Pensare la differenza. La questione di Dio nell’epoca della disgregazione del senso. Una rilettura con Italo Mancini

1. Introduzione

I. Mancini1 è una figura di rilievo nello scenario culturale italiano della seconda metà del Novecento.2 Il suo pensiero intreccia diverse tematiche: la questione ontologica, la filosofia della religione, a cui dedica un’opera che conosce ben tre edizioni,3 la problematica etica e politica, la filosofia del diritto. La sua riflessione matura nell’effervescenza dei dibattiti sulla fenomenologia, sulla problematica del mito e della demitizzazione e soprattutto dell’ermeneutica, che negli anni Sessanta interessavano anche i filosofi e teologi italiani, che tentavano di rispondere in modo critico alle provocazioni della filosofia e teologia europee.4 Un influsso determinante ha avuto su di lui il confronto con pensatori come Barth, Bultmann, Bonhoeffer, che hanno modificato il suo approccio alle questioni filosofiche e teologiche, soprattutto convergendo l’attenzione sulla centralità della rivelazione di Dio e dell’ermeneutica.

In un’intervista autobiografica, dove egli ripercorre gli snodi più significativi della sua ricca speculazione e della sua vita, si presenta così:

Sono nato il 4 marzo del 1925. Se volessimo dare ascolto ai segni zodiacali, dovrei indicare subito, come fondo della mia natura, una dualità fra aspetti opposti e talora contraddittori, di cui il mio travaglio filosofico e culturale ha cercato in ogni modo di comporre le irriducibili opposizioni. In maniera molto sintetica, direi che questa dualità si è imperniata soprattutto in una insonne, doppia fedeltà: fedeltà al mondo, alla terra ai suoi valori, alla sua cultura; e fedeltà alla teologia, al mondo e alla signoria di Dio, ai valori e alle forme teologiche, a un fare di Dio, insomma, che si accompagni al fare dell’uomo.5

È in questa consapevolezza della dualità e nella ricerca di un equilibrio tra laicità del mondo e trascendenza di Dio che si può trovare l’originalità del pensiero di Mancini, teso ad articolare, nelle sue opere come nella sua vita di sacerdote e filosofo, il rapporto tra cultura e fede, filosofia e teologia, seguendo il nodo problematico, tutto moderno, della questione del senso. Più volte ribadirà di voler salvare ad un tempo e la deduzione filosofica e il paradosso cristiano.

Egli, da filosofo credente, invita i teologi a fare i conti con i nuovi contesti culturali all’interno dei quali vanno ripensati i temi del cristianesimo per dare risposta alla domanda su come si possa continuare a credere, su come si possa entrare nella storia riformulando per l’oggi la professione di fede.6

La questione di Dio, l’esigenza di una nuova logica per la sua pensabilità, attraversa come un filo rosso tutto il suo pensiero. Testimonianza ne è l’opera pubblicata postuma Frammento su Dio,7 nella quale si fa presente l’interrogazione se e in quali termini possa essere detto l’assoluto incognito di Dio. Questa logica nuova e diversa dalla dialettica, che ha governato i sistemi delle ideologie, non può provenire né da un pensiero orientato ad una trascendenza assoluta, né da un pensiero fondato su una trascendenza debole.

La necessità di salvaguardare l’istanza metafisica nell’odierno contesto culturale è da lui particolarmente avvertita, tanto che nella sua ultima opera riflette sugli esiti della ragione moderna in ordine alla questione del fondamento.

In questo articolo ci proponiamo di seguire la sua argomentazione, cercando di dare rilievo all’analisi della ragione dialettica e delle filosofie della differenza, che si sono avvicendate dopo la crisi delle ideologie, e mostrando la sua pressante domanda di un pensiero altro che possa ricominciare a parlare con Dio.

In questa appassionata ricerca passa in rassegna autori come Kant, Hegel, Marx, Adorno, Lukács, Bloch, Heidegger, Levinas, soggiornando con rispetto di fronte alle loro ragioni, ma confessando allo stesso tempo la loro fragilità speculativa, che non permette un’autentica interpretazione della differenza come alterità.

In apertura della Prefazione al Frammento su Dio, G. Ripanti dà voce alla magna quaestio che attraversa l’ultima fatica manciniana:

come sono possibili dopo la rovina, irreparabile almeno dopo Auschwitz, della ragione dialettica, il pensare caratterizzante l’umano e il pensare Dio, l’Oggetto altissimo, irraggiungibile eppure irrinunciabile per la ragione? Con quale logica sfuggire alla logica della disgregazione che oggi sembra dominare dopo quella rovina? E, soprattutto, in quali termini può essere detto o ridetto l’assoluto incognito di Dio?8

2. Ripensare la metafisica

La questione della differenza è il cruccio filosofico dell’ultimo Mancini, la ricerca di una logica nuova, chiamata appunto logica dei doppi pensieri, che viene proposta proprio a partire dalla consapevolezza della frantumazione dei mondi culturali, dovuta alla caduta storica della dialettica totalizzante hegeliana e marxiana, e dall’emergere del pensiero della disgregazione, che segna la debolezza della ragione, orfana del senso e della verità.

In questione non è l’esistenza di filosofie della differenza, e neppure è in questione la loro volontà di travolgere la capacità sintetica e conclusiva della dialettica, in questione è il loro titolo alla successione, alla capacità di istituire in senso forte, o quanto meno indiscutibile, quella categoria della differenza, che dovrebbe rendere non disperata la situazione della disgregazione.9

Secondo lui, si tratta di dare una nuova giustificazione alla ragione,10 opposta a quella dialettica, che si presenta ora con le stigmate dell’antinomicità, senza soluzione di sintesi, almeno dal punto di vista razionale, ma opposta anche alla logica della differenza, che smarrisce il segno della trascendenza. Questa pretesa fondatrice di Mancini scaturisce dall’esigenza di rispondere all’interrogativo aperto nel vuoto della sintesi configurata dalla totalità dialettica che ha segnato la modernità.

Il chiudersi della stagione dialettica, con la sua pretesa di risolvere autonomamente il senso delle questioni che appartengono all’ambito della metafisica (riconciliazione, salvezza, senso del significato di Dio), esige un’accurata analisi dei problemi e delle prospettive nuove che insorgono e che permangono irrisolte.11

Per Mancini si deve ripartire dall’individuazione di una doppia linea culturale: da una parte, sul versante della dialettica, sta il concetto di totalità, di sacro, di identità, di salvezza a partire dal solo fare e concepire dell’uomo, di riconciliazione operata o attraverso il concetto o attraverso la rivoluzione; dall’altra, sul versante della metafisica, sta l’infinito, il santo, la differenza, il paradosso, la salvezza e la riconciliazione operata non autonomamente ma eteronomamente, congiungendo il fare dell’uomo al fare di Dio.

La contrapposizione tra totalità e infinito, che Mancini identifica in dialettica e metafisica, sta ad indicare che la dialettica come totalità è un pensiero che non riesce ad innalzarsi oltre l’orizzonte degli enti mondani e che per questo è fatalmente destinato a ripiegarsi su se stesso; l’infinito come metafisica è, invece, un pensiero che avverte nel cuore della finitezza un’apertura all’alterità e alla trascendenza.

È chiaro per lui che bisogna liberarsi definitivamente della tentazione dialettica, così come è stata pensata dalla modernità, per poter di nuovo fare spazio alla metafisica, quella metafisica, cioè, capace di risolvere la questione della riconciliazione e della salvezza attraverso l’idea di Infinito.12

L’Infinito, di cui si può tornare a parlare, è un Infinito che si sottrae alla violenza della sintesi, perché «organo della presa del divino non è la scienza […], ma la santità della vita ».13 È questa scelta di campo che farà dire a Mancini che «Dio è più presente nell’invocazione che nella dimostrazione ».14

Sganciando, però, la ragione dalla dialettica l’altro pericolo da cui bisogna ben guardarsi è «il corno buio delle ragioni parziali e polverizzate» ,15 che in nome della disgregazione arrivano fino al politeismo.

3. Le derive della ragione moderna

Per allontanare definitivamente dalla ragione la forma dialettica del pensare, bisogna definire bene quale senso della dialettica è stato dissolto e contraddetto dalla storia.

Mancini individua quattro sensi di dialettica che si sono succeduti nella storia del pensiero e che definisce «innocenti o parziali»^[16], e concentra la sua analisi sulla dialettica hegeliana, a cui solo va attribuita la «hybris riconciliativa e salvifica», tale da spingerlo a definire Hegel «l’ultimo cervello pagano».16 Quello che il cristianesimo chiama riconciliazione, per Hegel e Marx, seppur con modalità diverse, diventa die Versöhnung:

è proprio su questo aspetto centrale del kerygma che la dialettica moderna ha dato battaglia proponendo un concetto di riconciliazione, che ha la pretesa cristiana, ma una soluzione del tutto diversa.17

Per mostrare lo spessore di questo termine, Mancini ne indaga il senso biblico, riferendosi soprattutto al testo paolino di Rm 5, 10-11 ,18 dove è chiaro come la riconciliazione operata da Cristo e in Cristo produca per il credente come frutto la salvezza, che si traduce come riconciliazione dell’uomo con Dio, con se stesso, tra uomo e uomo, tra uomo e natura, restituendo alla creatura la bellezza delle origini.

Quello che per il cristianesimo è opera della giustizia di Dio, nell’ordine di giustificazione, riconciliazione, salvezza, per Hegel è opera del concetto, che realizza la verità secondo il movimento ternario di tesi, antitesi e sintesi.19 Attraverso l’Aufhebung, che vince nell’antitesi il negativo portandolo con sé trasformato perché sussunto nel movimento del divenire dell’idea, si celebra il «Venerdì santo speculativo»: è il passaggio dal kairòs della notitia Dei alla gnosi come via autonoma della salvezza.20

Ma questo nuovo mondo riconciliato, a cui rimanda Hegel, non ha avuto corso, secondo la critica che ad Hegel fa lo stesso Marx: la riconciliazione è solo detta e pensata ma non realizzata, perché non ci sono fronti di lotta, ed è lo stesso Marx che ripropone la dialettica legandola alla rivoluzione.21 Anche per Marx la dialettica è riconciliazione, ma la novità consiste nel fatto che al posto della ‘iustitia Dei’, qui l’attenzione è affidata alla forza della rivoluzione, letta nelle democrazie dette del “socialismo reale” solamente in termini politici.22 La liberazione dal male con la realizzazione di un compiuto umanesimo, a cui aspirava Marx con l’avvento della società comunista, si è risolto in una gestione del potere come spesso avviene per le rivoluzioni politiche.

Rimane ora a Mancini di valutare gli sviluppi postdialettici, almeno per quanto riguarda quella linea di pensiero che riprende la questione metafisica, rifiutando la logica della sintesi, della conclusività in termini di assoluto, instaurando il pensiero della differenza.

La sua attenzione si sposta sull’opera di T. W. Adorno,23 che pur ravvisando un ulteriore senso di dialettica, la sviluppa a partire dalla forza negatrice della differenza, per contestare la logica dell’identità tra concetto e cosa e della sintesi definitiva.24

Nella funzione adorniana della dialettica, la nostalgia della verità rimane, ma ha lo scopo di farla diventare totalmente altra rispetto alle forme che via via vengono proposte.

Dialettica negativa significa riserva critica verso qualsiasi sapere che non sia aperto, significa accentuazione della radicale contingenza del mondo e la dichiarazione che l’assoluto non è mai nessuna delle identificazioni possibili.

La tensione verso l’assolutezza rimane, ma in forma di nostalgia, tale da assumere una sorta di funzione catartica sia a livello teologico, sia di fronte all’essere, di cui riconosce l’infinita fertilità, che nessuna espressione epocale può fissare in qualcuno dei modi ontologici.25

4. La fragilità della differenza

Il problema di Mancini è che questa categoria della differenza viene inquadrata in una logica della disgregazione che potrebbe produrre la dispersione o disperazione del senso.

Si tratta del problema, come spiega A. Aguti:

se la questione della differenza che anima l’ampio spettro di quelle filosofie contemporanee che rifiutano la dialettica hegeliana, intesa come sapere della totalità, sopporti di ricevere o meno una nominazione di tipo teologico.26

L’indagine, che svolge su alcune figure significative della filosofia contemporanea (Lukács, Bloch, Heidegger, Levinas) ,27 mostra come il tema della differenza non veicoli necessariamente quello dell’alterità e della trascendenza, per questo incombe sempre il pericolo di una ricaduta nell’immanenza.

G. Lukács28 ricerca la differenza nella cifra anima, che riassume un grado più alto di vivere, una totalità vitale di fronte alla frantumazione propria delle forme del vivere o all’esistere nell’essere dominati o manipolati dagli oggetti.29 La differenza prospettata da Lukács non è l’infinita differenza qualitativa, comune al cristianesimo tragico e mistico, ma «una concezione dannata dell’esistenza che vuole essere un miracolo, l’attende e non lo raggiunge»,30 dove il finale è lo scacco più radicale.

Il pensiero della differenza viene esplicitato da E. Bloch31 attraverso le categorie di esodo, inteso come uscita dalla trascendenza e postamento nel mero trascendere, e di regno, inteso come termine del viaggio utopico. Esse si uniscono all’attesa dell’ultimo Dio, che per Bloch «sarà l’uomo, che ha capito che può esserlo e sta lottando per esserlo».32 Questo altro di cui si attende l’avvento, che volto ha, può prendere il nome di Dio?

La categoria dell’ultimo Dio, anticipata con Bloch, a cui aveva assegnato un’interpretazione antropologica ed intramondana, viene richiamata con Heidegger e sembra presentarsi come cifra teologica nel segno escatologico, rivelativa e fondativa della differenza.

Ma anche la posizione di Heidegger,33 seppur soggetta ad un’interpretazione composita, non orienta il suo discorso verso una trascendenza né tra enti né tra i tempi, ma rimane impigliato «dalle macerie della finitezza».34 Quella di Heidegger è una differenza statica, ferma alla logica della terra che ne segna il senso come essere-per-la-morte, dove si ascolta solo il sentimento di angoscia, generato da un’esistenza che tocca il nulla come fondo delle cose.

Nel saggio L’ultimo Dio35 Mancini dà del pensiero di questo filosofo un’interpretazione più sfumata: individua nella decostruzione heideggeriana della metafisica la possibilità di pensare Dio oltre le categorie oggettivanti della filosofia occidentale, e ritiene che essa si avvicini ad una concezione religiosa di Dio. Dio, infatti, non rappresenta più il vertice di una catena ontica, e dunque ancora un pezzo di mondo, ma un evento dell’essere.

È rotto il nesso tra teologia e ontologia, la verità dell’essere è altra cosa dal fondamento e dalla causa dell’essere:

lo schiarimento dell’essere (che non è più fondamento) appare come quello dove può avvenire l’apparizione di Dio (che non è più causa sui), e siccome il solo compito del pensiero è di «vegliare» su questo schiarimento, esso non si chiude alla venuta della divinità.36

che rimane per Heidegger l’ultima possibilità di salvezza. Il Dio a cui, secondo Mancini, fa riferimento Heidegger non è il Dio dei filosofi, un Dio causa sui, davanti a cui l’uomo non può inginocchiarsi né produrre musica, né il Dio della teologia, ma un Dio che avviene al pensiero come pura presenza.37

La critica al carattere oggettivante della metafisica, così come l’Occidente l’aveva pensata, ovvero come teoria dell’essere, può allora aprire lo spazio alla figura di Dio che emerge dalle religioni storiche, e dal cristianesimo in particolare, cioè alla figura di un Dio che si rivela nella storia in forma prolettica e che attende un inveramento definitivo.

La riflessione di Heidegger sull’ultimo Dio rappresenterebbe così la cifra di un teismo escatologico che, mettendo in guardia contro le concezioni che riducono Dio ad un oggetto tra gli oggetti, apre lo sguardo al futuro della redenzione.

Il tema della differenza, che la filosofia contemporanea ha portato all’attenzione dopo aver recitato il de profundis per la dialettica, sarebbe per Mancini costitutivamente afflitto da una fragilità speculativa che non permette un’autentica identificazione della differenza come alterità. Solo con Lévinas38 sembra che si giunga ad un pensiero nuovo:

Se la differenza non ha impedito a Heidegger di starsene nella logica della terra e di questa terra dell’Occidente, con un patriottismo che non ha occhio per altre patrie, la filosofia della differenza di Emmanuel Lévinas fa giungere alla consapevolezza filosofica un principio davvero alternativo, di fronte all’essere e di fronte all’io, che sono le parole riassuntive di due grandi mondi che ci stanno alle spalle, quello antico, che fece perno sull’essere, e quello moderno, che ha fatto perno sull’io. La parola nuova, quella che potrebbe costituirsi come valido orizzonte per una cultura della pace nel nuovo millennio, dopo lo scialo di morte e lo spreco di categorie della distruzione e della guerra nelle culture che ci hanno precedute, è quella messa, con la tradizione biblica, in esponente da Lévinas, l’altro o l’altrui, il volto secondo l’Antico Testamento, il prossimo secondo il Nuovo Testamento.39

In questo pensiero nuovo la differenza è costituita dal volto dell’altro, l’alterità si trasforma in prossimità, non nel senso di una distanza, che comunque si situa nello spazio, ma nel senso di iniziale rettitudine, risposta all’appello che l’altro fa nella nudità del suo volto. Si istituisce nell’altro un’obbligazione originaria che fa assurgere la morale della responsabilità, dove si fonda la radicalità della differenza e dove si interrompe la medesimezza dell’io e dell’immanenza.

Una costellazione di senso affascinante, ma per Mancini ancora fragile nel soccorrere la metafisica nell’età postdialettica:

L’inafferrabilità della differenza sembra aver aperte tutte le porte alla logica della disgregazione, che solo una sicura «differenza» teologica poteva impedire.40

Oggi, in assenza di veri sistemi filosofici e di grandi filosofi, dilaga il pensiero negativo, dominato dal comune stile della logica della disgregazione. Pensiero che può essere simboleggiato dal rizoma, una pianta che ha il fusto sottoterra e le radici aeree pendule:

il mondo è rovesciato, scombussolato, disgregato; è inutile che ne cerchi il fondamento, è soltanto per aria.41

In quanto non albero il rizoma sta ad indicare il rifiuto totale dell’alto, del sopra, di ogni robusta verticalità;42 equivale ad un procedere senza norma, senza legge, senza un codificato sistema di valori. In quanto non radice il rizoma significa il rifiuto di ogni fondazione razionale, il rifiuto di ogni riduzione all’unità. Rappresenta un pensiero che pone come principio l’a-significanza.

Pensiero negativo, dunque, è quello che proclama il non darsi mai identità nel mondo stesso dei soggetti, negando l’esistenza dell’unità e della riconciliazione, come prospettiva totalizzante.43

5. La ragione e il suo oltre

In questo contesto di frantumazione e non-senso, la ragione, per Mancini, non può abdicare al suo bisogno metafisico: è un bisogno assai più alto di quello che la limita a compitare semplici fenomeni.44 Egli, nell’esplorare la complessità della ragione, torna nel cuore della modernità: il suo interlocutore privilegiato è proprio Kant, ma il Kant “teologo” .45

A lui si ispira nel riproporre la fattibilità di una conoscenza analogica e simbolica di Dio in ambito filosofico,46 dove, seppur viene riconosciuto un suo uso pratico e non teoretico, viene comunque ribadita la necessità della ragione di assurgere all’assoluto, pur nel suo carattere antinomico. L’essere antinomico:

chiede di essere risolto […] e questa risoluzione può avvenire in due modi: o dichiarando nonsenso alcuni di questi contrasti antinomici […] o, invece, istituendo quella che vado chiamando logica dei doppi pensieri.47

Nelle antinomie della ragione, Kant ha sospeso il sapere per far spazio alla fede, operando anche quella liberazione di Dio dall’“iperfisica”, quella che fa di Dio, secondo un’espressione di Barth, un’enfasi del mondo:

Kant […] non ha maciullato l’«Oggetto immenso» […], ma l’ha solo liberato dall’abbraccio mortale con le procedure scientifiche del «dimostrare», del «verificare», del «provare», che evocano le scienze esatte e la loro oggettivazione naturalistica per restituirlo alla «casta scienza» della tradizione metafisica dove Dio viene trovato, più che nella oggettivazione naturalistica nella santità della vita e nell’impegno morale; Dio più presente nella invocazione che nella dimostrazione.48

Si tratta di delimitare due questioni importanti: «perché deve sorgere la ragione» e «di che stoffa deve essere fatta la ragione».49 La ricerca sull’interesse della ragione si realizza non solo nella questione della verità, ma soprattutto nella determinazione dell’atteggiamento del filosofo. Si tratta di “«cercare sempre più in alto», il tener ferma «l’unità dell’esperienza» senza anarchia o irregolarità” ,50 ovvero il filosofo dovrà prediligere l’insonne ricerca della verità, più che il suo possesso.

Queste due esigenze della ragione, la sua ricerca infaticabile e mai paga, come le chiama Mancini, non stanno in alternativa, ma «come una coesistenza di doppi pensieri» .51 Ovvero si tratta di far coesistere libertà e necessità, responsabilità e unità dell’esperienza, riposo della mente e inesauribile apertura della ricerca. È Kant ad aver trovato lo status del doppio pensiero come legge della ragione, dove la ragione umana «deve restare onesta in questa doppia fedeltà»^[53]: il suo oggetto non è solo quello che la porta nei lidi teologici, ma degno della ragione è anche il mondo feriale e quotidiano, soprattutto nella forma politica.

È a questa stessa ragione, indigente e inquieta,52 che Kant attribuisce, come sua esigenza costitutiva, il principio dell’incondizionato, l’esigenza dell’unità a priori dell’esperienza.53 Ciò che interessa Kant è di salvaguardare un certo grado di afferrabilità conoscitiva del «pensato e noumenico teologico […] con lo scopo di dare cittadinanza nel campo sensibile alla realtà soltanto pensabile»,54 ma lo fa, commenta Mancini, mantenendo lo hiatus tra i due mondi e la pura valenza pratica e artificiosa della prospettiva analogico-simbolica. Egli ritiene, infatti, che nessun concetto, seppur pensabile, risulta conoscibile senza un ricorso all’empiria.55 Fermo restando la presenza dei simboli e del ricorso all’analogia nel linguaggio comune,56 la conoscenza analogico-simbolica rimane, per Kant, una conoscenza indiretta che viene considerata valida non in ambito teoretico ma in ambito pratico, perché difende una determinata visione del mondo.57

Il pensar Dio, anche se non giunge a conoscere Dio^[60] rimane un’esigenza strutturalmente necessaria della ragione. Ad essa, infatti, permane sconosciuto l’in sé del soprasensibile. Ma la domanda fondamentale, che attraversa il dialogo serrato con il pensiero di Kant, nel tentativo di scovare tensioni soprannaturali all’interno di un’ermeneutica razionale della religione che espunge la rivelazione dal suo campo d’indagine,58 è la seguente:

Si può oltrepassare la prospettiva di un semplice ‘pensare’che alla radice del mondo teoretico ci sia un ordinamento divino sì da avere un’immagine teomorfa del mondo, ma di cui altro non si possa dire che un ‘analogo’funzionamento con la causalità cosmica, e così attuare, sul piano conoscitivo di questo ‘in sé’teologico, soltanto un simbolismo puramente semantico che non tocca né sequestra né conosce minimamente la cosa teologica. . .?59

Ovvero si può oltrepassare il dualismo tra pensare necessariamente Dio e necessariamente non conoscerlo?

Ciò che sta a cuore a Mancini, al di là degli esiti del confronto con il Kant “teologo”, di cui propone una lettura aperta^[63] che avrebbe bisogno di un’analisi più approfondita, è mettere a tema la questione di questo oltrepassare dove il limite è un’indicazione estrema che, invece di chiudere, lascia intravedere oltre, luogo in cui si può sorprendere il pensiero nello sforzo di afferrare l’inafferrabile, dove il mondo dello spirito si incontra in modo vitale con il mondo della natura, tanto da esserne condizione di possibilità.

Attraverso l’idea Dio, Kant permette all’uomo di sapere che il fine delle sue azioni è in armonia con il fine ultimo di tutte le cose e che quindi si dà riconciliazione (die Versöhnung, la salvezza) tra il mondo morale o della storia e quello sensibile o della natura. L’idea Dio diventa esistenziale, in quanto conferisce uno scopo, e, quindi, una speranza alla vita morale e questa coincide con la speranza stessa del mondo:

Se con questa idea Dio salviamo l’uomo, vuol dire che la sua idealità non è oziosa o irrilevante, vuol dire che produce salvezza, ossia il massimo di religione possibile.60

L’idealità è distinta dalle idee, ne costituisce il vertice. Fare i conti con l’ideale, soprattutto teologico, significa da una parte dichiararne la pensabilità e l’utile teoretico e pratico, dall’altra significa vedere quale grado di conoscenza esso permette.

Assodato, secondo il sistema kantiano, che l’ideale di Dio non presenta una conoscenza teoreticamente pura, qual è il suo valore? L’idea teologica, pur non potendo provare l’esistenza di Dio e configurare la sua personalità, ha la funzione di rettificare la conoscenza che l’uomo può attingere altrove. C’è un uso negativo della ragione, che si presenta come una costante censura di fronte a tutte le cadute oggettivistiche, razionalistiche e antropomorfiche:

In ciò si rivela un vero ideale teologico, in quanto mette in piedi il mistero di Dio e la sua tutt’alterità, che nessuna teologia del concetto può fagocitare, lasciandogli tutto il rischio di essere solo speranza per la ragione.61

Le ragioni che la ragione avanza non sono speculative, ma emergono dall’esigenza esistenziale dell’uomo che viene spinto ad accettare con un atto pratico quel pensare teologico che la ragione speculativa gli mostra come possibile.62 Con l’attenzione a Kant, Mancini sottolinea e motiva che:

la vera filosofia incontra, in modo inevitabile ed esaltante, il «bisogno» della ragione, che non è una forma di orgoglio e di arroganza, ma necessità e portento.63

Rimane, tuttavia, il problema di riempire lo spazio della pensabilità con una effettiva conoscenza. La presa d’atto di Mancini, già esplicitata in sede di filosofia della religione, che non c’è la ragione risolvente in assoluto, ma ci sono le ragioni, lo conduce ad affermare in modo perentorio che:

le ragioni di questa ragione religiosa chiedono di diventare invocazione, invece che dimostrazione; sì che la preghiera diventa il vero organo della manifestazione di Dio. Al parlar di Dio succede il parlar con Dio; e questa dossologicità, che non esclude la notizia Dei, ma la verifica in modo tutto proprio, risulta in definitiva il vertice della coscienza critica della religione, intesa nel suo senso forte, ossia come movimento di Dio che dà senso e novità e futuro alla storia dell’uomo.64

L’epilogo della sua Filosofia della religione trova conferma nell’epilogo della sua ultima fatica teoretica, il Frammento su Dio, che nella sua incompiutezza e asistematicità, già nel titolo, realizza quel pensiero più volte palesato che:

l’insuccesso razionalistico è la condizione di sopravvivenza dell’elemento religioso. Come il successo razionale, pur nella forma di conato e dell’opera incompiuta, è la condizione del suo farsi umano e credibile.65

Proprio il compito di sostenere la tensione fra la necessità di dire Dio e la sua apparente impossibilità segnala per Mancini la sfida più esigente alla quale il pensiero credente è attualmente chiamato.66


  1. Mancini nasce a Schieti (Urbino) nel 1925. Diventa sacerdote nel 1949 e nel 1953 si laurea in filosofia presso la Cattolica di Milano sotto la guida del suo maestro Gustavo Bontadini. Qui insegna Filosofia Teoretica e poi nel 1963 Filosofia della Religione. Continua la sua docenza nell’Università di Urbino, dove nel 1979, su iniziativa di Carlo Bo, fonda l’Istituto Superiore di Scienze Religiose, che Mancini riesce a far inserire a pari titolo accademico con le altre facoltà nell’Università urbinate. A lui si deve l’ideazione della rivista “Hermeneutica”, edita attualmente da Morcelliana, espressione scientifica dell’Istituto, e la collana di studi la “Biblioteca di Hermeneutica”. Muore a Roma il 7 gennaio del 1993. ↩︎

  2. Tra le note biografiche, nate da un incontro personale con Mancini, cfr. G. Ripanti, La doppia fedeltà: Italo Mancini, in Servitium 179 (2008); G. Ferretti, I. Mancini filosofo della religione e interprete del cristianesimo, in Filosofia e Teologia 3 (1993); B. Forte, La sfida di Dio. Dove fede e ragione si incontrano, Mondadori, Milano 2001, pp.142-145; A. Aguti, I. Mancini. La filosofia della religione tra metafisica ed ermeneutica, in G. Micheli e C. Sciriloni (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Cleup, Padova 2004. Per un’introduzione al suo pensiero i volumi monografici AA. VV., Kerygma e prassi. Filosofia e teologia in Italo Mancini, in Hermeneutica n. s. (1995); AA. VV., Italo Mancini tra filosofia e teologia in Asprenas 1 (2003); G. Crinella (a cura di), I. Mancini. Dalla teoresi classica alla modernità come problema, Studium, Roma 2000. ↩︎

  3. I. Mancini, Filosofia della religione, Abete, Roma 1968 (seconda edizione del 1978); la terza è edita da Marietti, Genova 1986, riveduta e ampliata. Quest’ultima è stata ristampata come primo volume delle Opere scelte, Morcelliana, Brescia 2007. ↩︎

  4. Centro propulsore erano i convegni internazionali promossi in quegli anni da E. Castelli nell’Istituto di Studi Filosofici dell’Università La Sapienza di Roma, le cui ricerche confluivano negli atti della rivista Archivio di Filosofia. In questo prestigioso contesto hanno avuto modo di esprimersi pensatori italiani che, negli anni successivi, seguirono strade divergenti, ma tutte ricche di interesse in ordine ai problemi religiosi e teologici, quali E. Castelli, A. Caracciolo e L. Pareyson. Cfr. M. Miegge, L’apertura alle nuove teologie, in P. Rossi e C. A. Viano (a cura di), Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1991. ↩︎

  5. I. Mancini, Cristianesimo e culture, (intervista a cura di L. Lestingi), Capone, Lecce 1984, p. 9. ↩︎

  6. Cfr. I. Mancini, Teologia Ideologia Utopia, Queriniana, Brescia 1974 (2° edizione nel 1978). Cfr. Id., Futuro dell’uomo e spazio per l’invocazione, L’Astrogallo, Ancona 1975; Con quale comunismo, La Locusta, Vicenza 1976; Con quale cristianesimo, Coines, Roma 1978; Fede e cultura, Marietti, Torino 1979; Come continuare a credere, Rusconi, Milano 1980. ↩︎

  7. Edita da Morcelliana, Brescia 2000, a cura di A. Aguti e con prefazione di G. Ripanti. Le questioni qui affrontate sono anticipate in altri scritti di Mancini come Teologia dei doppi pensieri, in AA. VV., Essere teologi oggi, Marietti, Casale Monferrato 1986; Scritti cristiani. Per una teologia del paradosso, Marietti, Genova 1991. ↩︎

  8. G. Ripanti, Teo-logica dei doppi pensieri, in Frammento su Dio, op. cit., p. 7. ↩︎

  9. I. Mancini, Teologia dei doppi pensieri, op. cit., p.102. ↩︎

  10. Cfr. Id., Frammento su Dio, op. cit., pp. 35-61 dove Mancini sviluppa il tema “Il bisogno della ragione” in continuo dialogo con Kant, riprendendo temi e problemi già affrontati nell’opera Kant e la teologia, Cittadella, Assisi 1975. ↩︎

  11. Cfr. A. Aguti, I. Mancini e la filosofia della religione, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di G. Micheli e C. Sciriloni, Cleup, Padova 2004, p. 130 che afferma: “Mancini nel capitolo De profundis per la dialettica mette a fuoco la progressiva identificazione tra metafisica e dialettica che si è registrata nella filosofia moderna e la sua crisi nell’epoca contemporanea, crisi che prelude ad una rinnovata forma di metafisica nella quale la continuità fra l’essere e gli enti viene spezzata e con essa la continuità idolatria fra Dio e il mondo che si offre nel sacro”. ↩︎

  12. Cfr. I. Mancini, Frammento su Dio, op. cit., p. 66 dove l’autore allude al rovesciamento concettuale operato da Lévinas nel suo libro Totalità e Infinito, dove ha restituito all’idea di infinito quella separatezza “salutare” che lo tiene a distanza da qualsiasi presa del concetto, distanza che consente all’infinito di parlare di nuovo. Questo parlare da parte di Dio segna per Mancini l’opposizione tra dialettica e metafisica. L’unica metafisica possibile dopo le ceneri della dialettica è quella che contempla un Dio che parla, che restituisce a Dio un volto, un nome. ↩︎

  13. Ivi, p. 67. ↩︎

  14. Ivi, p. 68. ↩︎

  15. Ivi, p. 69. ↩︎

  16. Ivi, p. 77. Questa definizione, ripresa da K. Barth, si spiega per il tentativo che fa Hegel di concepire la sua filosofia come alternativa salvifica al cristianesimo, istituendo un vero e proprio messianismo laico della ragione. ↩︎

  17. Ivi, p. 78. ↩︎

  18. “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione”. ↩︎

  19. Mancini riporta alla nota 43 di p. 81 del Frammento su Dio un brano significativo di Hegel tratto dal testo Fede e sapere, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, pp. 252-253. ↩︎

  20. Cfr. Id., Frammento su Dio, op. cit., p. 82. ↩︎

  21. Cfr. ivi, pp. 91-93. ↩︎

  22. Cfr. ivi, p. 95. ↩︎

  23. Cfr. T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1982. Cfr. W. Beierwaltes, Identità e Differenza, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. 313-364. ↩︎

  24. Ivi, p. 181 dove afferma: “La minima traccia di una sofferenza senza senso nel mondo dell’esperienza smentisce tutta la filosofia dell’identità, che vorrebbe farlo dimenticare all’esperienza”. ↩︎

  25. Sull’interpretazione teologica della filosofia di Adorno cfr. M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1982, p. 11. ↩︎

  26. A. Aguti, I. Mancini e la filosofia della religione, op. cit., p. 130. ↩︎

  27. Cfr. Id., Frammento su Dio, op. cit., pp. 125-189. ↩︎

  28. Cfr. Ivi, pp. 125-146. Cfr. M. CACCIARI, Metafisica della gioventù, in G. Lukács, Diario (1910-1911), Adelphi, Milano 1983. ↩︎

  29. Mancini cita l’opera di G. Lukács, L’anima e le forme, pubblicata nel 1911. Cfr. I. Mancini, Lukács e Bloch. La differenza che non è infinita, in D. Losurdo-P. Salvucci-L. Sichirollo, G. Lukács nel centenario della nascita, Quattro Venti, Urbino 1986. Per una riflessione critica di questo saggio si rimanda allo studio di E. Matassi, Lukács e Bloch in Mancini, in Hermeneutica (2004), pp. 121-134. ↩︎

  30. Ivi, p. 137. ↩︎

  31. Cfr. ivi, pp. 147-189. Autore molto citato da Mancini, soprattutto in TIU, op. cit., pp. 541-655. ↩︎

  32. Ivi, p. 165. ↩︎

  33. Ad Heidegger Mancini dedica un capitolo nell’opera Filosofi esistenzialisti, Urbino 1964. In una pagina del diario del 24 agosto 1990 Mancini afferma: “Studio Heidegger e ormai ho rivoluzionato la mia lettura di lui. Sento temi messianici, riflessi teologici, cadenze bibliche ecc…ma il pensiero non giunge a Dio. Volontà di trascendenza ma non teoria di trascendenza” in A. Aguti, Nota editoriale, in Frammento su Dio, op. cit., p. 16. ↩︎

  34. Id., Frammento su Dio, op. cit, p. 105. ↩︎

  35. Cfr. ivi, pp. 191-276. ↩︎

  36. Ivi, p. 276. Nella stessa pagina, a conforto di quanto detto, viene riportata da Mancini una citazione di Heidegger dal testo Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, p. 136: “Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta come unica possibilità quella di preparare (vorbereiten) nel pensare e nel poetare, una disponibilità (Bereitschft) all’apparizione di Dio o all’assenza di Dio nella catastrofe (il fatto che, al cospetto di Dio assente, noi tramontiamo)”. Cfr. l’interpretazione a questo proposito di H.G. Gadamer, L’ultimo dio, Meltemi, Roma 2002. ↩︎

  37. Sul segno dell’“ultimo Dio” diverse interpretazioni sono riportate da Mancini, come quella data da Pareyson in Heidegger: la libertà e il nulla, ESI, Napoli 1990, citata a p. 198 del Frammento↩︎

  38. Cfr. I. Mancini, Frammento su Dio, op. cit., pp. 109-113. ↩︎

  39. Ivi, p. 109. ↩︎

  40. Ivi, p. 113. ↩︎

  41. Ivi, p. 115. ↩︎

  42. Cfr. ivi, p. 116, dove Mancini afferma: “da qualche secolo diceva Bloch, il mondo è diventato una repubblica e gli sguardi verso l’alto si fanno sempre più rari”. ↩︎

  43. Mancini fa risalire l’origine del pensiero negativo a Nietzsche. In lui si modella la crisi antihegeliana, cioè antisistematica, ma anche antimonoteista. ↩︎

  44. Cfr. Id., Frammento su Dio, op. cit., p. 37. ↩︎

  45. Cfr. Id., Kant e la teologia, op. cit. Da tempo Mancini coltivava un interesse specifico per Kant. Ne è prova la lettura e il commento della Critica della ragion pura nei corsi di Filosofia Teoretica tenuti all’Università, che confluiranno in I. Mancini, Guida alla Critica della ragion pura, Urbino 1982-88; la già ricordata opera Kant e la teologia, dove analizza in modo particolare l’Opus postumum ( tr.it. Opus postumum. Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica, a cura di V. Mathieu, Bologna 1963) e il capitolo Il bisogno della ragione nell’opera postuma Frammento su Dio pp. 35-61. Cfr. A. Ascione, La ragione e l’assoluto. L’itinerario filosofico e teologico di I. Mancini, Tesi di Dottorato in Teologia - Estratti, Napoli 2007. ↩︎

  46. Cfr. Id., Kant e la teologia, op. cit., pp. 59-93. ↩︎

  47. Id., Frammento su Dio, op. cit., p. 41. ↩︎

  48. Ivi, p. 42. ↩︎

  49. Ivi, p. 45. ↩︎

  50. Ivi, pp. 47-48. ↩︎

  51. Ivi, p. 48. ↩︎

  52. Cfr. Id., Kant e la teologia, op. cit., p. 77. ↩︎

  53. Cfr. Id., Frammento su Dio, op. cit., p. 55. ↩︎

  54. Id., Kant e la teologia, op. cit., p. 83. ↩︎

  55. Cfr. ivi, p. 83. ↩︎

  56. Cfr. ivi, pp. 64-73. ↩︎

  57. Cfr. ivi, p. 82. ↩︎

  58. Cfr. ivi, p. 222. ↩︎

  59. Ivi, p. 182. ↩︎

  60. Ivi, p. 218. ↩︎

  61. Ivi, p. 46. ↩︎

  62. Cfr. ivi, p. 52-53. ↩︎

  63. Id., Frammento su Dio, op. cit., p. 40. ↩︎

  64. Id., Filosofia della religione (ed. 1986), op. cit., p. 382. ↩︎

  65. Ivi, pp. 384-385. ↩︎

  66. Cfr. Id., Futuro dell’uomo e spazio per l’invocazione, op. cit., p.77-78; cfr. Id., Dio in Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Roma 1982; cfr. Id, TIU, op. cit., pp. 69-116; cfr. P. Grassi, Intervista a I. Mancini sulla teologia contemporanea, in Nuovo Leopardi 35 (1992). ↩︎