Levinas nelle pieghe della fenomenologia

Il pensiero filosofico levinasiano nasce e si sviluppa intrecciandosi strettamente con la filosofia fenomenologica. Intreccio fatto di continuità e di rotture. Rotture che comunque non «frantumano» l’orizzonte fenomenologico e rotture che rompono con la fenomenologia. Proprio questo intreccio, questo rapporto costante col pensiero di Husserl e Heidegger, questo «tenersi in equilibrio» sul crinale della fenomenologia da parte di Levinas è oggetto delle analisi di questo lavoro. La domanda che implicitamente lo orienta e lo guida è la seguente: può Levinas dirsi fenomenologo?1 Lui stesso, infatti, rivendica per sé, se non la lettera, almeno lo spirito della fenomenologia. Tenterò di articolare brevemente una risposta a questa domanda.

Se si dovesse caratterizzare con un motto quello che è stato lo scopo dichiarato della fenomenologia, si ricorrerebbe al famoso «andare-ritornare alle cose stesse». Analizziamo brevemente questo «slogan».

Da una parte l’«andare-ritornare» può essere inteso in due modi diversi: attivamente, ed allora si hanno le husserliane intuizione e (ri)costituzione del dato;2 passivamente, e così si ottiene l’esposizione levinasiana, la quale si manifesta in differenti forme etiche: ossessione, prossimità, investitura, elezione, soggezione, anarchia… .3 Dall’altra parte, le «cose stesse» possono darsi in due modi differenti: adeguatamente, ma questa per Husserl è una modalità esclusiva della coscienza; in-adeguatamente, e tale in-adeguatezza, che si basa su una serie di successivi e potenzialmente infiniti adombramenti, è la caratteristica propria dell’originario apparire degli oggetti reali, i quali sono suscettibili di essere completati tramite «approcci» successivi, ma con una «completezza sempre incompleta»4 ed imperfetta perché mai compiuta. Dunque, si può dire che per la fenomenologia l’inadeguatezza caratterizza l’«altro in quanto altro», dove dire «altro in quanto altro» significa presentare l’oggetto come identico e adeguato anche se la serie delle successive percezioni non è — per necessità — completa.5 Ma è proprio l’«in quanto» — che caratterizza quello che Levinas definisce come Detto — a venir criticato dal nostro Autore, poiché si basa su di un eidos e così presuppone l’universale prima del particolare. E sussumere il particolare nell’universale vuol dire, per Levinas, neutralizzare le differenze che fanno sì che l’altro sia altro — violentandolo. Si potrebbe notare, per inciso, che l’estraneo — l’altro — può essere compreso come tale unicamente all’interno di un orizzonte di familiarità.6 Proprio perché ha qualcosa in comune con me posso incontrarlo e scoprire cosa ci separa facendo sì che sia altro da me.7 Ma torniamo a Levinas; egli introduce una distinzione tra quell’ente che è possibile indicare come «altro in quanto altro» ed Autrui che è l’«assolutamente altro» — autrui: pronome indefinito invariabile -: il primo si situa nel campo dell’oggettualità, mentre il secondo in quello della trascendenza. In realtà Husserl poneva, in qualche modo, anche gli oggetti sul piano della trascendenza:

Ci sono degli oggetti — e tutti gli oggetti trascendenti, tutte le «realtà naturali» incluse sotto il titolo di natura o di mondo rientrano in questo gruppo — che non possono essere date, con una determinazione integrale ed un’intuitività ugualmente integrale, in alcuna coscienza chiusa, finita. Tuttavia il dato perfetto della cosa è presente in quanto «Idea» (in senso kantiano); questa idea designa un sistema, assolutamente determinato ed il suo eidos, che regola lo sviluppo indefinito d’un apparire continuo.8

Idea kantiana, quindi non attualmente posseduta. Sembrerebbe, così, che già Husserl avesse concepito l’alterità dell’altro, ma in realtà egli ha posto l’accento sull’inadeguazione dell’oggetto reale — rispetto all’idea — e non tanto sull’alterità come tale — cioè originariamente irriducibile e irrappresentabile.9 In questo senso Levinas parla di trascendenza immanente, in opposizione alla quale introduce una trascendenza forte, intesa come rottura dell’orizzonte: in La signification et le sens afferma che, per la fenomenologia, la significazione ideale implica una duplice referenza alla totalità, alla totalità dell’oggetto colto nella sua unità e alla totalità dell’essere che rende possibile il cogliere l’oggetto identificato in quanto identico in se stesso.10 È proprio con questa seconda totalità che rompe la trascendenza levinasiana: Autrui non è significativo perché posto all’interno di una rete di relazioni significative, ma perché il suo volto è autosignificanza per eccellenza — «non si situa nella luce di un altro ma si presenta da sé nella manifestazione che deve solo annunciarlo».11 Con la rottura dell’orizzonte si passa, nelle intenzioni di Levinas, da un linguaggio — il Detto — nel quale l’altro è inteso in quanto altro ad un linguaggio — il Dire — dove l’altro non è più situato in alcun rapporto, fosse pure il rapporto inadeguato che caratterizza per Husserl gli oggetti reali:

Porre fine alla coestensione [“coesistenza” nella traduzione italiana] del pensiero e della relazione soggetto-oggetto, significa lasciare intravedere una relazione con l’altro che non sarà né un’intollerabile limitazione di colui che pensa, né un semplice assorbimento di quest’altro in un io, sotto forma di contenuto [di pensiero]. Là dove ogni Sinngebung [donazione di senso] era l’opera di un io sovrano, l’altro, infatti, non poteva che essere assorbito in una rappresentazione. Ma in una fenomenologia nella quale l’attività della rappresentazione totalizzante e totalitaria è già superata nella sua propria intenzione, nella quale la rappresentazione si trova già posta all’interno di orizzonti che, in qualche modo, essa non aveva voluto, ma che non tralascia — diventa possibile una Sinngebung etica, cioè essenzialmente rispettosa dell’Altro.12

Per questo, afferma Levinas, perché si dà un’intenzionalità che si dirige verso l’altro, ma è da questi messa in scacco, anche nella fenomenologia è presente la nozione di rispetto: «Secondo lo stesso Husserl, nella costituzione dell’intersoggettività, intrapresa a partire dagli atti oggettivanti, appaiono bruscamente delle relazioni sociali, irriducibili alla costituzione oggettivante che pretendeva di cullarle al suo ritmo».13 In realtà questo rispetto fenomenologico non è tanto primariamente un’attitudine etica, quanto piuttosto metodologica: un «andare alle cose stesse», cioè a quello che le cose sono senza aggiungervi nulla — ed in questo senso rispettarle.14 Questo vuol dire che la Sinngebung «rispettosa» è diretta sugli oggetti e sul mondo, e non sull’altro uomo, che viene colto tramite l’analogia, che costituisce propriamente il bersaglio di Levinas nella sua difesa della soggettività individuale.15 Si può dire, a mio avviso, che, comunque, fino a questo punto il nostro Autore non ha ancora fatto il passo decisivo verso una rottura con la fenomenologia. Perciò per quanto esposto fin qui si può essere d’accordo con chi sostiene che con Levinas si ha una «rottura della fenomenologia» e non una «rottura con la fenomenologia».16 Ma solo fino a questo punto del percorso. Levinas però non è solo questo. Ovviamente ci sono altri aspetti del suo pensiero che lo accomunano a Husserl,17 ma ciò che mi preme mettere in evidenza ora è il fatto che, dalla rottura dell’orizzonte ad opera di Autrui, trae conseguenze che implicano una rottura con la fenomenologia.

È vero che è stata la stessa fenomenologia, con l’introduzione dell’idea dell’orizzonte come condizione della fenomenalità, a porre le basi, da un lato, per un pensiero che pensasse al di là dei limiti e delle condizioni di visibilità dell’orizzonte e, dall’altro, per una caratterizzazione dell’assoluta alterità come rottura dell’orizzonte. Se a questo aggiungiamo che l’altro come alter ego ha, per Husserl, un significato proprio in quanto alter, cioè al di fuori di me, e ultimamente distante da me, possiamo capire come Levinas, unendo questi due aspetti, concluda che l’alterità assoluta è positivamente significativa. In realtà, per Husserl, l’altro è positivamente significativo in quanto «alter ego», cioè per analogia. Mi spiego meglio. Per la fenomenologia l’io incontra un non-io che si rivela essere un alter ego, caratterizzabile così attraverso attributi positivi in quanto il soggetto può ad esso applicare quei caratteri che lui stesso avrebbe «se fosse là», al posto di quello: il «non-io» si rivela essere un «altro-io»:18 ma, appunto, altro perchè per Husserl, l’altro-io è colto come altro, visto che non si dà adeguazione fra il me e il me visto là.19 Invece, fenomenologicamente, non è possibile caratterizzare in modo positivo quell’altro che è «situato» al di fuori dell’orizzonte, il quale è altro diversamente rispetto all’alter ego. Come si può descrivere o parlare di questo «altro che è assolutamente altro», cioè al di là dell’orizzonte del soggetto? Ci sono sostanzialmente tre possibilità. La prima è di dirne in termini positivi, basandosi sull’analogia — di proporzione o di attribuzione che sia — ed è ciò che storicamente hanno fatto la metafisica classica ed ogni sua ripresa. La seconda è di parlarne negativamente. La terza è non dirne nulla. Levinas pretende invece di parlarne in termini positivi, ma senza prendere in considerazione l’analogia, anzi condannandone l’utilizzo; infatti l’alterità da lui considerata è intesa come alterità assoluta nel senso di assolta da ogni mediazione e relazione. Ma questo è possibile? Come parlare di qualcosa che non ha assolutamente nulla in comune con me? E la sofferenza dell’altro come mi appare? Come posso capire che egli soffre?20 Come può qualcuno che è totalmente altro da me muovermi alla diaconia, come può coinvolgermi e mettermi in questione?21 Levinas non vuole descrivere Autrui a partire dall’io, ma pretende di determinare il senso dell’io partendo da Autrui. Per poterlo fare ci deve essere qualcosa che sia comune ai due. Altrimenti come potrebbe Autrui anche solo «sfiorare» il soggetto? E allo stesso modo, come si intenderebbe un’affermazione come questa: «“Grazie a Dio” io sono autrui per gli altri»?22 Autrui è, per Levinas, termine etico e non ontologico, dunque, una reciprocità — un’analogia direi — si dà, nonostante quello che dichiara il nostro Autore, anche al di fuori del piano dell’essere, anche al di là dell’essere. Autrui, quindi, è inteso da Levinas come nuova alterità. Autrui negativamente «definito» come «ciò che io non sono».23 È possibile però, per Levinas, superare l’orizzonte delle determinazioni negative e dire dell’altro, per esempio, come del povero, del debole … — tutte figure che ne indicano la marginalità all’interno del mondo. Questo assolutamente altro — ineffabile ed inafferrabile — si presenta, paradossalmente, nel volto dell’altro uomo, volto che, comunque, è elemento della quotidianità — qui sta il paradosso.24 Ma il volto, appunto, è ciò che «è presente nel suo rifiuto di essere contenuto»,25 «cifra» di un Autrui che è infinitamente trascendente ed estraneo, e sul quale non si può assolutamente potere.26 E, afferma Levinas, «manifestarsi come volto significa imporsi [corsivo dell’Autore] al di là della forma, manifestata e puramente fenomenica [corsivo mio], presentarsi in un modo irriducibile alla manifestazione, […] senza mediazione».27 Non si rischia così di tornare ad un «surrogato» della posizione kantiana? Se il volto non appare, se esso non è un oggetto intenzionale per l’io, se non è dato significa che non è un fenomeno. La forma del volto — la bocca, gli occhi… — è il fenomeno che appare e che maschera il volto nella sua nudità. Se si fa astrazione dalla forma — la quale interessa alle scienze, come ad esempio all’anatomia — si ottiene un «resto»: la prossimità dell’Altro. Così, ciò che Levinas chiama viso non è una parte dell’organismo — che come tale sarebbe percepibile e rappresentabile -; è qualcosa che va oltre ogni capacità intellettuale del soggetto. Si capisce come il volto non faccia originariamente parte del «mondo proprio» del soggetto, se per «mondo proprio» si intende o la totalità degli oggetti in riferimento al soggetto stesso, o l’orizzonte all’interno del quale si manifestano i fenomeni. Ciò che il volto fa è precisamente il portare scompiglio in questo ordine mondano.28 Levinas parla a questo proposito di enigma29 in contrapposizione al fenomeno30 — e tuttavia senza nesso col fenomeno come si darebbero lo scompiglio e l’enigma? -. Fenomeno è l’oggetto che ha un significato in base ad un contesto ed al legame che lo riferisce a ciò che esso non è:31 con l’idea dell’orizzonte la fenomenologia determina la significazione essenzialmente come referenziale.32 Enigma indica sia un «modo di manifestarsi senza manifestarsi», per semplice accenno, ritraendosi subito dall’ambito fenomenologico dopo averlo scompigliato — «scompiglio assoluto» indica il fatto possibile in cui l’alterità trascendente irrompe nell’Identico senza essere da questo ricompressa nel suo ordine: il volto significa da sé — sia un modo di significare che può essere riconosciuto solo «se si vuole», liberamente, dato che non si impone con la propria presenza disvelata, ma «mantenendo l’incognito».33 Se è così, l’epifania del volto come visitazione significa in modo stra-ordinario, come comando — «non uccidere» — che s’impone alla coscienza capovolgendone l’intenzionalità in responsabilità. Il volto significa positivamente come appello alla responsabilità, in termini etici, muovendo l’io alla diaconia — che poi è ciò che definisce il soggetto stesso. Fuori dal piano fenomenologico c’è l’enigmatico, che si sottrae al logos kerygmatico — cioè all’intenzionalità tematizzante enunciante ed annunciante. Mentre l’esperienza di un dato fenomenologico tende a chiarificarsi e a completarsi tramite successive appercezioni, l’enigma si sottrae nel momento stesso in cui si offre allo sguardo: si sottrae mentre si dona.34 Questo perché se Autrui è altro di un’alterità radicalmente altra, allora essendo l’io presente — per definizione -, quello non può che essere assente. Da un lato, dunque, il fenomeno che si mostra nella sua luminosità alla ragione, dall’altro l’enigma che si sottrae ad essa e che significa pur senza farsi significato oggettivamente tematizzato sul piano fenomenico dell’essere: cosa può rappresentare tutto questo se non una critica all’idea stessa di fenomeno?

Mi chiedevo se non si fosse sul punto di tornare ad una posizione kantiana — con tutte le aporie di Kant: da un lato il fenomeno come ciò che è conoscibile, dall’altro il noumeno come ciò che è solamente pensabile, dove il pensare resta sul piano della mera idealità, ed il conoscere coniuga l’idea con l’intuizione — cioè con l’esperienza.35 L’enigma mi sembra, in fondo, essere una sorta di noumeno.36 E perché abbia un fondamento più solido quello che dico, ricordo che, in Liberté et commandement,37 Levinas parlava di una «fenomenologia del noumeno».38 Ma questa è una contraddizione! Come si può fare una fenomenologia di ciò che si può solo pensare? Si ricordi che il volto è il «concretizzarsi» dell’idea dell’infinito, ovvero di quell’idea che caratterizza quel pensiero che pensa — e non che conosce — più di quanto possa pensare. Ed infatti, ad un certo punto il nostro Autore abbandona la descrizione fenomenologica, per utilizzare termini etici. E se il fondamento non è colto su base fenomenologica, non si capisce come potrebbe derivarne una fenomenologia.

Si può ultimamente dire che Levinas percorre la strada che unisce l’io e l’altro in entrambi i sensi di marcia: dall’io all’altro, seguendo la strada della fenomenologia; ma allorché determinerà l’alterità di Autrui in termini etici e positivi, inizierà la via di ritorno all’io — che porterà ad una soggettività umana avente il senso ultimo nel suo «dissolversi» per l’altro — seguendo un percorso che non è più definibile fenomenologico, in quanto l’al di là dell’essere, fondamento di ogni senso e infine dell’essere stesso, non è più colto e coglibile in termini fenomenologici.

In un certo senso Levinas ha compiuto lo stesso tentativo di Heidegger, quello di «saltare» e superare la metafisica contemporanea. Ma mentre per far ciò il suo «maestro» è tornato alla radice greca dell’Occidente, il nostro Autore ha attinto soprattutto a quella ebraica, che inevitabilmente doveva condurlo ad una rottura con la fenomenologia.39


  1. Cito qui di seguito i lavori dedicati a questo tema generale o più specificatamente al problema dei rapporti tra Levinas e Husserl o Levinas e Heidegger. In lingua italiana. Saggi: F. P. Ciglia, «Emmanuel Levinas interprete di Husserl e di Heidegger nel primo decennio della sua speculazione», Filosofia, 1983, n. 34, pp. 113-127; F. Guerriera Brezzi, «Pensare altrimenti la differenza: Levinas e Heidegger», Aquinas, 1983, n. 26, pp. 459-483; la raccolta a cura di P. A. Rovatti, Intorno a Levinas, Milano 1987. Libri: F. Camera, L’ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Brescia 2001; I. Poma, Le eresie della fenomenologia, Napoli 1996; G. Sansonetti, Levinas e Heidegger, Brescia 1998. In lingua francese. Saggi: F. Aubay, «Conscience, immanence et non-présence: E. Levinas, lecteur de Husserl», Alter, 1993, n. 1, pp. 283-318; R. Bernet, «Deux interprétations de la vulnérabilité de la peau (Husserl et Levinas)», Revue Philosophique de Louvain, 1997, n. 95, pp. 437-455; J. Colette, «Levinas et la phénoménologie husserlienne», Les Cahiers de la Nuit Surveillée, 1984, n. 3, pp. 19-36; J. Colléony, «Heidegger et Levinas: la question du Dasein», Les Etudes Philosophiques, 1990, n. 4, pp. 313-331; J. de Greef, «Levinas et la phénoménologie», Revue de Métaphysique et de Morale, 1971, n. 76. pp. 448-465; J. -L. Lannoy, «“Il y a” et phénoménologie dans la pensée du jeune Emmanuel Levinas», Revue Philosophique de Louvain, 1990, n. 88, pp. 369-394; A. Münster, «L’autre dans la phénoménologie de Husserl chez Sartre et chez Emmanuel Levinas, ou de l’alter ego vers le désir d’autrui» (in A. Münster, La différence comme non-indifférence. Ethique et altérité chez Emmanuel Levinas, Paris 1995, pp. 49-68) G. Petitdemange, «L’un ou l’autre. La querelle de l’ontologie: Heidegger-Levinas» (in J. Rolland (co.), Emmanuel Levinas, Paris 1984, pp. 37-49); S. Strasser, «Antiphénoménologie et phénoménologie dans la philosophie d’Emmanuel Levinas», Revue Philosophique de Louvain, 1977, n. 75, pp. 101-124. Libri: Y. Murakami, Levinas phénoménologue, Grenoble 2002. In lingua inglese. Articoli: S. Benso, «Of Things face-to-face with Levinas face-to-face with Heidegger», Philosophy Today, 1996, n. 40, pp. 132-141); L. Bouckaert, «Ontology and Ethics: Reflections on Levinas’ Critique of Heidegger», International Philosophy Quaterly, 1970, n. 10, pp. 402-019; R. A. Cohen, «Levinas, Rosenzweig, and the phenomenologies of Husserl and Heidegger», Philosophy Today, 1988, n. 32, pp. 165-178; S. Gans, «Ethics or ontology: Levinas and Heidegger», Philosophy Today, 1972, n. 16, pp. 117-121: C. D. Keyes, «An evaluation of Levinas’s Critique of Heidegger», Research in Phenomenology, 1972, n. 11, pp. 121-142; A. Peperzak, «Phenomenology — Ontology — Metaphysics: Levinas’ Perspective on Husserl and Heidegger», Man and World, 1983, n. 16, pp. 113-127. Tra tutti questi lavori, però, sono pochi quelli che rispondono alla domanda che ci siamo posti. ↩︎

  2. Così si esprime J. de Greef riguardo l’intuizione: «Ora l’intuizione è […] interamente linguaggio proclamatorio che nomina l’identità dell’oggetto pretendendo come unica [nel senso di unitaria] la molteplicità delle prospettive» («Levinas et la phénoménologie», cit. nota 1, p. 455). E sulla costituzione del dato: «Il pensiero fenomenologico preferisce la coscienza teoretica ricostituente il dato» (ibidem, p. 451). ↩︎

  3. Sono questi per J. de Greef i «termini che esprimono questa passività, passività di una coscienza che non è origine, che non è sujet de, ma sujet à» (ibidem, p. 462 n. 1). ↩︎

  4. Ibidem, p. 451. ↩︎

  5. Dire «questa è una casa» significa affermare che l’ente «X» che ho di fronte ha tutte le caratteristiche essenziali per essere definito come una «casa», pur senza che io l’abbia analizzato completamente ed in ogni suo dettaglio. Il problema sarà quello di individuare quali e quante siano «tutte» quelle caratteristiche che un oggetto deve avere per poter essere determinato come appartenente ad una certa categoria di enti, ma questo problema esula dal presente lavoro. ↩︎

  6. Per una più approfondita analisi in questa direzione si veda A. Fabris, Paradossi del senso. Questioni di filosofia, Brescia 2002, in particolar modo le pp. 25-28 dedicate al «nesso costitutivo di “estraneo” e “familiare”». ↩︎

  7. Essere nella differenza non è essere nella distanza, nell’impossibilità della comunicazione? Se la differenza è assoluta sì. Ad esempio: la sofferenza, come posso vederla sul volto di Autrui se prima non l’ho provata io stesso e proprio per questo so nominarla? Devo averla provata, qualsiasi sia stata la sua intensità; solo così posso poi declinarne l’intensità tramite una rielaborazione mentale. Infatti, la differenza può essere solo differenza di qualcosa che è comune. L’estraneo, il diverso, può essere compreso come tale solo ed unicamente entro un orizzonte di familiarità. Ed in questo orizzonte è compreso come tale: in quanto estraneo può, cioè, esercitare la propria potenzialità dirompente nei confronti delle abitudini e delle attese che contraddistinguono la sfera del familiare, e dunque modificarla profondamente, riconfermando o deludendo particolari aspettative. Questo vuol dire, addirittura, che, se l’estraneo è comprensibile come tale solo a partire da un orizzonte di familiarità, sul quale tuttavia è in grado di incidere per trasformarlo, allora lo stesso elemento familiare non può mai essere considerato pienamente tale, poiché mantiene una «riserva di estraneità» che permette di guardarlo con occhi di volta in volta nuovi. Tuttavia questa alterità risulta sempre inserita all’interno di quella familiarità previa che mi consente di comprendere che l’estraneo è estraneo. ↩︎

  8. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, I, «Jahrbuch», I, 1913, pp. 350-351. ↩︎

  9. Si veda quanto dice J. de Greef, «Levinas et la phénoménologie», cit. nota 1, p. 460. ↩︎

  10. «La signification et le sens» (in Revue de Métaphysique et de Morale, 1964, n. 69, pp. 125-156) p. 129. ↩︎

  11. «La trace de l’autre», pubblicato in Tijdschrift voor Filosofie, 1963, n. 25, pp. 605-623; raccolto poi in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger (EDE), Vrin, Paris 1967, 187-202; trad. ital. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, a cura di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998. Ho citato dalle pp. 226-229. Si veda F. Salvarezza, Emmanuel Levinas, cit. nota 1, pp. 119-121. ↩︎

  12. La ruine de la représentation, EDE, p. 135 dell’edizione francese. ↩︎

  13. Ibidem, è la continuazione del passo precedente, e la conclusione dell’articolo. ↩︎

  14. Si veda J. de Greef, Levinas et la phénoménologie, cit. nota 1, pp. 461-463. ↩︎

  15. In realtà Levinas fraintende l’analogia. Ora, questa si delinea secondo due possibili direzioni: una ontica-orizzontale ed una metafisica-verticale. La prima è l’analogia di proporzionalità, nella quale ad essere importante è la somiglianza fra i modi d’essere e non fra i soggetti di questi modi. Ma dove si situa la condizione di possibilità di un confronto tra proporzioni? A ben vedere, se fra i soggetti delle proporzioni non vi fosse una parentela ontologica i loro modi d’essere sarebbero incomparabili, ed il quarto termine resterebbe un’assoluta incognita. Si situa a questo punto il passaggio dall’uso costitutivo delle proporzioni al loro uso regolativo. Nel primo caso si raggiunge con esattezza alla conoscenza dell’incognita. Nel secondo si ha solo una regola per cercare il quarto termine: all’esattezza si sostituisce l’approssimazione, campo dell’ermeneutica, la quale non costituisce una comprensione definitiva e piena dell’altro. Levinas fraintende dunque l’analogia, riducendone ogni modalità a quella di proporzionalità. Ma se si presta attenzione si può vedere come anche da questo lato si dà solo somiglianza e non piena adeguazione: dire che «l’apprensione intellettuale è una visione dell’oggetto» non è come affermare che «6: 3 = 4: 2». Si deve dunque ammettere che si danno due tipi di proporzionalità: quella analogica e quella matematica. Levinas, nella sua critica, sembra ricondurre ogni analogia — unione di identità e di differenza — alla proporzionalità matematica. In realtà l’analogia, in quanto tale, ha come uno dei suoi fronti un altro — campo ontico — e tutt’altro — piano metafisico -: l’analogia, quindi, mantiene e «salvaguarda» le differenze. A ben vedere, lo stesso Husserl non usa il termine «analogia», anzi rifiuta recisamente un «ragionamento per analogia» — si veda, come esempio, questo passo tratto dalle Cartesianische meditationen (Kluwer Academic Publisher B. V. 1950; trad. it. Di F. Costa, Meditazioni cartesiane, Milano 1997): «È chiaro […] che solo una somiglianza [corsivo mio], interna alla mia sfera di primordialità, tra quel corpo e il mio può fare del primo un altro [corsivo dell’Autore] corpo. Vi sarebbe quindi una certa appercezione di somiglianza [corsivo mio] ma non mai, in ogni caso, un ragionamento per analogia» (p. 131 dell’edizione italiana). È comunque chiaro che questo fatto deriva dai precedenti matematici di Husserl, il quale, così come Levinas, considera l’analogia solo nella sua accezione di analogia di proporzionalità. Ed è questa l’analogia che rifiuta. ↩︎

  16. È di questo parere F. Oggero che, in Levinas: lo sfondamento etico della fenomenologia e la testimonianza etica (in I. Poma, Le eresie della fenomenologia, cit. nota 1), scrive: «Con Levinas siamo […] alla “rottura della fenomenologia”. Si tratta di una krisis o di un’eresia della fenomenologia che intende superare definitivamente il primato della coscienza fenomenologica. E tuttavia non si tratta in Levinas di una rottura con la fenomenologia. Ciò dipende dal fatto che la rottura del soggetto, ossia della coscienza che attraverso il sapere si fa inizio e fine del senso, si pone nella forma della rottura etica. Se da un lato questa non concede al soggetto fenomenologico alcun escamotage teoretico, che gli consenta di coniugare ancora in qualche modo la propria identità e il proprio farsi secondo al senso dell’Altro, dall’altro essa non gli impone nemmeno una non-identità risultante dal suo soggiogarsi, ancora teoreticamente, a un senso de-soggettivante. La rottura etica dischiude, infatti, un senso assolutamente soggettivante. In altre parole: la rottura del soggetto non impone al soggetto di rompere con se stesso, ma solo di rompere la propria auto-soggettivazione teoretica, per aprirsi alla soggettivazione etica ad opera dell’assolutamente Altro» (p. 70). ↩︎

  17. Si veda S. Strasser, Antiphénoménologie et phénoménologie dans la philosophie d’Emmanuel Levinas, cit. nota 1, pp. 118-124, nelle quali, dopo essersi chiesto come mai tanti hanno la ferma convinzione che il pensiero levinasiano è, malgrado tutto, fenomenologico, elenca le somiglianze tra quello ed il pensiero husserliano. Ne ricordo solo alcune: entrambe sono filosofie del soggetto; per tutte e due il tempo svolge un ruolo significativo; Levinas ha una cura per la ricerca delle origini nascoste di tutto ciò che si mostra, che è tipicamente fenomenologica; entrambi i pensieri sono caratterizzati da un radicalismo inesorabile contro il senso comune. Sarà forse dovuto a questo elenco, posto alla fine del suo articolo, il fatto che Strasser termini dicendo che «in fondo possiamo legittimamente concludere che l’impressione di tanti che considerano Levinas un fenomenologo, non è un azzardo. La sua filosofia presenta, effettivamente, alcuni tratti, sia positivi che negativi, che caratterizzano i pensatori fenomenologici. Essa è una fenomenologia, ma una fenomenologia di un nuovo genere. Forse bisognerebbe precisare questa conclusione: Levinas ha cambiato l’ottica fenomenologica aggiungendovi una dimensione di profondità.» Questo nonostante in apertura avesse affermato: «Io sono convinto che la filosofia di Levinas differisce essenzialmente da tutti quelli che sono conosciuti come fenomenologhi» (p. 101). Ma una nuova fenomenologia come quella levinasiana è ancora, essenzialmente, fenomenologia? ↩︎

  18. Si veda la V delle Cartesianische Meditationen, cit. nota 15. ↩︎

  19. Mentre nell’autoriflessione tra l’intenzionalità e l’intenzionato si dà adeguazione, non così avviene se l’intenzione mira all’altro-io posto là. ↩︎

  20. Infatti, se vedo la sofferenza di Autrui, significa che egli è un fenomeno, ma Levinas dice proprio che Autrui — e, quindi, anche Autrui sofferente — non è un fenomeno. ↩︎

  21. La filosofia inizia con la meraviglia, dicevano gli antichi. E la meraviglia è l’altro che mi «smuove», mi stimola. Ma questo significa che l’altro fa presa su di me, ma per poterlo fare dobbiamo avere qualcosa in comune che permetta il contatto. Ho detto «l’altro fa presa su di me»: io sono passivo come dice Levinas. Il totalmente altro o non lo colgo o se lo colgo è perché si declina in forme che mi competono: ad esempio, Dio si comunica attraverso la Parola e l’Incarnazione. ↩︎

  22. Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Martinus Nijhoff, La Haye 1974; traduzione italiana Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983. Ho citato da p. 198 dell’edizione francese. ↩︎

  23. Ibidem, p. 182. ↩︎

  24. Su questo tema si veda F. P. Ciglia, Un passo fuori dall’uomo, Padova 1988, pp. 180-207. ↩︎

  25. Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, La Haye 1961; traduzione italiana Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, a cura di A. Dall’Asta, Jaca Book, Milano 1980. Ho citato da p. 199 dell’edizione francese. ↩︎

  26. Neppure uccidendo l’altro io ho potere su di lui, o meglio ho potere solo sulla sua parte sensibile, corporea; ma il volto fa a pezzi il sensibile, mettendo in scacco ogni tentativo di omicidio. Io posso annientarlo, ma il suo «no» rimane (ibidem, pp. 203-206). ↩︎

  27. Ibidem, p. 205. ↩︎

  28. Si veda S. Strasser, Antiphénoménologie et phénoménologie dans la philosophie d’Emmanuel Levinas, cit. nota 1, pp. 109-110. ↩︎

  29. In Greco «detto oscuro» o «allusivo». ↩︎

  30. Si veda «Énigme et phénomène», pubblicato in Esprit, 1965, n. 33, pp. 1128-1142 e successivamente raccolto in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit. nota 11, pp. 203-216. ↩︎

  31. Si ricordi quanto dice Hegel: «Sotto un unico e medesimo riguardo, l’oggetto è piuttosto il contrario di se stesso: è per sé in quanto è per altro. Ed è per altro in quanto è per sé» (Phänomenologie des Geistes, Sämtliche Werke, Stuttgart 1927; traduzione italiana di De Negri, Fenomenologia dello spirito, Firenze 1960, I, p. 104). ↩︎

  32. Si veda J. de Greef, Levinas et la phénoménologie, cit nota 1, p. 463. ↩︎

  33. EDE, cit. nota 11, pp. 241-242. Si veda anche G. Ferretti, La filosofia di Levinas, Torino 1996, pp. 171-189 e, più sotto, la nota seguente. ↩︎

  34. S. Strasser in Antiphénoménologie et phénoménologie dans la philosophie d’Emmanuel Levinas, cit. nota 1, esemplifica in questo modo: «Poc’anzi ho sentito la prossimità dell’Altro; ma ora la esamino. Noto il colore dei suoi capelli, il timbro della sua voce, il carattere dei suoi movimenti. Tutto ciò lo vedo, lo tematizzo, ne posso parlare. Allora, in fondo, cosa ho fatto? Ho esaminato la traccia dell’Altro [corsivo dell’Autore]. Ma la traccia è un vuoto, una mancanza, un’assenza; mi rinvia a qualcosa (o qualcuno) che è definitivamente, irrevocabilmente passato. Io mi domando se l’Altro è stato veramente presente “dentro” tutti questi dati, grazie a tutti questi dati che io ho appena notato. Lo posso credere, ma non sono obbligato a credervi. Vi è la questione di una decisione piuttosto che di un’evidenza costringente. L’enigma si tiene nel chiaro-scuro; è dunque il contrario del fenomeno che, sotto il sole della ragione, deve trasformarsi in un’evidenza perfettamente intelligibile [corsivo mio] (pp. 111-112). ↩︎

  35. Su Kant si veda V. Melchiorre, Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Milano 1991, pp. 70-71. ↩︎

  36. Proprio per questo, a mio avviso, pur essendo giusto quanto dice F. Salvarezza nel suo libro Emmanuel Levinas, cit. nota 1, riprendendo Derrida, non vale la conclusione a cui giunge: «Pensare con rigore la Ur-impression husserliana vuol dire per Levinas questo: pensare la coscienza al suo livello fondamentale, come apertura all’altro in quanto ospitalità; ed è questa verità ferrea, che Derrida definisce “legge implacabile”, a guidare ogni atto di apertura tematizzante, rendendolo anzitutto possibile. L’identità infatti è fin da subito ospitalità, l’essenza della coscienza è anzitutto una de-situazione del soggetto, una destituzione di sé. Prima ancora di essere apertura di sapere e misura di com-prensione, è un’interruzione di sé, un malgrado sé nell’urgenza di una destituzione che porta all’altro. “Ecco una mutazione, un salto, un’eterogeneità radicale ma discreta e paradossale che l’etica dell’ospitalità introduce nella fenomenologia”. Levinas, si potrebbe dire, ha cambiato l’ottica fenomenologica aggiungendovi una dimensione di «profondità»: in questo senso egli è e resta fenomenologo, fosse pure per il rigore con cui si è spinto per consumare a fondo le aporetiche difficoltà in cui Husserl si era imbattuto» (p. 139). Fin qui è vero che Levinas è fenomenologo, ma non lo è più allorché parla dell’assolutamente altro come di un enigma-noumeno determinandolo in termini positivi — e non puramente negativi come, ad esempio, «vuoto», «mancanza», «assenza». E, se l’assolutamente altro è il senso ed il fondamento della soggettività stessa, come può la sua filosofia essere una fenomenologia? Non metto in dubbio che sia iniziata come tale, ma ad un certo punto Levinas si è spinto oltre, uscendo dalla fenomenologia. ↩︎

  37. Pubblicato in Revue de Métaphysique et de Morale, 1953, n. 58, pp. 264-272. Ora in Liberté et commandement, Paris 1994, pp. 27-48; traduzione italiana in E. Levinas — A. Peperzak, Etica come filosofia prima, Milano 1989. ↩︎

  38. «Liberté et commandement», Revue de Métaphysique et de Morale, cit. nota precedente, p. 270. ↩︎

  39. Con questo non voglio affermare che egli non si rifaccia agli antichi Greci: Aristotele, Plotino e soprattutto il Platone dell’Idea di Bene ritornano più volte all’interno dei suoi scritti. Ma se si presta attenzione si vedrà come, per Levinas, pure la Somma Idea platonica sia insufficiente: il Bene è infatti strettamente legato al Sole — e quindi alla luce — e poi, è pur vero che non è un’eidos come invece lo sono le altre idea platoniche, e pur tuttavia risulta essere un’idea: idea somma, ma pur sempre idea e, dunque, dal puntto di vista levinasiano possibile vittima dell’analogia. L’innominabile Dio ebreo, di contro, non può che porsi al di là dell’essere e del non-essere, al di là della loro dialettica. Dialettica che, cifra della metafisica tradizionale, è presente nello stesso Heidegger. E proprio questa visione di Dio rompe con l’analogia: Dio come il totalmente, l’assolutamente altro, a tal punto che perfino la Rivelazione è prima di tutto «discorso di Dio» più che «discorso su Dio»: Dio lo si può ascoltare, ma non descrivere a partire dal soggetto, dal Me che è di fronte all’Egli. Non se ne può neppure pronunciare il Nome: Dio come pronome, dice Levinas. Tutto questo non ci porta a dire di un divorzio, nel pensiero del filosofo francese, tra filosofia e religione. Anzi. Per Lèvinas etica e religione sono strettamente unite, di più: identificate. Infatti, se Dio si mostra nella traccia, l’uomo per andargli incontro non deve fare oggetto di analisi questa traccia — che, non essendo segno, non è neppure oggettivabile —, ma avvicinarsi ad essa, dunque al volto — etica, ma pure religione come rapporto tra essente ed essente. Ancora, Levinas sostiene che il primo Dire — Dire come esposizione: etica — «è certo solo una parola. Ma è Dio» — religione, quindi (Langage et proximité, in En decouvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris 1967; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, a cura di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 275-276). Non vale, infatti, per Levinas, la differenza pascaliana tra il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe ed il dio dei filosofi. ↩︎