentale, la polarizzazione del mio flusso di coscienza e dei contenuti oggettuali che vi si costituiscono; quando l’indagine si apre all’«esperienza trascendentale in generale», l’autentico «residuo» della riduzione fenomenologica non può che essere l’intersoggettività trascendentale, la comunità trascendentale dei soggetti (Hu XV, 73). Nelle intenzioni di Husserl, fenomenologia egologica («solipsismo trascendentale») e fenomenologia intersoggettiva («intersoggettività trascendentale») sono momenti co-essenziali, che corrispondono a differenti livelli di elaborazione e di complessità del campo fenomenologico dell’esperienza; se, pertanto, l’intersoggettività trascendentale è la soggettività trascendentale nel suo concreto sviluppo, «il solipsismo trascendentale è solo uno stadio inferiore e come tale deve essere rettamente concepito e delimitato in una considerazione metodologica» (MC, 62). La critica dell’«idealismo fenomenologico» come «solipsismo trascendentale» non sembra dunque consapevole di questa articolazione interna del metodo della riduzione o epoché, e scambia la parte per il tutto, prendendo come definitivo ciò che costituisce solo un primo, provvisorio orientamento della riflessione; tra i motivi che hanno potuto più facilmente alimentare questo pregiudizio non va dimenticato il fatto che nel primo volume delle Idee, l’unico pubblicato da Husserl, la problematica dell’esperienza trascendentale «si dipana dapprima in termini egologici» e il tema dell’intersoggettività è quasi completamente assente; ma allora «se ci fosse stata una più profonda comprensione della mia esposizione, l’obiezione del solipsismo non avrebbe dovuto investire l’idealismo fenomenologico bensì soltanto l’incompletezza della mia esposizione» (Idee, 924, 926).

Ma per quale ragione la fenomenologia deve muovere da un livello solipsistico, e solo in un secondo momento prendere in considerazione il problema dell’alter ego, del mondo come mondo intersoggettivo? Non è possibile, fenomenologicamente parlando, individuare un movimento unico, che conduce da me all’altro e dall’altro a me, in una sorta di dialettica originaria in cui nessuno dei due poli (l’io e l’altro) può rivendicare una posizione privilegiata? Perché, inoltre, non cominciare dall’alterità, dal «fatto» di una differenza che precede e fonda il mio stesso «io», sia essa da interpretare in senso strettamente ontologico oppure esclusivamente etico? Certo sono possibili vari approcci, ognuno dei quali presenta qualche inconveniente, e del resto Husserl non sempre è stato così fedele al suo assunto del solipsismo metodologico come primo passo da compiere in direzione di una filosofia dell’intersoggettività;20 ci sembra tuttavia essenziale, prima di evidenziare gli eventuali limiti della prospettiva husserliana, comprenderne lo spirito, l’esigenza che l’ha mossa, e sotto questo profilo è estremamente illuminante un passaggio di Logica formale e trascendentale, che riportiamo per esteso: «Io esisto come primo e prima di ogni cosa pensabile. Questo «io sono» è per me, per me che dico questo, e lo dico in piena comprensione, la base primaria intenzionale per il mio mondo (der intentionale Urgrund für meine Welt); dove io non posso trascurare il fatto che anche il mondo «oggettivo», il «mondo per tutti noi» quale vale per me in questo senso, è il «mio» mondo. […] Che ciò mi piaccia o no, che ciò mi possa o no parere inaudito (e per qualsiasi pregiudizio ciò avvenga), questo è il dato di fatto primario che io debbo affrontare, e dal quale io, in quanto filosofo, non posso mai distogliere lo sguardo (es ist die Urtatsache, der ich standhalten muss, von der ich als Philosoph keinen Augenblick wegsehen darf). Per filosofi apprendisti questo può essere l’angolo oscuro in cui si agitano gli spettri del solipsismo o anche dello psicologismo e del relativismo. Il vero filosofo, però, anziché lasciarsene impaurire, preferirà gettare luce sopra questo angolo buio» (Hu XVII, 243-244; LFT, 293).

L’«io sono» come «dato di fatto primario» (Urtatsache): chiaramente non si tratta di un «fatto bruto», teoreticamente inesplicabile; né di una mera «occorrenza empirica», che potrebbe essere diversa da quella che è. Il prefisso ur- sta ad indicare, nel fatto, un diritto, nel dato ontologico, una struttura originaria o condizione di senso. Anche se Husserl, non senza qualche ironia, parla di «oscurità», non sarebbe inopportuno aggiungere che siamo comunque in presenza di una fattualità elementare: il «mondo per tutti», il mondo oggettivo e intersoggettivo, è tale innanzitutto per me, e non potrebbe essere altrimenti. Ovvietà? Certo la fenomenologia è, per molti versi, una filosofia dell’«ovvio», del dato, di ciò che è già sempre qui, alla nostra portata; solo che, in quanto filosofia, non si limita a ripeterlo così com’è, ma deve trarne implicazioni rilevanti, attraverso una chiarificazione radicale del suo senso.21 Ed ecco che, problematizzata, l’ovvietà si trasforma in tema autonomo, in «campo di lavoro», e può così rivelare, contrariamente alle attese, una struttura ricca e differenziata, con una serie di conseguenze interessanti sul piano filosofico più generale. È proprio la mancata chiarificazione di questo «dato di fatto primario» che genera l’apparenza del solipsismo e rende «enigmatico» il rapporto tra egologia e intersoggettività, nella fenomenologia trascendentale.22 Scrive Husserl: «La soluzione di questo enigma sta nello svolgimento sistematico della problematica costitutiva, che giace nel dato di fatto della coscienza del mondo che sempre esiste per me, che sempre ha senso per me, e lo conferma a partire dalla mia esperienza, e poi nelle indicazioni che procedono conformemente alla graduazione sistematica. Prenderle in considerazione non significa e non può significare altro che dischiudere realmente le attualità e potenzialità (o abitualità) della vita racchiuse in questo stesso dato di fatto della coscienza, nelle quali si è costruito e continua a costruirsi immanentemente il senso del mondo. Il mondo è dato a noi costantemente, ma in primo luogo è dato a me. Ed a me è dato anche il fatto che il mondo è dato a noi, e ci è dato come uno e come lo stesso» (LFT, 299).

2. L’intersoggettività come problema fenomenologico: riduzione primordiale, empatia, monadologia

Il nodo centrale della questione del solipsismo trascendentale è da ricondurre alla tensione che si instaura, dunque, all’interno della fattualità dell’«io sono»: il mondo è dato sia a me che a noi, la struttura intersoggettiva del mondo dell’esperienza è un «fatto» come lo è l’«io sono»; tuttavia per Husserl il mio io, l’esperienza del mondo in quanto mia, costituisce il punto di partenza necessario e inaggirabile di ogni interrogazione sul senso del mondo e quindi non può che rivendicare un certo «primato» dal punto di vista del metodo.23 Che infatti il mondo sia dato «a noi», è dato in primo luogo «a me», e ciò nel contesto della riduzione fenomenologica vuol dire: alla mia soggettività trascendentale; se il mondo, in quanto intersoggettivo, non fosse dato a me, cioè nel campo fenomenologico dei miei vissuti, non potrei averne alcuna esperienza.24 Come abbiamo visto, nelle sue discussioni generali sul problema del metodo, Husserl ha spesso sostenuto la tesi che l’autoriflessione del filosofo cominciante debba svolgersi all’interno di un atteggiamento solipsistico; il fenomenologo deve «cominciare» come solus ipse, anche se gli altri soggetti, come soggetti di un mondo comune, sono un «dato di fatto» innegabile. Occorre ora fare maggiore chiarezza sulle reali ragioni che hanno portato Husserl a questa convinzione, secondo la quale il «solipsismo trascendentale» non è solo «apparenza» da dissipare, ma momento metodologico interno, da comprendere nella sua legittimità e nei suoi limiti; l’«apparenza», per quel che si è potuto rilevare fin qui, non riguarda il «solipsismo trascendentale» come tale, ma il fraintendimento del ruolo e della funzione che esso ricopre nella fenomenologia. In particolare, «dalle equivocazioni (Missdeutungen) del senso e dell’operazione della riduzione fenomenologica sorge […] l’opinione che una fenomenologia pura sia possibile solo come egologia trascendentale» (Hu VIII, 181).

La necessità, per il fenomenologo, di cominciare come «solus ipse» il cammino metodico che lo condurrà, gradualmente, alla piena e concreta dimensione della filosofia trascendentale, sta innanzitutto nell’ottica «critica» e «giustificativa» che questa filosofia porta con sé, come suo tratto essenziale. Non solo in Kant, ma anche in Husserl, il «trascendentale» concerne la domanda sulle condizioni di possibilità dell’esperienza, in quanto esse sono, al tempo stesso e in maniera necessaria, condizioni di possibilità degli oggetti dell’esperienza;25 nel linguaggio husserliano, che ovviamente comporta anche una trasformazione concettuale profonda, ogni oggetto o «essere» dotato di un qualche significato apprezzabile è, gnoseologicamente, una «trascendenza», il cui senso deve essere interrogato muovendo dai vissuti di una coscienza pura, «trascendentale», in quanto dimensione fondativa ultima dell’esperienza possibile (MC, 28). Nell’ottica trascendentale, la «trascendenza» (in particolare la trascendenza del «mondo», che l’epoché aveva posto «tra parentesi») non certo scompare, ma diventa il titolo di un problema di fondazione, e dunque cessa di essere una trascendenza «ingenua», di cui si ignorano le fonti di validità, le strutture implicate, come avviene nell’atteggiamento naturale. Per quanto riguarda l’intersoggettività, che almeno provvisoriamente va considerata un problema parziale all’interno dell’atteggiamento fenomenologico-trascendentale, ciò significa che la trascendenza dell’alter ego deve essere «posta tra parentesi», restare «sospesa» (nella sua validità), come ogni altra «trascendenza» che ci è dato di incontrare nel campo dell’esperienza; è la stessa esigenza di una critica universale dell’esperienza possibile che vieta al fenomenologo «cominciante» di fare uso, surrettiziamente, di qualsiasi «tesi» naturale, per quanto ovvia possa apparire (ed, anzi, proprio perché tale appare). È in questo quadro di considerazioni che Husserl situa l’istanza solipsistica, nel suo schietto significato trascendentale: «Una critica universale delle esperienze in generale, che mi compete come filosofo cominciante, o potrebbe sempre competermi, può essere solipsistica nell’unico senso corretto, per cui essa è possibile solo come una critica delle mie esperienze, che riconosce gli altri soggetti e le loro esperienze solo in quanto esperiti delle mie esperienze (nur als erfahrene meiner Erfahrungen kennt) e, stando essi criticamente in questione, non li presuppone come essenti (als kritisch in Frage stehend, nicht als seiend voraussetzt)» (Hu VIII, 66).

In prima battuta, quindi, il «solipsismo trascendentale» discende direttamente dalle premesse della teoria husserliana della costituzione, e non è altro che una specificazione del metodo della riduzione fenomenologica, applicato a quel problema «particolare» (così esso può essere considerato, inizialmente) rappresentato dalla mia esperienza di altri uomini, dall’intersoggettività. Quest’ultima, comunque intesa, non può essere semplicemente «presupposta» in quanto fattualità naturale, ma per avere rilevanza sul piano filosofico deve essere compiutamente «giustificata»; per Husserl, ciò significa che occorre mostrare come l’intersoggettività si «costituisce» nella mia coscienza trascendentale, in quali forme essa si articola concretamente, attraverso quali funzioni il suo «senso» può diventare una stabile acquisizione conoscitiva.26 Sotto questo aspetto, l’accezione del «solipsismo» è piuttosto debole, e rischia sul serio di risultare fuorviante, poiché dire che il fenomenologo comincia come «solus ipse» equivale qui ad affermare, in sostanza, che dalla considerazione filosofica fondamentale deve essere bandito ogni ricorso alla Fremderfahrung quale «fatto» naturalmente accettato e, come tale, non bisognoso di giustificazione. «Solipsismo», si licet, è la sospensione della validità ingenua degli «altri soggetti», che precede l’analisi costitutiva e la rende possibile; se infatti l’alter ego fosse presupposto all’analisi fenomenologico-trascendentale volta a rivelarne il senso, si avrebbe chiaramente un circolo in luogo di un procedimento fondativo, e dunque, ancor prima di intraprendere l’analisi, va precisato con estremo rigore che il senso dell’«altro» (o degli «altri») dovrà essere esplicitato interamente all’interno della considerazione fenomenologica, cioè puramente in quanto «fenomeno». Ma allora, in quanto «fenomeno», ovvero come tema e problema della fenomenologia, l’altro è pienamente «incluso» nella sfera trascendentale e ad esserne propriamente «escluso» è solo il presupposto dell’alterità.27

Se, tuttavia, la questione del solipsismo trascendentale si esaurisse in questi termini, non si comprenderebbe perché essa sia stata così spesso fonte di imbarazzo e di perplessità per lo stesso Husserl, che vi è ritornato continuamente lungo la sua riflessione. In realtà, le osservazioni precedenti trovano la loro più precisa collocazione all’interno di una stratificazione del concetto fenomenologico-trascendentale dell’esperienza, per cui uno «strato inferiore» costituirebbe il fondamento originario sul quale si innesta uno strato più complesso (quello «intersoggettivo»), secondo uno schema lineare. In vari passaggi della sua opera, Husserl esprime la convinzione che per affrontare fenomenologicamente il problema dell’intersoggettività non sia sufficiente compiere la riduzione o epoché, che appunto «riduce» gli altri uomini a puri «fenomeni», ma occorra radicalizzare lo stesso procedimento riduttivo, in modo da isolare uno strato della mia esperienza trascendentale in cui sia assente ogni riferimento, diretto o indiretto, ad altri possibili soggetti, diversi da me (Hu XV, 536). Solo muovendo da questa sfera ultra-ridotta, si potrà poi risalire al «fenomeno» dell’altro, ricostruendone totalmente la validità; il fenomenologo comincia come solus ipse, in quanto de-costruisce la grammatica dell’intersoggettività fin negli elementi più semplici, allo scopo di fissare il punto cruciale in cui si passa da un’esperienza privata (puramente «soggettiva») ad un’esperienza comune (realmente «intersoggettiva»), da un «mondo» che è soltanto mio ad un «mondo» che c’è per tutti e i cui oggetti sono disponibili a tutti. È questa pretesa, in ultima analisi, che ci restituisce il senso più radicale, e più problematico, del «solipsismo trascendentale» e che determina la scansione della filosofia fenomenologica in due gradi: quello «egologico» e quello «intersoggettivo». Se è vero che Husserl non ha sempre seguito questo tipo di percorso, e numerose sono le analisi dell’intersoggettività che muovono direttamente dal «fenomeno» dell’alter ego, senza attraversare l’insidiosa frontiera del solipsismo radicale, non va tuttavia dimenticato che all’«ipotesi solipsistica» egli ha dedicato fino agli ultimi anni un grande interesse, dandone continue variazioni teoriche, e alternando ambiguità irrisolte a precisazioni o ripensamenti anche importanti.28

Il luogo «classico» in cui si affaccia, con maggiore consapevolezza metodologica, questo plesso problematico è costituito, com’è noto, dai §§ 44-47 delle Meditazioni cartesiane; qui Husserl introduce un’epoché peculiare29 il cui scopo è quello di individuare una sfera di proprietà o sfera appartentiva (Eigenheitssphäre) dell’io, nella quale l’esperienza di altri soggetti non gioca più alcun ruolo: «Noi escludiamo innanzitutto dal campo tematico tutto ciò che ora è dubitabile, cioè noi ora facciamo astrazione da tutti i prodotti costitutivi dell’intenzionalità riferita mediatamente o immediatamente alla soggettività estranea e delimitiamo dapprima l’intero contesto di quell’intenzionalità, attuale o potenziale, in cui l’ego si costituisce nel suo essere proprio e costituisce le unità sintetiche da essa inseparabili e per ciò stesso attribuite alla sua proprietà» (MC, 116). Questa operazione astrattiva è definita «riduzione alla mia sfera trascendentale di proprietà» oppure «riduzione al mio concreto io-stesso trascendentale» (Ibidem), ma la terminologia è oscillante, nelle stesse Meditazioni cartesiane come in altri testi husserliani; il «residuo» della riduzione è detto anche «mondo primordiale» o «sfera primordiale», perciò Husserl parla talvolta di «riduzione primordiale»30 (Hu XV, 108, 125). La continuità con il metodo fenomenologico-trascendentale e con l’epoché della «tesi generale» dell’atteggiamento naturale è assicurata nel senso che la nuova riduzione si inserisce nel campo dell’esperienza trascendentale, degli Erlebnisse puri, astraendo da tutti i prodotti intersoggettivi che vi erano, in qualche misura, inclusi. Anche dagli altri come «fenomeni» devo innanzitutto prescindere, poiché il loro senso mi si rivelerà adeguatamente solo dopo aver delimitato, entro rigorosi confini, ciò che nell’esperienza è inscindibilmente mio: «In quanto trascendentalmente atteggiato, io cerco innanzitutto di delimitare la sfera del mio-proprio al di dentro del mio orizzonte trascendentale di esperienza. È la sfera, dico dapprima, del non-estraneo. Comincio poi a liberare astrattivamente questo orizzonte d’esperienza da ogni estraneità» (MC, 118).

È chiaro, in questi passaggi, come la polarità tra «proprio» ed «estraneo» nell’esperienza trascendentale corrisponda per Husserl ad un preciso assetto gerarchico delle funzioni intenzionali; di fatto, la «sfera appartentiva» del soggetto deve essere preliminarmente individuata nella misura in cui essa costituisce il «fondamento», lo strato originario rispetto e di contro al quale ogni senso possibile di «estraneità», di alterità viene a determinarsi per me: «Io non posso possedere l’estraneo come esperienza, né quindi il senso mondo oggettivo [intersoggettivo] come senso d’esperienza, senza avere quello strato in una esperienza reale ed effettiva, mentre la reciproca non vale» (MC, 118). È dunque il «proprio» che fonda l’«estraneo», e non viceversa, e in questi termini sembrerebbe esclusa ogni «reversibilità» del rapporto, ogni contributo da parte dell’«estraneo» a definire, originariamente, la stessa natura del «proprio». Ma prima di addentrarci a discutere quello che è senza dubbio un punto nevralgico della fenomenologia dell’intersoggettività, vale la pena di seguire più dettagliatamente il percorso husserliano, nelle sue movenze specifiche. Dopo aver introdotto, in maniera del tutto generale, la «riduzione alla sfera appartentiva», Husserl pone in luce un aspetto paradossale della questione del «solipsismo», così come essa si presenta all’interno dell’atteggiamento naturale: «Nell’atteggiamento naturale della «mondanità» io trovo distinti, sotto forma di contrapposizione, me e gli altri. Se astraggo dagli altri, intesi nel senso usuale, io rimango solo. Ma una tale astrazione non è radicale, un tale esser-solo non altera per nulla il senso naturale e mondano dell’«essere-esperibile-per-ognuno», senso che affetta anche l’io (inteso in maniera naturale) e che non andrebbe perduto anche se una pestilenza universale non dovesse esistere che me soltanto» (MC, 116). Il «solipsista ingenuo» può astrarre dagli altri, mettere in dubbio la loro esistenza concreta, o ipotizzare una situazione vitale di completa solitudine, quale per esempio potrebbe darsi a seguito di una «pestilenza universale»; ma a tale prospettiva, solo apparentemente radicale, sfugge il nucleo filosoficamente essenziale della questione, e cioè il fatto che, anche se per una qualsiasi motivazione dovessi davvero rimanere solo al mondo, se dunque non vi fossero più altri uomini oltre me, questo mondo, privo di altri, e io stesso, in quanto parte del mondo, conserveremmo intatto il senso naturale dell’«esperibilità-per-tutti». In parole diverse, e questo aspetto occorrerà approfondire più avanti, l’intersoggettività è inseparabile dal senso stesso dell’«oggettività», del «mondo oggettivo», vi siano realmente degli «altri» oppure no. E qui il problema fenomenologico dell’intersoggettività, da «parziale» che potesse apparire in prima istanza, manifesta il suo carattere filosofico-universale e, si potrebbe dire, «onnipervasivo». Scrive Husserl: «Questo problema si presenta dunque, a tutta prima, come un problema speciale, quello dell’esserci-per-me degli altri ed è quindi il tema della teoria trascendentale della esperienza dell’estraneo, ossia della cosiddetta empatia. Ma subito si vede che l’importanza di una tale teoria è molto maggiore di quel che sembra a prima vista, in quanto essa parimenti fonda una teoria trascendentale del mondo oggettivo e anzi in modo completo, specialmente riguardo alla natura oggettiva» (MC, 115).

In tale ottica, l’astrazione radicale che Husserl persegue con la «riduzione primordiale» non può limitarsi ad escludere dal campo tematico gli altri uomini esistenti, ma deve riguardare, come già visto, tutto ciò che appartiene essenzialmente al senso dell’«estraneità», e dunque anche il concetto di una «natura oggettiva», che come tale contiene il rimando alla possibile esperienza («esperibilità») da parte di persone umane.31 Ciò che da questa riduzione si delinea, nella sfera trascendentale dell’ego, è uno «strato unitario e coerente» del mondo fenomenico che prende il nome di «natura appartentiva» (eigenheitliche Natur) e che si distingue nettamente dalla «natura» intesa in senso stretto; mentre infatti quest’ultima si dà come esperibile-per-tutti, dalla prima è stato per così dire oscurato, metodologicamente, ogni riferimento alla soggettività estranea: essa è dunque una natura puramente «soggettiva», esclusivamente mia propria (MC, 118-119). Si può dire che, almeno nelle intenzioni di Husserl, con la riduzione alla «sfera appartentiva» l’ipotesi solipsistico-trascendentale abbia raggiunto la sua massima estensione e radicalità, in quanto dal mio campo di esperienza dovrebbe essere stato espunto, non solo l’alter ego, quale che sia, ma il senso stesso dell’«alterità»; d’altra parte, questa estrema «solitudine» dell’io (ben più profonda di quella che, ad esempio, poteva percepire un Robinson, ma ovviamente assai meno incisiva sul piano esistenziale, visto che si tratta di un puro «artificio» della riflessione32 — e forse neppure è corretto parlare qui di solitudine, poiché essa presuppone almeno il concetto dell’alterità) dovrebbe consentire la visione diretta di quel «mondo primordiale» che può ritenersi, legittimamente, «possesso concreto e definitivo dell’ego o anzi […] proprietà dell’ego stesso» (MC, 125), e che deve costituire la base di ogni analisi intenzionale dell’esperienza dell’estraneo.

Husserl si rende conto di quanto sia importante caratterizzare positivamente questa sfera trascendentale di proprietà dell’io, poiché proprio in quanto la si definisce come dominio del «non-estraneo», dall’estraneità sembra trarre il suo senso, da quella estraneità che deve cadere interamente sotto l’epoché. A ben vedere, la sfera appartentiva non è un residuo semplice e indifferenziato, ad essa rimane connesso il campo percettivo dell’esperienza sensibile e, soprattutto, il corpo proprio. Scrive Husserl: «Tra i corpi di questa natura colti in modo appartentivo io trovo poi il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico (Körper) ma corpo proprio organico (Leib), oggetto unico entro il mio strato astrattivo del mondo; al mio corpo ascrivo il campo dell’esperienza sensibile, sebbene in modi diversi di appartenenza (campo delle sensazioni tattili, campo delle sensazioni termiche ecc.). Questo corpo è la sola e unica cosa in cui io direttamente governo e impero, dominando singolarmente in ciascuno dei suoi organi» (MC, 119). In altri termini, il corpo organico è l’autentico elemento di singolarizzazione, tra gli oggetti del mondo primordiale niente mi appartiene più del mio corpo,33 il quale, costituendo la radice della vita attiva (dell’«io posso») e della stessa percezione sensibile, non è mai puramente «oggetto», bensì «espressione» e «incarnazione» della soggettività, corpo proprio trascendentale.34 Io sono innanzitutto il mio corpo, in un’appartenenza radicale che anche sul terreno fenomenologico-trascendentale deve essere pensata come «identificazione», tuttavia ciò non esaurisce, per Husserl, l’articolazione interna della sfera di proprietà, che comprende in sé momenti altrettanto importanti e qualificanti. Anche se il mio mondo, in quanto «primordiale», ha perduto ogni punto di riferimento intersoggettivo, ogni significato di «estraneità», questo mondo primordiale resta pur sempre una realtà molteplice, strutturata, (relativamente) complessa; quando Husserl parla di «stranezze» o di «paradossi» che si incontrano nell’elaborazione fenomenologica della sfera appartentiva, certamente si riferisce anche alla circostanza, assai significativa, che il «solipsismo trascendentale», operando un’astrazione dal vivo contesto dell’esperienza e tagliandone fuori uno strato essenziale, non produce quelle conseguenze catastrofiche che forse ci si attendevano. Sul piano descrittivo, che è quello che qui interessa, molte strutture della vita dell’io rimangono impregiudicate ed accessibili, le funzioni intenzionali del mio flusso di coscienza mantengono una salda organizzazione, l’attività percettiva ed esplicativa è pensabile anche rispetto ad una «mera natura», che non reca più in sé l’impronta dell’intersoggettività. In particolare, «è un dato primo dell’esplicazione del mio proprio orizzonte essenziale di essere, che io m’imbatta nella mia temporalità immanente e quindi nel mio essere sotto forma di infinità aperta sia d’un corso di Erlebnisse, sia di tutte le mie proprietà che vi sono in certo modo incluse, alle quali appartiene anche la mia attività esplicativa» (MC, 124). Ciò, ovviamente, non significa che tutto sia esattamente come prima, ma soltanto che un ben definito orizzonte di potenzialità e attualità caratterizza la stessa prospettazione «solipsistica» della mia soggettività trascendentale; anche qui vi sono, entro certi limiti, delle «trascendenze», degli «oggetti» stabili (sebbene «oggettività» e «trascendenza», nella loro accezione categoriale più stretta, presuppongano l’intersoggettività), e da questo rilievo Husserl trae la convinzione che, senza aver preliminarmente dissodato il terreno dell’esperienza primordiale, in cui si costituisce originariamente ogni senso di «proprietà» dell’io, sarebbe impossibile aprirsi ad una comprensione approfondita e priva di ombre dell’«intersoggettività», come livello più concreto della filosofia fenomenologica. La «trascendenza» autentica, che implica l’alter ego, il mondo intersoggettivo, si fonda sulla «trascendenza» immanente, intesa qui come mondo primordiale, in un nesso di motivazione. Questa convinzione è espressa chiaramente, oltre che nella V delle Meditazioni cartesiane da noi esaminata, in Logica formale e trascendentale: «Questa prima natura o mondo, questa prima oggettività non ancora intersoggettiva, è costituita come a me propria nel mio ego in un senso privilegiato, in quanto essa ancora non nasconde in sé nulla di estraneo all’io, nulla cioè che superi, mediante l’inserimento costitutivo di io estranei, la sfera dell’esperienza realmente diretta, dell’esperienza effettivamente originale […]. Per altro è chiaro come in questa sfera di proprietà primordiale del mio ego trascendentale, debba giacere il fondamento di motivazione per la costituzione di quelle trascendenze autentiche che oltrepassano tale sfera, le quali sorgono dapprima come «altri», come altri esseri psicofisici ed altri ego trascendentali; e attraverso questa mediazione, rendono possibile la costituzione di un mondo oggettivo del senso quotidiano: un mondo del «non-io», dell’estraneo all’io» (LFT, 298).

Così Husserl delinea un intero programma di ricerca: dalla «sfera di proprietà primordiale», che corrisponde alla situazione (astrattiva) del «solus ipse trascendentale», è possibile costruire, per gradi, senza mai abbandonare l’orizzonte trascendentale, una teoria completa del mondo oggettivo, una fenomenologia di tutti i significati della «trascendenza», e una funzione chiave è svolta qui, a quanto sembra, dagli «altri» come soggettività reali e realmente esperite. In particolare, la costituzione della Fremderfahrung, come concreta esperienza di un essere «estraneo», di un alter ego, viene a fornire l’anello di congiunzione tra l’«esperienza pura», che è soltanto «soggettiva», e la categoria ontologica dell’«oggettività». Naturalmente, questo nesso non implica che la sfera primordiale abbia una priorità temporale rispetto alla sfera intersoggettiva, «non si tratta qui di scoprire una genesi che scorra nel tempo ma una analisi statica» (MC, 127), e ciò è comprensibile se si tiene presente che per Husserl il «solipsismo» non è una condizione originaria da cui l’io deve in qualche modo uscire, ma unicamente un’astrazione, un artificio metodico, teso a fissare rapporti esplicativi tra le forme di esperienza del soggetto.35 Il concetto fenomenologico della monade, che include «il campo di ciò che io sono in me stesso nella mia concretezza piena» (MC, 126), va dunque rigorosamente distinto dal solus ipse trascendentale, nel senso che l’io realmente concreto non può essere l’io della riduzione primordiale, ma è l’io nell’intersoggettività; solo ad un primo livello di considerazione trascendentale la monade coincide con il solus ipse, ma in quanto «concreta», come vedremo, è essenzialmente «intersoggettiva», monade-tra-le-monadi. D’altra parte l’astrazione solipsistica ha senso, per Husserl, all’interno di una ricognizione analitica dei diversi «strati» dell’intenzionalità, che nel loro implicarsi e connettersi ci ridanno la piena concretezza della soggettività trascendentale fenomenologica.36

La tesi radicale di Husserl è che la trascendenza dell’oggettività è costitutivamente riferita alla trascendenza dell’alter ego, al carattere eccedente della Fremderfahrung, all’impossibilità di inglobare l’altro nei miei schemi percettivi privati. Solo quando esperisco un alter ego posso parlare propriamente di trascendenza; la costituzione di un mondo oggettivo è mediata dalla mia esperienza dell’altro: «Qui è l’unica trascendenza che merita davvero questo nome, e tutto ciò che altrimenti significa trascendenza, come il mondo oggettivo, si fonda sulla trascendenza della soggettività estranea» (Hu VIII, 495) .37 Occorre quindi analizzare, in primo luogo, quale forma di intenzionalità fa sì che di un essere a me «estraneo», «trascendente», possa aversi, nondimeno, «esperienza», un’esperienza vera, che esibisce l’«altro stesso» e non una sua rappresentazione; ovviamente il problema può porsi, forse più incisivamente, in modo rovesciato e simmetrico, chiedendo come possa un essere esperito da me (e dunque, nel linguaggio trascendentale, costituito in me), risultare qualcosa di diverso e di più profondo di un mero «punto di intersezione […] delle mie sintesi costitutive» (MC, 126). La trascendenza dell’altro non pone un limite insuperabile alle possibilità della «visione», del riempimento intuitivo, che pure esprimono l’irrinunciabile norma metodica della fenomenologia, il «principio di tutti i principi»?38 E, correlativamente, ridotto ad «oggetto» di esperienza, a «tema» di un’attività intenzionale, l’altro non cessa propriamente di essere tale, cioè un’autonoma ed originale sorgente di vita soggettiva? Sembrerebbe allora che l’«aporia» dell’altro vada innanzitutto riconosciuta come tale, nel «punto cieco» della percezione, e muovendo da questa consapevolezza bisognerà poi trovare lo spazio per una positiva comprensione dell’estraneità. Del resto, la premessa (non, come si potrebbe pensare, l’esito) della fenomenologia husserliana della Fremderfahrung è che l’altro, per definizione, rimane inaccessibile alla mia attività percettiva immediata: «Se il caso fosse questo, se cioè il proprio essenziale dell’altro (das Eigenwesentliche des Anderen) si potesse attingere in maniera immediata e diretta, egli allora non sarebbe che un momento della mia propria essenza (bloss Moment meines Eigenwesen) e in conclusione egli stesso e io saremmo un’unica cosa» (Hu I, 139, MC, 129). Da quest’ultimo passaggio emerge con tutta chiarezza che Husserl non nega la trascendenza dell’altro, nemmeno come trascendenza «radicale»; la sua esigenza è semmai quella di coniugare l’alterità con una forma di «esperienza» capace di rispettarne il profilo.39

Nella fenomenologia trascendentale vige il principio (per lo più implicito, a volte esplicito, ma sempre operante) dell’unità dell’esperienza,40 secondo il quale la vita cognitiva del soggetto è una tessitura unitaria, in cui nulla può inserirsi realmente «dall’esterno», ovvero «al di fuori» di quelle connessioni regolate di un flusso di coscienza che determinano, esse stesse, le possibilità e i limiti di ogni «trascendenza» (intesa qui, nel senso più ampio, come sinonimo di «oggetto intenzionale»). Ora, il problema di fondo della Fremderfahrung è che, se l’alter ego di per sé «non si risolve in correlati intenzionali della mia propria vita e delle sue strutture regolate» (Hu VIII, 189), è anche vero che egli deve, se non risolversi, comunque «manifestarsi», «darsi in evidenza», nella struttura di correlazione del mio ego trascendentale. In parole diverse, l’altro deve essere cogitatum del mio cogito, affinché se ne dia esperienza, ma, entro questa struttura di correlazione (ego-cogito-cogitatum), deve anche poter essere esibito e riconosciuto come «cogitans», come un essere che solo per me è «altro», ma dal suo punto di vista non è «altro», è bensì io. È quanto Husserl esprime con la definizione dell’altro come «cogitatum cogitans» (Hu XIII, 463-464): una soggettività che, nel suo originario essere-per-sé, non può esaurirsi nel suo possibile essere-per-me, neppure se il mio «io» in questione è una soggettività trascendentale, un io puro.41 D’altra parte, questa «inesauribilità» dell’altro alle mie sintesi costitutive non è una sorta di mistero impenetrabile, ma corrisponde, nella mia coscienza trascendentale, ad una specifica forma di intenzionalità, che «aprendo» alla vita soggettiva dell’altro lo coglie appunto come alter, nelle varie modalità in cui ciò è possibile: non si esce, dunque, dalla «teoria della costituzione»42 ma si tratta di dipanare il paradosso della «costituzione dell’estraneo» (Hu XV, 551), anche nei suoi tratti più aspri, riportandolo ad una fenomenologia degli atti intenzionali e delle differenti forme di evidenza che li caratterizzano.

Se, per Husserl, «l’evidenza designa […] l’operazione intenzionale della donazione delle «cose stesse»» (LFT, 196), è anche vero che la «cosa stessa» si dà in molti modi, a seconda dell’atto che, di volta in volta, intenzionalmente, la «prende di mira». Ogni atto intenzionale, come modo di riferirsi alla «cosa», all’oggetto, ha la sua forma di evidenza (o, come altrimenti dice Husserl, di «riempimento»), che è diversa da quella che, altrettanto intrinsecamente, appartiene ad un altro tipo di atto. Ciò sembra consegnare il discorso fenomenologico dell’evidenza ad una molteplicità irriducibile, e in linea di principio si tratta di un rilievo assolutamente corretto, che non sempre è stato valorizzato in sede di interpretazione del pensiero husserliano;43 tuttavia, non va dimenticato che a questo effettivo «pluralismo della donazione» Husserl ha costantemente affiancato un grande interesse per la determinazione rigorosa di una gerarchia fondativa tra le diverse tipologie di atti, accordando il primato alla percezione come «coscienza originale»: «Il modo primitivo della donazione della «cosa stessa» è la percezione. La presenza (das Dabei-sein) per me come percipiente, è per la coscienza l’esser-presente-ora: io stesso presso il percepito stesso» (Ibidem). La percezione è, anche etimologicamente (percipere, wahrnehmen), una «presa diretta» dell’oggetto, e come «evidenza immediata» (Hu VIII, 186) rappresenta la base degli altri atti intenzionali, «derivati», in quanto ad essa si riferiscono funzionalmente. Ad esempio, un ricordo non è «meno» evidente di una percezione (come invece riteneva Hume), tuttavia la sua evidenza non è «immediata», poiché, come «coscienza del passato», è «coscienza di una percezione passata», e dunque può essere definito una «modificazione» della modalità originaria del percepire. Ogni «presentificazione» (Vergegenwärtigung) è, come tale, modificazione di un’originaria «presentazione» (Gegenwärtigung) e non è possibile senza una percezione precedente (Hu XIII, 337).

Queste considerazioni sulla struttura degli atti intenzionali sono importanti per la corretta definizione del rapporto tra autoesperienza dell’ego ed esperienza dell’estraneità, poiché per Husserl il soggetto esperisce se stesso originalmente e l’alter ego solo «indirettamente», attraverso il medium dell’empatia (Idee, 595): il carattere strettamente «mediato» della Fremderfahrung è la sua impossibilità di tradursi in una vera e propria Wahrnehmung dei vissuti altrui, che comporterebbe una «fusione» dei due flussi di coscienza e, conseguentemente, la loro totale indistinzione. L’empatia (Einfühlung) ,44 come atto che rende possibile il darsi di una soggettività estranea nella mia sfera dei vissuti, appartiene infatti alla classe delle «presentificazioni intuitive» e, sotto questo profilo, può essere assimilata all’Erinnerung, alla «presentificazione del passato», per un’analogia strutturale: se il passato è una modificazione del presente, è un presente che non può (più) essere percepito, l’alter ego è un presente che non può (mai) essere vissuto direttamente da me (Hu XV, 642). «Presentificare» i vissuti dell’altro significa ri-viverli all’interno della mia prospettiva, della mia vita soggettiva, e questo è l’unico modo in cui posso averne esperienza, come di vissuti realmente estranei. Senza empatia non ci sarebbe neppure alterità, rimarrei confinato nella sfera appartentiva, e mi sarebbe per principio incomprensibile lo stesso discorrere di una soggettività «altra», che tale può essere solo in quanto si conserva tutta la «distanza» che separa il presente presentificato dal presente autenticamente percepito e vissuto in proprio (Hu XIV, 362) .45 Ancora una volta, l’analogia con il «passato» può risultare efficace per cogliere la specifica fisionomia analitica e trascendentale della Fremderfahrung: «Il mio io trascendentale è l’unico ad essermi dato originariamente, cioè dall’autoesperienza originaria, la soggettività estranea mi è data nell’ambito della mia propria vita esperiente, cioè nelle mie esperienze empatiche, mediatamente, in maniera non originaria, ma tuttavia è data, e certamente è esperita. Così come il passato in quanto passato (Vergangenes als Vergangenes) può essere dato originariamente solo attraverso il ricordo, e il futuro come tale solo attraverso l’attesa, analogamente l’estraneo in quanto estraneo può essere dato originariamente solo attraverso l’empatia (so kann Fremdes als Fremdes ursprünglich nur gegeben sein durch Einfühlung). In questo senso datità originaria ed esperienza sono la stessa cosa» (Hu VIII, 175-176).

Ma, se è così, se nell’empatia l’altro è una «datità originaria», dobbiamo distinguere con cura il concetto fenomenologico dell’originarietà da quello dell’originalità; proprio in quanto l’alter ego non mi è accessibile «originalmente» (solo l’altro ha esperienza diretta dei suoi vissuti), mi è però accessibile «originariamente», il che vuol dire che la mia esperienza dell’altro è, a tutti gli effetti, esperienza dell’altro. È «l’altro in quanto altro» che l’empatia, come forma peculiare di esperienza, mi dischiude; si potrebbe anche dire «l’altro in carne e ossa», poiché di esperienza (originaria) si tratta, e non di «ragionamento», deduzione, conclusione (Hu XIV, 352) .46 L’unica forma in cui l’altro mi può essere dato «in carne e ossa», cioè come altro, è nell’impossibilità di coglierlo «in originale», cioè nello stesso modo in cui l’altro si coglie da sé, direttamente, nella propria vita soggettiva: in caso contrario, come già detto, non sarebbe un io estraneo, bensì un puro momento interno della mia coscienza. L’evidenza della Fremderfahrung deve essere «originaria», ma non può esserlo nel senso della percezione, dell’esperienza diretta; pertanto «dev’esserci qui una certa intenzionalità indiretta che proceda a partire dallo strato inferiore del mondo primordiale posto sempre a fondamento; è questa mediazione che rende rappresentabile il momento della presenza secondaria (Mit-da), la quale non è ancora la presenza stessa né può mai diventare presenza primaria (Selbst-da). Si tratta qui dunque di una specie d’atto di rendere-com-presente, d’una specie di appresentazione» (MC, 129). «Appresentazione» è qui sinonimo di «presentificazione», dove Husserl fa però notare, subito dopo, che essa è già presente in qualsiasi esperienza del mondo esterno e dunque, di per sé, non è caratteristica della Fremderfahrung (MC, 130); di fatto, in ogni percezione di una cosa spaziale ciò che è propriamente presente, «in originale», è unicamente un lato della cosa, mentre il lato posteriore è solo «appresentato», cioè intenzionato in maniera indiretta, come tema di una percezione possibile. Ciò che attualmente percepisco non esaurisce il senso dell’oggetto percepito, perché vi sono sempre altre prospettive da cui l’oggetto può essere visto; per questa ragione la percezione, che pure si vuole conoscenza «immediata» della cosa, costituisce nondimeno un processo che si dipana nel tempo e che mai può considerarsi realmente «chiuso». Non basta quindi sottolineare la «mediatezza» dell’Einfühlung in quanto Fremderfahrung, anche la percezione «immediata» di una cosa esterna è tale solo relativamente. Ciò che fa la differenza è la modalità del riempimento, poiché mentre il lato posteriore della cosa può essere «disvelato» da una percezione successiva e portato nella forma della coscienza originale, questa possibilità è esclusa a priori nel caso dell’alter ego, la cui datità, sebbene «originaria», non può mai trasformarsi in esperienza diretta, pena la «dissoluzione» dell’altro nel mio flusso di coscienza e nelle unità sintetiche da esso inseparabili: «L’esperienza dell’altro non è una mera anticipazione, essa si riempie infatti costantemente. Ma il riempimento (Erfüllung) non è mai, e non può essere, una vera apprensione percettiva della soggettività estranea (wirklich wahrnehmungsmässige Erfassung der fremden Subjektivität)» (Hu XIV, 489) .47

Come abbiamo visto, il fondamento motivante per la costituzione dell’alterità dovrebbe trovarsi all’interno della sfera dell’esperienza «primordiale», cioè in un contesto di «solipsismo trascendentale». Ora, una funzione essenziale in proposito è assolta dal corpo proprio, che oltre ad essere il centro del mio mondo circostante cosale, è per Husserl condizione di possibilità di ogni comprensione dell’estraneo: «Se mi domando come sono esperiti ed esperibili corpi estranei come tali, e perciò animali e altri uomini come tali, nell’ambito universale della mia percezione del mondo, la risposta è: il mio corpo gioca in questo ambito, cioè dal punto di vista dell’originaria conoscenza empirica, il ruolo del corpo originario (Urleib) da cui deriva l’esperienza di tutti gli altri corpi (Leiber)» (Hu VIII, 61). Nella mia sfera primordiale, mi colgo come soggettività incarnata, Leiblichkeit, e se un alter ego deve essere esperito come tale, ciò può accadere solo quando il suo corpo si presenta nel mio campo di percezione; l’intersoggettività, nella sua struttura fenomenologica più elementare, è una relazione inter-corporea, un «appaiamento» (Paarung) tra due corpi,48 in cui il senso intenzionale di «corpo organico», corpo soggettivo, viene «trasferito» all’altro, o meglio a quel Körper che, attraverso questo «trasferimento di senso», (Sinnesüberschiebung) diventa per me, propriamente, il Leib di una soggettività estranea (Hu I, 143; MC, 133). Naturalmente, affinché la pretesa «costituzione» non si riveli una mera «tautologia», è importante chiarire le modalità di questo passaggio. Cosa, in concreto, rende quel corpo che mi appare percettivamente «là», non un qualunque corpo fisico tra gli altri nel mio mondo-ambiente, ma un secondo corpo organico? «È chiaro innanzitutto che solo una somiglianza, interna alla mia sfera di primordialità, tra quel corpo e il mio può fare del primo un altro corpo» (MC, 131). L’analogia, la «somiglianza» che mi fa cogliere l’altro non come genericamente «estraneo», ma come «altro io», è innanzitutto riferita alla sfera della sensibilità: nel mio mondo primordiale, un corpo fisico si presenta come simile al mio corpo organico. Come nel caso del ricordo, anche per l’empatia la percezione gioca dunque un ruolo fondamentale: se, come abbiamo appurato, dell’altro non si dà propriamente «percezione», è anche vero che senza uno strato di Körperlichkeit, di «percepibilità corporea» che funga da fondamento per l’apprensione di una seconda Leiblichkeit, l’altro non sarebbe esperibile nemmeno come soggetto, persona, spirito.49

Ora, il nucleo di questa intuizione di somiglianza che dovrebbe tradursi in esperienza di una soggettività estranea non riguarda soltanto il corpo in quanto corpo percepito, ma anche in quanto corpo mobile. È in relazione al movimento corporeo, alla percezione come attività corporea che si definiscono le coordinate elementari della Fremderfahrung, nonché la stessa possibilità di articolare una pluralità di prospettive da cui guardare al mondo esterno. Scrive infatti Husserl: «Il mio corpo fisico, in quanto riferito a se stesso, ha i suoi modi di datità del qui centrale; ogni altro corpo, compreso il corpo dell’altro ha il modo del . Questa orientazione verso sottostà alla libera variazione in virtù delle mie cinestesi. In tal modo, nella mia sfera primordiale è costituita l’unica natura spaziale attraverso il mutamento delle orientazioni; questa costituzione ha anzi luogo in quanto la natura è riferita intenzionalmente alla mia corporeità fungente percettivamente» (MC, 136) .50 La variabilità della posizione del mio corpo, per cui sono in grado di muovermi liberamente nello spazio, tra le cose, fa sì che ogni «qui» possa mutarsi in un «là», il «vicino» in «lontano» e viceversa; ma in questa universale fluidità dei riferimenti spaziali-percettivi il mio corpo mantiene sempre la funzione del «qui», di un «qui», precisamente, che può dirsi «assoluto», nella misura in cui non posso allontanarmi dal mio corpo e vederlo, per così dire, dall’esterno (Idee, 552). Il tema fenomenologico della cinestesi è di estremo interesse non solo perché ci permette di caratterizzare, strutturalmente, la coscienza trascendentale di percezione come coscienza corporea, approdando così ad una sorta di «concretizzazione» del trascendentale stesso,51 ma anche perché, come vedremo, i «limiti» della sfera primordiale e della costituzione solipsistica della cosa spaziale vi sono strettamente implicati. Ad ogni modo, per Husserl, la Paarung dei due corpi (del mio corpo e di quello che si dirà, poi, il corpo dell’altro) nel campo percettivo primordiale induce in me un’appresentazione, di tipo analogico, dei «vissuti» che potrei avere se mi trovassi «là», se fossi al posto del corpo organico estraneo che ho di fronte, se potessi osservare il mio corpo da una posizione diversa da quella che attualmente occupo; ma, ed è qui che si concentra il paradosso della Fremderfahrung come intersoggettività incarnata, ciò è impossibile proprio nella misura in cui io sono «qui», inseparabile dal «punto zero dell’orientamento» costituito per me, necessariamente, dal mio corpo proprio (Ibidem). Se non avessi alcuna cognizione del mio corpo in quanto liberamente mobile, organo della volontà del soggetto, non potrei comprendere il senso da attribuire alla prospetticità delle cose nello spazio, ma senza questa comprensione preliminare non potrei nemmeno pensare come «modificabile» la mia condizione di «centro» del mondo spazio-temporale orientato. Di fatto, questa «modificazione» dell’io, che fa tutt’uno con l’esperienza di un alter ego, è espressa da Husserl con la formula, non priva di problemi, del «come-se-io-fossi-là»52 (Hu I, 147; MC, 137). L’altro non è dunque tale solo perché i suoi vissuti non possono essermi dati in un’esperienza originale; ciò che lo rende irriducibilmente «altro», pur nella tensione dell’analogia, del «come me», della «soggettività», è proprio il suo originario situarsi in un contesto che, per principio, non può essere il mio:53 è semplicemente un’altra monade, un’altra prospettiva sul mondo. «L’altro è appercepito in appresentazione come io di un mondo primordiale, ossia come io di una monade nella quale è originariamente costituito ed esperito il suo corpo organico nel modo del «qui» assoluto, anzi come centro funzionale del dominio che esso esercita. Quindi, in questa appresentazione, il corpo, che appare nella mia sfera monadica nel modo del «là» e che viene appercepito come corpo fisico estraneo, come corpo organico dell’alter ego, costituisce l’indizio dello stesso corpo, ma nel modo del «qui» come lo esperisce l’altro nella sua sfera monadica» (MC, 137).

Il problema di fondo che Husserl cerca di dominare e risolvere nella sua dottrina trascendentale dell’Einfühlung è quello dell’attribuzione, al corpo organico estraneo, di vissuti «propri», anzi di un’intera sfera di interiorità, come vita percettiva, psichica, personale, ed infine, nella sua concretezza, «trascendentale». Ciò dovrà avvenire per gradi, ma è chiaro come in primo piano sia da porre la capacità espressiva del corpo; se ciò che dell’altro percepisco originalmente è il suo corpo, nondimeno nell’approccio empatico «è contestualmente posta (mitgesetzt) un’interiorità molteplice che procede sviluppandosi in maniera tipica; essa dal canto suo richiede poi una corrispondente esteriorità» (Hu XIV, 249). Il primo contenuto determinato della Fremderfahrung è ovviamente l’«intellezione» della corporeità organica dell’altro e degli specifici modi di comportamento che la caratterizzano fenomenicamente: la comprensione del corpo altrui come centro di sensazioni e latore di liberi movimenti, la differenziazione di campi sensibili più o meno coordinati tra loro (esperienza visiva, tattile, acustica), le molteplici dinamiche espressive (nel volto, nella gestualità) cui si associa naturalmente un particolare stato d’animo, che può essere di gioia, dolore, ecc. A partire da questo livello, si costituiscono poi gli eventi psichici «superiori», nonché, su un piano ancora più complesso, le dimensioni della personalità e dello «spirito».54 Ognuna di queste forme della Fremderfahrung ha i suoi modi di riempimento, di conferma, di determinazione ulteriore, ma anche i modi correlativi della negazione, della delusione dell’intenzionalità, talora della «cancellazione» di ciò che in precedenza si dava come «evidente», come realtà «in carne ed ossa».

Per Husserl, tuttavia, il più originario fondamento fenomenologico di ogni formazione di senso intersoggettiva che possa costituirsi nella mia coscienza trascendentale, è l’apprensione del corpo dell’altro come Leib, nella Paarung (MC, 140). L’inter-corporeità è la prima forma di «comunità» tra i soggetti, il corpo organico dell’alter ego è il primo «oggetto intersoggettivo»: esso è dato, per me, come corpo di cui l’altro ha esperienza per sé, in originale.55 «La prima comprensione di un corpo estraneo come corpo organico è il primo passo, il più elementare, dell’oggettivazione e costituisce il primo oggetto, chiaramente ancora «incompleto», identificato intersoggettivamente nelle esperienze di soggetti diversi. Solo con ciò si realizza la prima oggettivazione [intersoggettiva] del mondo ambiente fisico» (Hu XIV, 110) .56 Il corpo dell’altro è, funzionalmente, il «ponte» che collega la mia sfera primordiale ad un’altra sfera, anch’essa «primordiale», «appartentiva», il cui possessore è però un ego estraneo; la ricognizione di una soggettività incarnata, nella forma intuitiva caratteristica dell’Einfühlung, apre il primo spiraglio sull’intersoggettività,57 rivelando al contempo l’«oggettività» nel suo senso pregnante, cioè come «esperibilità» non solo per me, ma anche per l’altro. Si è così realizzata, in certo modo, una «dissociazione» del reale dal mio flusso di coscienza, nella misura in cui il significato dell’oggetto esperito non dipende più strettamente dal fatto che ad esperirlo sia io, come di necessità accadeva nel quadro solipsistico della riduzione primordiale. L’oggetto diventa perciò una struttura di universale referenza ed accessibilità, la «cosa» (in primo luogo la cosa percepita) il polo noematico di una soggettività plurale, che all’inizio include me stesso e l’alter ego, ma in linea di principio, e attraverso passaggi continui lungo l’asse della Konstitutionstheorie, implica la totalità dei soggetti esperienti, reali o possibili; infatti, la relazione duale presa qui in esame (Husserl la designa anche come relazione «io-tu») è solo la cellula originaria del mondo intersoggettivo, è essa stessa un’«astrazione», una situazione descrittiva semplificata, che prelude all’analisi delle più complesse e generalizzate strutture dell’esperienza comunitaria, della «socialità».58

In particolare, Husserl rileva come l’alter ego sia da me esperito non solo come soggetto di un mondo primordiale, bensì, in virtù della propria corporeità, come soggetto dello stesso mondo di cui ho, attualmente, esperienza; in altre parole, se «gli altri sono realiter separati dalla mia monade, in quanto nessun legame reale porta dai loro momenti di coscienza ai miei» (MC, 147), e il termine «monade» vuole appunto sottolineare questa separazione «reale» dei due flussi di coscienza, rimane il fatto che le monadi sono intenzionalmente aperte l’una all’altra, attraverso l’empatia, e riferite ad un mondo comune. Scrive Husserl: «V’è, tra un essere e l’altro, una comunità intenzionale, un legame che per principio ha carattere tutto proprio, una comunità effettiva, quella che rende trascendentalmente possibile l’essere di un mondo, mondo di uomini e di cose» (Ibidem). L’io e gli altri (le «monadi») non corrispondono ad universi chiusi, autoreferenziali, che in virtù di un nesso estrinseco od armonia prestabilita entrino in qualche maniera in contatto, giungendo al riconoscimento reciproco;59 proprio perché le monadi husserliane, a differenza di quelle leibniziane, hanno «infinite finestre (unendlich viele Fenster)», in quanto «ogni percezione comprensiva di un corpo organico estraneo è una tale finestra (jede verständnisvolle Wahrnehmung eines fremden Leibes ist solch ein Fenster)» (Hu XIII, 473), la condizione comunicativa è originaria, la possibilità per i singoli flussi di coscienza di «sintonizzarsi» l’uno con l’altro è garantita dalla loro dinamica interna, dal loro stesso carattere prospettico, finito, relazionale.60 Allora, la costituzione di un unico, accomunante orizzonte di esperienza non poggia sul presupposto dell’attività divina che correla «dall’esterno» i differenti universi monadici, ma si svolge interamente nel quadro delle capacità operative della monade: l’unità ed unicità del mondo come mondo dell’esperienza è richiesta dalla stessa trama intenzionale, percettiva, corporea e temporale che rende concreta la vita del soggetto (Hu XIV, 91-sgg.). Si può dunque dire che in ogni monade (trascendentale) sono implicate tutte le altre, esse si «rispecchiano» nell’unità del mondo, pur restando, per altro verso, assolutamente separate: «L’esistenza di ogni monade è implicata in ogni altra (Die Existenz jeder Monade ist in jeder impliziert). Ognuna nella sua «coscienza» ha costituito lo stesso mondo, «implicitamente» in ognuna è incluso tutto l’essente e trascendentalmente la totalità delle monadi e tutto ciò che si costituisce nei singoli e nella comunità. D’altra parte, le monadi sono assolutamente separate (absolut getrennt) […], esse coesistono nel tempo totale monadico» (Hu XV, 377) .61

Se dunque la fenomenologia muove metodicamente i suoi primi passi nell’ambito del «solipsismo trascendentale» (come abbiamo visto nelle Meditazioni cartesiane), e se questa scelta indubbiamente rischiosa non poteva non attirare ombre sull’immagine complessiva del pensiero husserliano, è altrettanto chiaro come l’intersoggettività venga poi ad occupare una posizione del tutto preminente, ridisegnandosi in termini di categoria ultimativamente esplicativa e fondante della fenomenologia trascendentale. Molti passaggi testuali sono al riguardo di grande interesse, addirittura sorprendenti, e ci obbligano almeno a «rivedere» alcune delle interpretazioni più tradizionali (e meno favorevoli) del trascendentalismo di Husserl. Ad esempio, tra i testi integrativi delle lezioni sulla Psicologia fenomenologica si trovano affermazioni assai nitide e nette come le seguenti: «La soggettività trascendentale pienamente concreta al proprio interno è la totalità — trascendentalmente unica e solo in questo modo concreta — della comunità aperta dei soggetti. L’intersoggettività trascendentale è il terreno ontologico assoluto, l’unico terreno autosufficiente (der allein eigenständige Seinsboden), dal quale ogni oggettività — la totalità dell’essente realmente oggettivo, ma anche ogni mondo ideale oggettivo — riceve il suo senso e la sua validità» (Hu IX, 344); «La totalità mondana è riconosciuta dalla conoscenza trascendentale come un determinato prodotto costitutivo dell’intersoggettività trascendentale» (Hu IX, 474). Nella Crisi delle scienze europee si legge altresì che solo nell’intersoggettività la soggettività fenomenologica è quello che è, ovvero un «io costitutivamente fungente» (Hu VI, 175). La monade, assunta come «solus ipse trascendentale», come soggetto della sfera primordiale, non può essere concreta; non solo, ma non può neppure essere, in senso proprio, «costitutiva» del mondo come orizzonte universale dell’essente, il che significa che il mondo «solipsisticamente ridotto» non è realmente, e a tutti gli effetti, un mondo, perché quest’ultimo sembrerebbe implicare sempre, quanto al senso, l’intersoggettività trascendentale. Nota in proposito Husserl: «Ora si dirà: se il mondo è solo il polo sistematico (Polsystem) dell’intenzionalità immanente della cosiddetta esperienza oggettiva, se dunque è immanente in me, […] io sono solus ipse. La risposta suona: il mondo è unità delle mie esperienze, ma non soltanto delle mie (naturalmente esperienze reali e possibili), bensì è, per il suo stesso senso, unità di esperienza intersoggettiva (ihrem eigenen Wesen nach Einheit intersubjektiver Erfahrung)» (Hu XIV, 350). In altre parole, l’intersoggettività è la stessa soggettività trascendentale:62 ciò che si fissa, provvisoriamente, come «io puro», «coscienza trascendentale» al primo livello della riflessione fenomenologica, deve necessariamente inserirsi nella rete semantico-ontologica dell’intersoggettività, da cui soltanto può acquisire unità e concretezza. La fenomenologia sfocia così, senza poter rinunciare al piano «egologico», ma integrandolo e concretizzandolo attraverso la fondamentale nozione di «comunità trascendentale dei soggetti», in una rinnovata monadologia (Hu VIII, 190) .63

Non possiamo ovviamente seguire nel dettaglio analitico questo progressivo articolarsi, estendersi ed approfondirsi della sfera fenomenologico-trascendentale dal mondo cosiddetto «primordiale», solipsistico, al mondo concretamente «oggettivo», come tale accessibile a tutti, nella sua ricchissima compagine di senso. Nel paragrafo conclusivo delle Meditazioni cartesiane, Husserl disegna le linee programmatiche di una nuova filosofia prima, che dovrebbe non solo fornire i fondamenti di tutte le forme possibili di comunità tra i soggetti, ma addirittura una teoria generale dell’essere possibile, una vera e propria «ontologia universale»: tutti i problemi della metafisica tradizionale vi troverebbero posto e guadagnerebbero la loro dimensione filosofica più profonda (MC, 170-171). «Quest’universale ontologia concreta […] sarebbe quindi l’universo in sé primo della scienza con fondazione assoluta. Nell’ordine, la prima delle discipline filosofiche sarebbe l’egologia delimitata solipsisticamente, la scienza dell’ego ridotto in maniera primordiale; come seconda verrebbe poi la fenomenologia intersoggettiva fondata sulla egologia; quest’ultima tratta dapprima le questioni universali per ramificarsi dopo in varie scienze a priori speciali» (MC, 170). Ritroviamo quindi la connessione fondativa più volte messa in luce: la fenomenologia egologica «fonda» la fenomenologia intersoggettiva, nel senso che la «delimitazione solipsistica» dell’io deve precedere l’analisi fenomenologico-trascendentale dell’intersoggettività (altrimenti quest’ultima rimane puramente «presupposta»); d’altra parte, pur avendo ben presente il significato metodologico del «primato» dell’egologia, non è facile capire come esso possa conciliarsi con le affermazioni inequivocabili di Husserl viste sopra, in cui l’intersoggettività tende chiaramente ad assumere un ruolo «onnipervasivo», configurandosi come il terreno della fondazione ultima della totalità dell’essere mondano (Hu XIV, 265-266).

Di fatto, il passaggio alla monadologia trascendentale produce un rivolgimento all’interno della fenomenologia, che da egologica ed «egocentrica» (senza dare a questo termine una connotazione etica) si fa «centrifuga» e comunitaria:64 «Il mio ego datomi apoditticamente, l’unico ego che io debba porre come esistente in maniera assolutamente apodittica, non può a priori essere un ego che ha esperienza del mondo se non in quanto si trova in comunità con altri a lui simili, in quanto è un membro di una società di monadi che è orientata a partire da lui» (MC, 156). L’apoditticità della fondazione fenomenologico-trascendentale sembra dunque ricadere non più sull’io, isolatamente considerato, ma sulla «comunità intermonadica (intermonadologische Gemeinschaft)», una specie di «soggettività allargata» che è l’autentico polo costituente dell’intenzionalità: in tale ottica, la dimensione concreta del trascendentale non è l’«io», ma il noi.65 Ma se l’essere del mondo si costituisce intersoggettivamente, ha ancora un senso definito parlare di «mondo primordiale»? Dobbiamo lasciarcelo alle spalle come mera «finzione», dopo che l’analisi costitutiva è pervenuta a quel «terreno ontologico assoluto» che Husserl chiama «intersoggettività trascendentale»? Ma, se così fosse, non si rivelerebbe una «finzione» anche la (pretesa) costituzione della Fremderfahrung, che proprio sull’ipotesi solipsistico-trascendentale si incentra metodologicamente? È dunque chiaro che questa tensione tra «solipsismo» e «intersoggettività» nel quadro categoriale della filosofia fenomenologica esige una riconsiderazione di fondo delle possibilità e limiti della stessa «riduzione primordiale».

3. Limiti della riduzione primordiale e intersoggettività aperta

Nella V Meditazione cartesiana, che tuttora rappresenta un accesso privilegiato alla conoscenza della fenomenologia husserliana dell’intersoggettività, il concetto della «riduzione primordiale» è forse quello più delicato e nevralgico, proprio per l’essenziale funzione strategica che svolge nel processo argomentativo. Se, infatti, Husserl dedica uno sforzo notevole all’individuazione di una sfera solipsistico-trascendentale, è per illustrare in modo sistematico le strutture noetico-noematiche dell’esperienza dell’estraneo, le funzioni intenzionali che si mettono in moto nella mia coscienza trascendentale non appena un «alter ego» (o, meglio, ciò che si dirà poi l’«altro io») vi faccia, in qualche maniera, il suo ingresso. In questa ottica, come abbiamo già notato, la questione dell’intersoggettività parrebbe coincidere con quella della Fremderfahrung, intesa come problema parziale (sebbene importante) all’interno del più vasto orizzonte della fenomenologia trascendentale; senonché Husserl, fin dall’inizio, ha tenuto a sottolineare fortemente il nesso della Fremderfahrung con la costruzione di una teoria dell’«oggettività», poiché l’essere propriamente oggettivo è l’«essere-per-tutti». Di fatto, la forma originaria della Fremderfahrung è per Husserl l’Einfühlung, che nel suo nucleo più elementare corrisponde ad un’apprensione della corporeità organica estranea: l’altro vi è colto come «alter ego»; analogon della mia soggettività incarnata; titolare di una «seconda» sfera primordiale, analogamente strutturata, ma autonoma e separata dalla mia. La costituzione dell’alter ego si è realizzata, innanzitutto, come una sorta di «trasferimento» del mio sistema di riferimento percettivo e cognitivo all’«altro», sulla base della somiglianza con il mio corpo; ovviamente, non si tratta di un trasferimento immediato e diretto (in quel caso non potrei comprendere l’altro come tale), bensì di una «presentificazione» di vissuti che rimangono, per il loro stesso senso, originalmente irraggiungibili. In termini diversi, e forse un po’più chiari, l’alter ego costituito tramite l’Einfühlung, è un «ego» in quanto possiede le mie stesse strutture cognitive, è aperto alla stessa realtà (il «mondo») di cui ho esperienza diretta, ma è anche irriducibilmente «alter» in quanto la prospettiva di approccio al mondo è assolutamente singolare e inconfondibile («monadica», in questo senso preciso). Ora, il punto che occorre discutere qui, con maggiore approfondimento, non è tanto l’impressione di «circolarità» cui non è agevole sottrarsi seguendo l’analisi husserliana della Fremderfahrung nelle Meditazioni cartesiane,66 quanto ciò che, presumibilmente, sta alla radice di tale impressione, ovvero la patente difficoltà di tener fermo fino in fondo al concetto di «riduzione primordiale» e a quello, strettamente connesso, di «costituzione solipsistica» del reale. Ma se una «riduzione primordiale», così come Husserl la concepisce, risultasse ineseguibile per interne ragioni fenomenologiche, non ne deriverebbe automaticamente il crollo delle tesi più significative di Husserl sull’intersoggettività trascendentale (come talvolta si è ritenuto), e ciò sostanzialmente per due motivi: 1) Non sempre Husserl ha considerato indispensabile il ricorso preliminare alla «riduzione primordiale» per tematizzare l’intersoggettività (tra gli «inediti» husserliani raccolti in Hu XIII-XIV-XV, vi sono numerose, importanti linee di ricerca che prescindono del tutto dall’ipotesi solipsistica ed affrontano le tematiche intersoggettive entrando, per così dire, in medias res);67 2) Il fatto che Husserl abbia in certi casi sopravvalutato, in sede metodologica, le possibilità effettive di attingere una sfera di radicale «proprietà» del soggetto, non vuol dire che questa schematizzazione sia inservibile, semmai si tratterà di precisarne più attentamente i limiti (anche sotto questo riguardo, è dallo stesso Husserl, e non solo dai fenomenologi post-husserliani, che ci vengono preziose indicazioni per una qualche correzione della linea teorica sviluppata nelle Meditazioni).68

Come abbiamo visto, l’obiettivo della riduzione primordiale è l’individuazione di una sfera di esperienza fenomenologica così «privata», così radicalmente «propria» da escludere, per il suo costituirsi, ogni rimando, esplicito o implicito, ad altri soggetti, reali o possibili. Il «solus ipse trascendentale» è il soggetto di questa sfera, un soggetto che non risulta più immerso in alcuna atmosfera intersoggettiva e tuttavia continua a fare esperienza di un «mondo» e di «cose», nel proprio flusso di coscienza, senza che questa messa fuori causa del concetto dell’alterità abbia provocato il cortocircuito dell’attività intenzionale e, con ciò, reso impossibile ogni donazione di senso. Ciò che Husserl, nella V Meditazione, chiama «mondo primordiale» corrisponde a quello strato di «esperienza pura» (reine Erfahrung) che dovrebbe precedere — certo non nel tempo, ma nella connessione dei fondamenti — l’«esperienza fenomenologico-trascendentale» nel senso più ampio e concreto, che include necessariamente l’intersoggettività. In un testo del 1930, dove si prende in esame l’interna stratificazione del campo trascendentale, si afferma chiaramente questa corrispondenza di piani: «In quanto ora si mostra che il mondo ha un nucleo di senso (Sinneskern) che è «esperienza pura», cioè non presuppone alcuna esperienza dell’estraneo (nämlich keine Fremderfahrung voraussetzt), abbiamo perciò operato la riduzione alla primordialità trascendentale» (Hu XV, 110). L’«esperienza pura», per Husserl, è dunque un’esperienza non ancora intersoggettiva, in nessun senso pensabile, proprio perché la categoria dell’«intersoggettività» non vi ha ancora impresso, per così dire, le sue pieghe, non vi ha fatto valere la sua opera costitutiva: un’esperienza che, beninteso, non è nulla di «naturale», di «reale», e tuttavia rappresenta una sorta di «nucleo profondo» del trascendentale fenomenologico, che è possibile afferrare astrattivamente, separandolo dai nessi funzionali superiori. Nella Logica formale e trascendentale, questo «mondo dell’esperienza pura» diventa il correlato di un’«estetica trascendentale», intesa kantianamente, ma in senso radicalmente nuovo, come primo grado di una teoria della conoscenza;69 «al grado superiore si situa il Logos dell’essere mondano obbiettivo e della scienza nel senso «superiore», della scienza che indaga secondo le idee dell’essere «rigoroso» e della rigorosa verità e che configurano corrispondentemente teorie «esatte»» (LFT, 356). Il concetto dell’«esperienza pura» può prestarsi ad equivoci di ogni genere, ma la «purezza» qui non è in alcun modo assimilabile ad un contesto omogeneo, indifferenziato, oppure strutturato sì, ma nello stesso senso limitativo per cui, nell’Estetica kantiana, si dà un mero inquadramento spazio-temporale delle sensazioni; il «mondo primordiale» di Husserl rimane, nonostante tutto, una realtà nettamente articolata, un mondo di cose, di oggetti percepiti, e non di «dati sensibili». Nella «trascendenza immanente» come residuo della riduzione primordiale vi sono «oggetti», sebbene non ancora una vera e propria «oggettività», poiché essa presuppone la costituzione della Fremderfahrung e dunque l’esperienza di altri soggetti nell’Einfühlung.

Ma, dobbiamo ora chiederci, è davvero possibile un riferimento ad «oggetti» senza che sia posta, correlativamente, una qualunque dimensione «intersoggettiva» del loro darsi? L’oggetto non è, come tale, il polo di referenza di una soggettività strutturalmente plurale e comunitaria, di una totalità di monadi? È stato proprio Husserl a scorgere questo nesso di implicazione trascendentale in tutta chiarezza, ad esempio nel passaggio seguente, che problematizza senza esitazioni la stessa possibilità di definire «soggettiva» un’esperienza solipsistica della cosa: «È problematico (fraglich), più che problematico, se io qui, al livello di una costituzione cosale pensata solipsisticamente (auf der Stufe einer solipsistisch gedachten Dingkonstitution) posso designare le manifestazioni come soggettive. Le manifestazioni, e quindi le sensazioni, non sono miei stati (meine Zustände) come può esserlo una gioia, che non ho [di fronte a me] come un dato di rosso (Rotdatum), ma nella quale vivo, o come possono esserlo un apprendere, un porre, ecc., un pensare, in cui «mi» attivo e mi colgo in questa attività. L’introiezione delle sensazioni e manifestazioni in un soggetto o la loro comprensione come meramente soggettive deriva dall’intersoggettività» (Hu XIII, 388-389). Questa conclusione, per certi versi sconcertante in un filosofo che ha dovuto a lungo difendersi dall’accusa di solipsismo e al quale si obietta tuttora di aver sottovalutato l’importanza dell’intersoggettività, appare, argomentativamente, ineludibile: se le categorie di «oggettività», trascendenza e realtà sono costituite intersoggettivamente, altrettanto si deve dire delle correlative categorie di «soggettività», immanenza e manifestazione.70 L’intersoggettività si rivela una struttura pervasiva che in multiformi profili coopera alla stessa autocostituzione ed autocomprensione dell’io. Dire infatti che la mia esperienza del mondo è «soggettiva», è un modo di apparire di qualcosa «in sé» (come tale irriducibile alla manifestazione che ne ho o posso averne) equivale a sostenere che il mondo è esperibile da altri (e, in linea generale, da tutti): la «soggettività» delle manifestazioni sembra presupporre, qui, l’«intersoggettività» del sistema di riferimento. Se dobbiamo prendere sul serio il passo precedente, così come le altre asserzioni husserliane circa il carattere non semplicemente «costituito», bensì costituente (e, in un certo senso, «assoluto») dell’intersoggettività,71 tutto il complicato iter metodologico che abbiamo visto all’opera nella V Meditazione cartesiana non può che destare il sospetto di una petizione di principio: il compito di una costituzione dell’intersoggettività, a partire dalla «sfera primordiale», risulterebbe impossibile, in quanto i «fenomeni» di questa sfera non sono nulla di originario, non possono neppure definirsi «soggettivi» senza presupporre, ad un qualche livello semantico, ciò che si trattava di costituire.72

È, questo, un singolare effetto di «ristrutturazione» del campo fenomenologico-trascendentale, che occorre valutare nelle sue dimensioni e conseguenze, per dare adeguatamente conto degli equilibri sottili e, talora, ambigui della teoria husserliana della costituzione: man mano che ci si addentra nella problematica dell’intersoggettività, quest’ultima sembra assumere un ruolo sempre più marcato e inglobante, al punto che è solo dalla considerazione dell’io in quanto «intersoggettivo» che si può comprendere, in concreto, ciò che la «soggettività trascendentale fenomenologica» realmente significa, la sua configurazione effettiva. Il «solipsismo trascendentale» manifesta sempre più chiaramente i tratti di una mera «ipotesi», di una proiezione fatta al fine di semplificare il contesto dell’esperienza dell’io, e tuttavia, come ampiamente rilevato, Husserl vi annette una «funzione di fondamento» per i gradi fenomenologici successivi e più complessi. La convinzione sottesa ai passaggi cruciali della V Meditazione, è che senza empatia, senza esperienza di una soggettività estranea reale, corporeamente presente nel mio campo di percezione, non si dà alcun accesso pensabile all’intersoggettività: il soggetto rimarrebbe chiuso in un ambiente cognitivo indubbiamente articolato e ricco di contenuti, ma esclusivamente «proprio», senza alcuna traccia di alterità, di «differenza». Questa posizione è bene espressa anche nelle Lezioni sulla Filosofia prima del 1923-24: «Facciamo ora l’ipotesi che nel mio mondo circostante non si siano mai presentati corpi organici (Leiber), in modo tale da non aver alcun indizio di una soggettività estranea. Allora per me di fatto ogni realtà oggettiva, il mondo intero […] sarebbe nient’altro che una molteplicità unificata di poli intenzionali, come unità correlative per sistemi di mie possibili e reali esperienze» (Hu VIII, 186). Volgendo la questione in senso positivo, che è quello che interessa maggiormente Husserl, è solo dopo aver esperito «una seconda vita trascendentale»73 (Hu VIII, 181), un analogon della mia soggettività, che il mondo, da «primordiale» e strettamente «soggettivo», diventa per me «intersoggettivo»: in termini diversi, l’esperienza di un’altra monade, come centro autonomo di vita soggettiva, rende «oggettivo» il mondo decentrando la mia prospettiva di approccio ad esso e rivelandola appunto come «prospettiva», come ciò che solo per me è inevitabile e vincolante. Da questo nucleo tematico deriva una serie di importanti conseguenze sul piano della fenomenologia, dell’epistemologia ed anche dell’ontologia, la cui analisi richiederebbe un lavoro specifico e un confronto approfondito con i testi più significativi in proposito, peraltro numerosi; sarebbero quindi da esaminare le nozioni di «normalità», di «esperienza normale», e le loro variazioni (le «anomalie»), che in realtà Husserl non relega allo status di fenomeni secondari, trascendentalmente irrilevanti, ma include a pieno titolo tra i problemi fondamentali di una filosofia trascendentale concreta.74

In Husserl troviamo non pochi elementi che, elaborati, concorrono a porre in crisi il concetto della «riduzione primordiale», almeno nella sua pretesa più estrema, di delineare una sfera di esperienza totalmente priva di strutturazione e di semantica intersoggettive. Per rendersene conto, non è necessaria un’astratta disamina del «metodo fenomenologico», basta riferirsi alle penetranti analisi husserliane della percezione esterna e della struttura di orizzonte che caratterizza ogni datità percettiva determinata.75 Come abbiamo accennato precedentemente, la percezione è sì coscienza originale della cosa, dell’oggetto spaziale, ad esempio il tavolo che ho di fronte; tuttavia, è non meno evidente che ciò che mi è realmente «dato», in carne ed ossa, è solo un lato dell’oggetto, precisamente il suo lato anteriore (SP, 34). Se è vero che la percezione «intenziona» sempre l’oggetto intero, in concreto quest’ultimo può esserle «dato» solo prospetticamente, sotto un aspetto peculiare; per Husserl, l’apparente paradosso si stempera assumendo il carattere misto del percepire (la percezione è, come tale, un «intreccio» di datità originale e intenzione vuota) e rilevandone la costituzione processuale e temporale. Il senso del lato propriamente percepito è determinato dalla sua relazione con i lati non percepiti e nessuna percezione sarebbe possibile senza questo riferimento intenzionale; in termini più tecnici, si può parlare di una «intenzionalità di orizzonte» che, nella coscienza di percezione, rimanda ad aspetti dell’oggetto non attualmente percepiti, ma percepibili; l’esperienza percettiva non è infatti un evento istantaneo, ma un processo. L’apprensione di un orizzonte della percezione presuppone naturalmente le «estasi» della coscienza interna del tempo, attraverso le quali il presente dell’impressione originaria si apre protenzionalmente al futuro trattenendo ritenzionalmente il passato;76 la sintesi temporale non ci dice però ancora nulla sui tratti contenutistici del percepire ed è qui che una caratterizzazione «soggettivistica» dell’orizzonte intenzionale darebbe luogo ad un fraintendimento: «L’orizzonte intenzionale non può infatti essere riempito a piacere; si tratta di un orizzonte di coscienza che ha esso stesso il carattere fondamentale della coscienza in quanto coscienza di qualcosa. Questo alone di coscienza ha il suo senso, nonostante la sua vuotezza, nella forma di una predelineazione (Vorzeichnung) che prescrive il passaggio a nuove manifestazioni attualizzanti» (Hu XI, 6; SP, 36). L’orizzonte manifesta dunque una piega intrinsecamente «oggettiva» (pur nella cornice della «coscienza trascendentale», che chiaramente nell’ottica husserliana non viene mai meno), è la cosa stessa, e non il soggetto, ad «indicare» in maniera vuota, ma determinabile, le possibili direzioni del decorso percettivo, sotto forma di un tacito sistema di rimandi che può essere, di volta in volta, «attualizzato». Scrive Husserl: «Ogni percezione […] rinvia in se stessa ad una continuità, a molteplici continua di nuove, possibili percezioni nelle quali un medesimo oggetto si mostrerebbe da sempre nuovi lati. Ciò che viene percepito, nei modi di manifestazione che gli sono propri, è ciò che è in ogni momento del percepire: è un sistema di rimandi con un nucleo fenomenico nel quale quei rimandi trovano il loro sostegno. Ed in questi rimandi è come se l’oggetto ci dicesse: qui c’è ancora qualcos’altro da vedere, girami da tutti i lati, percorrimi con lo sguardo, vienimi più vicino, aprimi, frazionami. Getta sempre nuovi sguardi d’insieme e compi rotazioni da ogni lato. Così mi conoscerai in tutto ciò che sono, nella totalità delle mie proprietà di superficie, delle mie interne proprietà sensibili, ecc.» (SP, 35). Se dunque la datità della cosa è di per sé «orizzontale», intessuta di rimandi intenzionali che corrispondono ad altre possibili percezioni, e se, come ritiene Husserl, nessuna serie percettiva può esaurire il senso dell’oggetto, essendo virtualmente infinite le prospettive da cui si può guardarlo, occorre riconoscere che l’«inadeguatezza» della percezione esterna non è un limite della nostra facoltà gnoseologica, ma il modo di darsi prospettico, finito della cosa stessa.77 D’altra parte, il percepire non deve neppure essere confuso con un mero «fissare» l’oggetto, completamente passivo, poiché proprio il carattere di prospetticità della cosa spaziale, che abbiamo appena sottolineato, conduce ad assegnare un ruolo costitutivo alla mia spontaneità cinestetica; come struttura originaria della prassi, il movimento del corpo mi permette di cogliere l’oggetto da prospettive diverse, di girargli attorno per determinarne meglio le caratteristiche, di «identificarlo» come entità stabile ed accessibile anche quando scompare dal mio campo di percezione. Pertanto, «il sistema delle mie libere possibilità di movimento è intenzionalmente costituito come un orizzonte cinestetico pratico; questo sistema si attualizza, in ogni percorrimento attuale di singole linee di movimento, nella forma dell’esser conosciuto (Bekanntheit), quindi del riempimento» (Hu XI, 15; SP, 46).

L’importanza della fenomenologia husserliana della percezione è innanzitutto nella capacità di esibire, come una sorta di «interfaccia» della costituzione dell’oggetto, quella tessitura concreta della soggettività che era per lo più sfuggita alle forme tradizionali dell’idealismo trascendentale:78 in quanto intenzionalità fungente nell’esperienza percettiva, l’«io» è anche essenzialmente incarnazione e temporalità, non può «costituire» il mondo senza esserne attraversato, né dispiegare l’evidenza del vissuto senza esporsi alla struttura di rinvio e, di conseguenza, alla dinamica dell’approfondimento, dell’interrogazione continua delle «cose stesse» (anche di quelle apparentemente più umili e insignificanti). Limitandoci a segnalare che una parte non trascurabile dell’ermeneutica husserliana più recente si è indirizzata lungo questa linea,79 con risultati spesso convincenti, dobbiamo ora vedere come la nozione di «orizzonte intenzionale» si riverbera sul terreno del rapporto tra solipsismo e intersoggettività. È chiaro che questa nozione è indispensabile anche all’interno della sfera appartentiva del soggetto, proprio perché in essa la «natura», il mondo esterno, non è affatto scomparso, ma ha solo perduto il riferimento ontologico intersoggettivo in virtù della riduzione primordiale. Si legge infatti nel § 47 delle Meditazioni: «Poiché noi lasciamo fuori considerazione le formazioni intenzionali empatia, ossia dell’esperienza dell’estraneità, noi abbiamo un natura e una corporeità che si costituisce come oggettività spaziale e come unità trascendente di fronte al corso degli Erlebnisse coscienziali, ma pur come mera molteplicità di oggettività d’una esperienza possibile, ove quest’esperienza non è altro che il mio proprio corpo organico e quel che vi è esperito non è altro che un’unità sintetica, non distinguibile da questa corrente di vita e dalle sue potenzialità» (MC, 125). Ora, se ogni oggetto spaziale non può che darsi prospetticamente, sembrerebbe però che l’orizzonte intenzionale, così come viene tematizzato nella sfera primordiale, non implichi alcuna dimensione di «alterità», nel senso della Fremderfahrung; del resto, come sarebbe possibile parlare di Fremderfahrung là dove, per decisione metodologica, si lasciano fuori considerazione le funzioni intenzionali dell’Einfühlung (Hu XV, 531)? La trascendenza «immanente» o «primordiale» che Husserl intende enucleare come strato fenomenico originario di un’analitica degli oggetti intenzionali è unicamente il correlato della mia esperienza percettiva; se ho di fronte un tavolo, il suo lato posteriore non è attualmente percepibile, ma potrei percepirlo in futuro, oppure averlo già percepito in passato. La costituzione di un oggetto identico attraverso molteplici prospettive o adombramenti appare dunque per Husserl alla portata di un soggetto «solipsistico», nel significato radicale che emerge dalla riduzione primordiale e che, come si è visto, esclude non solo ogni contributo di alter ego reali alla definizione iniziale del mio campo di esperienza, ma anche di alter ego possibili. Per poter esibire il senso di una cosa spaziale (Ding) sul terreno dell’indagine trascendentale, non posso riferirmi semplicemente ad un «io puro» con il suo campo temporale di vissuti, ma ho bisogno di assumere certe altre strutture ed una compaginazione già abbastanza estesa della soggettività: in particolare, il soggetto della Dingwahrnehmung è necessariamente corporeo-cinestetico e solo in questa forma può dirsi, altrettanto legittimamente, «trascendentale» (almeno nel senso dell’implicazione fenomenologico-materiale per cui un «io puro» privo di corporeità non può essere il soggetto della percezione cosale) .80 Sarebbe invece possibile un’esperienza della cosa (come polo oggettuale unitario di manifestazioni differenti) anche qualora l’intersoggettività non vi partecipasse ad alcun titolo ed è proprio questa tesi, apparentemente persuasiva, che Husserl articola con l’esperimento metodologico della riduzione primordiale.

La tesi della «riducibilità» degli aspetti non percepiti della cosa ad un puro campo di possibilità proprie viene tuttavia a collidere con un dato fenomenologico elementare, sul quale occorre fermare l’attenzione: il lato anteriore dell’oggetto (quello che ora realmente percepisco) non è tale in relazione ad un lato posteriore passato o futuro, bensì in relazione ad un lato posteriore co-presente (mitgegenwärtig) (Hu I, 139). Più precisamente, in ogni istante del processo percettivo la coscienza intenziona una molteplicità di aspetti co-esistenti dello stesso oggetto. Come è stato fatto notare, la mera correlazione dell’orizzonte con le percezioni passate o future non mi darebbe propriamente un lato posteriore, ma un altro lato anteriore:81 avremmo paradossalmente una serie di «lati anteriori» in concorrenza tra loro, un disgregarsi dell’unità della cosa nelle sue manifestazioni singolari In realtà, l’intenzionalità donatrice di senso non è diretta solo sulla mia possibilità di percezione (passata o futura), ma innanzitutto sulla mia impossibilità di percezione attuale: è questa «impossibilità» che mi fa cogliere il lato posteriore di un oggetto come tale. La modalità temporale è decisiva: il lato posteriore è tale non perché posso percepirlo in futuro o averlo percepito in passato, bensì posso percepirlo in futuro o averlo percepito in passato perché al presente non posso percepirlo, non è una mia possibilità di percezione. La possibilità di percezione è aperta nella direzione del futuro e del passato solo in quanto essa è per me strutturalmente chiusa riguardo al presente, all’«ora». Naturalmente, per avere un referto fenomenologico completo della nozione di «lato posteriore» occorre saldare strettamente la temporalità alla corporeità, la dimensione ritenzionale e protenzionale del flusso di coscienza alla struttura cinestetica dell’io concreto. Come soggettività incarnata, occupo sempre una posizione determinata nello spazio; certo posso modificare cinesteticamente questa posizione, disvelare il lato dell’oggetto che non vedevo, ma questo lato non è «creato» dal mio movimento corporeo, esso esisteva già prima di percepirlo. Tuttavia, prima di percepirlo realmente, mi era già noto come percepibile. Non solo percepibile da me in un’esperienza successiva, ma percepibile da un altro soggetto in un’esperienza attuale. Ora, non posso percepire il lato posteriore dell’oggetto, ma potrebbe farlo un altro. Scrive Husserl: «La manifestazione che io ho dal mio «punto di vista» (posizione del mio corpo nell’ora), non posso averla da un altro punto di vista, con il mutamento del punto di vista si modifica necessariamente la manifestazione, e le manifestazioni sono evidentemente incompatibili (unverträglich). Io posso avere la manifestazione incompatibile in un altro momento, se io assumo un’altra posizione nello spazio. E allo stesso modo un «altro», che proprio ora si trova in una posizione diversa, può avere ora quella manifestazione (Und ebenso kann ein «Anderer" dieselbe Erscheinung jetzt haben, der eben jetzt an einem anderen Orte ist)» (Hu XIII, 2-3).

In che modo questo testo husserliano del 1908 può fungere da contro-argomentazione rispetto alla strategia perseguita da Husserl nelle Meditazioni cartesiane e volta a determinare, entro rigorosi confini, una sfera di «esperienza primordiale»? L’interesse principale del testo consiste nel fatto che l’«altro» (o meglio il senso dell’altro) si rivela non al termine di una complessa operazione di isolamento dell’io nella purezza della sua «natura appartentiva», e neppure nell’«esperienza empatica» di un corpo organico estraneo, bensì come ingrediente necessario (se così ci si può esprimere) della stessa percezione cosale. L’«alterità» si affaccia esplicitando il contesto strutturale di ogni datità percettiva, la relazione costitutiva che lega il carattere prospettico della manifestazione dell’oggetto alla mia situazione incarnata e all’orizzonte cinestetico-pratico che la contraddistingue: proprio perché le prospettive sono «incompatibili» nell’«ora», l’unico che può percepire il lato posteriore nello stesso istante in cui io percepisco quello anteriore è un alter ego, un soggetto diverso da me. Senza il costante riferimento intenzionale ad un altro io, non sarebbe quindi possibile non solo la fondazione del concetto critico-trascendentale dell’«oggettività», ma neppure la semplice comprensione della scena percettiva del soggetto: in particolare, verrebbe a mancare quella fondamentale coordinata del campo fenomenologico che mi permette di afferrare il continuo delle manifestazioni della cosa come il progressivo svelarsi della sua unità. Se ogni percezione coglie la cosa «unilateralmente», prospetticamente, il discorso non può prescindere da una certa virtualità intersoggettiva delle manifestazioni stesse, che affetta necessariamente anche la cosiddetta «sfera primordiale» dell’io,82 in quanto in essa si costituiscono delle «cose»: «Ogni oggetto della mia percezione e della mia esperienza sensibile del tutto immediata è sempre solo manifestazione (Darstellung) — esso è dato in se stesso e tuttavia è un identico (ein Selbst) che ha la forma categoriale dell’intersoggettività (die kategoriale Form der Intersubjektivität» (Hu XIV, 389).

Dobbiamo perciò concludere che una forma particolare di esperienza dell’estraneità è implicita nella stessa costituzione (pluri) prospettica della cosa spaziale, e che ogni manifestazione co-presente è definibile come correlato noematico della percezione di un soggetto estraneo. Il mero riferirsi ad un oggetto che si manifesta in molti modi differenti e sotto diverse prospettive, sembra esigere, per ragioni di interna coerenza e connessione del «materiale fenomenico» dell’esperienza percettiva, un qualche contributo dell’intersoggettività. Si potrebbe anzi affermare, con voluta paradossalità rispetto al punto di vista espresso da Husserl nella V Meditazione, che la «sfera primordiale» è nient’altro che una forma (incoativa) di «intersoggettività trascendentale»: le manifestazioni sono manifestazioni di un oggetto appunto in virtù del loro originario disporsi in un orizzonte di senso che non si lascia ricondurre univocamente alla mia «proprietà», ma l’ha già sempre oltrepassata in direzione di «altri». È dunque posta in questione alla radice la possibilità di isolare nel campo fenomenologico-trascendentale un’esperienza assolutamente privata, se deve trattarsi — come ritiene Husserl a proposito del «residuo» della riduzione primordiale — di un’esperienza di cose.83 Quest’ultima risulta marcata da una forma di intersoggettività che plasma totalmente la sua struttura intenzionale, tanto sotto il profilo noetico che noematico. Noeticamente, essendo il percepire un miscuglio di datità originale e intenzione vuota, il «vuoto» del rimando ad una mia percezione successiva è di per sé il «pieno» della percezione attuale che un altro soggetto (indeterminato) potrebbe effettuare; noematicamente, come già detto, la co-presenza «orizzontale» di differenti lati della cosa presuppone l’operazione costitutiva dell’intersoggettività, ed appare quindi impossibile declinare la prospetticità della percezione cosale in un’accezione rigorosamente solipsistica, tale cioè da escludere ogni implicazione di «pluralismo». Se dissociare la Dingerfahrung da qualsiasi intenzionalità di carattere intersoggettivo equivarrebbe in fondo a dissolverla, questo rilievo non può non condurci almeno a ridimensionare le pretese della riduzione primordiale e, corrispondentemente, a riconsiderare l’«estensione» del legittimo campo di applicazione dell’ipotesi husserliana del «solipsismo trascendentale».

Abbiamo già notato come Husserl non abbia sempre considerato la «riduzione primordiale» una necessità metodica stringente: nonostante essa trovi la sua collocazione naturale in una concezione «architettonica» della filosofia trascendentale, sarebbe errato legare le sorti della fenomenologia dell’intersoggettività nel suo complesso alla coerenza (o incoerenza) del progetto fondativo della V Meditazione. Di fatto, il ricco contributo analitico della riflessione husserliana sull’intersoggettività è in larga misura indipendente dalla nozione di «primordialità» come viene a volte tematizzata da Husserl, ovvero in termini di assoluta «proprietà»; tra l’altro, questa nozione è soggetta ad oscillazioni e riassestamenti, in alcune circostanze è acquisita in un senso molto più «debole» rispetto alle Meditazioni (fino ad includere, nel suo ambito, le stesse Einfühlungen dell’io!).84 In ogni caso, man mano che nell’analisi si accentua la funzione «sistematica» dell’intersoggettività, la sua inerenza strutturale al piano generale della costituzione, diventa sempre più urgente l’esigenza di determinare esattamente i limiti della sfera primordiale, il suo raggio operativo reale. Ad esempio, in un testo del 1932 l’affermazione della «primordialità» non figura come dato rigido, ma come problema dai contorni mutevoli, che come tale sollecita un supplemento di riflessione: «Mi domando fino a che punto giunga la costituzione ontologica (Seinssinnkonstitution) della primordialità, che io devo porre in luce astrattamente, sebbene naturalmente io sappia — e me ne sono convinto a fondo nella riflessione — che il senso ontico della natura estensiva non è costruito in modo puramente primordiale e gli altri per così dire collaborano costantemente con me […]. Ma se voglio comprendere come la validità ontica del senso di «altri» è costituita nei suoi fondamenti e fino a che punto la validità ed unità di validità primordiale (primordiale Geltung und Geltungseinheit) è fondante per la possibilità della percezione di altri, devo innanzitutto cercare di determinare in maniera adeguata la portata (Reichweite) della costituzione primordiale come fondamento di validità (Geltungsfundierung) […]» (Hu XV, 270-271). La consapevolezza sempre più acuta della necessaria «collaborazione» degli altri soggetti alla costruzione della mia esperienza del mondo doveva costringere Husserl a ripensare criticamente il significato e la portata dell’esperienza primordiale nel quadro di una fondazione fenomenologico-trascendentale dell’intersoggettività. Non è tuttavia agevole indicare con chiarezza il luogo testuale di un’autocritica esplicita, innanzitutto perché la «primordialità» subisce nei manoscritti del Nachlass non pochi slittamenti semantici, con esiti assai distanti dal radicalismo della V Meditazione (in vari contesti l’esperienza «primordiale» coincide con l’esperienza «originale», ma senza assumere una connotazione solipsistica in senso stretto); troviamo però una serie di spunti, approfondimenti, precisazioni che si accumulano in modo discontinuo entro la vasta sedimentazione teorica della fenomenologia dell’intersoggettività, e che permettono di superare o almeno problematizzare alcune unilateralità: giocando per così dire Husserl contro Husserl, in realtà mettendo a fuoco le molteplici dimensioni del suo pensiero trascendentale. Queste dimensioni non appaiono meno significative e stimolanti quando restano tendenziali e latenti, non adeguatamente sviluppate, oppure contrastano con altre affermazioni dell’autore che sembrerebbero reclamare un maggior peso in sede interpretativa.85

Alla luce della produzione «inedita» raccolta in Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, le indagini della V Meditazione costituiscono soltanto un tentativo di sintesi e di sistemazione, in quell’autentico laboratorio di ricerca che è stato per Husserl nell’arco di un trentennio la «fenomenologia dell’intersoggettività»: pur condotte con perizia magistrale, e capaci di dare una visione complessiva del disegno filosofico che le sottende, non possono essere considerate il referente principale della posizione husserliana, ma vanno sempre integrate nel più ampio contesto da cui emergono.86 Per quanto riguarda il problema in discussione, che ci ha portato a ravvisare la presenza di rimandi costitutivi all’intersoggettività persino all’interno della sfera primordiale dell’io, è di estremo interesse un passaggio testuale risalente ai primi anni ’20, in cui viene introdotta formalmente la nozione di «intersoggettività aperta»;87 dopo aver osservato che rimandi intersoggettivi sono presenti già al livello della costituzione originaria, passiva e pre-predicativa del campo fenomenico, e dunque anche nei casi più semplici della mia esperienza di oggetti, Husserl scrive: «Ogni oggetto, che mi sta di fronte agli occhi in un’esperienza e innanzitutto in una percezione, ha un orizzonte appercettivo, quello dell’esperienza possibile, propria ed estranea. Ontologicamente parlando, ogni manifestazione che io ho è fin dal principio membro di una sfera apertamente infinita, ma non esplicitamente realizzata, di possibili manifestazioni della stessa cosa, e la soggettività di queste manifestazioni è l’intersoggettività aperta (und die Subjektivität dieser Erscheinungen ist die offene Intersubjektivität)» (Hu XIV, 289).

Qui, l’«intersoggettività aperta» si configura chiaramente come il senso stesso della cosa, la sua semantica ontologica originaria: se le manifestazioni sono fin dal principio inserite in una rete infinita di rimandi ad altri possibili soggetti, non è più possibile parlare di un’esperienza «privata» (esclusivamente «mia») della cosa. In qualche modo, il «solus ipse trascendentale» non merita questo nome, dobbiamo prendere atto che la struttura orizzontale degli oggetti dell’esperienza (e, in primo luogo, della percezione) è propriamente la loro apertura intersoggettiva; l’«orizzonte intenzionale», correttamente esplicitato, non solo esibisce l’infinità delle manifestazioni della cosa, la ricchezza inesauribile delle prospettive, ma la correla in un nesso formale apodittico con l’infinità dei soggetti possibili. In termini differenti, la «cosa» è costituita come unità sintetica delle mie esperienze reali e possibili e di quelle di ogni reale e possibile altro. L’«intersoggettività» è dunque la verità della cosa: «La cosa è una regola per le manifestazioni. Ciò significa: la cosa è una realtà in quanto unità di una molteplicità di manifestazioni che sono connesse in modo regolato. E questa unità è un’unità intersoggettiva» (Hu IV, 86). Nella fenomenologia trascendentale, l’altro, la cosa, il mondo formano una connessione inscindibile, ma anche un sistema dinamico i cui membri sono in continua interazione e si modificano reciprocamente. Come chiarisce Husserl in uno scritto del 1929, ogni volta che un nuovo soggetto entra nel mio campo di esperienza, il senso ontologico del mondo nel suo complesso si modifica e si arricchisce, la mia esperienza del mondo rimodula il suo stile in maniera conforme; ma tutto ciò non sarebbe possibile se l’essere mondano non avesse in se stesso la marca dell’intersoggettività: «Tutto l’essere mondano è costituito intersoggettivamente. La costituzione dell’intersoggettività e del mondo intersoggettivo è costantemente in marcia (die Konstitution der Intersubjektivität und intersubjektiven Welt ist beständig auf dem Marsch) e ha un orizzonte corrispondente, in cui essa vale preliminarmente per me in quanto assume un senso intersoggettivo sempre nuovo, in relazione a nuovi soggetti-io (Ichsubjekte). […] Io potrei anche dire: il senso del mondo essente per me, come mondo della mia esperienza, della mia vita trascendentale, non è mai concluso (fertig), è un senso aperto all’infinito. Esso si forma ininterrottamente nel progresso della mia esperienza, ma non solo della mia esperienza primordiale, ma anche, e in maniera del tutto diversa, attraverso l’esperienza empatica di altri» (Hu XV, 45).

Oltre a tracciare le linee della fondazione trascendentale di un’ontologia pluralistica, che risolve l’apparente fissità del senso dell’essere in un processo infinito cui attivamente partecipano sempre nuovi soggetti, questo passaggio husserliano ci mostra chiaramente come ogni ampliamento possibile della sfera intersoggettiva sia prescritto già dall’inizio nella forma di un orizzonte intenzionale indeterminato.88 Questo orizzonte indeterminato, ma determinabile, è ciò che Husserl altrove chiama «intersoggettività aperta» o «apriori intersoggettivo», ed è inseparabile dalla compagine di senso in cui si costituisce ogni essere mondano; si tratta qui di una struttura formale che apre il senso fenomenologico dell’oggettività come tale, e pertanto essa non ci parla solo di un alter ego o di una molteplicità determinata di soggetti di cui possiamo avere realmente esperienza, bensì innanzitutto della totalità indeterminata («infinita», «infinitamente aperta») dei soggetti possibili nella misura in cui ognuno di essi è un centro relativamente indipendente e comunque necessario per la costituzione del mondo oggettivo. Spiega Husserl: «Ora si comprende in che senso devo dire: io sto tuttavia sullo stesso piano dell’altro come co-portatore costitutivo del mondo (Ich stehe doch jedem Anderen als konstituierendem Mitträger der Welt gleich). Così come me stesso, anche ogni altro è necessario per l’esserci del mondo, di quello stesso mondo che per me è il mondo reale, oggettivo. Non posso ignorare l’esistenza di nessuno, se non voglio rinunciare a questo mondo (Keinen kann ich wegdenken, ohne diese Welt preiszugeben). Non si può ignorare nessun altro soggetto già determinato, e implicitamente nessun altro soggetto anticipato nell’apertura di senso dell’orizzonte, sebbene indeterminato» (Hu XV, 46).

Ma se l’apertura infinita dell’intersoggettività, come correlato dell’unità del mondo, non è un semplice dato dell’esperienza, ma un presupposto trascendentale che condiziona e rende possibile la continuità e la connessione degli elementi dell’esperienza in un sistema,89 che cosa rimane della distinzione tra «fenomenologia egologica» e «fenomenologia intersoggettiva»? Quale valore si deve attribuire alla dimensione metodologica del solipsismo trascendentale, una volta appurato che la riduzione primordiale non mantiene tutte le sue promesse, nella misura in cui il suo autentico «residuo» non può consistere in una (inattingibile) «soggettività pura»? Se la più modesta delle percezioni oggettuali reca in sé, indelebilmente, la traccia dell’«estraneità» nella forma indeterminata dell’intersoggettività aperta, come parlare di una Ding-erfahrung che non sia al tempo stesso, e necessariamente, Fremd-erfahrung? I rapporti fondativi tra «soggettività» e «intersoggettività» sul terreno trascendentale diventano assai più ingarbugliati e, in qualche caso, sembrano addirittura rovesciarsi: alla luce delle ultime considerazioni, il solus ipse non è tale in ogni senso e sotto tutti gli aspetti; c’è infatti una dimensione intersoggettiva dell’esperienza che resiste ad ogni tentativo di «riduzione» alla mia sfera trascendentale di proprietà. Anziché dire, come fa spesso Husserl, che la riduzione primordiale costituisce uno strato elementare sul quale viene poi ad innestarsi l’intersoggettività attraverso il contributo operativo della Fremderfahrung, non dovremmo invece riconoscere che in qualche modo la stessa sfera appartentiva o primordiale del soggetto si fonda sull’intersoggettività aperta? Se ciò corrispondesse a verità, quali conseguenze ne deriverebbero rispetto alla «coerenza architettonica» della filosofia trascendentale husserliana?

4. L’«impossibilità del solipsismo» e i due problemi fondamentali della teoria husserliana dell’intersoggettività

Un’analisi dettagliata di questo plesso di questioni richiede una trattazione a parte, possediamo però gli elementi per un primo bilancio teorico. Innanzitutto, si deve riconoscere che l’«intersoggettività aperta», quale è emersa da alcune indicazioni di Husserl, solleva effettivamente un problema di coerenza interna della fenomenologia trascendentale, in un punto decisivo del suo programma: se infatti l’intersoggettività «inabita» la stessa sfera appartentiva dell’io, la riduzione primordiale — nel senso letterale di una «astrazione da tutti i prodotti costitutivi dell’intenzionalità riferita mediatamente o immediatamente alla soggettività estranea» (MC, 116) che Husserl esplicitamente persegue nella V Meditazione e in Logica formale e trascendentale — si rivela impossibile, e il ruolo del «solus ipse trascendentale» per la fondazione dell’intersoggettività va sicuramente ridiscusso. Uno strato di «esperienza pura», esclusivamente soggettiva, non è fenomenologicamente conseguibile, neppure a titolo ipotetico; la sfera primordiale presenta una curvatura intersoggettiva che non può essere ulteriormente «ridotta», cioè — in questo caso — ricondotta a qualcosa di più semplice, ad un nucleo fenomenico sottostante. L’intersoggettività aperta è una struttura formale originaria, è l’«apriori intersoggettivo»: come tale, e in questo significato preciso, l’«intersoggettività» non corrisponde ad un tema fenomenologico particolare, più o meno importante, ma costituisce una meta-categoria che attraversa tutte le dimensioni della fenomenologia trascendentale (compresa quella «primordiale») .90 Essa fornisce la conoscenza apodittica di un nesso strutturale, che sul terreno argomentativo può essere riformulato nel modo seguente: se si dà l’esperienza di un mondo (e di oggetti nel mondo), questa esperienza è necessariamente intersoggettiva (un presunto «mondo» da cui sia assente qualsiasi riferimento intenzionale intersoggettivo è, dal punto di vista fenomenologico, un «nulla di mondo», un non-mondo).

Il mondo è, per il suo stesso senso, il polo ontologico di un’intenzionalità plurale, è strutturalmente «aperto» alla molteplicità (infinita) dei soggetti, sul piano formale esso è nient’altro che questa illimitata apertura intersoggettiva dell’esperienza possibile.91 La riduzione primordiale non può offrire un residuo di soggettività pura, più di quanto non possa esibire un oggetto percettivo privo di orizzonte intenzionale: entrambe sono impossibilità fenomenologiche radicali, pur essendo concepibili «logicamente» (il concetto di una «percezione esterna priva di orizzonte intenzionale» non contraddice infatti una qualche legge del pensiero, ma è «effettivamente assurdo» alla luce di una struttura eidetica che, connettendo apoditticamente ogni percezione cosale ad un orizzonte intenzionale e ad altre possibili percezioni, non può essere smentita o «falsificata» da alcuna esperienza).92 Naturalmente, occorre leggere nei margini meno illuminati dell’analisi husserliana dell’«esperienza primordiale», per recuperare, spesso al di là delle intenzioni esplicite dell’autore, questa connessione di senso. Ad esempio, nel passaggio che riportiamo Husserl sembra ben consapevole che la perdita del riferimento inter-soggettivo, a seguito di una riduzione «egologica» o «solipsistica» dell’esperienza fenomenologica, conduce ad una radicale contrazione dell’orizzonte mondano e, in ultima analisi, ad una perdita di mondo (e delle strutture ontologiche correlative) da parte della soggettività esperiente: «Se io opero la riduzione alle esperienze originali nel senso più stretto della mia esperienza originale ridotta egologicamente o solipsisticamente (egologisch oder solipsistisch), allora ottengo certo un apriori, ma non un apriori di mondo; il mondo è il mondo che esiste in sé, per tutti» (Hu XIV, 385). D’altra parte, nello stesso testo la possibilità della riduzione egologico-solipsistica non viene affatto messa in discussione e l’annotazione husserliana potrebbe riferirsi, più verosimilmente, ad una condizione ancora «naturale», pre-trascendentale: il mondo come tale «esiste in sé, per tutti», ma questa certezza dell’atteggiamento naturale rimane ingenua finché non venga ricollocata e riformulata nel linguaggio del trascendentale, dopo essere stata sottoposta al vaglio critico della «riduzione fenomenologica». Ma indagare fenomenologicamente il senso di un’asserzione «naturale» come quella sull’intersoggettività dell’esperienza del mondo è cosa assai diversa dal ricercare una presunta sfera «solipsistica» come Urgrund della costituzione. In realtà, tra i due obiettivi non sussiste alcuna implicazione necessaria: se il primo di essi è la semplice espressione dell’atteggiamento fenomenologico-trascendentale, che riflette un’esigenza e non ci impegna ancora sul piano dei contenuti, il secondo appare già legato ad un’opzione filosofica molto più netta, nell’assunzione tacita (e, come tale, indiscussa) che per comprendere il senso dell’intersoggettività dobbiamo prima isolare la soggettività fenomenologica nella sua purezza soggettiva.93 Ora, proprio questa riduzione del campo dei fenomeni alla «soggettività pura» si è mostrata impraticabile, e dunque occorre prendere Husserl assolutamente sul serio quando afferma l’inerenza strutturale dell’oggetto intenzionale alla totalità dei soggetti come forma originaria della mia esperienza di esso, già a livello di percezione sensibile: «L’oggettività mondana come correlato di questo atteggiamento abituale della mia esperienza, come esperienza che si svolge nella dimensione intersoggettiva (ins Intersubjektive durchzuführender Erfahrung), ha una forma categoriale oggettivo-soggettiva, la forma fondamentale dell’accessibilità e verificabilità intersoggettiva (die Grundform der intersubjektiven Zugänglichkeit und Bewährbarkeit), una relatività essenziale ad ogni soggetto (zum Jedermann), che dal suo canto sta in connessione essenziale con me, che di volta in volta lo esperisco e lo conosco» (Hu XIV, 444).

Rimane allora da stabilire in quale misura il «solus ipse trascendentale» rappresenti una possibilità fenomenologica genuina e non piuttosto un evidente punto debole della filosofia husserliana dell’intersoggettività, come le ultime considerazioni parrebbero suggerire. Qual è, in definitiva, il solus ipse che può reggere il confronto con i dati fenomenologici e le loro regole? Fin dove può inoltrarsi quella «solitudine del cogito» che già in Descartes doveva marcare una zona di evidenza indubitabile del campo cognitivo e che su Husserl sembra talora esercitare suggestioni altrettanto potenti? Certamente, la scoperta husserliana dell’intersoggettività aperta come struttura onnipervasiva dell’esperienza fenomenologica di oggetti, come «apriori intersoggettivo» che articola la stessa sfera appartentiva dell’io e rende possibile ogni percezione cosale, pone un limite radicale e invalicabile all’esperimento solipsistico, come può essere condotto sul terreno fenomenologico-trascendentale; in altre parole, per quanto possa concepirsi «solo», prescindendo dall’esistenza di altri soggetti, «astraendo» dal concreto universo intersoggettivo, il soggetto trascendentale fenomenologico non può tuttavia «astrarre» dal senso degli altri soggetti, dall’alterità come tale, se non vuole precludersi la comprensione di e del suo mondo. La scena primaria del soggetto è, fenomenologicamente parlando, una scena intersoggettiva;94 anche un mondo del tutto privo di altri soggetti, in cui sarei di fatto l’unico io esistente, l’unico polo soggettivo reale della percezione e dell’esperienza, rimarrebbe un mondo abitato e compenetrato dal senso dell’intersoggettività. Come abbiamo visto, esperire una semplice cosa in quanto cosa (identica nelle sue variazioni prospettiche) significa già entrare in un gioco differenziale di rimandi che incrina immediatamente l’unicità e l’univocità del «riferimento egologico», significa già disporsi (come soggetto dell’esperienza) lungo le linee di forza del campo trascendentale dell’intersoggettività aperta: il mondo è «pluralistico» non perché di fatto vi siano molteplici soggetti che di esso hanno esperienza, bensì, più radicalmente, perché il senso dell’essere (o, meglio, il senso del mondo come orizzonte ontologico) esige di per sé, essenzialmente, l’infinita pluralità dei soggetti (reali e possibili) .95

Sotto questo profilo, il solus ipse trascendentale non può essere il soggetto di un’esperienza percettiva totalmente privata, perché un’esperienza del genere non si dà affatto, è fenomenologicamente inconfigurabile, e dunque neppure può fornire la base intenzionale per la costituzione dell’intersoggettività.96 La «riduzione primordiale» della V Meditazione, con il suo radicalismo della proprietà, arriva sempre troppo tardi: lungi dal «precedere» (quanto al senso) la dimensione fenomenologica dell’estraneità, la sfera appartentiva appare piuttosto un effetto secondario che, senza avvedersene, ha alle proprie spalle il lavoro costitutivo dell’intersoggettività aperta, dalla quale emerge, per così dire, «a cose fatte» (après coup). Se, dunque, la percezione cosale (Dingwahrnehmung) è di per sé un’esperienza dell’estraneo (Fremderfahrung), e questa connessione è valida indipendentemente dalla questione fattuale dell’esistenza di altri soggetti, ne dobbiamo concludere che la pretesa «purezza» del mondo primordiale risulta in realtà già sempre contaminata dall’alterità, già sempre strutturata intersoggettivamente. L’«altro» è nel cuore stesso della soggettività trascendentale in quanto essa è «vita che esperisce il mondo» (welterfahrendes Leben):97 un atteggiamento solipsistico condotto alle ultime conseguenze, cioè ad una soglia di astrazione così radicale da rendere impensabile non solo la realtà degli altri, ma anche la loro possibilità, ci darebbe come residuo non la «monade» che Husserl descrive nei primi paragrafi della V Meditazione (e che, come abbiamo visto, è soggetto di un «mondo»), ma un soggetto senza mondo. Di fatto, il solipsismo assoluto spezza in qualche punto quel nesso di implicazione tra soggettività, temporalità, corporeità e cinestesi che la fenomenologia della percezione ci ha rivelato e che solo rende possibile il darsi di un mondo e di cose. La «costituzione del mondo» (Weltkonstitution) come compito centrale della fenomenologia trascendentale è dunque, di necessità, una costituzione intersoggettiva: ad ogni livello dell’esperienza fenomenologica l’alter ego è il soggetto co-fungente della donazione di senso.98 L’intenzionalità trascendentale che apre l’io alla «trascendenza» del mondo è la stessa struttura che lo de-assolutizza, rivelandolo prospettico e finito, come tale bisognoso dell’altro (anche da un punto di vista puramente cognitivo, e persino nell’ipotesi che non esista alcun alter ego reale) .99

A questo punto, come si accennava, la rigida distinzione tra fenomenologia «egologica» e fenomenologia «intersoggettiva» dovrebbe perdere ogni consistenza descrittiva. È allora inevitabile, almeno in prima battuta, porre una seria riserva critica sull’intera fenomenologia husserliana dell’intersoggettività, nel suo percorso metodologico; in particolare, naufragato il progetto di far valere in maniera letterale le istanze della riduzione primordiale, sembrerebbe altrettanto votato al fallimento il tentativo di costituire l’alter ego «mediatamente», tramite l’Einfühlung. Se la stessa esperienza del solus ipse (trascendentale) è attraversata, da parte a parte, da quella intenzionalità al plurale che prende il nome di «intersoggettività aperta», non è più possibile dire che la Paarung, l’incontro percettivo reale con un altro corpo organico, sia il fondamento originario cui ricondurre, tout court, ogni senso pensabile di «estraneità». Al contrario, Paarung e Einfühlung «presuppongono», come condizione della loro possibilità e del loro concreto esercizio, l’orizzonte trascendentale dell’intersoggettività aperta; come «apriori intersoggettivo» del mondo fenomenico, l’intersoggettività aperta è una trama più originaria di ogni concreta Fremderfahrung, più «antica» (quanto al senso) di ogni effettivo incontro con un alter ego. In alcuni testi degli anni ’30 (non ancora pubblicati nelle Gesammelte Werke), in una fase di intensa rielaborazione dell’orizzonte sistematico della fenomenologia, Husserl sembra scorgere più chiaramente il fondo aporetico della «riduzione primordiale», problematizzando l’ottica delle Meditazioni ed aprendosi ad una riconsiderazione critica del ruolo dell’Einfühlung che di per sé equivale ad una contestazione radicale del paradigma solipsistico: «Io esperisco la comunità con l’altro (Gemeinschaft mit dem Anderen) nell’appresentazione empatica (in einfühlender Appresentation), come parallelo della rimemorazione (Wiedererinnerung). Se la rimemorazione ha luogo, allora la continuità del mio passato, nel mio costante auto-oblio (Selbstdeckung), nella costante ritenzione, è già in gioco (schon da), presupposta, come fondamento (Untergrund). Se entra in scena l’empatia, è anche forse già in gioco la comunità, l’intersoggettività, e l’empatia è quindi soltanto un’operazione di disvelamento (bloss enthüllendes Leisten)?» (Ms. C 17 84 b). Nel seguito del testo, la risposta di Husserl è senz’altro positiva; il parallelismo tra temporalità e intersoggettività si regge comunque sulla convinzione che solo un’intenzionalità anonima già sempre fungente possa «giustificare» (sul piano delle condizioni trascendentali) il darsi di un’esperienza di differenza, in forma esplicita e tematica, senza che il processo giustificativo si involga in un’argomentazione circolare o conduca ad un regresso infinito. Da questo punto di vista, la vita soggettiva non ammette fratture o discontinuità radicali; come l’io si coglie nel tempo solo in quanto è, alla sorgente, «temporalità»,100 e l’identificazione ritenzionale dell’io attuale con il proprio passato ha già sempre avuto luogo, così si deve assumere che l’apertura intersoggettiva dell’io sia da sempre «aperta», in quanto l’io è, originariamente, «intersoggettività»: l’Einfühlung non può dunque creare questa apertura, ma solo illuminarla ed articolarla. Diversamente, l’«altro» non sarebbe integralmente trascendentale, non sarebbe origine del senso anche per un io «solitario» come quello della sfera primordiale.

Il fungere dell’intersoggettività aperta, di una dimensione intersoggettiva tanto più donatrice di senso quanto meno risulta dipendente dal fatto della relazione io-tu, si rivela a Husserl in strati sempre più profondi (e, apparentemente, «solipsistici») della vita del soggetto. Se in precedenza l’accento cadeva sulla (pluri) prospetticità della cosa spaziale, sulla costitutiva impossibilità di racchiudere in un cerchio puramente soggettivo la dinamica della percezione esterna, ora è l’analisi fenomenologica della mia temporalità originaria a manifestare strutturali implicazioni intersoggettive; in particolare, la «presenza vivente» (lebendige Gegenwart)^[101] dell’io nell’apertura ritenzionale e protenzionale che la caratterizza è, in se stessa, «co-presenza» (Mitgegenwart), dapprima in modo anonimo, ma necessariamente. In un passo molto denso ed anche linguisticamente intricato, si delinea il concetto dialettico-fenomenologico dell’«alterità in se stessi» come coappartenenza originaria del tempo e dell’altro, nella caratterizzazione «estatica» della mia coscienza trascendentale: «L’altro è co-presente in me (Der Andere ist in mir mitgegenwärtig). Io assolutamente, in quanto presenza vivente, fluente, esistente, concreta, ho la presenza dell’altro come co-presenza, manifestantesi appresentativamente in me, ma anche manifestando l’altro come un io che ha in se stesso me, costituito nella sua presenza vivente nel modo della co-presenza (in seiner lebendigen Gegenwart konstituiert in der Weise der Mitgegenwart)» (Ms C 3, III, 44 b). Deve perciò esistere una struttura intersoggettiva associata alla coscienza temporale, che immediatamente conduce il mio presente oltre se stesso, non solo protenzionalmente verso il futuro, ma appresentativamente verso altri.101

Non c’è quindi dubbio che sul terreno fenomenologico-trascendentale i rapporti fondativi tra «solipsismo» e «intersoggettività» debbano essere, almeno in parte, ridisegnati. In particolare, lo schema costitutivo «lineare» proposto da Husserl nelle Meditazioni cartesiane e in Logica formale e trascendentale (ma anche in numerose pagine degli inediti) non risulta convincente:102 rispetto all’intenzionalità fenomenologica realmente in gioco, non si dà un «passaggio» (certo graduale e articolato) da una condizione solipsistico-trascendentale, in cui l’«estraneità» è completamente assente, ad una intersoggettività pienamente dispiegata, attraverso il contributo dell’Einfühlung come esperienza di un alter ego reale (dato «in carne e ossa») .103 Quanto al senso, l’apertura intersoggettiva della mia vita esperiente è già in gioco, in maniera anonima e atematica, fin dal primo costituirsi di un campo strutturato di fenomeni; è su di essa che si fonda la possibilità di distinguere (percettivamente) una cosa dalle sue manifestazioni, e di afferrare (riflessivamente) un io lungo la scansione temporale del flusso di coscienza. In parole diverse, prima di essere un altro realmente esperito, qui ed ora, l’«altro» è nelle pieghe interne della soggettività come temporalità, nella sintassi del mondo percepito, nell’intreccio dinamico di «latenza» e «manifestazione» entro il quale soltanto le cose possono essermi date. In un altro manoscritto, sottolineando di nuovo il carattere astrattivo della riduzione primordiale, Husserl formula più chiaramente che altrove l’importante asserzione che l’unità del mondo non scaturisce dalla sintesi delle differenti «primordialità», dalla messa in comune di contesti esperienziali privati, ma è come tale intersoggettiva: «Naturalmente il mondo non si compone di mondi ridotti primordialmente. Ogni primordialità è il prodotto di una riduzione, da un senso costituito intersoggettivamente e generativamente, il senso d’essere deriva dall’esperienza intersoggettivamente concordante di ciascuno, un’esperienza che ha già un rimando di senso all’intersoggettività (schon auf die Intersubjektivität Sinnbeziehung hat). La mia esperienza come esperienza del mondo (dunque già ognuna delle mie percezioni) non solo include gli altri come oggetti mondani, ma sempre in co-validità ontologica gli altri come co-soggetti, come co-costituenti, ed entrambi questi aspetti sono inseparabilmente connessi (beides ist untrennbar verflochten)» (Ms C 17 36 a).

Ma questa presenza di rimandi intersoggettivi nella fenomenologia del tempo e della percezione ci mostra ancora una volta che la teoria dell’Einfühlung non può, per ragioni di principio, farsi carico della costituzione dell’intersoggettività nel suo complesso.104 Il fenomeno concreto dell’alter ego, che entrando nel mio campo percettivo non vi si esaurisce, non ha esclusivamente il senso di ciò che è «vissuto», ma è esso stesso origine, «presenza vivente», attività disvelativa e costitutiva dell’«orizzonte totale», si staglia su uno sfondo già intersoggettivo che potremmo anche definire (con un termine non husserliano) differenza fenomenologica: la «differenza» tra la cosa e le sue manifestazioni, quella tra il mondo e le cose, e la stessa «differenza» dell’io da se stesso nella temporalizzazione incessante della propria vita, chiamano in causa l’intersoggettività, la relazione con altri, secondo forme e limiti che occorrerà determinare con maggiore rigore. Lavorare criticamente su questo terreno potrebbe essere molto produttivo sia da un punto di vista storiografico che, soprattutto, teoretico: da un lato, apparirebbe nella giusta luce il debito contratto nei confronti di Husserl dalle principali teorie fenomenologiche e post-fenomenologiche della «relazione», dell’«alterità», anche quando esse siano animate da un’espressa volontà di distacco dalla prospettiva trascendentale; d’altro canto, sottolineare radicalmente come l’intersoggettività non sia, in ultima analisi, un problema, ma il problema della fenomenologia husserliana nella sua formulazione più matura e compiuta, condurrebbe a ridimensionare certe interpretazioni «gnoseologizzanti» del pensiero trascendentale di Husserl, e a coglierne l’intima tensione etica, ben presente non solo (com’è ovvio) nelle analisi dedicate alla fenomenologia della «ragione pratica»,105 ma anche nel confronto serrato con le tematiche della monadologia, della generatività, della storicità, della metafisica che emerge a più riprese negli scritti sull’intersoggettività.

Tornando ora alla questione che ci ha impegnato a lungo in queste pagine ed avviandoci ad una conclusione, proviamo a scrutare più da vicino l’ambiguità di fondo che pervade la fenomenologia husserliana dell’intersoggettività e che è all’origine di non poche critiche, talvolta di veri e propri fraintendimenti. La pretesa di fondare l’«intersoggettivo» sul «puramente soggettivo», sia pure solo in prospettiva metodologica, si è rivelata priva di sbocco e anzi, nel suo impasse, ci ha costretto a rivedere la gerarchia implicita: plasmata da una forma di intersoggettività, la «sfera primordiale» non può essere quel dominio di assoluta proprietà che Husserl richiedeva. D’altra parte, le analisi husserliane vanno ben oltre questo impasse e sembrano possedere gli elementi decisivi per ripristinare una coerenza complessiva del discorso: forse sarebbe sufficiente rovesciare il rapporto di fondazione stabilito così chiaramente da Husserl nelle Meditazioni cartesiane, rinunciando completamente all’ipotesi del «solus ipse trascendentale», negando ogni funzione esplicativa all’io monadico, e affermando senza alcuna esitazione che l’intersoggettività precede la soggettività, il «noi» è (fenomenologicamente e ontologicamente) più originario dell’«io».106 Del resto, questo esito è in larga misura presente nello stesso Husserl, a volte con formulazioni molto radicali, che in maniera problematica coesistono con un approccio di tipo più tradizionale, «egologico». E tuttavia, liquidare la questione fenomenologica del solus ipse come un mero residuo dell’impostazione cartesiana del problema della soggettività ci appare un’operazione affrettata, e anche semplicistica, se non vengono in luce le ragioni che hanno spinto Husserl a discorrere, fino all’ultimo, di una necessità del solipsismo (quanto meno come «apparenza trascendentale») .107

Per quanto possiamo vedere, l’«ambiguità» della teoria husserliana dell’intersoggettività deriva non solo da oscillazioni interne (che indubbiamente vi sono, e sono state spesso rilevate), ma innanzitutto dalla distinzione (non sempre chiara) dei livelli costitutivi della Fremderfahrung. Di fatto, sotto il titolo di «esperienza dell’estraneo» è indicato un intero campo di questioni, tutte di rilevanza trascendentale, alcune delle quali soltanto sfiorate dal nostro discorso e altre rimaste fuori considerazione; ma argomentando in termini di macro-livelli dell’intersoggettività trascendentale, è importante distinguere rigorosamente la «Fremderfahrung» come concreta esperienza di un altro essere incarnato dalla «Fremderfahrung» come piega intersoggettiva autonoma assunta per ragioni strutturali da ogni esperienza di oggetti, compresa quella primordiale. Se della «Fremderfahrung» nella prima accezione Husserl ha sviluppato numerosissime analisi e dato vita ad una ricca gamma di variazioni tematiche (al punto che l’identificazione della fenomenologia dell’intersoggettività con la teoria dell’Einfühlung — soprattutto nell’esposizione delle Meditazioni cartesiane — è ancora oggi piuttosto comune), della Fremderfahrung nella seconda accezione, quella dell’«apriori intersoggettivo», non esiste una trattazione diffusa, bensì un’ampia serie di spunti e riflessioni. Quando nei testi husserliani le due dimensioni si intrecciano e confondono, si radicalizza il profilo aporetico della fenomenologia dell’intersoggettività, secondo un doppio movimento: se, da un lato, il fondamento trascendentale dell’intersoggettività non può certamente essere la sola Einfühlung, è anche vero che individuare questo fondamento nel puro apriori intersoggettivo rischia di ridurre l’intersoggettività fenomenologico-trascendentale ad una «vuota» struttura di validità, relegando in secondo piano (o addirittura nel campo dell’«empirico») tutte quelle analisi concrete della relazione io-tu-noi che rappresentano forse il contributo più originale della filosofia husserliana del «soggetto».108

È allora chiaro come una possibile soluzione dell’aporia debba passare per il riconoscimento del carattere strettamente funzionale (non «sostanziale») del trascendentale fenomenologico; il problema della «costituzione dell’intersoggettività» non è infatti univocamente definito, ma si scinde necessariamente nei due problemi fondamentali — correlati, ma ben distinti — dell’«apriori intersoggettivo» e della «(inter) soggettività trascendentale concreta». Con «apriori intersoggettivo» (in senso eminente) vogliamo designare qui la nozione di «intersoggettività aperta», che rappresenta il livello costitutivo più originario e «formale» della soggettività fenomenologica in quanto essa è, e non può non essere, intenzionalità, esperienza-del-mondo (in tutta la ricchezza delle sue possibilità operative e manifestative); come si è visto, questo livello costitutivo non riguarda unicamente la «relazione intersoggettiva» nel suo significato più comune, ma fonda la stessa possibilità di configurare un soggetto «solo»: ancor prima di sapere se degli «altri» esistano, se ne avrà mai realmente esperienza, il fenomenologo può afferrare in evidenza il nesso che lega l’unità del mondo alla pluralità aperta dei soggetti costituenti, riconoscendo quindi che il senso della soggettività è l’intersoggettività, l’essere-nel-mondo è, alla radice, essere-con-altri (certo in un significato diverso da quello heideggeriano).109 Un tratto notevole di questa «deduzione fenomenologico-trascendentale» dell’intersoggettività, rispetto ad analoghi argomenti diretti a stabilire un primato del «noi» sull’«io», sta proprio nell’aver portato a dissoluzione interna l’ipotesi del solipsismo assoluto: quest’ultima viene assunta come ipotesi seria, con cui vale la pena di misurarsi a fondo nella discussione filosofica, e dalle difficoltà insuperabili che si oppongono ad una coerente esecuzione della «riduzione primordiale» emerge più nettamente l’impossibilità di costituire un mondo privato, al di fuori della rete semantica tessuta dall’apriori intersoggettivo.

Naturalmente, parlare di apriori intersoggettivo come struttura necessaria dell’esperienza del mondo non significa affermare che l’esistenza degli altri soggetti sia in qualche modo «deducibile» da questa struttura; tra l’intersoggettività aperta e la realtà effettiva degli altri c’è uno scarto che non può essere colmato se non dall’esperienza (nella sua concretezza, la Fremderfahrung è un’esperienza sensata, motivata, ma essenzialmente fallibile, incapace di esibire certezze assolute). Di per sé, l’apriori intersoggettivo non dice nulla sull’esistenza del mondo e di altri, tanto meno può darne una dimostrazione, ma, come abbiamo visto, si limita ad esprimere formalmente, sul piano delle condizioni di possibilità, il seguente nesso fenomenologico-trascendentale (apodittico): se esiste un mondo, un’unità dell’esperienza possibile, l’intersoggettività ne costituisce il senso, il tema semantico originario. Rispetto alle forme più classiche della filosofia trascendentale, l’originalità e radicalità di questa prospettiva non richiede di essere ulteriormente sottolineata; tuttavia, anche nei confronti delle nuove versioni del «trascendentalismo» (o «post-trascendentalismo») che, sotto l’influsso di Heidegger e Wittgenstein, hanno posto in luce il carattere strutturalmente linguistico della nostra apertura al mondo e agli altri, articolando per certi versi un nuovo paradigma nella teoria dell’intersoggettività,110 la fenomenologia husserliana presenta un’impostazione peculiare, che potremmo definire «dal basso» (von unten auf):111 la struttura intersoggettiva, pluralistica dell’essere-nel-mondo non si manifesta chiaramente solo nell’orizzonte universale del linguaggio, nella plasticità e inesauribilità delle forme linguistiche che tessono la trama dei rapporti umani, ma anche nel campo dei fenomeni percettivi, nella dimensione del sensibile, nel semplice darsi di una cosa secondo «prospettive». Parafrasando Wittgenstein, come non può esistere un linguaggio privato, così non può esistere una percezione (puramente) privata:112 l’«identità» del reale è intersoggettiva all’origine; la «differenza» non è un effetto di linguaggio, è il modo di darsi della cosa stessa; l’«altro» non integra la mia esperienza del mondo, la rende possibile.

Queste tesi, che possono suonare estremamente lontane dalla lettera e dallo spirito della filosofia husserliana, scaturiscono in maniera naturale da una riflessione sui limiti della riduzione primordiale, cui lo stesso Husserl ci conduce nel suo percorso analitico: l’intersoggettività aperta, pienamente valorizzata, funge come attestazione rigorosa dell’impossibilità del solipsismo assoluto e, in questo quadro, Husserl ha il merito di separare più chiaramente il problema filosofico dell’alterità come problema del senso dalla questione riguardante l’esistenza, la presenza concreta di soggetti diversi da me e in relazione con me.113 Se, come abbiamo visto, la dimensione intersoggettiva è operante e «irriducibile» anche in una situazione di (fattuale) solitudine dell’io, la conseguenza filosofica radicale che dobbiamo trarne è che l’essere stesso si dà intersoggettivamente (neppure il solus ipse trascendentale, ovvero il soggetto di quella esperienza che Husserl chiama «appartentiva» o «primordiale», si sottrae alla connessione universale). In altre parole, ogni cosa nell’orizzonte del mondo non si scompone in un’infinità di prospettive perché vi sono di fatto molteplici soggetti esperienti; al contrario, la possibilità che vi siano molteplici soggetti è fondata essa stessa nella costituzione pluriprospettica (o «pluralistica») della cosa, e dunque la molteplicità delle coscienze esistenti non produce ma rivela l’intersoggettività del senso d’essere del mondo. Ben difficilmente il carattere filosofico-trascendentale dell’intersoggettività come onnipresente condizione di possibilità dell’esperienza e del discorso avrebbe potuto ricevere una sottolineatura più netta.

Veniamo ora al secondo problema fondamentale della fenomenologia dell’intersoggettività, quello della «intersoggettività trascendentale concreta». Con questo termine, ci riferiamo ad un campo di indagine diverso dal puro apriori intersoggettivo, dalla struttura formale pluralistica che caratterizza ogni esperienza di oggetti; ciò che si prende qui in considerazione è la relazione concreta tra due (o più) soggetti concreti, nelle sue differenti forme e modalità. Come sappiamo, il nucleo originario di questa relazione è l’Einfühlung, una «presentificazione» dei vissuti dell’altro che si innesca nella mia coscienza solo in presenza di un secondo corpo organico, spazialmente accoppiato al mio corpo (Paarung). La relazione empatica tra due ego incarnati, che ha sempre attirato l’interesse principale di Husserl in tema di intersoggettività, presuppone l’apriori intersoggettivo, ma ciò ovviamente non significa che la fenomenologia dell’Einfühlung ricada nell’ambito dell’empirico, del meramente «fattuale», privo di implicazioni trascendentali rilevanti. Al contrario, proprio perché la «riflessione trascendentale» in Husserl non muove dalle forme del giudizio, da prodotti linguisticamente strutturati, più o meno complessi, ma direttamente dalla Lebenswelt, dagli atti e dai vissuti di un «io» che ha nel mondo il suo orizzonte di comprensione e il terreno stabile della sua prassi, la dimensione intersoggettiva può finalmente essere esplorata in maniera integrale, dando piena legittimità filosofica ad aspetti e strutture della vita del soggetto per lo più trascurati dalla tradizione. Come appare evidente a chiunque abbia un minimo di consuetudine con i testi husserliani, l’«intersoggettività fenomenologico-trascendentale» non è il titolo di un programma ambizioso destinato a rimanere vuoto, ma è il portato di un continuo lavoro analitico; da questo punto di vista, l’accento posto sull’apriori intersoggettivo non deve in alcun modo indurci a collocare sullo sfondo le analisi della (inter) soggettività concreta, le quali soltanto ci permettono di vedere come si costituiscono realmente le diverse forme di comunicazione e di comunità tra le monadi.

«Apriori intersoggettivo» e «intersoggettività trascendentale concreta» sono dunque i due poli problematici più generali attorno a cui si organizza e si sviluppa la fenomenologia husserliana dell’intersoggettività; nel campo di tensione da essi generato, la questione del solipsismo trascendentale può assumere contorni paradossali. Che ne è, in ultima istanza, del solus ipse? Risulta ormai chiaro che il progetto neo-cartesiano di una costituzione solipsistica della cosa e, correlativamente, di una «estetica trascendentale» come primo grado della teoria del mondo oggettivo, non è realizzabile, almeno non in quella forma assolutamente radicale e intransigente che troviamo espressa nelle Meditazioni cartesiane.114 Anche quando si declina nella «solitudine», il soggetto trascendentale è dentro uno spazio potenzialmente plurale, preso nella rete di rimandi ad altri soggetti che derivano dalla stessa strutturazione del processo percettivo, in maniera necessaria. A livello programmatico, Husserl ha certamente sopravvalutato le possibilità della riduzione primordiale, attribuendole un ruolo fondativo primario che essa non è in grado di sostenere: non c’è alcuno strato di soggettività pura, l’intersoggettività è «trascendentale» fino in fondo e senza residui nella misura in cui dà senso e fa mondo. Ma, come spesso avviene nella fenomenologia husserliana, le analisi effettive «contraddicono» le intenzioni programmatiche ed offrono una prospettiva più articolata; il concetto di «intersoggettività aperta» ci consente di individuare rigorosamente i limiti della costituzione solipsistica e i manoscritti degli anni ’30 sul rapporto tra temporalità e intersoggettività mostrano chiaramente (sebbene in modo aperto e problematico) una presa di distanza dalla posizione precedente.

In ogni caso, la critica della «riduzione primordiale» e dell’impostazione metodologica che ad essa fa riferimento non deve necessariamente coinvolgere la fenomenologia della Fremderfahrung nel suo complesso: in particolare, la «costituzione dell’intersoggettività» tentata da Husserl nella V Meditazione può definirsi, più coerentemente, come costituzione dell’intersoggettività trascendentale concreta, ovvero, al livello elementare, come indagine delle strutture noetico-noematiche che entrano in gioco nel darsi di una soggettività estranea reale («in carne e ossa», nel senso letterale dell’espressione) all’interno del mio campo di esperienza.115 Ciò appare perfettamente in linea con le analisi husserliane dell’Einfühlung, una volta svincolate dalla pretesa di produrre il passaggio dalla «soggettività» all’«intersoggettività» tout court, e reinterpretate come attinenti ad un problema costitutivo più specifico: a quali condizioni è per me possibile incontrare la «trascendenza» nella figura concreta di un altro uomo (o, come preferisce dire Husserl, un alter ego trascendentale)? Se, da un lato, l’intersoggettività funge anonimamente in ogni esperienza, e dunque in un certo senso io sono già sempre «fuori di me», «nel mondo», è anche evidente che soltanto nell’incontro con un’altra coscienza (a me data come altra) la mia coscienza oltrepassa realmente se stessa (Hu XIV, 9). È qui che l’«astrazione» del solipsismo può ancora svolgere un ruolo significativo dal punto di vista del metodo: il solus ipse trascendentale non è il soggetto di un’esperienza privata, per principio inaccessibile, bensì è l’«io puro» che precede (metodicamente) l’operazione costitutiva dell’Einfühlung e che, per questa ragione, si coglie come unico (analogo discorso vale per la «sfera primordiale»). Scrive Husserl: «Nel senso metodico originario [la primordialità] significa l’astrazione che io, l’ego degli atti riduttivi (das ego der reduktiven Einstellungen), compio nell’esercizio della fenomenologia (phänomenologisierend), in quanto taglio fuori astrattivamente tutte le ‘empatie’ (indem ich abstraktiv ausscheide alle ‘Einfühlungen’)» (Hu XV, 635).

L’astrazione solipsistica, in questo senso più limitato, si rivela indispensabile (o, quantomeno, utile) per identificare i fondamenti elementari della relazione intersoggettiva, quelle funzioni intenzionali senza le quali la concreta Fremderfahrung non sarebbe possibile e che sono sufficienti a produrla (ciò significa individuare dei nessi fondativi: ad esempio, non posso esperire un io estraneo senza percepire il suo corpo, i suoi movimenti espressivi, ecc.). In altri termini, la distinzione tra «fenomenologia soggettiva» e «fenomenologia intersoggettiva» conserva una sua istanza di validità se l’intersoggettività aperta (l’apriori intersoggettivo) è «trasversale» ai due piani dell’indagine trascendentale e quindi la fenomenologia dell’Einfühlung non viene a fecondare un terreno intersoggettivamente vergine, ma ad articolare lo spazio della concretezza comunicativa. In questa versione più debole, l’assunzione del «solipsismo trascendentale» come premessa metodologica che accompagna molte analisi di Husserl manifesta ancora qualche innegabile elemento di interesse, da affidare ad una nuova discussione e ad una valutazione più serena. Raffigurare un soggetto «solo» e vedere come la sua esperienza «solitaria» si complica, si approfondisce, arricchendosi di nuovi volti, non ci sembra un retaggio dogmatico di epoche passate, né il tentativo più o meno velato di ricondurre la trascendenza dell’altro nel perimetro dell’ego,116 ma corrisponde pienamente allo spirito positivo e descrittivo della migliore fenomenologia husserliana. Sul terreno fenomenologico l’«esperimento di pensiero» (Denkexperiment) o la «finzione» (Fiktion) del solus ipse, lungi dal gettare un’ombra scettica sull’universo intersoggettivo, si genera nella persuasione che l’intersoggettività costituisca il fondo intenzionale ultimo di ogni esperienza e di ogni discorso, e che proprio questo «fondo», questa perenne riserva di senso, dobbiamo sempre di nuovo interrogare (radicalmente, criticamente), affinché non decada ad «ovvietà», a concretezza muta, a linguaggio sedimentato e inconsapevole.117 Secondo questa chiave di lettura, l’assenza dell’alter ego da cui muove il fenomenologo non mira tanto a garantire un nucleo di inviolabilità dell’io puro, attuando una strategia di autoassicurazione nei confronti dell’estraneo, quanto a far emergere la necessità della connessione intersoggettiva nella sua struttura sistematica. L’«assoluto» non è pensabile che pluralisticamente, come comunità monadica trascendentale, infinita apertura dell’orizzonte ontologico: «Nessun assoluto può sottrarsi alla coesistenza universale (Kein Absolutes kann sich der universalen Koexistenz entziehen), è un non senso (Unsinn) che qualcosa sia e non stia in connessione con un altro essere, che esso sia solo (allein)» (Hu XV, 371).

Portando il discorso alle estreme conseguenze, anche al di là delle articolazioni esplicite della dottrina husserliana, ma in una fedeltà sostanziale al suo movimento più profondo, si potrebbe concludere nella maniera seguente: l’intersoggettività non è una regione del senso, è il senso stesso (fuori della connessione intersoggettiva c’è unicamente l’Unsinn). Se si tratta di riempire di contenuti questo assunto generale, attraverso situazioni esemplari ed analisi strutturali, i testi di Husserl manifestano una ricchezza insospettata ed una notevole capacità di penetrazione teoretica, che non teme di confrontarsi con gli aspetti più paradossali della riflessione sulla soggettività e di recarli in luce, per quanto possibile.118 La ricchezza della prospettiva fenomenologico-trascendentale oltrepassa ampiamente le indicazioni che abbiamo potuto dare qui; al livello costitutivo più alto, l’«intersoggettività trascendentale concreta» si sviluppa infatti lungo le linee tracciate dalla dimensione genetica, generativa, storica e culturale della vita soggettiva, in un continuo affinamento-approfondimento dello sguardo che annette alla filosofia trascendentale sempre nuove zone di interesse.119 Molte delle critiche rivolte a Husserl a proposito del suo «idealismo trascendentale», che come tale sarebbe ancora legato ad una concezione ego-centrica e monologica della ragione umana, hanno il torto di soffermarsi unilateralmente sulle aporie dell’argomentare husserliano, senza dedicare altrettanta attenzione alle sue risorse:120 la riflessione trascendentale di Husserl, nelle difficoltà ed ambiguità che costantemente l’accompagnano e che non avrebbe senso sottacere, presenta un carattere aperto e adattivo, una capacità di rettifica ed integrazione teorica delle proprie tesi che origina non solo dall’attitudine (auto) critica radicale del filosofo, ma anche dal progressivo «ampliamento» della prospettiva, che spesso ha l’effetto di «relativizzare» (rendendole meno perentorie e più sfumate) alcune assunzioni iniziali. Sotto questo aspetto, una valutazione equilibrata e attendibile del trascendentalismo fenomenologico non può limitarsi all’esame puntuale di singole proposizioni programmatiche, né basarsi essenzialmente su una parte (sia pure rilevante) della produzione husserliana, ma dovrà percorrere il tema della «soggettività trascendentale» in tutta la complessità del suo sviluppo.

5. Bibliografia husserliana e sigle utilizzate nel testo

5.1. Opere di E. Husserl

E. Husserl, Gesammelte Werke, Nijhoff, Den Haag (dal volume XXVI: Kluwer, Dordrecht/Boston/London), 1950-…:

Hu I
Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge (hrsg. von S. Strasser), 1950.
Hu II
Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen (hrsg von W. Biemel), 1950.
Hu III, 1
Ideen zu einer reinen Phänomenologie und einer phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einfuhrung in die reine Phanomenologie (Text der 1. -3. Auflage, neu hrsg. von K. Schuhmann), 1976.
Hu III, 2
Ideen zu einer reinen Phänomenologie und einer phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Ergänzende Texte (1912-1929), (neu hrsg. von K. Schuhmann), 1976.
Hu IV
Ideen zu einer reinen Phänomenologie und einer phänomenologischen Philosophie. Zweites Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution (hrsg. von W. Biemel), 1952.
Hu V
Ideen zu einer reinen Phänomenologie und einer phänomenologischen Philosophie. Drittes Buch: Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften (hrsg. von W. Biemel), 1952.
Hu VI
Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie (hrsg. von W. Biemel), 1954.
Hu VII
Erste Philosophie (1923/24). Ester Teil: Kritische Ideengeschichte (hrsg. von R. Boehm), 1956.
Hu VIII
Erste philosophie (1923-24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion (hrsg. von R. Boehm), 1959.
Hu IX
Phänomenologische Psychologie (hrsg. von Walter Biemel), 1962.
Hu X
Zur Phänomenologe des inneren Zeitbewusstsein, hrsg. von R. Boehm, 1966.
Hu XI
Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs- und Forschungsmanuskripten 1918- 1926 (hrsg. von M. Fleischer), 1966.
Hu XII
Philosophie der Arithmetik. Mit ergänzenden Texten (1890-1901) hrsg. von L. Eley, 1970.
Hu XIII
Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Erster Teil: 1905-1920, hrsg. von I. Kern, 1973.
Hu XIV
Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Zweiter Teil: 1921-1928, hrsg. von I. Kern, 1973.
Hu XV
Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Dritter Teil: 1929-1935, hrsg. von I. Kern, 1973.
Hu XVI
Ding und Raum. Vorlesungen 1907, hrsg. von U. Claesges, 1973.
Hu XVII
Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft, hrsg. von P. Janssen, 1974.
Hu XVIII
Logische Untersuchungen. Erster Band: Prolegomena zu einer reinen Logik, hrsg. von E. Holenstein, 1975.
Hu XIX, 1
Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Erster Teil, hrsg. von U. Panzer, 1984.
Hu XIX, 2
Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Zweiter Teil, hrsg. von U. Panzer, 1984.
Hu XXI
Studien zur Arithmetik und Geometrie. Texte aus dem Nachlass (1886-1901) , hrsg. von I. Strohmeyer, 1983.
Hu XXII
Aufsätze und Rezensionen (1890-1910) , hrsg. von B. Rang, 1979.
Hu XXIII
Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschaulichen Vergegenwärtigung. Texte aus dem Nachlass (1898-1925) , hrsg. von E. Marbach, 1980.
Hu XXIV
Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. Vorlesungen 1906-1907, hrsg. von U. Melle, 1984.
Hu XXV
Aufsätze und Vorträge (1911-1921) , hrsg. von T. Nenon und H. R. Sepp, 1986.
Hu XXVI
Vorlesungen über Bedeutungslehre. Sommersemester 1908, hrsg. von U. Panzer, 1986.
Hu XXVII
Aufsätze und Vorträge (1922-1937) , hrsg. von T. Nenon und H. R. Sepp, 1989.
Hu XXVIII
Vorlesungen über Ethik und Wertlehre (1908-1914) , hrsg. von U. Melle, 1988.
Hu XXIX
Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Ergänzungsband. Texte aus dem Nachlass (1934-1937) , hrsg. von R. N. Smid, 1992.
Hu XXX
Logik und allgemeine Wissenschaftstheorie. Vorlesungen 1917/18. Mit ergänzenden Texten aus der ersten Fassung 1910/11, hrsg. von U. Panzer, 1995.
Hu XXXI
Aktive Synthesen: Aus der Vorlesung ‘Transzendentale Logik’1920/21. Ergänzungsband zu ‘Analysen zur passiven Synthesis’, hrsg von R. Breeur, 2000.
Hu XXXII
Natur und Geist: Vorlesungen Sommersemester 1927, hrsg. von M. Weiler, 2001.
Hu XXXIII
Die ‘Bernauer Manuskripte’über das Zeitbewußtsein (1917/18) , hrsg. von R. Bernet und D. Lohmar, 2001.
Hu XXXIV
Zur phänomenologischen Reduktion. Texte aus dem Nachlass (1926-1935) , hrsg. von S. Luft, 2002.
Hu XXXV
Einleitung in die Philosophie. Vorlesungen 1922/23, hrsg. von B. Goossens, 2002.
Hu XXXVI
Transzendentaler Idealismus. Texte aus dem Nachlass (1908-1921) , hrsg. von R. Rollinger und R. Sowa, 2003.
Hu XXXVII
Einleitung in die Ethik. Vorlesungen Sommersemester 1920 und 1924, hrsg. von H. Peucker, 2004.
Hu XXXVIII
Wahrnehmung und Aufmerksamkeit. Texte aus dem Nachlass (1893-1912) , hrsg. von T. Vongehr und R. Giuliani, 2005.

5.2. Traduzioni italiane citate

Idee
Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. it. di G. Alliney, integrata da E. Filippini, 3 voll., Einaudi, Torino 1950-1965.
MC
Meditazioni cartesiane. Con l’aggiunta dei Discorsi parigini, nuova edizione italiana a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1989.
LFT
Logica formale e trascendentale, tr. it. di G. D. Neri, Laterza, Bari 1966.
Crisi
La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, EST, Milano 1997.
SP
Lezioni sulla sintesi passiva, tr. it. di P. Spinicci, Guerini e Associati, Milano 1993.
FTC
Fenomenologia e teoria della conoscenza, tr. it. di P. Volontè, Bompiani, Milano 2000.

  1. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität I, II, III, Nijhoff, Den Haag 1973. Di questo testo fondamentale della fenomenologia husserliana, che raccoglie scritti sull’intersoggettività composti da Husserl tra il 1905 e il 1936, non esiste ancora una traduzione italiana, nemmeno parziale. Si tratta di un materiale teoreticamente molto ricco, ma assai eterogeneo e spesso frammentario: da corsi di lezioni a progetti di pubblicazioni, da testi per seminari o conferenze ad appunti e riflessioni «solitarie» che documentano il procedere, talora faticoso ed aporetico, di una ricerca sempre in divenire. Per i riferimenti alle Gesammelte Werke e alle traduzioni italiane utilizzate nel presente saggio, si rimanda alla Bibliografia. Le traduzioni dei passi dei testi husserliani non ancora disponibili in italiano sono mie. ↩︎

  2. Per comprendere il carattere assolutamente sui generis dell’idealismo fenomenologico, che produce una trasformazione strutturale della nozione di «soggettività trascendentale» permettendone la riformulazione in termini di concretezza comunitaria, gli scritti e le lezioni universitarie di Emilio Baccarini mi hanno offerto un continuo stimolo teorico. Cfr., in particolare, E. Baccarini, La fenomenologia. Filosofia come vocazione, Studium, Roma 1981; Id.., La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002. Tra le sintesi più recenti, a testimonianza del nuovo corso degli studi husserliani in Italia e di un rinnovato interesse per la fenomenologia, cfr. V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002. ↩︎

  3. La questione dell’intersoggettività è stata sempre al centro dell’interesse degli studiosi di Husserl, almeno da quando il vasto continente degli inediti è divenuto universalmente accessibile e ha fornito una prospettiva di lettura più ampia e articolata. Ma solo negli ultimi quindici anni, mi sembra, è emersa chiaramente la tendenza a considerare la fenomenologia husserliana dell’intersoggettività come un progetto filosofico fecondo, tuttora percorribile nelle sue linee guida, sebbene «criticabile» (ovviamente) su singoli assunti o per l’esito di determinate analisi. Soprattutto, si è messo in luce come l’«intersoggettività trascendentale» non possa in alcun modo essere ridotta ad un’unica dimensione teoretica, problematica o analitica (ad esempio: il superamento del problema del «solipsismo», la fondazione dell’esperienza dell’alter ego, l’analisi fenomenologica dell’empatia, ecc.), ma, per come si presenta realmente nelle pagine di Husserl, costituisca il nodo centrale dell’intera fenomenologia trascendentale, nel quale si intrecciano tutti i fili delle indagini fenomenologiche: in altre parole, una sorta di cartina di tornasole di tutta la filosofia husserliana, che ce la fa apparire nella sua complessità e concretezza. Tra gli autori che maggiormente hanno insistito su questa linea argomentativa, sottolineandone l’interesse filosofico-sistematico e corredandola di continui riferimenti testuali (sia editi che inediti), cfr. G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität. Und ihre Bedeutung für eine Theorie intersubjektiver Objektivität und die Konzeption einer phänomenologischen Philosophie, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1992; D. Zahavi, Husserl und die transzendentale Intersubjektivität. Eine Antwort auf die sprachpragmatische Kritik, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1996. I risultati delle ricerche di Römpp e Zahavi sono stati costantemente tenuti in considerazione nell’elaborazione di questo saggio. Molto utile, per un confronto con i temi più importanti e, spesso, più problematici della fenomenologia dell’intersoggettività è il volume di R. Kozlowski, Die Aporien der Intersubjektivität. Eine Auseinandersetzung mit Husserls Intersubjektivitätstheorie, Königshausen und Neumann, Würzburg 1991 (rispetto ai due autori precedenti, tuttavia, si riscontra qui una minore attenzione agli aspetti costruttivi del discorso husserliano e anche, mi sembra, qualche fraintendimento delle intenzioni di Husserl che genera un’indebita moltiplicazione delle «aporie»). Per un’introduzione al problema fenomenologico dell’intersoggettività in Husserl e un primo contatto con i testi, cfr. E. Baccarini, La fenomenologia, cit., pp. 72-86; R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 200-211. Un’analisi lucida ed equilibrata della «teoria husserliana dell’intersoggettività», con particolare attenzione agli aspetti metodologici ed epistemologici, un esame delle principali difficoltà teoriche interne e una difesa molto argomentata dell’unità di fondo della riflessione di Husserl sul tema, si trovano in J. Iribarne, Husserls Theorie der Intersubjektivität, Alber, Freiburg 1994. ↩︎

  4. Per un approccio ad una interpretazione di questo tipo, in un confronto puntuale con i testi husserliani più significativi in proposito, mi permetto di rinviare a: M. Smargiassi, La soggettività trascendentale concreta. Linee per una rilettura della fenomenologia di Edmund Husserl, Aracne, Roma 2003 (il terzo capitolo è interamente dedicato all’intersoggettività). Per un bilancio critico della questione dell’intersoggettività dopo Husserl e per un’analisi delle «obiezioni» più rilevanti mosse alla filosofia husserliana del soggetto, sia da prospettive interne alla fenomenologia (Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty, Schutz, Patocka, ecc.), sia dal punto di vista linguistico-pragmatico-trascendentale (Apel e Habermas), cfr. D. Zahavi, Husserls und die transzendentale Intersubjektivität, cit. In generale, mi sembra fondamentale tutto il lavoro di revisione e approfondimento dei testi husserliani compiuto in questi anni da Dan Zahavi, nel tentativo di «rilanciare» il programma fenomenologico-trascendentale per il suo valore teoretico attuale, e non per un semplice interesse storiografico (magari per limitarsi a sottolineare ciò che il pensiero novecentesco deve a Husserl, più o meno consapevolmente). Questo tentativo, come già detto, non esime dalla critica a Husserl, anche radicale, su alcuni punti specifici della sua riflessione filosofica: direi anzi che la incoraggia e la rende necessaria. ↩︎

  5. Com’è noto, Descartes ha formulato la questione del solipsismo (la «solitudine» del cogito) in una radicalità e purezza sconosciute al pensiero antico, saldandola al tempo stesso ad un’esigenza critico-metodologica (la fondazione rigorosa del sapere umano, in tutti i suoi ambiti di validità). Husserl riconosce esplicitamente il debito profondo che la moderna filosofia del conoscere ha nei confronti di Descartes e annovera il pensatore francese tra i «padri» della fenomenologia trascendentale, colui che per primo ne ha «scoperto» (sia pure fraintendendolo naturalisticamente) il tema universale, il terreno originario di ogni possibile evidenza scientifica: la soggettività trascendentale. Pur prendendo sistematicamente le distanze da Descartes (la soggettività trascendentale, come «residuo» della riduzione fenomenologica, non è una res cogitans, non è «sostanza» priva di mondo, ma è in correlazione con il suo mondo), Husserl resta però, in alcuni passaggi della sua riflessione fenomenologico-trascendentale, «dominato» dall’idea cartesiana dell’evidenza come certezza integrale, assoluta impermeabilità al dubbio (anche quando le concrete analisi fenomenologiche sembrerebbero condurre a risultati differenti). Per quanto riguarda il solipsismo metodologico cartesiano, quale troviamo ben esemplificato nelle Meditazioni metafisiche, occorre dire che Husserl ne condivide certamente alcune istanze, ma in un contesto analitico che lo porta a ripensare il «soggetto» in termini radicalmente diversi da quelli di Descartes, come vedremo. Sulle caratteristiche peculiari del «cartesianismo fenomenologico», anche in prospettiva storica, cfr. T. Nenon, «Husserls phänomenologischer Cartesianismus: Zum Verhältnis von Selbstbewusstsein und Selbstverantwortung in seiner phänomenologischen Transzendentalphilosophie», in: Phänomenologische Forschungen, Neue Folge, 2, 1997, pp. 177-188. ↩︎

  6. Naturalmente, dati gli obiettivi limitati di questo saggio non sarà possibile dare un’idea adeguata della ricchezza di analisi fenomenologiche che Husserl ha dedicato, per le ragioni che vedremo, all’intersoggettività, esplorata in tutte le dimensioni costitutive (non solo ai livelli più elementari della percezione, della corporeità, della temporalità e dell’Einfühlung, ma anche a quelli «di ordine superiore» del linguaggio, della comunità, della storia, della cultura, ecc). Quale che sia il giudizio complessivo sulla fenomenologia trascendentale intersoggettiva, non va trascurato un punto fondamentale: «Dall’inverno del 1910-11 e fino alla sua morte, Husserl ha lavorato tenacemente sui differenti aspetti del problema dell’intersoggettività e ha lasciato in eredità un patrimonio di analisi che da un punto di vista quantitativo [e talvolta — aggiungeremmo — anche qualitativo] superano di gran lunga la trattazione di questo tema da parte di ognuno dei fenomenologi successivi» (D. Zahavi, Husserl’s Intersubjective Transformation of Transcendental Philosophy, in: D. Welton (edited by), The New Husserl. A Critical Reader, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis 2003, pp. 233-251, p. 233). ↩︎

  7. E’ ancora piuttosto diffusa, soprattutto a livello manualistico, l’idea che l’intersoggettività sia un tema caratteristico dell’«ultimo» Husserl, e non, com’è in realtà, una costante del suo itinerario fenomenologico (dopo le Ricerche logiche). Cfr., ad esempio, G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Mondadori, Milano 2004, p. 604, dove il «carattere intersoggettivo della soggettività trascendentale» viene segnalato come un’«importante novità» delle Meditazioni cartesiane↩︎

  8. Secondo Eduard Marbach, Husserl ha abbandonato la teoria non-egologica (o a-soggettiva) della coscienza, che caratterizzava l’impostazione analitica delle Ricerche logiche, proprio perché essa si era rivelata incompatibile con la struttura intersoggettiva dell’esperienza possibile e con l’esigenza di assumere, come dato fenomenologico incontestabile (e non puramente psicologico), la pluralità delle coscienze. Cfr. E. Marbach, Das Problem des Ich in der Phänomenologie Husserls, Nijhoff, Den Haag 1974 (cap. V). ↩︎

  9. Sulla riduzione (o epoché) fenomenologico-trascendentale, come esercizio metodologico teso a dischiudere il campo della soggettività trascendentale, Husserl è ritornato a più riprese (dopo l’ampia trattazione che ne diede in Idee I), tematizzandone sempre di nuovo il senso e cercando di aprire nuove «vie» alla sua esecuzione. Per una ricognizione complessiva di questa tematica così centrale negli scritti husserliani, cfr. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., pp. 83-121). ↩︎

  10. «Tutto ciò che vale per me, vale anche, a quanto ne so, per tutti gli altri uomini, che mi sono alla mano nel mio mondo circostante. Sperimentandoli come uomini, li comprendo e li accetto come «io», quale io sono, e riferentisi ciascuno al suo mondo circostante naturale: in maniera tale però che concepisco il loro e il mio mondo circostante come un solo e medesimo mondo oggettivo, che si diversifica soltanto nel modo con cui giunge alla coscienza di ciascuno di noi. […] Con tutto questo, noi ci intendiamo con i nostri simili e poniamo insieme una realtà oggettiva spazio-temporale, quale nostro comune mondo esistente, a cui noi stessi apparteniamo» (Idee, 61). ↩︎

  11. Sarebbe in effetti riduttivo (e, alla luce dell’evidenza testuale, insostenibile) pensare che il «solipsismo trascendentale» sia soltanto il prodotto dei fraintendimenti dei lettori o dell’ambiguità del linguaggio husserliano, e non un problema reale dalle molteplici risonanze interne. Cfr. G. Ehrl, «Solipsismusproblem und Intersubjektivitätstheorie in Husserls Vorlesungen von 1910/11 und 1923-24», in: Philosophia prima, 14, 2001, pp. 255-287. ↩︎

  12. Ad esempio, Kozlowski ritiene che Husserl, anziché affidarsi esclusivamente alla datità dell’«altro», come imporrebbe il principio metodologico-descrittivo della fenomenologica, cerchi incessantemente di fondarlo muovendo dalla sfera egologica, considerata originaria e autonoma (oltre che indeterminata dal punto di vista linguistico, il che renderebbe impossibile il tentativo di costituire un mondo comune, una «socialità», sulla base della Fremderfahrung). In questa tensione «egologizzante» dell’indagine sarebbe da individuare il vizio d’origine della fenomenologia husserliana dell’intersoggettività (cfr. R. Kozlowski, Die Aporien der Intersubjektivität, cit., p. 64). Analogamente, Waldenfels considera strutturalmente destinato al fallimento il progetto che Husserl articola nelle Meditazioni cartesiane, ovvero la fondazione della sfera intersoggettiva e sociale dell’esperienza umana sul terreno dell’egologia pura; tutto questo, per Waldenfels, «conduce nella strettoia del solipsismo trascendentale e dell’acosmismo, poiché non viene riconosciuta agli altri soggetti la loro assoluta peculiarità e al mondo la sua relativa autonomia» (B. Waldenfels, Das Zwischenreich des Dialogs. Sozialphilosophische Untersuchungen in Anschluss an Edmund Husserl, Nijhoff, Den Haag 1971, p. ). Ma già Alfred Schütz, più radicalmente, considerava impossibile una qualsiasi soluzione del problema dell’intersoggettività sul terreno trascendentale: «L’intersoggettività non è un problema della costituzione, risolvibile nella sfera trascendentale, ma è una datità della Lebenswelt» (A. Schütz, Collected Papers III, Nijhoff, The Hague 1975, p. 116). Per Schütz, quindi, occorrerebbe scindere i due lati dell’equazione husserliana separando l’«intersoggettività» dal «trascendentale» e sfruttando pienamente le intuizioni dell’ultimo Husserl sulla Lebenswelt in direzione di una fenomenologia del mondo sociale. ↩︎

  13. Sulla fallibilità di principio dell’esperienza dell’estraneo, anche considerata in relazione all’apoditticità dell’io trascendentale, cfr. D. Carr, Interpreting Husserl. Critical and Comparative Studies, Kluwer, Dordrecht 1987, pp. 63-sgg. ↩︎

  14. Tra i diversi approcci utilizzati da Husserl nel tentativo di rendere trasparente, a se stesso e ai lettori, il metodo della riduzione fenomenologica, la «via cartesiana» è certamente quella più discussa e criticata nella letteratura husserliana. Lo stesso Husserl ha talvolta mostrato perplessità e ripensamenti in proposito, riconoscendo i limiti di un’introduzione al trascendentalismo fenomenologico troppo legata allo stile argomentativo della filosofia del cogito; di fatto, rileva Husserl nella Crisi, la radicalizzazione della polarità intenzionale coscienza-mondo in termini di «essere assoluto»-«essere relativo», che aveva caratterizzato l’esposizione della riduzione in Idee I, riesce sì ad esibire l’ego trascendentale nella sua immediatezza fenomenologica, tuttavia «sulle prime non si riesce affatto a capire che cosa si sia guadagnato e come possa essere stata attinta una scienza del fondamento, una scienza completamente nuova e decisiva per qualsiasi filosofia» (Crisi, p. 182). Sui limiti strutturali della via cartesiana in relazione alla tematica dell’intersoggettività, cfr. I. Kern, «Die drei Wege zur transzendental-phänomenologischen Reduktion in der Philosophie Edmund Husserls», in: Tijdschrift voor filosofie, 2, 1962, pp. 303-349). ↩︎

  15. Cfr. il famoso e controverso § 49 di Idee I, La coscienza assoluta come residuo dell’annientamento del mondo. Scrive Husserl: «L’essere della coscienza, di ogni corrente di Erlebnisse in generale, verrebbe sì modificato necessariamente da un annientamento del mondo delle cose, ma non ne sarebbe toccato nella sua propria esistenza. […] Dunque nessun essere reale, tale cioè che si rappresenti e si giustifichi coscienzialmente mediante apparizioni, è necessario all’essere della coscienza stessa (nel senso amplissimo di corrente di Erlebnisse). L’essere immanente è dunque indubitabilmente essere assoluto nel senso che per principio nulla «re» indiget ad existendum. D’altra parte, il mondo della res trascendente è assolutamente relativo [angewiesen] alla coscienza, non come logicamente immaginata, ma come attuale» (Idee, 107). ↩︎

  16. Tra i numerosi interpreti che sottolineano il carattere essenzialmente non-fenomenologico di questa ipotesi, puro retaggio di una concezione pre-intenzionale e «sostanzialistica» della coscienza, cfr. Rudolf Bernet, che la paragona ad un «gioco di prestigio» (tour de magie), senza alcuna ricaduta sulla motivazione ad effettuare quel passaggio dall’atteggiamento naturale all’atteggiamento trascendentale che Husserl auspicava: «L’ipotesi di un «annullamento del mondo» è dunque contraria al senso dell’intenzionalità che, incessantemente, porta il soggetto ad interessarsi alle cose del mondo così come al loro apparire. «L’annullamento del mondo» si basa sul dualismo ontologico (di tipo cartesiano) tra l’essere (evidente) della coscienza immanente e l’essere (dubitabile) del mondo trascendente, dualismo che, fondamentalmente, ostacola la comprensione del senso di una costituzione trascendentale del mondo da parte del soggetto» (cfr. R. Bernet, La double vie du sujet, Puf, Paris 1994, pp. 98-99). ↩︎

  17. Hutcheson nega che sia possibile superare il solipsismo su base puramente fenomenologica, se ciò dovesse significare una risposta alla domanda fattuale sull’esistenza degli altri soggetti, poiché Husserl è interessato unicamente al senso di questa esistenza. In caso contrario, verrebbe violata la regola fondamentale dell’atteggiamento fenomenologico, che prescrive di porre metodologicamente tra parentesi ogni forma di riferimento ontologico: «Una risposta al solipsista in questo modo costituirebbe un riferimento ontologico (ontological commitment) all’esistenza di altri soggetti. Ma il compimento della riduzione fenomenologica equivale all’astensione da ogni riferimento ontologico» (P. Hutcheson, «Husserl’s Problem of Intersubjectivity», in: Journal of the British Society of Phenomenology, 11, 1980, pp. 144-162, p. 146). In realtà, questa separazione tra fatto e senso non impedisce che la fenomenologia possa offrire una «risposta» (sia pure implicita) anche alla questione fattuale, mostrando appunto che al di fuori di una costante verificazione condotta sul terreno dell’esperienza non è possibile alcun accesso all’esistenza di altre soggettività. ↩︎

  18. Com’è noto, questo atteggiamento assai critico nei confronti dell’«intersoggettività trascendentale» proviene spesso da autori di orientamento fenomenologico, che con Husserl si sono confrontati in modo fecondo e creativo, inaugurando una nuova stagione della fenomenologia. Abbiamo già accennato a Schütz, il quale ritiene che il concetto husserliano dell’io trascendentale (non diversamente da quello kantiano) sia essenzialmente chiuso alla dimensione pluralistica del mondo sociale, nonostante tutti gli sforzi compiuti da Husserl in tale direzione: «Ci si deve seriamente chiedere se l’io trascendentale nel concetto husserliano non sia essenzialmente ciò che i grammatici latini chiamano un «singulare tantum», cioè un termine che non può essere declinato al plurale. Inoltre, non è stabilito in nessun modo se l’esistenza di altri sia davvero un problema della sfera trascendentale, vale a dire se tra soggetti trascendentali si ponga il problema dell’intersoggettività […]; o se invece intersoggettività e socialità non appartengano esclusivamente alla sfera mondana del nostro mondo-della-vita» (A. Schütz, Collected Papers I, Nijhoff, The Hague 1962, p. 167). Schütz è dunque disposto a seguire Husserl sul terreno delle analisi concrete della Lebenswelt, ma non su quello della riduzione fenomenologica e della soggettività trascendentale, poiché quest’ultima sarebbe di per sé unica e indeclinabile, incapace per principio di generare quella distinzione delle persone (io-tu-noi) che invece ci è immediatamente accessibile nel «mondo naturale» in cui siamo, già da sempre, collocati. Anche Sartre, nonostante il riconoscimento del carattere rivoluzionario della teoria dell’intenzionalità e del contributo che l’alter ego offre alla costituzione del mondo empirico, ritiene che in ultima analisi Husserl non sia realmente riuscito a sfuggire al solipsismo, perché di fatto la sua fenomenologia dell’intersoggettività non comprende la relazione con l’altro che in termini cognitivi (lasciando fuori la dimensione ontologico-esistenziale, extramondana): «Husserl si è privato di qualsiasi possibilità di comprendere ciò che può significare l’essere extramondano d’altri, perché definisce l’essere come la semplice indicazione di una serie infinita di operazioni da compiere. […] Comunque, avendo ridotto l’essere ad una serie di significazioni, il solo legame che Husserl ha potuto stabilire tra il mio essere e quello degli altri, è il legame della conoscenza; non ha saputo, quindi, sfuggire al solipsismo più di quanto non abbia fatto Kant» (J. P. Sartre, L’Essere e il nulla, tr. it. di G. Del Bo, rev. a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, EST, Milano 1997, p. 280). ↩︎

  19. Una critica dell’«idealismo trascendentale» husserliano, condotta nella prospettiva di un’ontologia realistica, si trova in R. Ingarden, On the Motives which led Husserl to Transcendental Idealism, Nijhoff, The Hague 1975. ↩︎

  20. Per il ruolo che rivestono le Lezioni del 1910/11 per la metodologia fenomenologica in tema di intersoggettività, Problemi fondamentali della fenomenologia, cfr. la nota 47. ↩︎

  21. L’«ovvietà» (Selbstverständlichkeit) è il modo di darsi del mondo nell’atteggiamento naturale e da essa prende avvio ogni forma di interrogazione filosofico-trascendentale: «Il mondo è l’unico universo di ovvietà già date. Già in partenza il fenomenologo vive nel paradosso di essere costretto a considerare l’ovvio come problematico ed enigmatico e, inoltre, di non potersi proporre alcun tema scientifico se non questo: la necessità di trasformare l’ovvietà universale dell’essere del mondo — che per lui è il massimo tra gli enigmi — in qualcosa di comprensibile e di trasparente» (Crisi, 206). ↩︎

  22. Dietro la spinosa questione del solus ipse trascendentale c’è il «fatto elementare», filosoficamente opaco, della singolarità intrascendibile dell’io. Sul terreno fenomenologico, l’io non può che essere singolare, anche quando si coglie in comunità reale con altri uomini. Singolare è anche, per ragioni essenziali, il soggetto che compie l’epoché e si interroga, concretamente, sul significato degli altri soggetti, sospendendone la validità ingenua di enti già dati: «Sono io che attuo l’epoché, anche quando con me ci sono gli altri, altri uomini che operano con me l’epoché in una comunità attuale; perciò con la mia epoché tutti gli altri uomini, e la vita di tutti i loro atti, rientrano nel fenomeno del mondo che, nella mia epoché, è esclusivamente mio. L’epoché crea una singolare solitudine filosofica, che è l’esigenza metodica fondamentale di una filosofia realmente radicale. In questa solitudine l’io non è un singolo che per un capriccio qualsiasi, per quanto teoreticamente legittimo (oppure per un caso, come quello per cui, per esempio, un uomo può essere travolto dalla vita), voglia particolarizzarsi ed estraniarsi dalla comunità degli uomini a cui sa tuttavia di appartenere. Io non sono un io che attribuisca ancora una validità naturale al suo tu e al suo noi e alla sua comunità totale di co-soggetti» (Crisi, 210). Dissipato quindi l’equivoco del solipsismo egoistico o, eventualmente, patologico (cui Husserl sembra disposto ad accordare una qualche «legittimità teoretica», se non altro come casi limite), rimane valida l’esigenza di cominciare l’indagine fenomenologica muovendo da un soggetto non ancora «intersoggettivo» (visto che il senso dell’intersoggettività è interamente in questione) e di sottolineare che l’ego trascendentale mantiene intatta la sua struttura singolare, individuale, in tutte le situazioni di commercium con gli altri. Sulla problematica dell’Ur-ich, che radicalizza questo discorso, cfr. la nota 110. ↩︎

  23. Giustamente Gadamer rileva come il «primato metodologico» dell’ego trascendentale venga mantenuto fermo da Husserl anche nell’ultima fase della riflessione fenomenologico-trascendentale e come la stessa analisi dell’intersoggettività, con le sue distinzioni categoriali, non scalfisca tale primato: «L’ego trascendentale non è un io nel mondo. L’enorme difficoltà consiste nel riconoscere tutto ciò e nel mantenerlo fermo. Lo stesso vale per il problema dell’intersoggettività. Pare di nuovo legittimo chiedersi come possano il «tu» e il «noi» costituirsi in un ego trascendentale. Per quanto questa difficoltà impegni Husserl, essa tuttavia non lo dissuade dal mantenere fermo il primato metodologico dell’ego trascendentale» (H. G. Gadamer, Il movimento fenomenologico, tr. it. di C. Sinigaglia, Laterza, Roma-Bari 1994). In ogni caso, tutto sta nel vedere cosa significhi effettivamente questa priorità metodologica del punto di vista soggettivo e individuale, che Husserl ritiene inseparabile da una comprensione autentica e filosoficamente fondata dell’intersoggettività. ↩︎

  24. Per Husserl l’accesso alla dimensione intersoggettiva, anche se trascendentalmente considerata, non può avvenire da un punto di vista «neutrale» o «terzo», ma sempre e solo in prima persona, da una prospettiva singolare e determinata. Ciò significa che ogni forma di esperienza dell’alterità, a qualsiasi livello della sua configurazione fenomenologica, non può che essere ego-centrata, polarizzata intorno ad un «io», e questo io, lungi dall’essere una struttura astratta e sovra-individuale, una Bewusstsein überhaupt, è sempre la mia soggettività, la soggettività di chi realmente compie l’esperienza in questione. Si consideri, ad esempio, quello che dice Husserl in uno scritto del 1917 (Fenomenologia e teoria della conoscenza), articolando quel rapporto tra «egologia» e «intersoggettività» che ha rappresentato, per molti versi, una questione spinosa e controversa per l’interpretazione della fenomenologia trascendentale: «Tutto si svolge comunque nel mio io e nella mia coscienza; nella sua immanenza io decido non solo del mondo intero, ma anche dell’essere e non essere degli altri soggetti e della conoscenza altrui, come pure della produzione a opera dell’umanità di una scienza comune e di una comune conoscenza oggettiva del mondo. A una riflessione radicale, dunque, perfino il mondo degli esseri umani costituito intersoggettivamente si costituisce in realtà per me attraverso le pure connessioni della mia coscienza» (FTC, 211). Ora, se ad una prima lettura sembrerebbe di trovarci di fronte ad una variazione sul tema classico dell’idealismo soggettivo, ad uno sguardo più approfondito si profila nient’altro che il riconoscimento di ciò che, nel linguaggio heideggeriano, potrebbe definirsi l’esser-sempre-mio (la Je-meinigkeit) come struttura elementare del campo di esperienza del soggetto. In parole più semplici, ogni approccio all’intersoggettività rimane, per ragioni di principio, «monadico», senza che in ciò si debba scorgere alcun tipo di inclinazione soggettivistica o solipsistica: come vedremo, è sempre dalla mia prospettiva di coscienza incarnata e temporale che si manifesta la complessa semantica fenomenologica dell’intersoggettività. La soggettività, per Husserl, è principium individuationis e dunque non avrebbe senso, almeno da un punto di vista strettamente fenomenologico, la pretesa di «scavalcare» la dimensione egologica per attingere il mondo e gli altri in maniera diversa: l’io, come fatto e come senso, sarebbe ancora in gioco in tutto ciò. ↩︎

  25. Per un’analisi approfondita e sistematica del rapporto tra Husserl e Kant, è ancora fondamentale il volume di I. Kern, Husserl und Kant. Eine Untersuchung über Husserls Verhältnis zu Kant und zum Neukantianismus, Nijhoff, Den Haag 1964, che ormai costituisce un «classico» non solo dell’interpretazione della fenomenologia husserliana, ma della storiografia sulla filosofia trascendentale. Ciò detto, con gli studi più recenti sono emersi chiaramente alcuni limiti dell’impostazione di Kern, che appare un po’ troppo «conciliante» nel situare i due maggiori pensatori del trascendentalismo moderno lungo la medesima linea argomentativa, nonostante le differenze puntualmente rilevate. Nell’ampia letteratura critica sull’argomento, si segnalano: E. Marbach, Das Problem des Ich in der Phänomenologie Husserls, cit., pp. 247-282. V. De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico trascendentale, Quodlibet, Macerata 2001; R. Paimann, Formale Strukturen der Subjektivität. Egologische Grundlagen des Systems der Transzendentalphilosophie bei Kant und Husserl, Meiner, Hamburg 2002; A. Ales Bello, «Husserl interprete di Kant», in: Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 7 (2005). ↩︎

  26. Cfr. J. J. Kockelmans, Edmund Husserl’s Phenomenology, Purdue University Press, Lafayette 1994, p. 281. ↩︎

  27. Questo punto è illustrato molto bene da Enzo Paci, che coglie nella iniziale piega solipsistica della fenomenologia husserliana nient’altro che l’apertura di un orizzonte tematico, in cui l’enigma dell’estraneità (la trascendenza dell’altro nella mia immanenza) non tanto si risolve, ma si «dispiega» e chiarisce nella trama delle motivazioni che lo generano: «Si tratta di vedere come l’altro da me può essere veramente tale pur pur essendo in me. Ciò significa vedere come si presenta l’altro nella mia sfera fenomenologica. Come è possibile la trascendenza dell’altro nella mia immanenza? Sembrerebbe che l’obiezione di solipsismo fosse presentata alla fenomenologia dall’esterno. In realtà essa è interna al «programma» della fenomenologia. In questo programma io devo arrivare all’Ego cogito. Ma all’interno dell’Ego cogito si presenta qualcosa che, pur essendo in me, mi trascende. […] L’Alter-ego apre una ricerca, la ricerca di tutto ciò che mi si presenta come «estraneo». Tutto ciò che io sento così diventa il tema della ricerca. Ciò che si presenta sarà seguito nei suoi motivi tematici, nelle sue «motivazioni»» (E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bompiani, Milano 1990, pp. 95-96). ↩︎

  28. Nella riflessione di Husserl sull’intersoggettività è difficile individuare delle «fasi» nettamente caratterizzate, perché essa non appare attraversata da vere e proprie «svolte» o «discontinuità», ma si configura piuttosto come un movimento oscillatorio o a zig zag intorno ad alcuni poli strutturali di significato, che vengono continuamente ripresi, discussi, modificati, approfonditi. Il confronto tra le opere pubblicate da Husserl e i manoscritti del Nachlass è, sotto questo aspetto, assai istruttivo. ↩︎

  29. Cfr. J. Dodd, Idealism and Corporeity. An Essay on the Problem of the Body in Husserl’s Phenomenology, Kluwer, Dordrecht/Boston/London, 1997, pp. 17-21. ↩︎

  30. Sulla «riduzione primordiale» e il suo ruolo fondativo nell’analisi dell’intersoggettività trascendentale, cfr. G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit. pp. 25-35. «All’interno di questi fenomeni primordiali si deve allora indagare fino a che punto si estende la costituzione meramente primordiale, che va compresa senza riferimento alla soggettività estranea e alla sua validità» (p. 29). ↩︎

  31. In un passo importante di Idee II, Husserl si preoccupa di distinguere accuratamente il solus ipse nella dimensione trascendentale dal soggetto umano, oggettivamente considerato, che sperimenti una condizione di isolamento o di solitudine: «A ben guardare il solus ipse [trascendentale] non conosce un corpo proprio obiettivo in un senso pieno e autentico, anche se avesse il fenomeno del suo corpo proprio e i sistemi delle inerenti molteplicità dell’esperienza, e se li avesse compiutamente come l’uomo sociale. L’astrazione che noi abbiamo attuato consapevolmente e legittimamente, non propone uomini isolati, la personalità umana isolata. Questa astrazione non consisteva neanche in un eccidio in massa degli uomini e degli animali del nostro mondo circostante, un eccidio che risparmierebbe soltanto il proprio soggetto. Il soggetto che così sussisterebbe sarebbe ancor sempre un soggetto umano, sarebbe ancor sempre cioè un soggetto intersoggettivo e continuo ad apprendere e a porre se stesso come tale. Ma il soggetto che abbiamo costruito non sa nulla di un ambiente umano, non sa nulla di una realtà o anche solo della possibilità reale di «altri» nel senso dell’apprensione dell’umanità da parte di corpi propri comprensibili, quindi non sa nulla di un corpo proprio comprensibile per gli altri, non sa nulla del fatto che altri soggetti potrebbero considerare lo stesso mondo, quello stesso mondo che ai diversi soggetti appare in modo diverso e non sa nulla del fatto che queste apparizioni sarebbero sempre in riferimento ai loro corpi, ecc.» (Idee, 475-476). Naturalmente, pur non conoscendo un corpo proprio obiettivo (nel senso pregnante di entità intersoggettivamente identificabile), il solus ipse trascendentale ha invece il fenomeno del corpo proprio come unità peculiare di senso all’interno della sfera appartentiva (come subito vedremo). ↩︎

  32. Che la riduzione primordiale sia un «semplice artificio metodico» (bloss methodischer Kunstgriff), è stato contestato da Klaus Held, secondo il quale l’attività costitutiva della Fremderfahrung presuppone uno stadio della vita del soggetto da cui l’altro è, originariamente, assente: «All’inizio della vita della coscienza c’è un Robinson trascendentale» (K. Held, Das Problem der Intersubjektivität und die Idee einer phänomenologischen Transzendentalphilosophie, in: U. Claesges, K. Held (hrsgg.), Perspektiven transzendental-phänomenologischer Forschung, Nijhoff, Den Haag 1972, pp. 3-60, p. 49). Held sembra qui attribuire a Husserl l’intento di una ricostruzione storico-genetica della coscienza trascendentale, che però appare essenzialmente estraneo all’ottica delle Meditazioni cartesiane (l’analisi della Fremderfahrung, almeno in quel contesto, vuole essere un’analisi statico-strutturale). D’altra parte, anche se si ritiene che la sfera appartentiva non abbia alcuna priorità temporale rispetto all’intersoggettività, la stessa assunzione di una priorità di senso del «proprio» nei confronti dell’«estraneo» è, da un punto di vista strettamente fenomenologico, molto problematica. ↩︎

  33. La funzione appropriante del corpo non è semplice indice dell’autoriferimento e autoriconoscimento della soggettività, ma anche condizione dell’appropriazione «strumentale» e finalistica delle cose nell’ambiente circostante: «Tra tutte le cose spaziali della mia sfera universale pratica il «mio» corpo è la più originariamente mia (das ursprünglichst Meine), la mia proprietà duratura, duratura nella mia disposizione, la più originaria e l’unica immediata che è a mia disposizione. Ciò di cui (da bambino) mi sono appropriato come prima cosa e in modo immediato e che ora è organo, è mezzo per l’appropriazione di tutto (Mittel ist für die Zueignung von allem und jedem): direzione più diretta del mio sguardo nel mondo […]; il corpo ha quindi in sé il carattere più originario di ciò che è mio, appartenente a me, contrasta con l’estraneo al quale io non sono partecipe, cioè non praticamente» (Hu XIV, 58). D’altra parte, in quanto modalità concreta in cui ha luogo l’apertura dell’io al mondo, il corpo ha anche una funzione espropriante, rimanda costitutivamente all’estraneità, sia perché nel corpo e attraverso il corpo io sono «esposto» alle cose e agli altri, sia perché l’accesso esperienziale all’alter ego, come vedremo subito, passa per la dinamica dell’«intercorporeità». ↩︎

  34. Il tema della corporeità (Leiblichkeit) è centrale in tutta la riflessione husserliana e già questo rilievo può suggerirci come l’«idealismo fenomenologico» sia essenzialmente orientato a cogliere la soggettività (e intersoggettività) ai livelli di massima concretezza manifestativa, pur avvalendosi di astrazioni per delimitare provvisoriamente alcuni nuclei descrittivi. Se, infatti, Husserl sembra riproporre un modulo argomentativo di tipo dualistico (cartesiano), quando oppone (come «costituente» a «costituita») la purezza trascendentale dell’io alla soggettività concreta e corporea, si tratta in realtà soltanto di una separazione metodologica di piani, per cui un’analisi formale dell’io come polo dei vissuti può essere effettuata lasciando indeterminata e non-tematizzata la dimensione corporea. D’altro canto, per Husserl è unicamente nel mondo e con gli altri che il soggetto diventa concreto, e questa «concretizzazione» non gli fa perdere il carattere trascendentale che possedeva come «io puro», ma lo approfondisce, gli dà spessore operativo ed esistenziale. Sotto questo angolo visuale, la funzione costitutiva della corporeità per l’analisi e la comprensione della vita soggettiva può difficilmente essere sopravvalutata. Nella sua monografia dedicata al problema del corpo nell’idealismo husserliano, James Dodd ha parlato a giusto titolo di «ubiquità del corpo», per sottolinearne la presenza pervasiva, tematica o non tematica, nelle più importanti ricerche fenomenologico-trascendentali (spazio, tempo, percezione, intenzionalità, riflessione, ecc.). Cfr. J. Dodd, Idealism and Corporeity, cit., p. 4. Cfr. anche D. Zahavi, «Husserl’s Phenomenology of the Body», in Etudes Phénoménologiques 19, 1994, pp. 63-84. ↩︎

  35. «In questo senso la riduzione primordiale, all’interno dell’esposizione sistematica di Husserl, costituisce solo un prius metodico, che ha luogo tramite un’«astrazione» in relazione al concreto flusso di coscienza, e in nessun modo equivale ad una restrizione scettica della conoscenza» (K. R. Meist, «Monadologische Intersubjektivität. Zum Konstitutionsproblem von Welt und Geschichte bei Husserl», in: Zeitschrift für philosophischen Forschung, 34, 1980, pp. 561-589, p. 567). ↩︎

  36. Nella fenomenologia husserliana, la «soggettività trascendentale» non indica una mera struttura formale, sottesa in qualche modo alla coscienza individuale e in grado di fondarla, ma vuole essere il polo manifestativo della vita del soggetto nella sua piena concretezza. D’altro canto, occorre anche riconoscere che in Husserl l’approccio al «concreto» non è immediato e diretto, ma mediato e graduale, e di fatto è reso possibile da una serie di «astrazioni» successive, che vengono via via superate in funzione di una comprensione sempre più penetrante e adeguata alla situazione realmente data nell’esperienza. Ad esempio, l’«io puro» che Husserl ci descrive nel § 80 di Idee I è il primo livello della soggettività trascendentale fenomenologica e può esserlo solo in quanto ha un fondamento descrittivo come centro degli atti intenzionali e principio di unità di un flusso di coscienza; tuttavia l’io, fenomenologicamente inteso, non è soltanto un punto di riferimento polare degli atti e delle affezioni, ma è anche un sostrato di abitualità (ha un’unità non puramente formale, ma genetica e per così dire «storica»). Ancora, concretizzando ulteriormente il terreno descrittivo, si dovrà ammettere che l’io stesso non si riduce a questo, ma costituisce l’unità di una vita personale, è «persona trascendentale» (Hu XXXIV, 451) e, per quanto riguarda il tema dell’intersoggettività, non bisogna dimenticare che per Husserl senza l’empatia, l’essere-con-gli-altri, il soggetto non è propriamente persona (la persona è tale sempre e solo nell’apertura intersoggettiva e nell’associazione delle persone). Infine, come meglio vedremo più avanti, sotto i titoli di «monade» e di «comunità intermonadica» Husserl designa la forma più concreta della soggettività e della vita soggettiva, una forma che in qualche mondo ricapitola tutti i livelli descrittivi precedenti, integrandoli. ↩︎

  37. Le differenza radicale della trascendenza dell’altro rispetto alle modalità di manifestazione delle cose, degli oggetti mondani, viene affermata senza mezzi termini da Husserl in uno scritto del 1922: «La trascendenza di un oggetto naturale è essenzialmente, fondamentalmente diversa (grundwesentlich andere) dalla trascendenza di un soggetto estraneo, di una soggettività monadica estranea. […] La trascendenza della cosa intuitiva, che mi è data come reale nella percezione, come essente «in carne e ossa» («leibhaft»), è, possiamo ora anche dire, in se stessa soltanto una forma di immanenza (selbst nur eine Form der Immanenz)» (Hu XIV, 244, 246). Si tratta di una differenza fenomenologica cardinale, intorno alla quale ruotano tutti i concetti e le forme dell’intersoggettività. ↩︎

  38. «Nessuna immaginabile teoria può coglierci in errore nel principio di tutti i principi: cioè che ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (Idee, 50-51). ↩︎

  39. In questa direzione ci sembra si muova la ricostruzione di Römpp, il quale sottolinea continuamente il tema dell’«esperibilità» (Erfahrbarkeit) dell’altro come essere trascendente (cfr. G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., p. 15). Si potrebbe parlare, con espressione un po’ paradossale ma coerente con l’impostazione di fondo del pensiero husserliano, della teoria trascendentale dell’intersoggettività come «fenomenologia della trascendenza»: in definitiva, tutto lo sforzo profuso da Husserl intorno alla chiarificazione della Fremderfahrung può essere letto come un tentativo, sempre rinnovato, di risalire alle fonti di evidenza di quella trascendenza radicale che è la soggettività estranea (che anche per Husserl non è mai così estranea da non essere, al tempo stesso, costitutiva del mio stesso essere-nel-mondo, a tutti i livelli). ↩︎

  40. Si tratta certamente di un motivo di origine kantiana, reso tuttavia più stringente dall’assenza in Husserl di ogni riferimento trascendentale alle cose in sé inconoscibili (sia pure in termini esclusivamente «negativi», come sembra essere il caso della Critica della ragion pura). ↩︎

  41. «Se ho una conoscenza empatica razionalmente verificata nell’unità della mia vita di coscienza, non sono quindi solus ipse, e il soggettivismo trascendentale della fenomenologia non implica minimamente un tale solipsismo, ma io devo pormi anche nell’atteggiamento assoluto come un io che ha un tu (ich muss mich auch in absoluter Einstellung als ein Ich setzen, das ein Du hat), e mi pongo in questa forma in modo assolutamente giustificato, come un ego trascendentale all’interno di una pluralità di ego trascendentali coesistenti con me (als ein transzendentales Ego einer mit mir koexistenten Mehrheit von transzendentalen Egos). Ma ogni pluralità coesistente ha la sua forma necessaria (= forma di orientamento), e una forma scambievole di ciascuno di questi ego. Essa può presentarsi sempre solo nella forma ego-alteri. Io ho per me la forma originale ego, ogni altro ha la forma non-originale dell’alter, mentre egli è per sé ego» (Hu XXXV, 282-283). ↩︎

  42. Il concetto di «costituzione di senso» è, com’è noto, tra i più discussi e controversi della fenomenologia trascendentale, e lo è stato già nella cerchia degli allievi husserliani di Göttingen, nell’ambito della polemica sull’idealismo che aveva accompagnato la prima ricezione di Idee I (1913). Le maggiori difficoltà interpretative dipendono essenzialmente dal fatto che, come altre nozioni chiave della fenomenologia husserliana, anche quella di costituzione ha un carattere assai più operativo che definitorio (su questo punto, rimane illuminante il saggio di E. Fink, «Operative Begriffe der Husserlschen Phänomenologie», in Zeitschrift für philosophische Forschung, 11, 1957, pp. 321-337). Se è abbastanza facile rimproverare a Husserl sostanziali variazioni, oscillazioni e anche ambiguità semantiche nell’uso dei Grundbegriffe del metodo fenomenologico, d’altra parte proprio l’elasticità di questo uso (nei differenti contesti di indagine o nel processo interno di revisione critica) rende alcune obiezioni di principio molto meno perentorie e convincenti di quanto possano apparire in prima battuta. Per un’analisi «genetica» del concetto di costituzione, è ancora utile il lavoro di R. Sokolowski, The Formation of Husserl’s Concept of Constitution, Nijhoff, The Hague 1970. ↩︎

  43. Cfr., per un approccio di questo genere, E. Melandri, Logica e esperienza in Husserl, Il Mulino, Bologna 1960. ↩︎

  44. Il termine Einfühlung (tradotto in italiano con «empatia» o, talvolta, con «entropatia») deriva a Husserl da Theodor Lipps, anche se nell’ambito fenomenologico assume un significato molto diverso da quello che aveva nella cosiddetta «teoria dell’inferenza analogica» di Lipps (cfr. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, p. 203). Per un approfondimento della tematica dell’Einfühlung, è ancora prezioso il saggio di Edith Stein, alla quale si deve tra l’altro una parte cospicua del lavoro di redazione di Idee II. Cfr. E. Stein, Il problema dell’empatia (tr. it. di E. Costantini e E. Schulze Costantini), Studium, Roma 1998. Sul problema dell’empatia nella fenomenologia husserliana, cfr. anche A. Diemer, Edmund Husserl. Versuch einer systematischen Darstellung seiner Phänomenologie, Hain, Meisenheim am Glan, 1956, pp. 284-294; M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, De Gruyter, Berlin/New York, 1977, pp. 55-150. Sull’empatia come «incontro» con i vissuti degli altri e modalità di partecipazione soggettiva al loro complesso mondo interiore, non è possibile, anche in una prospettiva fenomenologica, ignorare il contributo delle neuroscienze. Negli ultimi anni, la scoperta dei cosiddetti «neuroni specchio», che si attivano in presenza di un altro soggetto e mi sintonizzano, per così dire istantaneamente, sulla sua vita cognitiva ed emotiva, ha riportato in primo piano, tra i gli scienziati più sensibili al dialogo con la filosofia, la teoria husserliana dell’Einfühlung, come utile e stimolante termine di confronto. Per una prima valutazione di questo nuovo scenario, in riferimento alle specifiche caratteristiche che assume in Husserl il problema dell’empatia, cfr. D. Lohmar, «Spiegelneuronen: Die neurobiologische Antwort auf das Intersubjektivitätsproblem, die Husserl noch nicht kannte? Husserls Uberlegungen zum Fremdpsychischen im Lichte der Kognitionswissenschaften», in: Interdisziplinäre Phänomenologie, 1, 2004, pp. 241-254. ↩︎

  45. La trascendenza dell’altro, formulata in termini temporali, è quella di un «presente estraneo» (fremde Gegenwart) che, proprio per la sua originalità che sfugge alla presa della mia percezione, non può che configurarsi come «presente presentificato» (vergegenwärtigte Gegenwart), come il darsi di uno scarto, di una differenza irriducibile nell’esperienza del soggetto. Su questa struttura differenziale, che ovviamente non esclude ma rende possibile la comunicazione tra i soggetti e la costituzione di una temporalità comune, ha posto l’attenzione Römpp, individuando in essa il concetto chiave della teoria dell’intersoggettività sotto il profilo temporale: «Questa trascendenza di un presente estraneo è ora la nuova formulazione di quella mediatezza dell’intenzionalità, che separa la proprietà essenziale dell’altro da quella dell’io esperiente in modo tale che l’essere-altro (die Andersheit) rimane confermato nonostante la possibilità di esperienza [dell’altro] strutturata intenzionalmente» (G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., p. 101). ↩︎

  46. Lo statuto cognitivo (o pre-cognitivo) dell’Einfühlung può risultare ambiguo, anche perché Husserl ce lo descrive spesso per affinità-contrasto rispetto ad altri atti intenzionali, dei quali è già nota la struttura (la percezione, il ricordo, il pensiero ecc.). Pur differenziandola costantemente dalla Wahrnehmung vera e propria, Husserl parla talora dell’Einfühlung come Fremdwahrnehmung, per sottolinearne il carattere di effettiva Erfahrung. Più precisamente, se l’Einfühlung non ammette un riempimento percettivo, e da questo punto di vista Husserl appare giustificato nell’attribuirle un carattere «mediato» e «indiretto», sembra altrettanto corretto definirla un’esperienza «immediata» e «diretta» se confrontata con atti di tipo inferenziale-deduttivo, dai quali essa si distingue radicalmente. «L’empatia non è un’esperienza mediata (Einfühlung ist nicht ein mittelbares Erfahren), nel senso che l’altro sarebbe esperito come psicofisicamente dipendente dal suo corpo organico, ma è un’esperienza immediata dell’altro (eine unmittelbare Erfahrung vom Anderen)» (Hu IV, 375). «Ogni ipotesi di un soggetto estraneo presuppone già la «percezione» [tra virgolette] di questo soggetto come estraneo, e questa percezione è proprio l’empatia. […] L’io estraneo non è un’ipotesi, non è una costruzione (das fremde Ich ist keine Hypothese, keine Substruktion), ma è un’esperienza che, come detto, nella forma dell’esperienza si conferma o viene soppressa» (Hu XIV, 352). Si possono così comprendere alcune oscillazioni di Husserl in proposito, che, se non ricondotte a questa duplice esigenza, apparirebbero come palesi contraddizioni. ↩︎

  47. Il tentativo di declinare la trascendenza dell’altro in forme della temporalità suggerisce un confronto tra Husserl e Lévinas, al di là delle diverse impostazioni dei due autori. Interessante e degna di approfondimento ci sembra la tesi di Römpp, secondo cui la temporalizzazione dell’alter ego come «presente estraneo» sarebbe, per alcuni versi, una sottolineatura della trascendenza ancor più radicale di quella che Lévinas formula con la sua identificazione dell’altro con l’«avvenire puro». Cfr. G. Römpp, «Der Andere als Zukunft und Gegenwart: Zur Interpretation der Erfahrung fremder Personalität in temporalen Begriffen bei Lévinas und Husserl», in: Husserl Studies, 6, 1989, pp. 129-154. ↩︎

  48. La Paarung (tradotta in italiano con «appaiamento» o, come nella più recente edizione di MC, «accoppiamento») è per Husserl una modalità della sintesi passiva. Sotto questo riguardo, ci pare corretto identificarla come condizione di possibilità della stessa Einfühlung, sul terreno della passività (cfr. I. Yamaguchi, Passive Synthesis und Intersubjektivität bei Edmund Husserl, cit., p. 76), e non come una operazione (Leistung) vera e propria (come invece sembra ritenere Römpp; cfr. G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., pp. 95-96, nota 10). ↩︎

  49. In altre parole, nella Fremderfahrung la base percettivo-presentativa è posta come «indice» di un plus, una ulteriorità di senso, per principio non presentabile e non percepibile. D’altro canto, proprio ciò che non può essere raggiunto percettivamente e che tuttavia si annuncia nella percezione, deve essere compreso interpretativamente. Per sottolineare la distanza originaria tra la mia soggettività e quella dell’altro, che è condizione e garanzia di un’autentica esperienza dell’estraneità, Römpp definisce l’empatia come «esperienza interpretativa di una soggettività corporea» (cfr. G. Römpp, Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., pp. 77-sgg.). Lo stesso Husserl utilizza in diverse occasioni il termine «interpretazione» in questa accezione semantica: «L’esperienza intersoggettiva presuppone l’interpretazione (Intersubjektive Erfahrung setzt voraus die Interpretation), attraverso la quale la corporeità e soggettività diventa esperibile per me (sebbene non in maniera originale)» (Hu IX, 393). ↩︎

  50. Da un punto di vista fenomenologico-trascendentale, Landgrebe individua nella cinestesi «la modalità più elementare dell’attività [del soggetto], posta a fondamento di tutte le altre attività» (L. Landgrebe, «Das Problem der Teleologie und der Leiblichkeit in der Phänomenologie und im Marxismus», in: B. Waldenfels, J. Broekman, A. Pazanin, Phänomenologie und Marxismus (hrsgg.), Bd. I, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977, pp. 71-104, p. 79). ↩︎

  51. Già prima di Merleau-Ponty, le cui riflessioni fenomenologico-esistenziali sulla «coscienza corporea» sarebbero difficilmente immaginabili senza la conoscenza dei manoscritti husserliani confluiti in Idee II, è lo stesso Husserl a cogliere la connessione originaria e l’interdipendenza funzionale tra coscienza, corpo e mondo, nelle analisi sulla percezione esterna e sulla costituzione dello spazio (cfr. U. Claesges, Husserls Theorie der Raumkonstitution, Nijhoff, Den Haag 1964, pp. 125-126). ↩︎

  52. Sull’ambiguità di questa formula, che di per sé può designare tanto un congiuntivo potenziale quanto un congiuntivo irreale, cfr. K. Held, Das Problem der Intersubjektivität und die Idee einer phänomenologischen Transzendentalphilosophie, cit. pp. 34-sgg. Va comunque precisato che la modalità analogica del «come-se» (als-ob) non sorge da un’attività immaginativa, da una semplice fantasia, ma è legata alla visione di quel corpo «là» (cfr. J. Iribarne, Husserls Theorie der Intersubjektivität, cit., p. 126). ↩︎

  53. Cfr. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., p. 211. ↩︎

  54. La «personalità» dell’io si costituisce nella relazione sociale e ciò significa che, per Husserl, il soggetto considerato prima dell’Einfühlung non potrebbe ancora essere «persona», anche se avesse l’esperienza dell’unità dei propri vissuti: «L’origine della personalità sta nell’empatia e nei conseguenti atti sociali. Non è sufficiente per la personalità che il soggetto si renda conto di se stesso come polo dei suoi atti, che se la costituisca da solo, poiché i soggetto nella relazione sociale incontra altri soggetti, dove esso è già praticamente oggettivo […]. Così esso è un soggetto che può entrare ed entra in una comunità, che però entra anche in relazioni personali occasionali con altri e quindi nella sua vita e nelle sue aspirazioni non esercita soltanto un’autoconservazione di fronte al mondo delle cose, ma anche come persona nel mondo delle persone» (Hu XIV, 175-176). Per la fenomenologia della vita personale intersoggettiva, la nozione husserliana di «spirito comune» e la costituzione delle cosiddette «personalità di ordine superiore» (Persönlichkeiten höherer Ordnung), si vedano Gemeingeist I e II del 1921 (testi 9 e 10 di Hu XIV). ↩︎

  55. «In questo modo, un corpo che appare nel mio mondo primordiale è appreso come il corpo vivente di un’altra persona. Questa appercezione è il primo passo della costituzione dell’intersoggettività. Secondo Husserl, tutte le esperienze del vivere insieme in un mondo condiviso, e tutte le forme di socializzazione, sono costruite su questo primo passo» (K. Held, Husserl’s Phenomenology of the Life-World, in: D. Welton (edited by), The New Husserl, cit., pp. 32-62, p. 50). ↩︎

  56. Nel riferimento dell’esperienza dell’alter ego alla «corporeità» in quanto percepita, Michel Henry, dal punto di vista di una fenomenologia che privilegia la dimensione affettiva e invisibile che sottende la relazione con l’altro, scorge una caduta dell’intersoggettività al livello delle cose, una vera e propria reificazione dell’alterità: «Poiché l’alter ego non può mai essere percepito in sé ma solo appresentato al suo corpo percepito nella mia sfera di appartenenza, il valore d’essere di questa appresentazione, diceva Husserl, non può venire che dal suo legame costante con presentazioni percettive, appunto quelle di questo corpo percepito. […] Così l’inter-soggettività vivente e patetica in cui io sono con l’altro, l’inter-soggettività in prima persona, ha ceduto il posto all’esperienza di una cosa, di una cosa morta la cui qualità «psichica» non è che un significato irreale associato al suo essere di cosa» (M. Henry, Fenomenologia materiale, tr. it. di E. De Liguori e L. Iacarelli, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 184). A mio avviso, questa critica è troppo legata alla particolare interpretazione che Henry dà del metodo fenomenologico e non coglie adeguatamente che per Husserl l’alter ego, proprio in quanto soggettività incarnata, non è mai un «oggetto», ma è vita che si manifesta nel mondo, pur non essendo propriamente del mondo (nella modalità d’essere delle cose intramondane). Inoltre, Henry trascura il fatto che anche per Husserl le modalità di accesso alla soggettività degli altri uomini sono «colorate» emotivamente e affettivamente (la relazione con l’altro non è soltanto di tipo cognitivo, se non in determinati contesti analitici). La stessa Einfühlung, di cui Husserl nelle Meditazioni Cartesiane tende a sottolineare soprattutto gli aspetti cognitivi, a ben vedere non presenta le caratteristiche di un atto di conoscenza nel significato stretto del termine, in quanto non è la presa di coscienza di uno «stato di cose» o la visione noetica di un eidos, ma appare piuttosto (anche etimologicamente) come un «sentire-con», un essere-aperti ed esposti al sentire e vivere altrui, nell’esperienza costante di uno scarto incolmabile e di una differenza radicalmente irriducibile all’identità. ↩︎

  57. Se dunque senza percezione della corporeità non c’è alcun contatto esperienziale con l’alterità, occorre riconoscere che per Husserl «fondamento di possibilità di un’apprensione di corpi estranei come corpi organici è innanzitutto la percezione del proprio corpo, che può essere dato all’ego assoluto stesso in un’autocomprensione costitutiva (in einer konstitutiven Selbstverständnis)» (G. Rômpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., p. 52). D’altra parte, solo attraverso l’esposizione allo sguardo dell’altro il mio corpo vivente si costituisce come un «oggetto», una realtà colta «a distanza» (sotto questo aspetto non diverso dalle cose fisiche), mentre nel mio campo di percezione non può che fungere costantemente da centro di riferimento del mondo circostante. In generale, l’intersoggettività si rivela fenomenologicamente una mutua scoperta della concretezza della soggettività, un graduale e sempre più profondo riconoscimento nell’alterità, attraverso la dinamica incrociata delle operazioni costitutive nello spazio relazionale dell’incarnazione (cfr., per un ampio sviluppo di questo nucleo tematico della fenomenologia husserliana, cfr. N. Depraz, Transcendance et incarnation: le statut de l’intersubjectivité comme altérité à soi chez Husserl, Vrin, Paris 1995). ↩︎

  58. Una prima anticipazione di questo vasto orizzonte di indagine viene data nei §§ 56-60 delle Meditazioni cartesiane. Nel § 58 Husserl delinea programmaticamente una fenomenologia degli atti sociali e della vita comunitaria: «Prendendo le mosse dalla comunità nel senso che abbiamo ora ottenuto, sarà naturalmente molto facile intendere la possibilità di atti-d’-io che attraverso il medio dell’attività appresentativa dell’esperienza dell’estraneo, raggiungono l’altro io; s’intenderà anzi la possibilità di atti specificamente egologico-personali che hanno il carattere di atti sociali per i quali viene stabilita ogni comunicazione personale umana. Ora lo studio attento di questi atti nelle loro diverse conformazioni, per potere poi rendere intelligibile il senso trascendentale l’essenza di ogni socialità, costituisce un compito importante» (MC, pp. 149-150). L’esecuzione effettiva di questo programma fenomenologico si trova, oltre che in numerose e talvolta non molto note pagine di Phänomenologie der Intersubjektivität, nella Terza sezione di Idee II (La costituzione del mondo spirituale). ↩︎

  59. Leibniz è certamente un autore importante nel processo formativo della fenomenologia trascendentale, spesso trascurato in questa ottica per il diverso peso che vi assumono pensatori più assiduamente frequentati da Husserl (la «diade» Descartes-Kant in primo luogo, ma anche i filosofi dell’empirismo britannico). Per un primo orientamento, cfr. R. Cristin, «Phänomenologie und Monadologie. Husserl und Leibniz», in: Studia Leibnitiana, XXII/2, 1990, pp. 163-174; K.. Mertens, «Husserls Phänomenologie der Monade: Bemerkungen zu Husserls Auseinandersetzung mit Leibniz», in:: Husserl Studies, 17, 2000, pp. 1-20. ↩︎

  60. La monade fenomenologica possiede certamente un livello di «assolutezza» e «autosufficienza», che Husserl spesso sottolinea e che vuole significare un’originaria unità di vita soggettiva e temporale. Ma questa «unità», che non è sostanziale-metafisica ma operativo-funzionale, si coglie essenzialmente nella relazione intersoggettiva e nel comune strutturarsi dell’orizzonte mondano. Inoltre, non bisogna trascurare che Husserl riconosce apertamente la finitezza dell’individuum, della soggettività monadica concreta, ad esempio quando tematizza nel suo significato trascendentale il vincolo generativo tra le singole monadi (ciò che si definisce la generatività dei soggetti, in senso sia attivo che passivo, con i relativi fenomeni di nascita e morte). L’infinità dell’apertura intersoggettiva presuppone una catena generativa che apre una dimensione temporale non più ristretta alla vita individuale, ma capace, nel tempo, di fondare l’unità di una tradizione e di una storia (e, dunque, a livello di orizzonte intenzionale, un’esperienza umana totale). Scrive infatti Husserl: «Io comprendo in generale gli uomini nel mondo come generativamente connessi in un’infinità bilaterale aperta (als generativ in offener beiderseitiger Endlosigkeit zusammenhängend), e comprendo che l’essere del mondo, che io esperisco, è stato e sarà esperito come lo stesso dagli uomini lungo la catena infinita delle generazioni, è stato e sarà dato nella connessione [intersoggettiva] come lo stesso, attraverso l’esperienza concordante (e la correzione scambievole) e in presunzione evidente. Attraverso le unità di vita degli uomini, limitate da nascita e morte, si estende l’unità di una vita umana come unità di un’esperienza umana totale […] e di una tradizione fondata su di essa. Perciò comprendo l’umanità come umanità storica, l’estendersi del tempo del mondo (das Hinausreichen der Weltzeit), del tempo riempito da eventi mondani, oltre il mio tempo di vita e quello degli uomini a me contemporanei (über meine Lebenszeit und die meiner mitgegenwärtigen Menschengenossen)» (Hu XV, 168-169). ↩︎

  61. In questo contesto analitico, l’«essere-l’una-per-l’altra» delle monadi si traduce nella reciprocità della relazione comunicativa. Si veda, tra i numerosi testi utilizzabili, il seguente: «Quindi io non ho soltanto un io una monade che nel suo orizzonte ha vissuti empatici, regolazioni che permettono una certa tipologia di riempimenti come vissuti ulteriori e certi atti di identificazione ecc., ma io ho una monade relazionata in sé ad un’altra monade e ho l’altra monade relazionata o che si può relazionare empaticamente alla prima monade. Ho così una molteplicità di monadi in comunicazione reale e possibile, tuttavia però, in relazione ad esse ho un’identica natura, una natura intersoggettiva, come possibilmente comune a tutte le possibili monadi coesistenti e realmente comune a tutte le monadi realmente comunicanti con me e che stanno in comunicazione possibile. Ho quindi una natura con delle molteplicità di manifestazioni che si ripartiscono in sistemi chiusi in tutte le monadi, sistemi di costituzione di esperienza solitaria e che si estende alla costituzione di una natura intersoggettivamente identica attraverso lo «scambio» empatico di questi sistemi» (Hu XIV, 265-266). ↩︎

  62. «Solo l’intersoggettività trascendentale rappresenta la soggettività trascendentale per come realmente è (Erst die transzendentale Intersubjektivität stellt die transzendentale Subjektivität schlechthin dar)» (Hu XV, 74). ↩︎

  63. Françoise Dastur nota come lo sviluppo effettivo della riduzione trascendentale e della teoria costitutiva non faccia altro che ricondurre Husserl «dalla soggettività solipsistica astratta alla comunità concreta delle monadi — da Descartes a Leibniz». Più radicalmente, «la problematica della riduzione e quella dell’intersoggettività, lungi dall’essere inconciliabili, ne formano una sola» (cfr. F. Dastur, Rèduction et intersubjectivité, in: E. Escoubas, M. Richir (eds.), Husserl, Millon, Grenoble 1989, p. 64, p. 61). ↩︎

  64. Cfr. E. Baccarini, La fenomenologia, cit., p. 85. ↩︎

  65. Commentando alcuni passaggi decisivi della V Meditazione, Baccarini mette in luce questo spostamento tematico nel cuore dell’analisi della Fremderfahrung: «Le analisi husserliane evidenziano il nuovo senso del mondo riferito non più esclusivamente alla mia soggettività monadica trascendentale, bensì al noi trascendentale. […] L’egologia trascendentale cede il posto a una comunità trascendentale, l’io al noi» (E. Baccarini, op. cit., pp. 81-82). Sul soggetto dell’intenzionalità plurale, il «noi trascendentale», cfr. anche D. Carr, Cogitamus ergo sumus. The Intentionality of First Person Plural, in Id., Interpreting Husserl, cit., pp. 281-297). ↩︎

  66. Kozlowski rileva il carattere circolare del procedimento husserliano, in quanto la «validità per tutti» (l’intersoggettività del sistema di riferimento) è un presupposto e non una conseguenza dell’atto comunicativo: «Poiché il compimento della comunicazione [per Einfühlung] si fonda sul riferimento alla categoria di «validità per tutti», la tesi husserliana della costituzione di senso dell’oggettività «per tutti» attraverso la comunicazione si rivela circolare» (R. Kozlowski, Die Aporien der Intersubjektivität, cit., p. 273). Da un altro punto di vista, ma con un ragionamento analogo, Patocka sostiene che «non e l’intersoggettività a produrre il senso «mondo comune a tutti», ma è soltanto con l’intersoggettività che appare l’intenzione che prende di mira il senso «mondo puramente oggettivo»» (J. Patocka, La phénoménologie, la philosophie phénoménologique et les Meditations Cartesiennes de Husserl, in Id, Qu’est-ce-que la phénoménologie?, Millon, Grenoble 1998, p. 184), e dunque nella comunicazione ha luogo, in maniera graduale e via via più rigorosa, il processo di oggettivazione del mondo comune (che culmina nella conoscenza scientifica di esso), ma quest’ultimo è dato come comune fin dall’inizio (e qui Patocka svolge una critica della riduzione primordiale e dell’idea stessa di un’esperienza solipsistica o privata — cfr. la nota 94). Queste osservazioni possono cogliere nel segno, almeno parzialmente, per quanto riguarda il percorso argomentativo della V Meditazione e più in generale per i testi husserliani che perseguono il progetto di una fondazione dell’«inter-soggettività» (tout court) su uno strato fenomenologico-trascendentale privo di riferimenti intenzionali ad altri soggetti. Lo stesso Husserl però, come vedremo tra breve, si rende conto della problematicità di questo progetto fondativo e sembra aprirsi ad un diverso campo di possibilità, mediante la nozione di intersoggettività aperta. Distinguendo più chiaramente i livelli costitutivi della fenomenologia dell’intersoggettività e riconoscendo che esiste una intenzionalità intersoggettiva sui generis al fondo stesso dell’esperienza primordiale messa a fuoco da Husserl, l’obiezione di circolarità perde molta della sua consistenza. ↩︎

  67. Un esempio molto significativo di approccio «diretto» alla fenomenologia dell’intersoggettività si trova nei Problemi fondamentali della fenomenologia del 1910/11 (cfr. Hu XIII, testo n. 6), dove l’obiezione di solipsismo viene rapidamente liquidata attraverso la distinzione tra immanenza psicologica e immanenza fenomenologica. Tale distinzione permette di constatare immediatamente come, da un punto di vista fenomenologico, gli altri siano per un verso «dentro» la mia coscienza in quanto percepiti e sentiti, ma, d’altro canto, debbano essere considerati come radicalmente trascendenti, poiché «in linea di principio un dato empatizzato e la corrispondente esperienza empatizzante non possono appartenere allo stesso flusso di coscienza, dunque allo stesso io fenomenologico» (Hu XIII, 189). È dunque possibile evidenziare un movimento unico che conduce da me agli altri e la riduzione fenomenologica può avere come «residuo» la stessa intersoggettività, la pluralità dei flussi di coscienza in connessione empatica tra loro. Scrive infatti Husserl, descrivendo l’immediato esito intersoggettivo della riduzione: «Tutto l’essere fenomenologico si riduce allora ad un (al «mio») io fenomenologico, che è contrassegnato come percipiente e ricordante, empatizzante e perciò come fenomenologicamente riducente, e agli altri, posti nell’empatia, e posti come io intuenti, ricordanti ed eventualmente empatizzanti» (Hu XIII, 190). ↩︎

  68. Alcuni testi importanti, in questa chiave, verranno indicati e discussi brevemente nel prossimo paragrafo. ↩︎

  69. Per la ridefinizione fenomenologica di una «estetica trascendentale», che segna un momento di autentica rottura con la teoria kantiana dell’esperienza attraverso la nozione di sintesi passiva e l’esibizione di regole di manifestazione degli oggetti nella sfera percettivo-temporale, precategoriale, sono di fondamentale importanza le riflessioni husserliane di Esperienza e giudizio e Lezioni sulla sintesi passiva, ricche di descrizioni analitiche nello stile di una filosofia concreta. Su questa tematica, cfr.: E. Holenstein, Phänomenologie der Assoziation: zu Struktur und Funktion eines Grundprinzips der passiven Genesis bei Edmund Husserl, Nijhoff, Den Haag 1972; P. Spinicci, I pensieri dell’esperienza. Interpretazione di «Esperienza e giudizio» di Edmund Husserl, Le Monnier, Firenze 1984; V. Costa, L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Husserl, Vita e Pensiero, Milano 1999; D. Lohmar, Erfahrung und kategoriales Denken. Hume, Kant und Husserl über vorprädikative Erfahrung und prädikative Erkenntnis, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1998. Per quanto riguarda le tematiche intersoggettive, analizzate alla luce dei testi husserliani che oltrepassano la prospettiva fenomenologica «statica» della V Meditazione e si confrontano più direttamente con il problema della genesi trascendentale del mondo comune, cfr. I. Yamaguchi, Passive Synthesis und Intersubjektivität bei Edmund Husserl, Nijhoff, Den Haag 1982. ↩︎

  70. Cfr. D. Zahavi, Husserl und die transzendentale Intersubjektivität, cit., p. 31. ↩︎

  71. Questo duplice carattere dell’intersoggettività viene palesemente trascurato da alcuni interpreti. Cfr., ad esempio, Theunissen: «L’apparenza del solipsismo trascendentale è realmente dissolta, se anche gli altri ricevono il loro senso d’essere esclusivamente da me stesso, senza che io riceva il mio originario senso d’essere dagli altri, […] senza che io, il mio io originario, mi costituisca come costituito dagli altri? Certo, la «solitudine» in cui mi lascia l’epoché fenomenologico-cartesiana, viene superata in quanto gli altri non sono più soltanto fenomeni del mio universale fenomeno-mondo, ma «realtà trascendentali» […]. Tuttavia essa non è scomparsa, poiché anche attraverso la scoperta dell’intersoggettività trascendentale non trovo alcun partner originario. Ma questa mancanza di partner (Partnerlosigkeit) è ciò che determina primariamente il senso «buono» del solipsismo trascendentale» (M. Theunissen, Der Andere, cit., p. 155). Qui Theunissen si lascia probabilmente fuorviare dalle riflessioni dell’ultimo Husserl sull’Ur-Ich, che sembrerebbero riportare il baricentro della costituzione fenomenologico-trascendentale sull’io solitario. In ogni caso, i numerosi testi husserliani che chiaramente argomentano la necessità di assumere l’intenzionalità in senso originariamente pluralistico e comunitario, mostrando non soltanto come io costituisco gli altri soggetti, ma anche come gli altri contribuiscono alla formazione del mio campo di esperienza e della mia identità personale, ridimensionano in modo netto questo genere di critica. Analoghe considerazioni valgono per Waldenfels, che lamenta in Husserl l’assenza di co-originarietà (Gleichursprünglichkeit) tra i soggetti nelle operazioni costitutive, unica chiave di volta per superare il solipsismo (cfr. B. Waldenfels, Der Zwischenreich des Dialogs, cit., p. 28). ↩︎

  72. Cfr., su questo problema cruciale, quanto si è rilevato nella nota 66. ↩︎

  73. «La differenza tra l’«ego» e l’«alter ego» non è una differenza tra due entità assolute, metafisiche, ma tra due «vite»; dunque ciò che è «appresentato» nell’apprensione dell’alter ego è un’altra «vita», un’altra «anima»» (J. Dodd, Idealism and Corporeity, cit., p. 125, corsivo dell’autore). ↩︎

  74. Cfr., per esempio, il lungo e importante § 18 di Idee II, dedicato alla costituzione della realtà materiale e al problema dell’«identità intersoggettiva» dell’oggetto nel variare delle condizioni psicofisiche della soggettività esperiente. Più in generale, sul rapporto tra «normalità» e «oggettività», analizzato alla luce dei nuovi elementi che la riformulazione husserliana della filosofia trascendentale porta con sé, cfr. D. Zahavi, Husserl und die transzendentale Intersubjektivität, pp. 72-84. ↩︎

  75. Facciamo riferimento, qui, all’analisi della percezione esterna nelle Lezioni sulla sintesi passiva (cfr. Bibliografia). ↩︎

  76. La temporalità, come forma in cui si articola unitariamente la vita del soggetto e come «infrastruttura» della coscienza trascendentale fenomenologica, è uno dei temi che maggiormente hanno occupato la riflessione di Husserl, fin dalle lezioni del 1905 (cfr. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. it. di A. Marini, Franco Angeli, Milano 1981). Nella folta letteratura critica, segnaliamo il recente lavoro di T. Kortooms, Phenomenology of Time. Edmund Husserl’s Analysis of Time-Consciousness, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 2002, che ripercorre l’intero arco della riflessione husserliana sul problema del tempo, cogliendone gli elementi di continuità, le tensioni interne e gli approfondimenti, anche alla luce dei manoscrittti ancora inediti. ↩︎

  77. Nel § 43 di Idee I Husserl, discutendo il significato della «trascendenza» della cosa spaziale (Ding) nella percezione, attira l’attenzione su quell’errore di principio che consiste nel ritenere che il manifestarsi della cosa per «adombramenti» (aspetti, prospettive) dipenda dai limiti della conoscenza umana (e non da una connessione fenomenologica essenziale): «Dobbiamo ora accennare ad un errore di principio: che cioè la percezione (e nella sua modalità ogni visione della cosa di altra specie) non raggiunga la cosa stessa. Quest’ultima non ci sarebbe data nel suo essere-in-sé. Ogni soggetto avrebbe sì la possibilità di principio di vedere la cosa così com’è, e particolarmente di percepirla in una percezione adeguata, capace di offrire la cosa in carne ed ossa senza la mediazione delle «apparizioni». Ma soltanto Dio, il soggetto fornito di una conoscenza perfetta e quindi di una percezione il più possibile adeguata, possederebbe quella percezione della cosa in sé che a noi, nature finite, è vietata. Questa veduta è assurda. Essa suppone che tra immanente e trascendente non sussista nessuna differenza essenziale e che quindi, nella postulata visione divina, una cosa spaziale sia un costitutivo reale della visione stessa, sia dunque essa stessa un Erlebnis, rientrante nella corrente della coscienza divina. […] La cosa spaziale, che noi vediamo, è percepita in tutta la sua trascendenza ed è data alla coscienza nell’originale» (Idee, 92-93). ↩︎

  78. In questa prospettiva, divengono più comprensibili le critiche spesso pungenti che Husserl rivolge a Kant, alla sua formulazione originale del problema trascendentale e della «rivoluzione copernicana» nel campo della conoscenza: «Egli [Kant] impedisce ai suoi lettori di tradurre il suo procedimento regressivo in concetti intuitivi, impedisce qualsiasi tentativo di attuare una costruzione progressiva che si rifaccia ad intuizioni originarie e assolutamente evidenti e che proceda per gradi progressivi pure realmente evidenti. I suoi concetti trascendentali sono perciò avvolti da una caratteristica oscurità, caratteristica nel senso che non può mai essere tradotta, per ragioni di principio, in chiarezza, non può mai essere trasformata in una formazione di senso e capace di evidenza» (Crisi, pp. 144-145). ↩︎

  79. Cfr., ad esempio, il recente lavoro di Sören Overgaard, che seguendo il filo conduttore dell’analisi dell’essere-nel-mondo, come categoria fenomenologica fondamentale, individua una serie di affinità strutturali tra la «soggettività trascendentale» di Husserl e il Dasein di Heidegger, al di sotto delle differenze terminologiche e degli orientamenti teorici talora divergenti. Di fatto, Husserl e Heidegger «sono d’accordo sul fatto che il mondo sia essenzialmente un mondo che io condivido con altri, e di conseguenza entrambi sottolineano che il soggetto trascendentale può essere ciò che è solo in quanto parte di una comunità di soggetti. Più fondamentalmente, comunque, Husserl e Heidegger portano alla luce un soggetto che non può essere «senza» il suo mondo, né può essere «in relazione» con il mondo senza entrare in esso (a subject that can neither be «without» its world, nor can be «related» to it without entering it). Il soggetto non entra nel mondo come un semplice oggetto, ma piuttosto, per Heidegger — e in ultima analisi anche per Husserl — il soggetto entra nel mondo inabitandolo (inhabiting it). Heidegger cerca di esprimere questa idea dicendo che il Dasein è «nel-mondo» (come opposto a «intra-mondano»), e per Husserl questa sembra essere la conclusione delle sue analisi sempre più approfondite della cinestesi e del soggetto incarnato» (S. Overgaard, Husserl and Heidegger on Being in the World, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 2004, p. 161. Cfr. anche pp. 203-204). Sul rapporto tra «intersoggettività trascendentale» e Mitsein heideggeriano, cfr. anche la nota 110. ↩︎

  80. Husserl riconosce esplicitamente che un io puro disincarnato, non legato originariamente e funzionalmente ad un corpo organico, non solo non potrebbe «costituire» il mondo dell’esperienza, ma nemmeno percepire lo spazio e le cose; il corpo è infatti il «portatore dei punti «zero» dell’orientamento, […] del qui ed ora (Hier und Jetzt), da cui l’io puro intuisce (anschaut) lo spazio e l’intero mondo sensibile» (Hu IV, 56). ↩︎

  81. Cfr., su questo punto, H. Kojima, «The Potential Plurality of the Transcendental Ego of Husserl and its Relevance to the Theory of Space», in: Analecta Husserliana VIII, 1978, pp. 55-61. ↩︎

  82. L’«apertura intersoggettiva» del mondo della percezione è stata sottolineata con particolare forza espressiva (oltre che con rigore fenomenologico) in una pagina di Merleau-Ponty, che riportiamo interamente, in quanto rappresenta un’efficace sintesi delle possibilità e dei limiti di un’esperienza solipsistica. Secondo Merleau-Ponty, una percezione puramente soggettiva è impossibile poiché è nella trama concreta del mondo percepito, con i suoi rimandi intenzionali, che l’«altro» originariamente funge, anche quando non viene direttamente esperito o incontrato: «Se l’altro deve esistere per me, è necessario che dapprima ciò avvenga al di sotto dell’ordine del pensiero. Qui la cosa è possibile, perché l’apertura percettiva al mondo, espropriazione più che impossessamento, non pretende al monopolio dell’essere, e non istituisce la lotta a morte delle coscienze. Il mio mondo percepito, le cose dischiuse davanti a me, hanno, nel loro spessore, quanto occorre per fornire di «stati di coscienza» più di un soggetto sensibile, hanno diritto a ben altri testimoni che non me. Il fatto che un comportamento si delinei in questo mondo che già mi supera, non è se non una dimensione nell’essere primordiale, che le comporta tutte. Sin dallo strato «solipsistico» l’altro non è dunque impossibile, perché la cosa sensibile è aperta. Egli diviene attuale quando un altro comportamento e un altro sguardo prendono possesso delle mie cose, e anche questa articolazione sul mio mondo di un’altra corporeità si effettua senza introiezione, perché i miei sensibili, con il loro aspetto, la loro composizione, la loro trama carnale, realizzavano già il miracolo di cose che sono cose per il fatto di essere offerte a un corpo, e facevano della mia corporeità una prova dell’essere. A differenza dal pensiero, l’uomo può formare l’alter ego, perché egli è fuori di sé nel mondo e perché una e-stasi è compossibile con altre» (M. Merleau-Ponty, Segni, tr. it. di G. Alfieri, Net, Milano 2003, pp. 223-224). ↩︎

  83. L’impossibilità di una costituzione puramente egologica dell’«oggettività», a qualsiasi livello fenomenologicamente significativo, è stata messa bene in evidenza da Elisabeth Ströker, nel confronto diretto con la posizione husserliana delle Meditazioni cartesiane: «Nondimeno, il pensiero stesso di un’oggettività che potesse essere costituita da un punto di vista solipsistico sarebbe assurdo. Ciò che è oggettivo, e certamente ab ovo ad ogni livello della sua costituzione, fa riferimento ad altri soggetti al di fuori di me […]. Poiché questi due concetti [intersoggettività e oggettività] sono intesi come correlativi, l’analisi noetico-noematica di ciò che è oggettivo deve ricorrere, come ha visto giustamente Husserl, ad una pluralità di soggetti costituenti. Questa pluralità non può essere intesa semplicemente come una molteplicità che origina da una modificazione eidetica della mia costituzione di ciò che è trascendente, in modo tale che la sfera egologica non sarebbe per principio superata. Al contrario, deve trattarsi di una diversità di soggetti-io, che differiscono da me e tra loro» (E. Ströker, Husserl’s Transcendental Phenomenology, Stanford University Press, Stanford 1993, p. 142). ↩︎

  84. In realtà, il concetto di «primordialità» o «sfera primordiale» è caratterizzato da un’ambiguità di fondo nei testi husserliani e nelle stesse Meditazioni cartesiane, e non sempre chiara appare la sua relazione con il problema del «solipsismo» (anche inteso, quest’ultimo, nel significato metodologico proprio della fenomenologia trascendentale). Mentre infatti Husserl afferma (ad esempio nel passaggio delle Meditazioni da noi citato) che per ottenere la sfera primordiale o appartentiva occorre mettere fuori gioco tutti i vissuti riferiti ai soggetti estranei (e in questo caso il senso originario della primordialità sarebbe in ultima istanza quello solipsistico), in altri testi egli sembra invece distinguere nettamente tra «riduzione solipsistica» e «riduzione primordiale»; la sfera primordiale conterrebbe al suo interno tutti i vissuti miei, l’intero contesto della mia esperienza originale, quindi anche le Einfühlungen, le mie esperienze di soggetti estranei, sebbene non vi siano inclusi i correlati intenzionali di queste esperienze, cioè gli altri stessi, che rimangono come tali trascendenti (Hu XV, 51). L’«ambiguità» (Doppeldeutigkeit) è peraltro ben nota a Husserl, che in un testo del 1934 rileva come essa sia in qualche misura inevitabile perché fondata su ragioni essenziali: «Nel senso metodico originario [la primordialità] significa l’astrazione che io, l’ego dell’atteggiamento riduttivo, compio come fenomenologo, tagliando fuori astrattivamente tutte le Einfühlungen. Se poi dico «ego primordiale», allora assume il significato della monade in modalità originaria (urmodale Monade), in cui è compresa l’Einfühlung in modalità originaria» (Hu XV, 635). Fa però notare Iso Kern che «in effetti, per il punto di partenza dell’analisi husserliana dell’esperienza dell’altro il concetto solipsistico svolge il ruolo dominante» (R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., p. 206). ↩︎

  85. Cfr. K. Held, Das Problem der Intersubjektivität und die Idee einer phänomenologischen Transzendentalphilosophie, cit., pp. 47-48. ↩︎

  86. Ad esempio, la monografia di Michael Theunissen citata, pur articolando un ampio confronto critico con la fenomenologia husserliana dell’intersoggettività, rimane sostanzialmente legata all’impianto espositivo delle Meditazioni cartesiane↩︎

  87. Su questa nozione, che raramente viene tematizzata da Husserl con la chiarezza che troviamo nel passaggio citato, ha attirato l’attenzione Zahavi (cfr. D. Zahavi, Husserl und die transzendentale Intersubjektivität, cit., pp. 32-40). Mi sembra che un approfondimento tematico di essa, sulla scia delle stesse indicazioni husserliane disseminate negli inediti, possa fornire una risposta argomentata e fenomenologicamente convincente alle critiche rivolte, spesso a ragione, alla nozione di «primordialità» (almeno nel significato assegnatole da Husserl nella V Meditazione, cioè come «grado zero» dell’esperienza intersoggettiva). ↩︎

  88. Römpp ha giustamente sottolineato il carattere operativo, dinamico e innovante della costituzione del mondo come unità intersoggettiva, che non può essere pensata come «data» una volta per tutte e non più modificabile: «Se il mondo intersoggettivo deve ora valere come mondo valido per «ognuno» («jedermann»), ciò riguarda solo «ognuno» che può essere appresentato [empaticamente] nella soggettività di volta in volta in questione. […] L’identità dell’esperienza dell’oggettività, strutturata intersoggettivamente, non è dunque pre-data (vorgegeben), ma prodotta (hergestellt) in operazioni specifiche della soggettività» (G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., p. 150). Tuttavia Römpp non sembra qui distinguere tra l’intersoggettività trascendentale in quanto comunità effettiva e concreta della monadi, e l’intersoggettività trascendentale come «apertura già sempre aperta» (e, in questo senso, «pre-data») in cui si inserisce il processo dinamico-storico della costituzione. ↩︎

  89. La costruzione di un «sistema fenomenologico» è stata un’esigenza che Husserl ha avvertito in diversi momenti della sua riflessione filosofica matura, nonostante l’avversione nei confronti delle filosofie sistematiche della tradizione (Hegel, in primo luogo), non ancora in grado di porsi su un terreno propriamente scientifico. Ad esempio, nei primi anni ’20 Husserl lavora alla realizzazione di un’«opera sistematica» (systematisches Werk), che egli non ha mai pubblicato né scritto in forma organica, della quale ci restano però numerose pagine preparatorie (cfr., per i riferimenti cronologici e testuali, l’introduzione di Iso Kern a Hu XIV). Ci sembra che, in questo contesto di ricerca, la funzione centrale nella connessione sistematica degli elementi o dei fondamenti della filosofia fenomenologica sia assunta proprio dall’intersoggettività, come in parte era già accaduto nelle Lezioni del 1910-11 da noi più volte richiamate. ↩︎

  90. Si può pensare, per analogia, ai «generi sommi» esaminati da Platone nel Sofista↩︎

  91. Claesges sottolinea come il mondo, in quanto orizzonte totale dell’esperienza della soggettività, non possa mai essere considerato alla stregua di una «cosa», o di un complesso di cose, poiché, fenomenologicamente, esso «designa una molteplicità di strutture, che come tali appartengono necessariamente alla coscienza di percezione: il mondo è il titolo per un apriori formale della coscienza di percezione» (U. Claesges, Husserls Theorie der Raumkonstitution, cit., p. 125, corsivo dell’autore). Ma se, come abbiamo cercato di mostrare, la coscienza di percezione è impossibile senza la forma dell’intersoggettività aperta, occorrerà anche ammettere che questo «apriori formale», nella sua articolazione interna, ha un carattere necessariamente intersoggettivo. ↩︎

  92. Sulla distinzione di principio, in ambito fenomenologico, tra «possibilità logica» e «assurdità effettiva» di un enunciato o nesso di significati, si vedano anche le considerazioni che Husserl svolge nel § 48 di Idee I↩︎

  93. In Husserl, questi due livelli dell’analisi fenomenologico-trascendentale dell’intersoggettività appaiono a volte ben distinti, altre volte fusi o intrecciati in modo ambiguo. ↩︎

  94. In definitiva, «intersoggettività» e «mondo» sono funzionalmente inseparabili in qualsiasi ambito costitutivo. Da questo punto di vista, un’argomentazione contro la possibilità di compiere una «riduzione primordiale» viene proposta da J. Hart, The Person and the Common Life. Studies in a Husserlian Social Ethics, Kluwer, Dordrecht 1992, pp. 184-186. ↩︎

  95. Lo sbocco ontologico che viene qui proposto non ci sembra affatto una forzatura, non solo perché i testi che autorizzano questa interpretazione sono chiari e piuttosto numerosi, ma anche perché la fenomenologia husserliana non è affatto una «metodologia» ontologicamente neutrale (come talora, a torto, si ritiene). Si rilegga, in questa ottica, il § 48 di Crisi↩︎

  96. Jan Patocka, non diversamente da Merleau-Ponty, critica l’idea stessa di una «riduzione alla sfera appartentiva» che dovrebbe esibire il dominio della mia pura soggettività. In realtà, se con ciò si intende una sfera del tutto privata dell’esperienza dell’io, occorre notare che lo stesso riconoscimento del carattere prospettico delle datità percettive è permeato da rimandi intenzionali ad altri soggetti, e il mondo è «intersoggettivo» non tanto perché i soggetti mettono in comune le loro esperienze originariamente private, quanto perché è in sé aperto alla pluralità degli approcci e delle prospettive. Scrive Patocka: «La stessa sfera appartentiva non potrà essere, come nell’idea di Husserl, una sfera assolutamente privata. Al contrario, essa avrà un senso relativo, il senso di un aspetto personale nel quadro della totalità già anticipata del mondo, ed è soltanto su questa base che la comunicazione potrà svolgersi propriamente nella sua concretezza. […] Gli aspetti, le prospettive, le mie possibilità proprie non sono, in questo senso, private; sono modi di datità del mondo che già presupposto come identico, come confermantesi in questi aspetti, prospettive e possibilità» (J. Patocka, La phénoménologie, la philosophie phénoménologique et les Meditations Cartesiennes de Husserl, cit., p. 180). Patocka inserisce questa critica in un piu generale rifiuto dell’impostazione trascendental-soggettiva della fenomenologia husserliana; a noi interessa soprattutto fissare i limiti della costituzione primordiale, utilizzando in larga misura gli strumenti fenomenologici che proprio Husserl ci ha fornito. ↩︎

  97. Cfr. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl (trad. it. di E. Filippini), Bompiani, Milano 1960, pp. 62-67. ↩︎

  98. Waldenfels, criticando i fondamenti stessi della teoria husserliana dell’intersoggettività, argomenta che gli «altri», da un punto di vista fenomenologico, sono da considerare essenzialmente «non come oggetto di una determinata intenzionalità, ma come co-fungenti in ogni intenzionalità» (B. Waldenfels, Das Zwischenreich des Dialogs, cit., p. 135). Osservazioni analoghe si trovano in A. Schütz, Collected Papers I, cit. pp. 220, 318. Tuttavia, come abbiamo visto, Husserl sembra andare esattamente in questa direzione nei testi in cui l’intersoggettività, in modo molto chiaro, non appare come un campo tematico particolare o una funzione intenzionale determinata, ma si presenta come condizione costitutiva di tutta l’esperienza della soggettività. ↩︎

  99. I testi husserliani che possono suffragare questa linea interpretativa sono davvero numerosi e, adeguatamente sviluppati e approfonditi, darebbero un importante contributo ad una fondazione filosofico-trascendentale della finitezza dei soggetti. Ci sembra infatti che molte analisi di Husserl, anche indipendentemente da un linguaggio filosofico ancora molto legato alla tradizione, esibiscano proprio questa concezione della finitezza come senso e apertura in-finita, lungo le direzioni dell’intersoggettività. In questo ambito di indagine, restano sempre preziose ed attuali alcune riflessioni di Enzo Paci sull’intima connessione tra tempo e verità, fatticità e teleologia, prospettiva finita e intenzionalità infinita, che egli ha ripensato e approfondito in maniera originale lavorando proprio sugli inediti husserliani. Cfr. i saggi raccolti nel volume Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, cit. ↩︎

  100. Per Husserl l’io trascendentale non semplicemente «si temporalizza», si apre al tempo, ma può temporalizzarsi solo perché è temporale nel suo fondo. La temporalità originaria dell’io, che rimane per lo più anonima, diventa tematica attraverso la riflessione. Nota in proposito Gerd Brand: «La riflessione è temporalità, proprio in quanto scopre la tensione dell’«era» e dell’«è» e in quanto insieme la colma. La differenza dell’io da se stesso, che non elimina la sua identità, non è altro che la temporalità dell’io, e perciò la riflessione, come intima possibilità attiva dell’io, è l’esplicitazione del suo essere-originario come essere-temporale. Ciò non significa che io dapprima sono e poi divent temporale attraverso la riflessione. La riflessione non produce la temporalità, la esplicita soltanto come tale» (G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit., p. 135). ↩︎

  101. Cfr. L. Rodemeyer, «Developments in the Theory of Time-Consciousness», in: D. Welton (edited by), The New Husserl, cit., pp. 125-154, p. 146. Anche per Held la possibilità dell’intersoggettività trascendentale è fondata, in ultima analisi, nella struttura estatica della coscienza interna del tempo. Cfr. K. Held, Lebendige Gegenwart, cit., pp. 162- sgg. ↩︎

  102. In questo ambito, l’errore che Held giustamente imputa a Husserl è di aver cercato di fondare l’esperienza anonima e atematica dell’estraneità, che opera co-originariamente nell’apertura della mia soggettività al mondo, sull’esperienza tematica di un altro io. In realtà, «la tesi husserliana sulla sequenza dei momenti costitutivi, che conducono alla coscienza di un mondo comune, deve essere sottoposta a revisione. Non è la coscienza tematica del co-soggetto (Mit-Subjekt), in quanto primo estraneo all’io, che fonda la coscienza comune, bensì al contrario: l’appresentazione dell’afferrabilità comune (Miterfasstheit) del mio mondo e di ciò che è dato in esso, attraverso l’altro co-fungente in maniera non tematica, si trova a fondamento dell’apprensione appercettiva di questo altro [nell’Einfühlung]» (K. Held, Das Problem der Intersubjektivität und die Idee der phänomenologischen Transzendentalphilosophie, cit., pp. 46-47). Ciò significa che l’esperienza di una soggettività concreta diversa dalla mia non può essere il fondamento originario di quei rimandi intenzionali intersoggettivi che già nell’atteggiamento naturale caratterizzano il modo di darsi delle cose, poiché, al contrario, è la Fremderfahrung su base empatica a presupporre la struttura formale intersoggettiva, l’«intersoggettività aperta». ↩︎

  103. Römpp cerca di difendere la legittimità della riduzione primordiale, come strumento metodologico per la fondazione del mondo intersoggettivo, ponendo fortemente l’accento sul carattere astrattivo e non-autonomo del risultato che ne deriva: «L’astrazione primordiale conduce quindi ad un risultato che per sé non ha alcuna consistenza. Di conseguenza, esso non soddisfa neppure le condizioni minime che si richiedono ad ogni conoscenza in relazione a costanza e determinatezza. Ma, nonostante ciò, la primordialità conseguita per via astrattiva dev’essere in grado di chiarire quello status della pluralità dei soggetti che fonda il mondo intersoggettivo, di cui la sfera primordiale costituisce solo una rappresentazione limitata» (G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., p. 34). Pur riconoscendo che, per Husserl, la ricerca della «primordialità» ha esclusivamente un valore preparatorio e mira a cogliere il contributo della Fremderfahrung per l’autocomprensione di un ego inizialmente concepito come assoluto, tramite l’«inserzione» di una seconda corporeità nel suo campo percettivo, è altrettanto vero che alla sfera primordiale, nelle Meditazioni cartesiane e in Logica formale e trascendentale, Husserl attribuisce un valore di fondamento per l’intera fenomenologia dell’intersoggettività. Ci sembra invece che, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, la «riduzione primordiale» possa avere validità metodologica ed efficacia descrittiva solo se presa in un’accezione più limitata, che tenga conto dei rimandi intersoggettivi già all’opera nello strato cosiddetto «solipsistico» dell’esperienza trascendentale. ↩︎

  104. Nella fenomenologia, l’intersoggettività non riguarda soltanto la dimensione del «faccia-a-faccia», l’incontro empatico con un’altra soggettività concreta, ma si manifesta costitutivamente e pervasivamente in tutte le direzioni fondamentali in cui il soggetto entra in relazione con il mondo (non solo da un punto di vista percettivo e cognitivo, ma ovviamente anche nella sfera istintiva, emotiva, affettiva e pratica). Molto opportunamente Zahavi mette in luce la ricchezza, spesso misconosciuta, dell’approccio fenomenologico all’intersoggettività, auspicando non tanto una scelta di campo tra i protagonisti di questa grande stagione della filosofia del ’900, quanto un’integrazione che sappia valorizzare pienamente i singoli contributi analitici (cfr. D. Zahavi, «Beyond Empathy. Phenomenological Approaches to Intersubjectivity», in: Journal of Consciousness Studies, 8/5-7, 2001, pp. 151-167). ↩︎

  105. Cfr., sui fondamenti metodologici dell’etica husserliana, E. Husserl, Lineamenti di etica formale, Le Lettere, Firenze 2002. ↩︎

  106. Questo significa che, nella teoria husserliana della costituzione, l’intersoggettività non può mai essere soltanto intersoggettività costituita ma è sempre anche intersoggettività costituente. In termini meno tecnici ma forse più efficaci, io ho bisogno dell’altro per costituire il mio orizzonte di esperienza, e l’altro ha bisogno di me per costituire il proprio. Questa reciprocità delle funzioni costitutive riguarda non solo l’intersoggettività aperta, ma, com’è facile comprendere, soprattutto le relazioni tra soggettività reali e concrete, quelle che Husserl a volte chiama (buberianamente, potremmo dire) «relazioni io-tu» (Ich-Du-Beziehungen) (Hu XIV, 166-sgg.). ↩︎

  107. L’impostazione di questo saggio non ci ha consentito di esaminare la teoria husserliana dell’intersoggettività in prospettiva diacronica, cogliendone le (vere o presunte) evoluzioni interne. Ma, per quel che riguarda la questione del «solipsismo trascendentale» che abbiamo fin qui analizzato, almeno un cenno va fatto alla forma problematica che il rapporto tra egologia e intersoggettività sembra assumere nei §§ 53-55 di Crisi. A detta di alcuni interpreti, Husserl nella sua ultima opera avrebbe assegnato la costituzione dell’intersoggettività, nel suo fondamento ultimativo, ad un ego nuovamente concepito in termini «solitari», disegnando quindi una relazione del tutto asimmetrica tra l’«io» e il «noi» (almeno dal punto di vista trascendentale-costitutivo). In pagine molto note e discusse, Husserl, nel corso di un’argomentazione volta a dipanare e chiarire «il paradosso della soggettività umana, che è soggetto per il mondo e insieme oggetto nel mondo», afferma che l’«io originario» (Ur-Ich) che emerge dalla riduzione fenomenologica può essere definito un «io» solo per equivocità (anche se si tratta di un equivoco in qualche misura inevitabile), poiché nella sua assoluta unicità e «solitudine» non ammette accanto a sé alcun tu, non è cioè declinabile nel senso consueto dei pronomi personali, sebbene questo io si faccia per se stesso trascendentalmente declinabile e a partire da esso e in esso si costituisca l’intersoggettività trascendentale, nella quale esso rientra semplicemente come un membro privilegiato, come l’io degli altri io trascendentali (Crisi, 211). Qui Husserl sembrerebbe revocare in dubbio la sua tesi, peraltro ampiamente documentata, secondo la quale l’intersoggettività è la dimensione più fondamentale della fenomenologia e che l’ego trascendentale, nella sua concretezza piena, si costituisce nella sfera intersoggettiva. Negli scritti degli anni ’30 non è infrequente imbattersi in prese di posizione analoghe, in cui Husserl insiste sull’assoluta unicità dell’Ur-ich come centro funzionale ultimo di ogni costituzione; per Husserl infatti deve esistere, fenomenologicamente parlando, un ambito semantico in cui l’ego è assolutamente unico (einzig) e porsi il problema della sua «pluralizzazione» (Vervielfältigung) è privo di senso (Hu XV, 590). Ora, pur riconoscendo che la tensione tra solipsismo e intersoggettività è un momento strutturale interno della fenomenologia trascendentale e che Husserl non sempre ha delineato in modo perspicuo i nessi tra i due livelli della costituzione, ci sembra tuttavia che egli, in questi passaggi apparentemente problematici, voglia in realtà dire una cosa piuttosto semplice e, tutto sommato, accettabile (anche da chi non ne condivide l’orientamento trascendentale di fondo): il mio io originario non ammette plurale nel senso che può essere originariamente vissuto come io soltanto da me, così come l’io altrui può essere vissuto propriamente come io solo dall’altro. In altri termini, come abbiamo già rilevato in precedenza, l’«io originario» che la riduzione mette in luce e al quale in ultima istanza si riferiscono tutti i vissuti, le operazioni e le affezioni di una soggettività fenomenologicamente accessibile, non può che essere singolare: si badi bene, non perché sia «solo» (sebbene possa considerarsi tale nell’astrazione della primordialità), ma perché è soltanto dalla sua prospettiva che può guardare agli altri, esperirli e riconoscerli come tali, interagire con loro nelle modalità più svariate. Da questo punto di vista, l’io fenomenologico è un «singolo» anche nella pienezza dell’intersoggettività, della comunicazione, della socialità, e lo è per ragioni essenziali. Pretendere di scavalcare questa fattualità elementare significa, per Husserl, non comprendere la necessità della polarizzazione egologica anche nell’apertura intersoggettiva. Naturalmente, ciò detto, restano in gioco tutte le esigenze che hanno indotto Husserl a teorizzare la possibilità di una trattazione solipsistica dell’esperienza trascendentale (con le difficoltà che abbiamo visto). Per una discussione più analitica del problema dell’Ur-Ich e della «soggettività intersoggettiva», cfr. M. Smargiassi, La soggettività trascendentale concreta, cit., pp. 203-225. ↩︎

  108. Lo stesso Husserl era pienamente consapevole che la «trasformazione intersoggettiva» della filosofia trascendentale prodotta dalla fenomenologia costituisse una novità radicale rispetto alla concezione kantiana e neokantiana della soggettività: «Certo se si interpreta la soggettività trascendentale come un ego isolato e, in maniera conforme alla tradizione kantiana, si ignora l’intero compito della fondazione di una comunità trascendentale di soggetti (die ganze Aufgabe der Begründung der transzendentalen Subjektgemeinschaft), si perde allora qualsiasi possibilità di ottenere una conoscenza trascendentale di sé e del mondo» (Hu XXIX, 120). ↩︎

  109. Com’è noto, l’analisi heideggeriana dell’«essere-nel-mondo» (in-der-Welt-sein) come «essere-con-gli-altri» (Mitsein) viene svolta, in Essere e tempo, nell’ambito di una ricognizione ontologico-esistenziale del modo d’essere dell’«esserci» (Dasein). Legando questa analisi al filo conduttore dell’«utilizzabilità» (Zuhandenheit), Heidegger approfondisce e sviluppa sistematicamente un motivo già presente nelle indagini husserliane sull’intersoggettività, mentre nella fenomenologia della situazione emotiva e della cura si configurano precise modalità (non cognitive) di accesso all’alterità. Nel § 26 di Essere e tempo, Heidegger formula una dura critica nei confronti di ogni tentativo, anche fenomenologicamente orientato (il riferimento polemico è a Husserl e, forse, Scheler), di fondare l’essere-con-gli altri in un orizzonte gnoseologico. Di fatto, tale approccio non sarebbe originario, non coglierebbe la «cosa stessa» del Mitsein, in quanto gli altri uomini, innanzitutto, mi sono dati non attraverso il prisma di una coscienza pura e dei suoi vissuti, il loro senso si apre piuttosto nel concreto commercium con il mondo circostante, nella dimensione esistenziale del prendermi-cura. Scrive Heidegger: «Gli altri non sono incontrati nel corso di un conoscere riposante sulla distinzione preliminare di sé, come soggetto innanzi tutto semplicemente-presente, dai restanti soggetti, essi pure semplicemente-presenti, non quindi in un’intuizione preliminare di sé, quale fondamento della contrapposizione agli altri. Gli altri si incontrano a partire dal mondo in cui l’Esserci prendente cura e preveggente ambientalmente si mantiene essenzialmente. Contro le facili «spiegazioni» teoretiche della semplice-presenza degli altri, è necessario tener fermo il dato fenomenico già rilevato che l’incontro con gli altri ha luogo nell’ambientalità mondana» (M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970, pp. 155-156). D’altra parte, la netta separazione tra «ontico» e «ontologico» (e, da un altro punto di vista, tra «autentico» e «inautentico») conduce Heidegger a relegare ai margini dell’interesse filosofico e analitico importanti aspetti della relazione con gli altri, per cui l’intersoggettività trascendentale di Husserl si rivela, a vari livelli, molto più concreta e «mondana» del Mitsein heideggeriano. Cfr., per una prima messa a punto, D. Zahavi, Husserl und die transzendentale Intersubjektivität, cit., pp. 102-111. In particolare, nelle dense pagine heideggeriane dedicate all’analisi del Mitsein appare assolutamente in ombra la costituzione corporea, l’«incarnazione» (Leiblichkeit) del Dasein, a tutto vantaggio di una declinazione radicalmente temporale dell’essere-nel-mondo (come se Heidegger, implicitamente, considerasse la corporeità come intimamente solidale con gli elementi «deiettivi» e inautentici dell’esistenza, o comunque non le riconoscesse un vero e proprio potenziale manifestativo, in chiave ontologica). In questa singolare eclissi del corpo che accompagna lo svolgimento dell’ontologia fondamentale di Essere e tempo (escludendo qualche riferimento alla «spazialità» del Dasein che può essere letto abbastanza agevolmente come rimando alla dimensione corporea), si può forse ravvisare un nucleo persistente di «cartesianismo», ovviamente non nel senso di una sostanzializzazione del Dasein, bensì come virtuale affermazione di un’esistenza del «sé» quanto si vuole aperta, finita, storica, estatica, ma anche tendenzialmente «disincarnata». Jan Patocka, sulla scia di Merleau-Ponty e Hannah Arendt, ha individuato acutamente nella corporeità il punto cieco dell’analitica esistenziale di Heidegger, richiamandosi direttamente alle analisi husserliane della soggettività incarnata: la sua dottrina dei «movimenti fondamentali dell’esistenza umana» rappresenta, da questo punto di vista, uno dei contributi più originali alla fenomenologia della corporeità e, più in generale, ad una riflessione filosofica sul corpo (cfr. J. Patocka, Il mondo naturale e la fenomenologia, Mimesis, Milano 2003). ↩︎

  110. Pensiamo qui, in modo particolare, alla trasformazione della filosofia trascendentale in senso pragmatico-linguistico attuata da Apel e alle riflessioni di Habermas sull’intersoggettività nella dimensione della Lebenswelt e dell’agire comunicativo. I due autori, nel comune atteggiamento critico nei confronti della metafisica e della tradizionale «filosofia del soggetto», pongono fortemente l’accento sul linguaggio come orizzonte universale di significato, al cui interno si ritaglia concretamente l’attività cognitiva e morale dell’uomo. Pur riconoscendo l’importanza di questo approccio, che ha avuto il merito di evidenziare la funzione sistematica del linguaggio nella costruzione del mondo sociale, ci sembra tuttavia di ritrovare in esso un «pregiudizio antifenomenologico» che porta a sottovalutare o, in qualche caso, a trascurare completamente il contributo che la dimensione prelinguistica è in grado di offrire ad una teoria dell’intersoggettività e della comunicazione. Di fatto, questo contributo è stato fornito dalla fenomenologia, da Husserl a Merleau-Ponty, passando per Scheler, Heidegger e Sartre; in particolare, fa notare Zahavi discutendo le tesi della Sprachpragmatik, proprio perché la comunicazione non si svolge in uno spazio logico-astratto di funzioni trascendentali, ma nell’apertura reciproca dei soggetti nella Lebenswelt, nel concreto mondo-della-vita, una comprensione di essa presuppone «un’analisi dell’intersoggettività prelinguistica del soggetto», in cui la relazione con l’altro viene esibita concretamente nelle sua configurazione temporale, corporea, intenzionale ed emotiva. Da questo punto di vista, si può concordare con Zahavi sull’idea che Apel e Habermas, nella loro sottolineatura dell’«intersoggettività del soggetto», non siano stati abbastanza radicali, in quanto entrambi tendono a concepire solipsisticamente la condizione prelinguistica dell’io. Ma se l’intersoggettività entrasse realmente in gioco solo attraverso la funzione costitutiva del linguaggio, si dovrebbe concludere che il soggetto sarebbe del tutto privo di intenzionalità, di mondo e di altri nel caso in cui, per qualche ragione, non fosse in grado di imparare un linguaggio (il che sembra difficilmente sostenibile, anche alla luce dei recenti sviluppi delle scienze cognitive). Per questi ed altri rilievi critici, cfr. D. Zahavi, Husserl und die transzendentale Intersubjektivität, cit., pp. 162-163. ↩︎

  111. In questo senso, per l’accentuazione del momento «positivo» e «descrittivo» che ne caratterizza l’effettiva impostazione, si è potuto parlare della fenomenologia husserliana come «empirismo trascendentale» (lo stesso Husserl nel § 20 di Idee I aveva affermato che i «veri positivisti» sono i fenomenologi, in quanto soltanto la fenomenologia tiene fermo fino in fondo al principio dell’interrogazione filosofica dell’esperienza, soggettiva e intersoggettiva, nelle sue molteplici modalità di manifestazione e strutture di validità). Sul piano storico, com’è facile comprendere, il nesso più diretto non è con il neoempirismo contemporaneo, che privilegia l’analisi delle forme dell’esperienza categorialmente già strutturate (il linguaggio della conoscenza scientifica), ma con l’empirismo tradizionale (la linea Locke-Berkeley-Hume), che invece tematizza le forme più elementari del vissuto soggettivo (percezione, ricordo, immaginazione, ecc.). Per l’interpretazione husserliana dell’empirismo e un’analisi critica della posizione di Hume nello sviluppo della gnoseologia moderna, cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee (tr. it. di G. Piana), Guerini e Associati, Milano 1989. ↩︎

  112. Com’è noto, Wittgenstein era molto interessato ai problemi intersoggettivi e la sua critica radicale delle concezioni solipsistiche della soggettività è una chiara testimonianza di questa tendenza. D’altra parte, l’enfasi posta da Wittgenstein sulla mediazione linguistica come unica forma di accesso alle other minds e condizione intrascendibile di ogni incontro con gli altri sembra giustificare il sospetto di una diffidenza di fondo nei confronti dell’indagine fenomenologica: «La posizione di Wittgenstein nei confronti della fenomenologia e della psicologia offre l’occasione di riaprire l’indagine sul ruolo primario del linguaggio, perché potrebbe sorgere il sospetto che il suo permanere nella dimensione linguistica sia dovuto al suo rifiuto di un approfondimento della dimensione fenomenologica» (A. Ales Bello, Wittgenstein e Husserl: psicologia e fenomenologia, in: R. Egidi (a cura di), Wittgenstein e il Novecento. Tra filosofia e psicologia, pp. 247-254, p. 254). ↩︎

  113. Sarebbe utile, in questa prospettiva, un confronto approfondito tra la fenomenologia husserliana dell’intersoggettività e la critica del «solipsismo» sviluppata nel campo della filosofia analitica. Se la discussione recente, in questo campo, sembra convergere con le tesi husserliane (e, più in generale, fenomenologiche) circa l’impossibilità di un’esperienza puramente privata e l’esigenza di superare la soggettività cartesianamente concepita, è anche vero che il nucleo argomentativo più forte di queste posizioni si riduce talora ad una ripresa e/o approfondimento delle riflessioni wittgensteiniane sulle aporie del cosiddetto private language (Cfr. A. Hyslop, Other Minds, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1995). ↩︎

  114. Naturalmente, questo rilievo non intende minimamente intaccare il valore delle analisi husserliane della sfera precategoriale e delle sintesi passive, che recano alla luce il modo autonomo di strutturarsi (percettivo e temporale) dell’esperienza del soggetto, prima delle «oggettivazioni» categoriali e scientifiche. Si tratterà, semmai, di cogliere e descrivere le forme peculiari di rimandi intersoggettivi che passivamente plasmano la dimensione «estetico-trascendentale» della soggettività, seguendo o sviluppando le linee già nitidamente tracciate da Husserl su questo terreno. ↩︎

  115. Molto pertinente, in proposito, è un’osservazione critica di Patocka: «Tutte le esperienze, tutte le connessioni e i legami di senso che Husserl sviluppa qui — l’appaiamento, l’appresentazione, l’appercezione dell’altro che agisce e può agire in un corpo proprio, la reciprocità nel rapporto tra i soggetti, la presentificazione della soggettività nell’attualità in quanto soggettività estranea — sono esperienze autentiche da cui deriva il senso dell’altro nella sua figura concreta» (J. Patocka, Les Meditations cartesiennes, cit., p. 183). ↩︎

  116. Emblematica, sotto questo aspetto, è la posizione di Theunissen, il quale ritiene che la considerazione dell’altro nel quadro dell’egologia trascendentale abbia come esito inevitabile (e, forse, come scopo esplicito) «la dissoluzione della trascendenza trascendente dell’altro nell’identità dell’io proprio e dell’io altrui» (Cfr. M. Theunissen, Der Andere, cit., pp. 138-sgg.). ↩︎

  117. Anche in questa ottica crediamo che vada letto l’avvertimento husserliano di Krisis, che sottolinea l’«indeclinabilità personale» dell’Ur-ich e che spesso è stato visto (a torto) come un ennesimo ripiegamento solipsistico della fenomenologia trascendentale. L’intersoggettività è certamente la dimensione più concreta della soggettività trascendentale fenomenologica, ma è anche vero che solo una soggettività (concreta) può essere intersoggettiva, e solo riportando sempre di nuovo tutti i significati intersoggettivi, interpersonali e comunitari dell’esperienza alla loro sorgente originaria, al mio io realmente fungente, questi significati si rivelano nella loro intenzionalità più profonda e viva. ↩︎

  118. Secondo lo Husserl della Crisi, non solo la riflessione filosofica sulla soggettività presenta aspetti paradossali, ma è, per sua stessa natura, costruita intorno ad un unico paradosso, che solo la fenomenologia ha saputo individuare con chiarezza ed elaborare concretamente: il duplice statuto della soggettività umana, che è, al tempo stesso, soggetto per il mondo e oggetto del mondo (cfr. Crisi, 205). Alla luce di questo paradosso, che nasconde una serie di profonde difficoltà teoretiche ed appare in un certo senso «irresolubile», David Carr ha tentato di rileggere l’intera tradizione della filosofia trascendentale, da Descartes a Heidegger (cfr. D. Carr, The Paradox of Subjectivity. The Self in Transcendental Tradition, Oxford University Press, New York 1999). ↩︎

  119. Come abbiamo più volte rilevato nel corso di questo saggio, la lunga riflessione husserliana sulla «soggettività trascendentale», considerata nel suo complesso, non si è limitata ad articolare ed approfondire un paradigma di filosofia trascendentale già esistente, ma ne ha offerto una versione radicalmente innovativa (pur non mancando, com’è naturale, importanti elementi di continuità con il pensiero trascendentale della tradizione). In particolare, il lavoro di scavo fenomenologico sulle strutture e funzioni della vita del soggetto, quelle meno illuminate, ha consentito a Husserl di generare un’espansione decisiva e, per molti versi, inaudita del campo trascendentale. Lo stesso Merleau-Ponty, che pure non risparmia critiche a Husserl per presunti limiti idealistici ed essenzialistici della sua fenomenologia, non può fare a meno di riconoscere questa nuova configurazione del trascendentalismo, quasi un’esplosione della «filosofia della coscienza» che diventa analitica integrale, aprendosi perfino a ciò che ne contesta i presupposti e pretende di limitarla dall’esterno: «Se Husserl si tiene fermo alle evidenze della costituzione, non è per una follia della coscienza, né perché essa abbia il diritto di sostituire ciò che per essa è chiaro a dipendenze naturali che sono constatate, ma perché il campo trascendentale ha cessato di essere soltanto quello dei nostri pensieri per divenire quello dell’intera esperienza, e infine perché Husserl fa assegnamento sulla verità nella quale noi siamo fin dalla nascita e che deve poter contenere le verità della coscienza e quelle della Natura. I «retroriferimenti» dell’analisi costitutiva non prevalgono contro il principio di una filosofia della coscienza proprio per il fatto che quest’ultima si è allargata e trasformata tanto da poter contenere tutto, e perfino quel che la contesta » (M. Merleau-Ponty, Segni, trad. it. di G. Alfieri, Net, Milano 2003, p. 231). ↩︎

  120. Anche il recente tentativo di «naturalizzare» la fenomenologia husserliana, purificandola per così dire dai suoi tratti filosofici più ingombranti ed aprendola direttamente al confronto interdisciplinare con la psicologia, le scienze cognitive e le neuroscienze, è una chiara attestazione della vitalità del pensiero di Husserl. Cfr. J. Petitot, F. J. Varela, B. Pachoud, J.M. Roy (edited by), Naturalizing Phenomenology, Stanford University Press, Stanford 2000. D’altra parte, in questa direzione di ricerca, indubbiamente stimolante e feconda di sviluppi, è lecito vedere all’opera anche la tendenza opposta, ovvero quella di «fenomenologizzare» (e dunque aprire alla dimensione filosofica) le scienze della mente, le analisi scientifiche della coscienza, superando decisamente quella piega «riduzionistica» che, radicalizzata, avrebbe comportato la scomparsa del problema stesso della soggettività come esperienza in prima persona (la cosiddetta First Person Perspective). ↩︎