Guido Calogero (1904-1986) a ragione può essere considerato un vero e proprio filosofo del dialogo, sia perché alla riflessione dialogica ha dedicato articoli e saggi nell’intero corso della sua vita, sia perché ha cercato di coniugare la speculazione teoretica alla sua realizzazione pratica, nel tentativo di superare l’insanabile iato che spesso si genera tra filosofia e vita.
Non a caso la sua vita biografica è un esercizio continuo al dialogo, che spesso lo pone a confronto con una umana impotenza a vivere pienamente l’idea e a far brillare la vita vissuta di idealità. Tuttavia il suo esempio è rimasto impresso nella memoria di più generazioni che hanno avuto la possibilità di seguire le sue lezioni, principalmente alle università di Pisa e Roma.
Cosa ha potuto generare il «mito» calogeriano? Senza dubbio la passione politica che negli anni ’40 lo ha visto protagonista all’interno del movimento d’opposizione al regime fascista e che lo condusse a partecipare alla Resistenza, in particolar modo a quella d’ispirazione azionista.
Ideologo della «terza via» liberalsocialista, vicino seppur distinto dal socialismo liberale di Carlo Rosselli, fu fautore di una società «dialogica» che non rimanesse solo sulla carta ma che trovasse proprio nella ribellione al dominio nazi-fascista lo spirito giusto per costituire una Repubblica fondata allo stesso tempo sui valori della libertà e della giustizia sociale. Nonostante la rovina del Partito d’Azione che costò visibilità al movimento liberalsocialista, non smise di portare avanti il suo messaggio, in quegli anni acremente criticato dalla sinistra marxista e dalla destra liberale (tra cui uno dei suoi maestri, Croce).
La sua filosofia del dialogo così come da un lato sfocia nella pratica politica liberalsocialista, rappresenta dall’altro anche il culmine della sua riflessione teoretica, che a partire dall’attualismo di Gentile (un altro «maestro» al pari di Croce con cui imparò presto a confrontarsi anche vigorosamente) lo condusse al rifiuto di qualsiasi dogmatismo metafisico, ontologico, gnoseologico. La sua «filosofia della presenza», partendo dal presupposto di una costante presenza e consapevolezza dell’Io con se stesso («io non posso mai pensarmi fuori di me; io sono la mia continua consapevolezza»), sancisce l’assoluta responsabilità dell’Io rispetto alle proprie azioni, realizzate nella crisi del tempo presente che si situa tra i fatti immodificabili del passato e le costanti aspettative verso il futuro. L’eliminazione di qualsiasi regola assoluta (sia essa logica, ontologica o metafisica) offre come risultato, oltre che la piena responsabilizzazione dell’Io rispetto alle proprie azioni, la difesa del valore di ogni idea, senza alcuna gerarchia valoriale aprioristica o oggettiva. La «filosofia della presenza» si pone così quale inevitabile premessa all’intera speculazione etica e dialogica calogeriana di cui andiamo di seguito a tracciare le componenti più significative.
1. Dalla filosofia della presenza all’etica
La «presenza» dell’Io: il peso della responsabilità
La «filosofia della presenza» calogeriana pone le premesse della filosofia del dialogo e, quindi, dell’etica, che della filosofia del dialogo è l’ossatura. Il singolo uomo, nell’ottica calogeriana, non può mai uscire dalla sua egoità, cioè dalla sua consapevolezza, che è anche eterna presenza. In conseguenza di ciò, l’individuo è responsabile delle sue azioni e mai può ricorrere a costruzioni metafisiche che lo giustifichino rispetto alle conseguenza del suo agire: «In Calogero la “presenza” della coscienza, nella sua positività, allontana l’uomo dalla costruzione di assurde metafisiche d’ispirazione mistica, profondamente disumane, in cui il singolo uomo si “sperde” nell’unità di un Tutto privo di “consistenza”, in cui ogni filosofico discorso si spegne, per dar luogo al glaciale silenzio».1 Ognuno è calato nel proprio Io da cui è impossibile evadere: «La necessità radicale del mio essere è quella che io non posso mai non essere io».2
In quanto presenza, l’Io è a capo di tutte le azioni, ed ogni azione si contraddistingue poiché nell’istante presente si proietta nel futuro cercando di modificare il passato. Perché ciò accada bisogna presupporre la «necessità» del cambiamento e intendere l’Io come «volontà» di cambiamento. In ogni momento, infatti, noi viviamo una situazione unica e diversa rispetto alla precedente e ci disponiamo nei confronti del futuro in modo da realizzare costantemente i nostri progetti, siano essi quelli di mantenere alcuni aspetti della situazione passata anche nel futuro, siano invece quelli di modificare nel futuro ciò che ora non accettiamo. In ogni caso, l’Io, inteso calogerianamente come volontà d’attuazione dei propri progetti, deve presupporre l’alterabilità continua della sua situazione:
Come non potrei volere, come non potrei avere alcuna aspirazione e tendenza e proposito […] se ogni mia situazione di tal genere non fosse costantemente illuminata dalla ferma e illimitabile luce della consapevolezza, così neppure la cosa sarebbe possibile se il contenuto di tale mia consapevolezza non fosse, in ogni determinato momento, concretamente delimitato e perennemente alterabile.3
Il singolo uomo, dunque, secondo il Nostro, si trova in ogni istante a decidere cosa mantenere del passato e cosa modificare, pronto in ogni caso ad agire per difendere ciò che è positivo e a combattere ciò che è negativo. L’uomo, in tutti gli ambiti in cui si trova a vivere, è sempre stretto tra la difesa e l’attacco di un valore, che egli vuole mantenere o cancellare nel futuro. Comprendiamo, allora, perché l’analisi calogeriana insista tanto sulla «scelta», poiché proprio di costanti scelte è costellato ogni secondo dell’esistenza dell’uomo. E solo al singolo Io spetta la valutazione di queste scelte e la conseguente decisione: «Ogni valutazione è autonoma, compiendosi nella sfera di quella presenza soggettiva, che non può mai risolversi in nulla d’altro. Sono io che valuto, io che approvo e disapprovo, e che di conseguenza decido».4 La decisione, quindi, fa capo a certi valori o disvalori che il singolo Io ritiene tali e che vuole mantenere o sostituire. Da ciò consegue che qualsiasi contenuto presente e qualsiasi progetto futuro rimanda ad una scala assiologica che è l’Io stesso a stabilire. Nessuna logica o metafisica gli imporrà dall’esterno tale valutazione, né con rivelazioni né con dimostrazioni che si autodefiniscano assolute ed oggettive, salvo che egli non decida di ritenere quelle dimostrazioni o quelle rivelazioni valide per la situazione presente. A decidere, in sostanza, è sempre l’Io, e, dunque, al principio di ogni sua azione non vi è qualsivoglia regola o legge logica o metafisica, bensì la sua valutazione e la sua scelta.
In principio era la scelta
Le nostre scelte, quindi, ci indirizzano verso alcuni contenuti e ci allontanano da altri. Calogero porta numerosi esempi grazie ai quali evidenzia il ruolo indiscutibilmente primario della scelta, rispetto ai diversi contenuti. Siamo noi, con le nostre preferenze ed i valori che vi assegniamo, a «colorare» la nostra vita.
Nessuna categoria tipica del mondo filosofico degli ontologi e dei metafisici di ogni epoca, secondo Calogero, serve ad indirizzare le nostre scelte. Consideriamo per esempio un articolo riguardante il tema dell’immortalità: «L’immortale non ha valore per il solo fatto di essere immortale, ma anzi merita di essere immortale solo se ha valore anche quando è mortale. Solo quando un certo tipo di esistenza è preferibile, essa merita di diventare eterna: ma il semplice fatto che si annunci eterna non stabilisce che sia preferibile».5 La concezione metafisica dell’«immortale» non guida, quindi, le scelte della vita, così come non vi riesce nessun altro concetto metafisico. E’, invece, tutto l’opposto: anche la metafisica vale soltanto in base al valore che noi assegniamo alle sue singole teorie. È la scelta di un certo orientamento di vita a dare senso, eventualmente, ad una particolare metafisica, e non certo il contrario.
Calogero compie lo stesso ragionamento fatto rispetto alla metafisica, anche nei confronti della logica e delle scienze in genere. Esse, infatti, sono strumenti che di volta in volta l’Io decide di utilizzare per realizzare i suoi progetti per il futuro. Sono sempre io, ad esempio, a decidere se utilizzare le leggi della fisica per prevedere un certo fenomeno atmosferico o se affidarmi agli auspici tratti dal volo degli uccelli. E sono ancora io a decidere che uso fare di un determinato mezzo offertomi dalla scienza; infatti «la stessa rivoltella può servire all’assassino e all’eroe, lo stesso farmaco al medico, al suicida e all’avvelenatore».6
Potremmo portare altri esempi in cui Calogero ribadisce il concetto secondo il quale nessuno sfugge mai al dovere della sua scelta. La conclusione fondamentale è che ognuno di noi ha la piena responsabilità di quello che fa e che mai potrà giustificare ciò che ha fatto, nascondendosi dietro al dito di ordini esterni che egli è stato costretto ad eseguire.
Nessuna scelta, ripete più volte Calogero, viene compiuta se la si ritiene sbagliata e sostituibile preferibilmente con un’altra. Ognuno agisce secondo ciò che ritiene più giusto in quella situazione. Questa formula richiama senza dubbio il principio dell’intellettualismo etico socratico e vedremo in seguito come Calogero la interpreterà alla luce della sua filosofia.
L’assoluta responsabilità dell’Io nelle sue scelte, non può non avere ripercussioni dal punto di vista etico. Anzi, la scelta etica è alla base delle scelte che il singolo realizza in ogni campo del suo agire. Chi ci dice, infatti, che dobbiamo comportarci secondo quella che Calogero chiama indistintamente «etica» o «morale»,7 cioè, chi ci dice che dobbiamo aprirci sempre alla comprensione dell’Altro, senza cercare di utilizzarlo come strumento utile per il nostro interesse egoistico? I filosofi hanno cercato spesso di fornire una dimostrazione della necessità logica dell’etica, non capendo, secondo Calogero, che non si può dimostrare il dovere etico, se quello stesso dovere non è sentito da chi lo accetta come tale: «Non possiamo mai non prendere posizione, qualunque sia la posizione che volta per volta intendiamo assumere».8 E ancora: «Attendere dalla “dimostrazione logica” la spinta dell’affetto morale, è come chiedere ad un’equazione matematica il risveglio della propria virilità».9
Per Mario Peretti, invece, una visione di questo tipo genera molte perplessità, ed infatti scrive: «La logica dimostra e fonda l’etica, non nel senso che preceda temporalmente la buona volontà, ma nel senso che questa non potrà trovare un fondamento razionale, una dimostrazione della giustizia della propria scelta, se non appunto nella logica».10
Tuttavia, per dimostrare che un’etica necessita di un fondamento logico e razionale, Peretti deve presupporre qualcuno che lo lasci parlare e lo ascolti nella spiegazione. E questo implica che l’ascoltatore abbia compiuto una scelta etica di comprensione e di tolleranza delle idee altrui, senza imbracciare, ad esempio, alcun mitra per far tacere Peretti o senza chiudersi le orecchie per non sentirlo. Sostenere, inoltre, che la scelta etica anticipa la dimostrazione logica temporalmente ma non ontologicamente, significa tornare all’idea che esista una Logica al di fuori degli uomini che la realizzano e la utilizzano. Per Calogero, invece, è inutile chiedersi cosa c’è al di fuori dell’Io, perché l’Io stesso non potrà mai uscire da sé per guardare. La via metafisica di Peretti sottomette l’Io ad una presunta realtà ontologica superiore che è lo stesso Io-Peretti a creare. Tanto per riprendere una domanda calogeriana: chi mi dimostra che la Logica sia davvero logica? Avrei bisogno, per questo, di un’ulteriore dimostrazione logica della logica della Logica. Si aprirebbe così un percorso all’infinito che condurrebbe ben poco lontano.
Per il Nostro, dunque, la scelta etica potrebbe essere fatta anche previa dimostrazione logica, ricordando, tuttavia, che, anche in quel caso, non sarebbe la Logica ad imporla o a dimostrarne la necessità, ma sarebbe sempre l’Io a decidere di accettarla, rifacendosi in questo caso ad un’argomentazione ritenuta convincente. Calogero insiste molto su questo punto per evitare che altrimenti si possa deresponsabilizzare l’Io e che, una volta deresponsabilizzato, l’Io possa rifiutare la propria capacità decisionale, diventando un burattino agli ordini di un «Io trascendentale».
2. Le difficoltà di una scelta
Intellettualismo o volontarismo?
Dato il grande valore attribuito da Calogero alle singole scelte dell’Io, si potrebbe chiedere: un uomo, al momento di prendere una decisione, segue la soluzione prospettatagli dalla ragione come la migliore, oppure sceglie in base a ciò che la sua volontà stabilisce di fare? Nel primo caso, l’uomo sarebbe costretto a scegliere in base a ciò che la conoscenza razionale gli dice sia giusto scegliere (intellettualismo), nel secondo caso, invece, lo stesso uomo sceglierebbe senza alcuna riflessione, ma secondo la piena creatività e spontaneità del suo volere (volontarismo).
In entrambi i casi, secondo Calogero, verrebbe comunque minato il senso di responsabilità e di libertà dell’individuo. Tenendo una condotta rigidamente intellettualista, infatti, l’Io sarebbe privato della sua libertà, essendo costretto a decidere solo ciò che la sua ragione gli impone necessariamente di fare. La sua volontà, infatti, «realizza ciò che le par degno di realizzazione: ma che questo le sembri tale, e che quindi essa lo scelga tra gli altri programmi pratici, tra gli altri quadri del proprio desiderio, non dipende dal suo autonomo optare e decidere, ma dalla visione delle cose che le suggerisce la conoscenza. Così vede, e così agisce. Se vedesse altrimenti, altrimenti agirebbe».11 Ricorda, in fondo, l’approccio socratico: chi ben conosce, necessariamente ben agisce. Al di là, inoltre, della perdita della libertà a vantaggio dell’azione coercitiva della conoscenza, l’intellettualismo porrebbe un altro problema: la mancanza di responsabilità. Ognuno, infatti, potrebbe giustificare le sue azioni dietro l’alibi di una errata conoscenza, senza però mai mettere in dubbio la sua buona fede. In fondo, si potrebbe dire, non sarebbe l’individuo a decidere quell’azione, bensì vi sarebbe «costretto» dalla sua particolare conoscenza della situazione. Come si vede, il passo verso il determinismo e il lassismo morale sarebbe estremamente breve.
D’altro canto il volontarismo non risolverebbe il problema, ma ne porrebbe uno diverso. Se la volontà, infatti, decidesse in piena libertà, senza interpellare precedentemente alcuna ragione o forma razionale del soggetto, non si rischierebbe di cadere in un totale irrazionalismo, per il quale ogni azione fatta sarebbe per forza giusta perché si è voluto farla? Il volontarismo, dunque, eliminerebbe, secondo Calogero, qualsiasi progettualità dell’individuo, gettandolo nel caos: «La pura spontaneità e genuinità del volere diventa perciò una sua immunità da ogni peso di conoscenza, da ogni forma razionale che preesistendogli lo orienti. Non già il bene sussiste, e conoscendolo esso vi tende: ma anzitutto esso tende, e l’oggetto che ne risulta è il bene».12 Il volontarismo puro, quindi, non condurrebbe verso alcuna etica, perché non metterebbe l’uomo realmente di fronte ad una scelta. Lo farebbe agire, punto e basta, senza che egli abbia mai avuto modo di valutare la questione.
Né intellettualismo, dunque, né volontarismo conducono verso una volontà etica che Calogero possa definire libera e responsabile, poiché la volontà dell’intellettualismo non è libera e agisce solo se comandata, mentre quella del volontarismo non obbedisce a nessuno e vaga nell’indifferenza fino a non muoversi affatto.13 È possibile, invece, superare questa contraddittorietà tra volontà e ragione? Alla ricerca di questa risposta è dedicata gran parte della speculazione etica calogeriana.
Libertà e necessità, volontà e ragione
Secondo Calogero esiste una duplice libertà: la libertà «assoluta» o «metafisica», che per necessità si impone a ciascun Io perché corrisponde alla stessa presenza dell’Io (io esisto dunque sono libero) e la libertà «empirica» che invece raggruppa tutte quelle libertà che conquistiamo nel corso della vita, ovvero nel superamento degli ostacoli che si frappongono tra noi e l’obiettivo prefissato. La prima libertà è la condizione necessaria per la conquista delle altre libertà, così come la presenza dell’Io è la condizione necessaria per lo svolgimento di qualsiasi azione:
La presenza originaria della libertà è conditio sine qua non per ogni ulteriore conquista di libertà, anche pertinente al suo più immediato espandersi: il che è poi del tutto evidente, perché quella libertà originaria non è che la stessa presenza del volere, cioè la presenza dell’io, e niente è mai «prima» di questa presenza.14
L’Io, dunque, è sempre libero di decidere e scegliere quale vita costruirsi, quale desiderio appagare e a quale progetto aspirare: questa è la libertà «assoluta». Secondo Calogero è necessario dibattersi tra passato e presente, tra gioia e dolore, tra aspettativa e novità, anche se spetta ad ognuno di noi scegliere di volta in volta le strade concrete per realizzare i nostri progetti. La necessità sta proprio nella libertà assoluta e trascendentale, la possibilità invece, sta nella singola realizzazione che noi decidiamo di intraprendere passo dopo passo: la prima, dunque, è libertà «assoluta», la seconda è libertà «empirica».
Calogero ricorda, inoltre, che avere la piena libertà di decidere il proprio progetto di vita, non significa assolutamente realizzarlo, poiché un conto è essere sempre liberi di aspirare a ciò che si considera buono, altra questione è, invece, realizzare quella stessa aspirazione: «Altro è infatti la libertà, altro l’onnipotenza».15 Proprio perché non siamo onnipotenti viviamo nell’eterna crisi dell’«essere» verso il «dover essere», cioè del necessario verso il possibile, del passato verso il futuro. La nostra condizione di partenza ci è necessaria, nessuno, quindi, può tornare indietro a cambiarla, ed essa vale soltanto in quanto trampolino verso il futuro, verso ciò che non è ancora e che noi vogliamo sia in un certo modo. La libertà assoluta, così come la presenza dell’Io, non hanno alcun valore, per Calogero, perché sono le madri di ogni valore,16 in quanto necessità immutabili. Ciò che non può cambiare, ciò che è inevitabile, infatti, non può avere valore,17 mentre acquista valore solo ciò che ha possibilità di diventare qualcosa, ovvero il «dover essere» che non «è» ancora: «Il mondo dei valori è quello delle cose che importano: e queste sono le cose per cui si trepida, non quelle che sono per eterna necessità».18
La libertà assoluta, perciò, è priva di valore e appartiene sia ai tiranni che agli schiavi,19 mentre le diverse libertà «empiriche», che si possono perdere, che bisogna conquistare e difendere perché non sono necessariamente connaturate a noi, queste stesse libertà, dunque, con i loro progetti di vita che noi vi associamo, acquistano valore e diventano per noi il bene.
Come si pone a questo punto l’etica calogeriana di fronte alla questione volontarismo-intellettualismo? Se leggiamo bene le righe precedenti, notiamo che l’azione dell’uomo parte da una scelta che coniuga volontà e ragione, desiderio e progetto. Per Calogero, infatti, la lezione socratica è più che mai valida e, quindi, a suo avviso, ognuno agisce in vista di ciò che a lui stesso appare come il migliore dei beni. Di conseguenza nemo sua sponte peccat, poiché nessuno di propria iniziativa sceglie ciò che la sua ragione gli dimostra come sbagliato.
Tuttavia, Calogero non dimentica nemmeno l’estremo valore della volontà, che, abbiamo visto a più riprese, sta alla base di qualsiasi scelta. Non vi è nessuna scelta, infatti, che non sia scelta dalla volontà.
Com’è possibile, allora, unire volontà e ragione senza cadere nelle aporie sia dell’intellettualismo che del volontarismo? L’errore compiuto in passato, per il Nostro, è stato quello di considerare ragione e volontà come oggetti esistenti in maniera indipendente rispetto all’Io, recuperando la peggiore lezione ontologica che egli stesso cercò di eliminare. Inoltre, a suo avviso, è stato commesso un ulteriore errore considerando la volontà e la ragione calate nella temporalità e perciò seguenti l’una all’altra. Ipotizzando ciò, infatti, o la ragione precederebbe la volontà, dando vita così all’intellettualismo, o la volontà precederebbe la ragione, cedendo di conseguenza al volontarismo. In realtà, per il Nostro, l’unico modo per evitare di ricadere negli errori del passato, è quello di considerare la volontà e la ragione al di fuori del tempo e perciò sovrapponibili tra loro. Analizziamo i due casi distintamente.
Calogero ripete spesso che la volontà è fuori dal tempo, poiché, a suo parere, la volontà coincide con l’Io sempre presente, risultando quindi immune al passare del tempo: «La volontà non abita nel tempo, proprio perché essa abita nel presente. Io non sono mai né nel prima né nel poi: sono soltanto nell’ora, nel nunc. E il nunc non s’iscrive nell’estensione temporale, perché come sua parte esso non sarebbe nulla, sarebbe il semplice zero del tempo».20
La ragione, o intelletto, d’altra parte, è anch’essa fuori dal tempo, in quanto è legata indissolubilmente con la volontà. L’intelletto, infatti, «non solo non può negare la volontà ma neanche considerarsi estraneo e sovrastante ad essa, perché di essa viceversa fa parte, costituendone la consapevolezza interiore».21 Per scegliere una determinata azione, dunque, dobbiamo volerla e la vogliamo perché la riteniamo la migliore. Socrate, che ancora non aveva diviso «pratico» da «teoretico» come invece poi fece Platone, partiva proprio da questo presupposto ed è per questo motivo che, secondo Calogero, il suo intellettualismo non cade nell’errore che in precedenza abbiamo evidenziato:
Il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate non è in realtà un intellettualismo, quando per ciò si intenda, comunque, una sopravvalutazione dei moventi conoscitivi rispetto a quelli pratici nel processo dell’azione: perché la conoscenza, che per Socrate determina irresistibilmente l’azione […], è una conoscenza già totalmente impregnata di praticità, e anzi addirittura [è impregnata della] valutazione pratica che fa corpo col volere.22
Così come per Socrate, per Calogero il singolo individuo sceglie sempre ciò che vuole e che gli appare come il maggior bene, ma non senza prima aver riflettuto sul valore di quel bene. E’, in sostanza, l’Io che sceglie, e l’Io è sempre «unione di volontà e ragione», al di là dei singoli eventi che si collocano nel tempo.
La scelta di una determinata azione è, dunque, frutto sia della volontà, sia della ragione che ritiene quella azione la «migliore». Nell’ottica calogeriana non esiste alcuna forma né di irrazionalismo, poiché l’Io sa benissimo cosa sceglie e ne conosce bene o male le motivazioni, né di lassismo, perché se è vero che l’Io sceglie ciò che la ragione gli mostra migliore, in fondo è sempre l’Io a volerlo e ad assumersene la responsabilità della scelta. Poiché non esiste nulla in lui che non sia «Io», non può di certo riparare la sua decisione dietro nessuno, salvo che se stesso. Schematizzando: ciò che l’Io sceglie, lo sceglie perché lo vuole e, contemporaneamente, perché gli appare migliore. Se non gli apparisse migliore, non lo vorrebbe e quindi non lo sceglierebbe, se non lo volesse, non gli apparirebbe migliore e di conseguenza nemmeno in questo caso lo sceglierebbe. Ciò non esclude una dura battaglia interna all’Io per stabilire quale debba essere poi davvero il migliore. Un esempio di questa battaglia interna è rappresentato dalla scelta dell’opzione morale vera e propria.
Azione morale, per Calogero, significa «altruismo», cioè massima apertura alla comprensione altrui, senza che l’Altro diventi uno strumento per i propri fini egoistici. Egli afferma innumerevoli volte che si sceglie l’azione morale perché la si vuole, perché ci appare preferibile rispetto a quella egoista, senza lasciar però mai trapelare l’ipotesi che essa possa subentrare in noi semplicemente, quasi superficialmente. A conferma di ciò, si legga un passo tratto da La scuola dell’uomo:
Voler questo o quello, agire in questo o in quel modo, comportarmi moralmente o immoralmente, questo è lasciato alla mia facoltà: appartiene al regno del possibile, cioè alla sfera dei miei programmi d’azione. Seguire un certo ideale è per me un’esigenza, non una fatalità: sarà, se così si vuol dire, la soverchiante necessità interiore del mio atto, ma è comunque una necessità determinata, di cui è concepibile la mutazione, e che quindi è affatto diversa da quella per cui io non posso mai non essere io e non essere volontà. Non è, insomma, un destino: è un dovere.23
E questo dovere spetta solo alla scelta consapevole dell’Io.
3. Sulla via della comprensione e dell’altruismo
L’Io e l’Altro
Abbiamo accennato all’opzione morale, intesa come altruismo. Dunque, per Calogero, essere altruisti significa aprirsi alla comprensione dell’Altro. L’Io, come sappiamo, parte da una necessaria situazione di egoità, ovvero da una situazione per la quale non può mai uscire da se stesso e non può mai indossare altri abiti che non siano i suoi. Immerso in questa necessità, che è la stessa della libertà «assoluta», l’Io si trova ad agire e a decidere quale azione intraprendere. Le innumerevoli opzioni che gli si offrono possono, per Calogero, essere di due tipi: da un parte, le azioni che tendono alla realizzazione del proprio egoismo, che non vede altro fine se non se stesso, dall’altra, le azioni che promuovono la comprensione dell’Altro, il quale non è più, per l’agente, un semplice mezzo per raggiungere i propri fini, ma diventa esso stesso fine. «Egoità», dunque, «è la situazione per cui l’ego è necessità»,24 «egoismo», invece, «è l’atteggiamento per cui l’ego è finalità».25 L’Io non può evitare di decidere da solo quello che deve fare, ma può certamente scegliere se badare solo a se stesso o se aprirsi alla comprensione degli interessi altrui.
La concezione calogeriana prevede che l’Io sia in qualche modo chiuso nella sua gabbia, anche se essa, in realtà, diventa davvero tale o, peggio, diventa una prigione in cui si è destinati a rimanere completamente soli, soltanto se si sceglie l’egoismo, cioè se si è incapaci di guardare al di là del proprio immediato interesse.26 L’Io che cercasse di realizzare il proprio progetto di vita disinteressandosi di quello degli altri, sarebbe un perfetto egoista. La felicità, infatti, quando è desiderata solo per sé è egoistica, mentre si richiama ad un ideale altruistico quando è desiderata anche per gli altri.27 Tutta l’etica calogeriana si fonda, dunque, sulla comprensione dell’Altro. Ma cos’è, effettivamente, l’Altro? Un ente che entra in me necessariamente o qualcosa che devo far vivere io?
Per Calogero, non sono io a stabilire l’esistenza dell’Altro, poiché della sua esistenza in sé non so nulla e mai ne potrò sapere qualcosa. La necessaria egoità che mi avvolge, infatti, mi impedisce di questionare sull’esistenza «in sé» dell’Altro, poiché al di fuori della mia visione non posso andare. In ogni caso però, del mondo ho la mia immagine, e così anche le altre persone entreranno in me come contenuti della mia esperienza. Non potrò stabilire cos’è l’Altro in sé, ma saprò perfettamente cos’è l’Altro per me. Esso, infatti, è proprio un contenuto particolare della mia esperienza. Accogliere questo contenuto è già essere morali? Assolutamente no. Infatti, le altre persone che attraverso la mia attività conoscitiva entrano a far parte della mia esperienza, non sono altro che «maschere, in quanto non si distinguono da ogni altro fisico strumento del mio mondo».28 L’altruismo calogeriano, invece, prevede la comprensione di quelle maschere, cioè prevede che io decida di aprirmi loro, considerandole non un semplice contenuto asettico del mio conoscere, ma come qualcosa che vive al di là della mia vita. Restando fedeli al principio egoitario, dobbiamo concludere che quella vita altrui non potrà mai essere la mia vita, perché in fondo sarà sempre filtrata dal mio Io. Ciò, tuttavia, non mi impedirà affatto di essere altruista, poiché proprio questa distanza mi spingerà ad andare avanti, cercando di sentire la vita altrui in me in modo sempre più profondo. Chiariamo questo passo fondamentale: se l’Altro riuscisse ad entrare in me completamente, io a quel punto non avrei più bisogno di aprirmi a lui e potrei evitare di ascoltarlo ulteriormente. La singola azione morale avrebbe così termine. Se, invece, l’apertura all’Altro vivesse per se stessa e non per raggiungere la sua conclusione, l’azione morale sarebbe sempre possibile, e per me sarebbe sempre concesso di comprendere l’Altro in tutti quegli aspetti che ancora non riuscissi a comprendere e che non sentissi miei. L’Altro, infatti, non essendo statico e modificandosi di continuo, avrebbe sempre qualcosa di nuovo da comunicarmi, da insegnarmi, da trasmettermi.
Il principio morale, quindi, così come sarà per il principio del dialogo, trae la sua forza non dal risultato definitivo, ma dalla continua ricerca di quel risultato.
L’altruismo, dunque, per Calogero, corrisponde alla volontà di comprensione dell’Altro. Comprensione, tuttavia, non significa solo ascolto o semplice scambio di opinioni. Questa, infatti, è la prima fase dell’etica altruista, ma non può certamente rappresentarne il fulcro: «Parlare con Caio non è ancora abnegarsi moralmente per Caio, cioè porre la personalità e sensibilità di Caio sullo stesso assoluto piano della propria: anche il sicario può discorrere con la sua futura vittima».29 Data, inoltre, l’impossibilità dell’Io di uscire da se stesso per entrare nei panni altrui, sarà la sua completa disponibilità alla comprensione dell’Altro a far sì che la vita dell’Altro si avvicini alla sua e che egli stesso possa sentire nella propria gioia e nel proprio dolore, la gioia ed il dolore che l’Altro gli comunica: «Proprio perché il mio dolore non sarà mai il dolore altrui, né il dolore altrui il dolore mio, io debbo creare la dolente persona altrui in me, per poter sentire il suo dolore come cosa di cui m’importi, e che quindi orienti la mia azione non più soltanto al fine dell’interesse mio, ma anche a quello dell’interesse suo».30
L’altruismo, quindi, non si realizza per necessità naturale, né per dimostrazione logica di qualche teorema, ma solo grazie alla volontà individuale che decide sia migliore l’opzione altruistica rispetto a quella egoistica, che sceglie di interessarsi all’Altro in modo profondo, che fa spazio a qualcosa a cui prima non badava e a cui l’egoista non baderà mai:
Eticità è uscire da se stessi, volgersi all’universale. Ma da se stessi, per un certo aspetto, non si può mai uscire. Io non posso mai, essendo, cessare di essere io, di volere ciò che pare meglio a me. Che io «esca da me», che io «tenda all’universale», può quindi significare solo che io, in me medesimo, cerchi di far posto il più possibile ad altri pensieri, ad altre volontà, ad altri sensi e gusti della vita, rispetto a quelli immediatamente miei: che io faccia posto, insomma, ad altre persone, che io viva in me l’altrui gioia e l’altrui dolore, e nell’altrui bene […] senta il bene mio.31
Far posto all’Altro in noi, significa comprendere l’Altro, cercare di capire l’Altro nelle sue azioni. Tuttavia, ciò non esclude che le azioni dell’Altro possano da noi venir criticate. Comprendere non significa perdonare tutto: l’etica calogeriana non è certo lassismo rinunciatario!^[32] Nel cercare di comprendere l’azione dell’Altro, noi non dobbiamo rinunciare, secondo Calogero, alla discussione dell’azione stessa: l’unico nostro dovere morale è quello di permettere che l’Altro sia nelle condizioni ottimali per farci capire il perché della sua azione, senza alcun nostro pregiudizio di merito. Questo, dunque, non significa impotenza, né rinuncia alla critica, perché l’impotenza e la rinuncia sono solo le maschere dell’indifferenza, e nessun altruismo può fondarsi sull’indifferenza. Ognuno, in sostanza, ha il diritto di esprimersi e di essere ascoltato con attenzione, ma nessuno può godere dell’immunità dal confronto, anche deciso, con altre opinioni ed altre idee.
L’azione morale, inoltre, prevede, per Calogero, un’ulteriore passo. La mia comprensione, infatti, non può limitarsi ad un unico Altro, perché tale comprensione, se vuole essere universale, deve aprirsi a tutti gli Altri possibili: «L’esperienza morale non è mai quella di un contratto, in cui il mio obbligo dipenda dall’adempimento altrui. Quand’anche pensi, verso uno, d’aver esaurito il mio obbligo, c’è sempre qualche altro verso cui esso vige ancora».32 In realtà, nemmeno verso quel primo uomo il mio dovere è concluso, poiché, come abbiamo detto in precedenza, la comprensione altrui non può mai essere conclusa, dal momento che vive del suo continuo ricercare. Aprirsi a tutti gli Altri possibili, significa fare in modo che tutti abbiano la possibilità di farsi comprendere, e ciò presuppone, all’interno dell’azione etica, anche un aspetto specificatamente pedagogico e politico. Attraverso la mia azione morale, infatti, devo servire da esempio agli altri, in modo che l’Altro, da «beneficiario», diventi anche «dispensatore» di comprensione. Così facendo, non solo agisco moralmente ma educo alla moralità.
Il rispetto di tutti gli Altri, inoltre, pone un «limite» a ciascuno. Nessuno, infatti, può esigere per sé maggiore comprensione di quanto spetti ad un altro. Questo punto fermo dell’etica calogeriana ha un risvolto politico notevolmente interessante, in quanto sancisce l’assoluta eguaglianza del diritto e combatte ogni forma di discriminazione. Scrive lapidario Calogero: «La libertà che si deve amare è la libertà altrui; e questa, a sua volta, solo in quanto rispettosa e promotrice di ulteriori libertà altrui».33 Solo la libertà «limitata», dunque, può essere una libertà davvero giusta e, di conseguenza, etica.
Etica necessaria o etica volontaria?
L’etica calogeriana si attua, dunque, attraverso la scelta dell’altruismo rispetto all’egoismo. Scegliere tra queste due possibilità è necessario, perché nessuno può ritrarsi di fronte alla decisione del suo agire. Anche il non agire deriva da una decisione ben precisa, così come il non scegliere è in realtà una scelta bella e buona.
Il frutto di quella scelta, invece, non è necessario, anzi. Non è necessario, infatti, essere morali, poiché a ciascuno è sempre concessa la possibilità di essere egoisti. Se l’uomo fosse costretto per necessità ad essere morale, tutti lo sarebbero, e questa imposizione universale annullerebbe, di fatto, la morale stessa:
Se davvero avvertissimo onnipresente a noi medesimi non solo la nozione della legge morale […] ma addirittura la sua efficiente cogenza [cioè] il suo rigoroso imporsi come obbligatoria, […] allora non avremmo più assolutamente nulla da fare, assicurati per sempre dalla nostra eterna eticità. Non potremmo mai non essere buoni, e quindi non lo saremmo mai.34
Il dovere dell’altruismo, inoltre, non potrà mai essere dimostrato logicamente. Nessun teorema, secondo Calogero, potrà mai obbligare «logicamente» l’Io a scegliere il comportamento morale rispetto a quello egoistico, poiché l’intera etica si fonda sulla volontà di attuarla, e se non c’è la volontà di accettarla, nessun complesso sistema logico potrà mai imporre il contrario: «Quale sillogismo, quale deduzione dialettica ha mai potuto convincere ad ammettere la verità, quando manchi l’intenzione di riconoscerla e di dirla?».35
La morale è, dunque, del tutto autonoma. Non ci si chiede perché si è scelto la morale, poiché nessuna motivazione deve limitare quella scelta. Si riproduce in questi termini la categoricità kantiana dell’imperativo morale rispetto all’ipoteticità, dalla quale, invece, non si possono che trarre regole ristrette e non certo una legge morale che voglia essere universale. Essa deve poter valere, infatti, sempre e per tutti. Se essa dipendesse da una particolare situazione, al termine di quella situazione svanirebbe, rendendo impossibile ogni ulteriore forma di altruismo: «Ad essere altruisti bisogna decidersi, e per questa decisione si è soli con se medesimi: soli con la propria volontà e libertà. Non si può esigere nessun motivo o pretesto».36
Anche se a volte Calogero assume un atteggiamento che a prima vista potrebbe sembrare piò o meno rigorista, e altre volte un atteggiamento più incline all’eudemonismo, in lui c’è tutta l’intenzione di rimanere distante da gabbie ideologiche di questo genere. L’autonomia della morale significa prima di tutto libertà di scelta e non costrizione etica, cioè significa che ciascuno decide di essere etico perché lo vuole egli stesso e non perché gli è imposto da chicchessia.
In secondo luogo, autonomia morale significa possibilità di una morale universale, cioè non legata indissolubilmente alle sorti di una certa situazione o ideologia, al crollo delle quali seguirebbe il naufragio della morale stessa. È anche questa una precauzione per impedire che si possa credere che la morale non dipenda dall’Io. Il vero punto fermo di Calogero è proprio quello di ribadire definitivamente che la scelta etica è una scelta dell’Io, e perciò, contemporaneamente, della sua ragione e della sua volontà. La legge morale, ad esempio, può giungermi dall’esterno, ma essa diventa davvero la mia scelta morale se io ritengo giusto seguirla e non solo perché altri me la propone o addirittura me la impone:
Anche la legge morale è, inizialmente, qualcosa di enunciato o di inculcato con autorità […]: sia essa proclamata dall’autorità della voce materna, o da quella del costume tradizionale, o dai discorsi e dagli argomenti di un profeta o di un pensatore, o dalla voce rivelatrice di Dio. Ma, quel che conta, è che la si accetti non per il semplice fatto che viene enunciata, o per la potenza di colui che la enuncia, bensì perché, esaminatala, la si ritiene giusta, e si riconosce, in coscienza, di doverla accettare.37
Riassumendo: io agisco moralmente non perché me lo ordina, per esempio, mia madre, Calogero, Dio o lo Stato, ma perché i loro insegnamenti io li ho valutati e li ho voluti fare miei in quanto giusti e preferibili. Io mi astengo da uccidere un altro, dunque, non perché lo Stato o la religione me lo impediscano, ma perché io stesso stabilisco e voglio che quella persona possa vivere. La mia morale è assieme causa e fine del mio agire. In questa sua circolarità sta tutta la sua autonomia e il suo valore.
È ovvio, a questo punto, che per Calogero nessuno può dimostrare la superiorità necessaria dell’altruismo sull’egoismo, ma è altrettanto ovvio che ciascuno possa volere questa superiorità. Poiché la morale calogeriana è tutta rivolta all’educazione, ci si chiede quale possa essere il ruolo di chiunque voglia comunicare agli altri il messaggio morale. Bandita ogni conversione forzata ed ogni dimostrazione logica, all’educatore rimane la lezione più importante: l’esempio. Scrive Calogero:
Quando Cristo disse agli apostoli: Euntes docete omnes gentes, essi non domandarono quali sillogismi dovevano usare. Sapevano come dovevano insegnare: mostrando un esempio di vita e di morte, come l’aveva mostrato il loro maestro […]. Se si vuol convincere al bene, bisogna mettere in moto tutte le forze della vita, suscitare l’animo, svegliare passioni, impegnarsi insomma profondamente. E, in primo luogo, impegnarsi con l’esempio.38
Chi voglia davvero educare all’altruismo, dunque, non deve far altro che usare l’esempio del suo stesso altruismo. Identico criterio etico varrà, ovviamente, per il dialogo: chi vorrà educare al dialogo dovrà egli stesso agire in conformità del principio del dialogo. Né armi, quindi, né leggi metafisiche, né vuote parole, ma solo concreti esempi di vita.
4. Dall’etica al dialogo
Una volta descritta la fisionomia della sua etica, Calogero cerca di trovare un principio che possa riassumere il suo pensiero etico e che sia valido universalmente, ponendosi così al riparo da qualsiasi critica scettica o storicista. Per essere davvero etico, dunque, questo principio dovrà essere indiscutibile, affinché nessuno possa metterlo in discussione minando in questo modo la stessa possibilità etica. Dovrà, inoltre, essere indimostrabile, ovvero precedente a qualsiasi altro principio che lo possa fondare e dovrà anche essere garante dell’autonomia dell’individuo che lo sceglie, in modo da rispettare uno dei cardini dell’etica calogeriana, l’autonomia di scelta appunto. Infine, dovrà aprire la strada all’altruismo, cioè la strada alla comprensione altrui.
Come abbiamo già avuto modo di scrivere, l’Io calogeriano si trova necessariamente di fronte ad una scelta, che lo pone tra l’egoismo, cioè la visione di se stesso come causa e unico fine della propria azione, e l’altruismo, che individua, invece, il fine dell’azione nell’Altro. Il principio etico, di conseguenza, per essere altruista, dovrà premettere un rapporto tra l’Io e l’Altro e far sì che tale rapporto non sia meramente strumentale.
Per Calogero, se non ci fosse alcun rapporto, l’Io vivrebbe nella completa solitudine senza alcuna possibilità etica. In presenza di un rapporto con l’Altro, invece, le possibilità per l’Io sarebbero due: o l’uso strumentale dell’Altro a proprio egoistico vantaggio, o l’apertura alla comprensione dell’Altro nelle sue esigenze e nei suoi bisogni. La prima via ci porterebbe a vedere nell’altrui persona un automa, mentre solo la seconda aprirebbe le porte ad un comportamento etico.39 Il principio etico, quindi, dovrà prevedere, oltre che un rapporto con l’Altro, una sua comprensione, cioè una comunicazione tra Io e Altro.
Per fondare il comportamento etico, allora, basterebbe, secondo Calogero, un principio che garantisse una reciproca comunicazione, cioè un principio che assicurasse un dialogo, quindi l’alternarsi di un parlante e di un ascoltatore? No, un principio del genere, a suo avviso, non basterebbe. Il dialogo inteso soltanto come conversazione tra due persone, infatti, non è che il primissimo scalino dell’ascesa etica. Cercheremo nelle prossime pagine di dimostrare che Calogero ha sempre inteso il dialogo in un significato molto ampio, che arriva addirittura fino alla comprensione dell’altrui silenzio e alla difesa di tale silenzio. Certamente il fatto che egli non abbia mai distinto esplicitamente tra dialogo, inteso come semplice conversazione, e dialogo, inteso come comprensione totale dell’Altro, ha creato possibili fraintendimenti, che tuttavia si possono ridimensionare, grazie ad un’ampia lettura degli scritti calogeriani.
Per una maggior chiarezza dedicheremo un paragrafo apposito ad ogni passaggio che il dialogo compie nella sua realizzazione etica, passando dalla semplice conversazione alla più vasta comprensione generale, la quale rappresenta, secondo il Nostro, il più genuino significato attribuibile al dialogo. Chiameremo questi passaggi «livelli dialogici», per sottolineare la maggior levatura e, allo stesso tempo, profondità etica, che progressivamente incontreremo.
5. Primo livello dialogico: la conversazione
Il principio della discussione: la volontà d’intendere
Ogni conversazione, secondo Calogero, si fonda su un principio indiscutibile: la nostra volontà di discutere. Se, infatti, uno dei dialoganti decide di non discutere, la conversazione non ha nemmeno inizio. La volontà di discutere, a sua volta, è costituita da due diverse volontà: la volontà di parlare e la volontà di intendere, secondo le quali noi affrontiamo una discussione non solo per dire il nostro parere ma anche per intendere, cioè ascoltare e capire le ragioni altrui. Chiunque voglia discutere, dunque, accetta di seguire questo principio, che si richiama alla generale volontà di discutere.
Tale principio è indiscutibile, poiché chiunque voglia metterlo in discussione, dimostrando che non vale, deve discutere, presupponendo in questo modo proprio quel principio della discussione e quella volontà di discutere che cerca di confutare. Nessuno, infatti, può ordinarmi di non ascoltarlo se io allo stesso tempo non ascolto quell’ordine. Grazie a questo piccolo esempio si può già perfettamente capire perché il principio di ogni discussione sia non solo indiscutibile, ma anche indimostrabile e indissolubilmente legato all’autonomia decisionale di ogni singola persona.40 Seguiamo le parole di Calogero sull’indiscutibilità del principio: «Ogni altra verità è soggetta alla discussione, e nessuno può mai pretendere che si finisca ad un certo punto di discutere. Per nessun’altra verità io posso prescindere dalla critica altrui, dalla discussione e dal consenso altrui. Ma la volontà di discutere non ha bisogno di essere discussa, perché ogni discussione la presuppone».41 Tale principio, inoltre, è anche indimostrabile, cioè non ne si può pretendere la dimostrazione tramite un teorema o una legge: «La dimostrazione non si può chiedere, perché ogni volta essa sarebbe un logo: e un logo non può mai dimostrare la necessità del dialogo, il quale di per sé va sempre oltre di esso».42 Infine, il principio della discussione è il solo principio che nessun altro potrà persuadermi di non seguire, poiché, come già detto, nessuno potrà pretendere di convincermi di non ascoltarlo se io stesso non lo ascolto: «[Il principio della discussione] è la sola verità per la quale io non posso assolutamente intravedere la possibilità che un altro, nel dialogo, cerchi di persuadermi del contrario. E come potrebbe persuadermi di non ascoltarlo, se, nello stesso tempo, vuole che io l’ascolti per potermi provare ciò?».43
Tutto questo assicura al principio della discussione l’assoluto rispetto dell’autonomia etica dell’Io. Cerchiamo di chiarire meglio questo passaggio con un nostro ragionamento esemplificativo. Se qualcuno cercasse di convicermi della bontà del dialogo, significherebbe che io avrei già accettato di ascoltarlo e, di conseguenza, che avrei già seguito il principio dialogico prima della sua esortazione. Se, al contrario, qualcuno provasse a persuadermi dell’impossibilità o dell’inutilità del dialogo, si ricadrebbe nella consueta contraddizione secondo la quale egli cercherebbe di convincermi di non seguire ciò che io avrei dovuto per forza seguire per ascoltarlo.
Poniamo, tuttavia, un terzo caso. Se Tizio mi dicesse: «Ascolta e fa solo quello che dico io!», infirmerei, obbedendogli, l’autonomia del principio della discussione? No, poiché, anche in questo caso, per accettare l’ordine avrei dovuto preferire precedentemente di ascoltarlo piuttosto che tapparmi le orecchie, e anche in seguito sarei sempre io, e solo io, a decidere di eseguire quell’imperativo, passando così da una situazione dialogica e di ascolto, ad una situazione di chiusura rispetto a tutte le voci che non siano la sua. Anche in questo caso, però, risulterà evidente la necessità dell’autonomia della scelta. Qualora, infatti, ascoltassi solo Tizio, resterebbe a me tutta la responsabilità anche delle azioni successive, poiché nemmeno in seguito egli mi potrebbe costringere a seguire la via dell’ascolto o della chiusura. Se, infatti, dopo avermi ordinato di ascoltare solo lui, egli mi ordinasse di ascoltare Caio, si scivolerebbe in una contraddizione inestricabile. Qualora, come un automa, eseguissi l’ordine, proveniente dall’unica persona che io abbia deciso di ascoltare, mi ritroverei ad ascoltare Caio, contravvenendo al primo ordine di Tizio che mi vietava l’apertura a chiunque non fosse Tizio stesso. Se, invece, comportandomi sempre come un automa, tenessi fede soltanto al primo ordine, mi troverei nella situazione di non poter eseguire il secondo e, necessariamente, nemmeno il primo, che del secondo è la premessa inevitabile.
Risulta evidente, in questo modo, che il principio della discussione è perfettamente legato all’autonomia dell’individuo e che mai nessuno potrà imporlo o abolirlo senza che esso non sia già stato accettato o rifiutato dai singoli Io. La responsabilità della decisione, per Calogero, non potrà mai essere scaricata sugli altri:
Proprio in quanto siamo assicurati a priori contro ogni sua invalidazione [del principio della discussione] da parte altrui, siamo nello stesso tempo lasciati a noi medesimi nella volontà della sua instaurazione. Le parole altrui potranno aiutarci, ma non mai determinarci in questa scelta, così come ogni «giustificazione» che si tenti dell’imperativo etico può tutt’al più mettere in luce la sua pratica convenienza, ma non mai dar ragione della sua assoluta doverosità. Ecco perché anche il comandamento più autorevole di capire gli altri non vale nulla per noi, se noi anzitutto non vogliamo capirlo.44
In precedenza, per chiarire i caratteri di indiscutibilità, indimostrabilità e di autonomia del principio della discussione, abbiamo più volte fatto riferimento ad un’eventuale contraddizione, nascente qualora non fossero riconosciuti quei caratteri. Da questa premessa prendono avvio le critiche di Raffaele Gambino e di Mario Peretti alla validità del ragionamento calogeriano. Per entrambi, il dialogo, secondo la ricostruzione di Calogero, non si fonderebbe sul principio della discussione, ma su quello di non contraddizione, poiché ad esso si rifarebbe lo stesso principio della discussione. In questo modo il dialogo non precederebbe tutti i loghi, ma dipenderebbe da un logo ben preciso, quello di non contraddizione appunto. Afferma, infatti, Gambino:
Dal principio di non contraddizione non si può evadere perché esso non è come afferma Calogero «un imperativo a cui bisogna obbedire per poter essere compresi dagli altri», ma è un imperativo al quale bisogna obbedire per poter essere compresi innanzi tutto da se stessi: quell’imperativo non è quindi un imperativo ipotetico […] perché ciò che invece esso mi ordina è di non contraddire quel che penso con quel che penso, ed è quindi assolutamente categorico dal momento che ha in se stesso l’unico presupposto, il pensiero, dal quale non si possa in alcun modo prescindere neanche qualora ad esso si voglia illusoriamente rinunciare.45
Simili obiezioni muove anche Mario Peretti.46 Secondo queste critiche, dunque, il principio di non contraddizione fonda il pensiero stesso e, dal momento che il dialogo si basa sul pensiero, ne consegue che il dialogo dipende da tale principio. Si ripropone ancora una volta, in questi termini, il tentativo di far derivare il pensiero da un principio logico, tentativo che Calogero ha sempre respinto con decisione, ribattendo che nessun principio possa precedere la «presenza» dell’Io che lo formula e che quindi nessun principio possa anticipare il pensiero dell’Io stesso. In più, bisogna ricordare che Calogero non considera il principio di non contraddizione come un principio del pensiero «immediato», cioè della conoscenza noetica, ma come uno strumento del pensiero dianoetico e, conseguentemente, del linguaggio. Secondo il Nostro, infatti, il principio di non contraddizione è utile solo per evitare contraddizioni linguistiche e facilitare la comprensione del proprio discorso da parte degli ascoltatori. Tale principio «si limita, in realtà, a procurare l’accordo del prima col poi, di quel che si è detto con quello che si dirà».47 Tolto, dunque, da parte di Calogero, ogni valore metafisico al principio di non contraddizione, esso si limiterà a regolare il linguaggio, il quale prevede, a sua volta, una discussione e perciò la dipendenza dal principio della discussione che fonda ogni comunicazione. I due principi, quindi, risultano notevolmente diversi, poiché «uno ci dice come dobbiamo dialogare [il principio di non contraddizione], e l’altro [il principio della discussione], che dobbiamo farlo. Se l’uno regola il dialogo, l’altro lo instaura».48
Ogni discussione è successiva ad una scelta dell’Io. In ogni istante, infatti, l’Io può decidere se accettare la discussione o rifiutarla, e ciò avviene non per tener fede al principio di non contraddizione, ma perché tale è la situazione inevitabile di ogni coscienza. Alla base, quindi, «non c’è il principio di non contraddizione […] ma semmai il principio di determinazione, ovvero l’onnipresente necessità in forza della quale la mia esperienza ha sempre una figura determinata, che proprio perché determinata è quella e non un’altra».49 Sintetizzando: il principio di determinazione mi dice che se faccio l’azione X, faccio l’azione X e non l’azione Y, quindi, calandoci nel nostro discorso, esso mi dice che se metto in discussione il discutere, in realtà discuto.
Stefano Petrucciani va oltre, affermando che, successivamente al principio di determinazione che rileva la nostra azione «discutere», il principio della discussione e il principio di non contraddizione scattano contemporaneamente, poiché, secondo il suo parere, non si potrebbe accettare di dialogare (principio della discussione) se non si sapesse già come dialogare (principio di non contraddizione).50 Nell’ottica calogeriana, tuttavia, questa osservazione andrebbe ridimensionata. A seguito, infatti, del principio di determinazione, che rileva che sto facendo alcune «determinate» azioni e non altre, il principio della discussione, a nostro avviso, deve sempre precedere quello di non contraddizione, poiché prima si deve scegliere di instaurare un dialogo con un’altra persona e soltanto successivamente si stabilisce in quale modo attuarlo. La scelta del dialogo è anteriore alla scelta del modo di dialogare, poiché, anche qualora il proprio interlocutore usasse frasi sconnesse e contraddittorie e ci impedisse di decifrarne il significato, lo si scoprirebbe soltanto dopo aver deciso di ascoltarlo.
Il principio della discussione, e la volontà d’intendere che ne è il suo presupposto, dunque, fondano ogni dialogo. Calogero, affermando l’esclusiva indiscutibilità soltanto di tale principio, ne conclude, che in ogni situazione dialogica tutto può essere discusso tranne il principio che regola la discussione stessa. Nessuna norma, inoltre, può impedire la discussione, se tale norma non è frutto della volontà del singolo individuo, che preferisce non comunicare affatto e chiudersi ad ogni confronto con l’Altro. In realtà, per il Nostro, concepire un individuo che si escluda da ogni comunicazione umana è piuttosto improbabile, poiché l’assoluta incomunicabilità, a suo avviso, è solo un falso mito di qualche filosofo che, in maniera un po’ bizzarra, pretende di comunicare la sua stessa incomunicabilità.51 Ogni uomo, invece, si trova prima o poi a comunicare, dovendo rispettare per ogni sua comunicazione il principio della discussione.
Se è vero, allora, che per Calogero tale principio è indiscutibile, indimostrabile e garante dell’autonomia decisionale dell’Io, così come lo dovrebbe essere il principio primo di una possibile etica universale, ne deriva che il principio della discussione è proprio quel principio etico, e che ogni dialogante che decide di parlare e di ascoltare il proprio interlocutore è, di conseguenza, un uomo morale? Se così fosse il mondo straboccherebbe di moralità! Un vero principio etico, per il Nostro, invece, deve essere anche altruista, cioè deve favorire la comprensione dell’Altro.
Il solo principio della discussione, in realtà, crea una comunicazione tra più persone, ma per essere davvero altruista dovrà andare oltre. Per prima cosa dovrà considerare se stesso come unica regola assoluta, in quanto l’unica indiscutibile, permettendo l’eliminazione di ogni dogmatismo che pretenda di imporre altre leggi assolute al di sopra di ogni discussione e del suo principio. La messa al bando di tutti i dogmi, inoltre, non rischierebbe affatto di condurre verso il vicolo cieco dello scetticismo, poiché il rifiuto del dogmatismo non esclude l’esistenza di una norma assoluta, quale risulta essere, appunto, il principio dialogico. Ammettere che si possa discutere di tutto e che ogni
argomento possa trovare la sua espressione, significa, anche, considerare il principio della discussione come regola garante della tolleranza e del rispetto della diversità. Fino ad ora abbiamo chiamato tale principio «principio della discussione», contravvenendo alla dizione calogeriana di «principio del dialogo». La scelta è dovuta alla nostra intenzione di rendere il discorso calogeriano il più chiaro possibile. Poiché il Nostro utilizza il termine «principio del dialogo» a tutti i livelli dialogici, vi è il rischio concreto che qualcuno, come effettivamente è successo, consideri tale principio solo nelle sue forme iniziali, dimenticando di osservarne le sue implicazioni successive e originali. Il principio che abbiamo analizzato in queste pagine, infatti, regola soltanto la comunicazione, ma non ha ancora i caratteri profondi della filosofia calogeriana, quali la tolleranza, l’attenzione «interessata» e la comprensione in senso lato (che potremmo chiamare «comprensione attiva»), che contraddistinguono il vero principio della sua filosofia del dialogo.
Speriamo di aver chiarito il motivo per il quale soltanto ora, trattando il tema della tolleranza e del laicismo, inizieremo a parlare di «principio del dialogo», abbandonando la nostra dizione «principio della discussione», che del principio dialogico è la premessa.
Tolleranza e laicismo
Dall’osservanza precisa del principio della discussione e dalla sua attuazione pratica, si giunge ad ammettere inevitabilmente la necessità della discussione di qualsiasi altro principio e, in generale, di qualsiasi idea. Il principio del dialogo, dunque, si erge a principio valido per tutti, in quanto garante del rispetto di tutti. Esso va oltre il dogmatismo, poiché permette ad ognuno di esprimersi, e supera anche la critica scettica, dal momento che è esso stesso a permettere che tale critica abbia la possibilità di essere espressa.52
La tolleranza, secondo il Nostro, è la prima forma di altruismo, poiché riconosce il valore dell’altrui libertà di coscienza. La nostra libertà di pensiero ci è data necessariamente, in quanto espressione dell’eterna consapevolezza dell’Io. Ognuno, infatti, dentro di sé, è libero di pensare ciò che vuole. Tuttavia, dal momento che questa è una libertà necessaria, per Calogero come sappiamo, non ha valore. La libertà di coscienza altrui, invece, per esistere in noi deve essere da noi stessi riconosciuta, presupponendo non più una necessità, ma una libera decisione. Essa, in questo modo, assume tanto più valore, quanto più quella libertà è da noi accettata e difesa, permettendo il primo passo dell’azione etica.53
Calogero si dilunga spesso nella specificazione del significato di tolleranza, al cui termine ne affianca un altro, «laicismo», che nel suo pensiero assume un carattere particolare, distante da quello estremista che il linguaggio comune gli attribuisce. Laicismo, infatti, significa, per il Nostro, sia «non pretendere mai di possedere la Verità più di quanto anche gli altri possano pretendere di possederla»,54 sia rifiuto di ogni dogmatismo in «difesa di ogni uomo dall’invadenza dei cattivi stati e della cattive chiese».55 I cattivi stati e le cattive chiese, infatti, partoriscono tutte quelle idee che, indipendentemente dalla loro provenienza, pretendono di affermare l’unica Verità assoluta, impedendo qualsiasi ulteriore ricerca o discussione. I dogmatici e gli intolleranti, inoltre, non hanno una sola ed unica bandiera. Benché, infatti, il pensiero religioso possa, secondo Calogero, essere «contaminato» più facilmente dal germe dell’integralismo e dall’autoritarismo, nemmeno il pensiero laico può ritenersi immune. È indispensabile, a suo parere, che ognuno riconosca i propri errori e che anche i laici smettano di ragionare in termini dogmatici, considerando erroneamente il laicismo «piuttosto come una filosofia tra le filosofie, come una ideologia opposta ad altre ideologie, che come la regola di convivenza di tutte le possibili filosofie e ideologie»,56 come invece dovrebbero fare, in rispetto del principio dialogico della tolleranza. L’etica del laicismo e della tolleranza assicura «la coesistenza degli uomini in quella “casa comune”, in quella “casa di tutti”, […], che è la casa in cui nessuno deve sentirsi come straniero, come abitante non di pieno diritto, anche se la sua fede si trovi a non essere condivisa da nessun altro».57 In conformità del rispetto di tutte le bandiere, al di là della loro origine, Calogero non ha mai perso occasione di sottolineare il valore degli studi di intellettuali che si impegnarono nella diffusione dello spirito dialogico, come fu, ad esempio, per l’amico cattolico Arturo Carlo Jemolo.58
Il laicismo calogeriano, lungi dal combattere la diversità, la valorizza e la tutela, a differenza del fanatismo «il quale ha la sua radice precisamente nella pretesa che tutti gli altri siano fatti, e debbano esser fatti, a propria immagine e somiglianza (o, peggio ancora, a somiglianza dell’immagine della razionalità raffigurata nella propria logica o filosofia o teologia, la quale pure può ben esser diversa dalla logica o dalla filosofia o dalla teologia altrui)».59 Il principio del dialogo risulta essere, così, non un logo, ma l’atmosfera della convivenza di tutti i loghi, i quali nella loro diversità, se vogliono continuare a confrontarsi ed evitare un conflitto che ne minacci la loro stessa esistenza, devono tener fede ad una legge comune, che è appunto il principio del dialogo. Al di fuori di questa regola comune vi è solo il bellum omnium contra omnes, che comporta autoritarismo, violenza e sopraffazione. O si persegue, dunque, la via del dialogo e della coesistenza equilibrata, o questo equilibrio si spezza avvantaggiando alcuni uomini ed eliminandone altri.60
Il principio dialogico obbliga chi lo voglia seguire ad ascoltare tutti e a non impedire che qualcuno manifesti il proprio parere. Tuttavia Calogero, come abbiamo già avuto modo di dire, non intende il comprendere come un perdonare indiscriminato, poiché è compito del laicista garantire a tutti il diritto di manifestare il proprio parere, criticando e contrastando, se necessario, chi cercasse di tappare le bocche altrui:
Non si dica quindi che, in quanto abbiamo il dovere di capire tutti, non possediamo più alcun criterio per giudicare le loro azioni. E’, anzi, proprio il fondamentale dovere di comprendere ognuno, che ci permette di distinguere fra le azioni compiute, e di stabilire, come si dice, una tavola di valori, cioè una gerarchia di efficienza fra i vari tipi di comportamento, a seconda che si manifestino più o meno conformi e confacenti a quel supremo imperativo dell’intendimento e del dialogo. Sempre potremo, anzi sempre dovremo, criticare certe azioni, e comunicare queste critiche, anche le più severe, agli agenti. Ma in nessun caso, neppure in quello che dopo il più onesto dei processi uno venga condannato per il più orrendo dei delitti, avremo mai il diritto di guardarlo dall’alto in basso, di rinunciare a capirlo, di rompere il ponte della comunicazione umana.61
Il laicismo non deve, quindi, concedere nessun spazio al lassismo morale.
Andare oltre la tolleranza
Lo spirito dialogico per essere sempre più altruista e, quindi, per essere sempre più etico, non può limitarsi, secondo Calogero, soltanto a proclamare l’antidogmatismo e la tolleranza, deve cercare di andare oltre. Il principio del dialogo che aspiri a diventare principio etico universale, infatti, oltre che garantire la libera espressione altrui, deve partire dall’interesse per quei contenuti espressi. Un dialogo che fosse guidato soltanto dallo spirito di tolleranza rischierebbe di risultare privo di stimoli fino a cadere nell’indifferenza. Dialogare, infatti, non significa solo conversare, ma anche provare vivo interesse per quello che l’Altro può dirmi.62 Un dialogo «limitato», secondo il Nostro, è quello che intercorre tra chi, pur tollerando le idee altrui, parte dal presupposto di avere già la verità in tasca senza bisogno di prestare orecchio a chi vive ancora nell’ignoranza: «Un dialogo è tanto più falso quanto più, chi parla, parla per il gusto di parlare, e non si fermerebbe mai per sentire ciò che altri gli dicono».63 In questa direzione, Calogero non risparmia nemmeno una feroce sferzata alla superba élite intellettuale, in cui a volte, a malincuore, si imbatte:
Certi ricevimenti di società intellettuali sono veri capolavori in questo senso: tutti parlano con estrema intensità, e nessuno sente nulla. Con simili forme di colloquio la cultura non ha nulla a che fare: sono esibizionismi di barbari vanitosi, anche se sanno che Carlo Magno è vissuto alcuni secoli prima di Dante.64
La tolleranza priva di interesse è ancora vittima del dogmatismo:
In questo tipo di tolleranza è ancora implicito il convincimento che la propria dottrina o religione non ha bisogno di esser tollerata, perché è la vera. Si tollerano le altre, in quanto sono errori, che si attende si correggano da sé, senza incorrere nell’impopolarità di pretenderne coercitivamente la correzione. Non c’è l’estremo del fanatismo, ma c’è tuttavia il dogmatismo, in quanto non c’è curiosità per l’altrui visione delle cose.65
Il principio dialogico, dunque, dopo aver fondato la discussione e dopo aver garantito la libera espressione dei pensieri tutti, passa ad un successivo livello etico che implica il vivo interesse verso quei pensieri.
6. Secondo livello dialogico: l’ascolto attento e interessato
Dallo spirito di tolleranza, il principio dialogico approda, dunque, all’interesse per gli argomenti altrui fino ad ammetterne la loro preferibilità rispetto a quelli di partenza. L’esempio storico di chi ha insegnato a dialogare nel rispetto di tutti, attraverso un ascolto interessato ed attento, ammettendo la possibilità di essere convertito dagli altrui ragionamenti, fu, secondo Calogero, Socrate. Affrontiamo di seguito l’analisi dei passaggi che conducono dalla tolleranza alla possibilità di «conversione», per dedicarci poi alla visione calogeriana di Socrate.
Dall’interesse alla conversione
Abbiamo già anticipato che il principio dialogico prevede nei riguardi delle altrui visioni delle cose non solo la tolleranza ma un sentimento di «sincera curiosità».66 Calogero rileva, soprattutto nelle discussioni politiche, un uso indiscriminato della parola «dialogo», che spesso viene completamente snaturata: «Una trattativa, per esempio tra forze politiche diverse, ma di analogo orientamento autoritario, o integralistico, può anche chiamarsi “dialogo” ma non risponde certo alla “legge del dialogo”».67 In un suo articolo Calogero offre un chiarissimo esempio di «falso dialogo», in cui ipotizza il comportamento di due persone, le quali cerchino di dimostrare l’assoluta verità della propria posizione, senza mai concedere che l’altro possa avere un’idea migliore della propria. Di fronte a questo dialogo tra sordi, Calogero conclude: «Entrambe queste situazioni non soltanto sono del tutto corrispondenti per quanto riguarda il rapporto tra pretesa di consenso e dovere di dimostrazione, ma sono altresì identiche per un aspetto molto più grave. Isolate nella loro più autentica qualità, esse sono entrambe situazioni egoistiche. Quel che a me [nei panni di uno dei due dialoganti] interessa non è il capire come l’altro la pensa, è il condurlo a pensare come me. Quel che all’altro preme non è il comprendere come vedo le cose io, è il portarmi a vederle come lui.
Ciascuno di noi vuole in realtà sospingere l’altro alla somiglianza con se stesso, anche se in questo caso la sollecitazione avviene non mercé una violenza ma attraverso un processo di persuasione. La situazione è ancora una volta monologica, non dialogica».68 Nella propria lotta contro i presunti dialoghi che si rivelano in realtà monologhi, Calogero trova un alleato nel francese Ferdinand Gonseth, allievo di Emmanuel Lèvinas e portavoce della «philosophie ouverte».69 Riprendendo le tematiche affrontate dal filosofo francese, Calogero scrive:
Senza dubbio, Gonseth insiste sul punto che non basta che l’altro resti un altro, che io non debbo limitarmi ad ammettere la diversità del suo pensiero, nel quadro di una tolleranza che così diventerebbe indifferenza. Debbo invece battermi con passione per fargli capire le mie idee, e possibilmente, beninteso, per convincerlo ad accettarle.70
Ma se ci si limitasse a questo cadremmo ancora nel dialogo-monologo. Infatti Calogero aggiunge: «Nello stesso tempo debbo ammettere anche l’opposta possibilità, cioè che a un certo momento sia invece io ad accettare le idee sue, con lo stesso sincero impegno con cui prima cercavo che egli accettasse le mie».71 Nessuno, ribadisce Calogero, deve rinunciare ad avere una propria idea, poiché non avere un’idea significa non poter comunicare e precludersi fin dall’inizio qualsiasi situazione dialogica: «Io posso bene, per quanto mi concerne, essere convinto della validità di quel che penso […] e insieme tenermi sempre aperto alla possibilità di esser convinto altrimenti».72 Il dialogo permette l’incontro delle idee, ma tali idee, per Calogero, rimangono cattedrali nel deserto dell’egoismo e dell’indifferenza se non sono sorrette dall’interesse reciproco e dalla volontà di essere sostituite, qualora si presenti nel corso dell’incontro dialogico un’idea migliore. Chi non provi interesse per l’Altro e non ammetta una propria possibile conversione, non riuscirà mai ad aprirsi completamente alla comprensione altrui e il suo altruismo non sarà più tale.
Nella storia, per Calogero, Socrate lanciò il vero messaggio dialogico che pochi vollero cogliere. L’esempio del filosofo greco ritorna, infatti, ogniqualvolta si segua il principio dialogico. Come scrive Augusto Guzzo: «Dialogare per cercare insieme è socratismo. Siamo tutti socratici, nelle misura in cui cerchiamo, non sapendo già, ma per sapere. Implica ciò una “desperatio veri”? Al contrario, implica una “speranza” del vero».73 E su questa speranza, Socrate costruì il suo insegnamento e la sua vita.
L’esempio di Socrate
La filosofia del dialogo di Calogero deve molto alla figura di Socrate. Cercare di fare un paragone tra i due pensiamo sia impossibile, poiché Socrate, purtroppo, vive solo nelle parole di chi lo conobbe allora e dei critici che, a distanza di secoli, osservano con la lente della filologia queste fonti. Della questione del Socrate «socratico» o del Socrate «platonico» non sta a noi parlare, anche se Calogero cercò di essere un filologo molto attento e dedicò all’interpretazione del pensiero socratico, attraverso l’analisi sia dei dialoghi platonici (di cui curò diverse edizioni) sia delle altre fonti non riconducibili a Platone, molti articoli e soprattutto molta passione. Alla fine, del filosofo greco risulta un’immagine che noi non possiamo né confermare né rifiutare, ma che ci limitiamo a considerare come utile chiave di lettura della filosofia del dialogo calogeriana. Calogero fu sempre convinto che la filosofia socratica fosse quasi del tutto sovrapponibile alla propria e questo ci permetterà, grazie all’interpretazione che Calogero stesso diede del dialogo socratico, di leggere con maggior cura il pensiero del Nostro.
Al pari di Calogero anche Socrate si trovò a dibattersi tra scettici e dogmatici, tra chi affermava che nulla è vero e chi pretendeva di stabilire in maniera definitiva una «conoscenza della conoscenza». Per Socrate tale dibattito non avrebbe mai portato a nulla, poiché, a suo parere, né si poteva dire che non esistesse la verità, altrimenti nessuno mai avrebbe avuto un’idea ritenuta valida e di conseguenza per lui vera in quel momento, né si poteva trovare una «scienza della scienza» senza cadere in un circolo vizioso.74 Da questa premessa antignoseologica, Socrate concluse che la ricerca della verità si può fondare solo sul confronto delle singole verità che ognuno possiede. La verità risulta così il prodotto dell’attività dialogica. Tale attività, inoltre, per Socrate, non avrebbe mai potuto concludersi, poiché sarebbe sempre stato possibile incontrare un uomo con una nuova idea da discutere e un’ulteriore obiezione al dialogo precedente da valutare. Il dialogo socratico, dunque, secondo la lettura calogeriana, si fondò sull’«eterna ricerca», bandendo da sé l’idea che si possa trovare una verità che permetta di abbandonare per sempre tale ricerca. Questa fu la grande differenza che divise nettamente Socrate dal suo allievo Platone. Nel Simposio platonico, infatti, si può notare chiaramente, secondo Calogero, il passaggio dalla ricerca continua socratica, all’idea statica platonica, secondo la quale il Bene è un preciso contenuto che si può ottenere e contemplare una volta per tutte. Nel Simposio la ricerca socratica è rappresentata da èros, il quale aspira di continuo ad ottenere ciò che non ha. Nessun logo impone all’uomo tale ricerca, ma essa fa parte dei caratteri costitutivi dell’uomo stesso.75 La ricerca «erotica», secondo Socrate, si attua nel dialogo, che permette all’uomo di trovare volta per volta le risposte che cerca, attraverso l’incontro con le verità altrui. Tale brama però non ha mai fine, poiché se l’uomo raggiungesse la verità definitiva non avrebbero più alcun senso per lui né il futuro, né il dialogo, né gli altri con cui egli ha dialogato. L’uomo che conquistasse la verità eterna, agli occhi del Socrate calogeriano, assomiglierebbe piuttosto ad una divinità statica, che noi, ora, potremmo avvicinare al dio «pensiero di pensiero» aristotelico, immobile nella contemplazione di sé.
Platone, invece, ribaltò l’insegnamento di Socrate e vide in èros non più la spinta alla continua ricerca e al confronto altrui, ma piuttosto il raggiungimento di un preciso contenuto, che una volta ottenuto avrebbe placato ogni sete di conoscenza, ma anche ogni possibilità di ulteriore discussione.76 Mentre Socrate, dunque, sancì l’eterna possibilità etica della scelta dialogica, che permettesse a tutti di poter discutere e di partecipare alla ricerca della verità, Platone impose un logo chiamato Bene, che una volta raggiunto non avrebbe permesso alcuna ulteriore discussione, sancendo la fine di ogni possibile scelta etica del dialogo. Calogero legge in questa differenza tra allievo e maestro una differenza oltre che teoretica anche psicologica. Per tener fede al dialogo socratico è necessaria, infatti, molta serenità e un appagamento che non si risolva nella conquista di un contenuto, ma che permanga nella continua ricerca di un possibile contenuto e che, dunque, inevitabilmente rimanga inappagato. Platone, invece, «è assai meno forte, meno sereno, meno sicuro, o, che è lo stesso, più impaziente e più rivoluzionario di lui [Socrate]. Ad un certo punto non ha più la buona volontà di capire il punto di vista dell’uomo ingiusto, ma s’indigna e s’infuria».77
Quale fu, in sostanza, per Calogero, l’idea che Socrate ebbe del bene? Per il grande maestro ateniese il bene si identifica «non già in una qualsiasi verità raggiunta o da raggiungere attraverso l’exetàzein [ricercare], ma in questo stesso exetàzein».78 Il bene, dunque, sta nella ricerca, non nella contemplazione, sta nell’azione morale, non nella chiusura solipsistica. Se il bene fosse il raggiungimento di una verità, tale verità varrebbe solo per l’individuo chiuso nel suo mondo, oppure per una schiera di automi, incapaci di ragionare autonomamente e, di conseguenza, privi di qualsiasi libertà. Socrate, secondo Calogero, non avrebbe mai potuto concepire il bene come l’anticamera dell’impossibilità morale, né come il dogma imposto a scapito della libertà di ricerca. Pretendere di possedere la Verità indiscussa, per il Socrate calogeriano, significava far naufragare ogni tentativo dialogico.79
Socrate era convinto, inoltre, che nessuno agisca in mala fede, ma che ognuno scelga di fare sempre ciò che a lui sembra sia la cosa migliore. L’errore, dunque, non è mai consapevole, ma è solo il frutto dell’ignoranza di una certa situazione. Ogni uomo, per il filosofo greco, sbaglia nella convinzione di aver agito rettamente. Si dovrebbe concludere, allora, che nella visione socratica l’uomo si ritrova a scegliere il bene senza mai accorgersi di poter fare degli errori madornali? Sì, se quell’uomo rimanesse chiuso nelle proprie idee. Chi non si aprisse al confronto con gli altri, sarebbe sempre convinto della assoluta bontà delle proprie idee e non farebbe mai nulla per cambiarle, salvo magari poi pentirsene amaramente qualora la realtà gli mostrasse il contrario. Per il solipsista si prospetta, in questo modo, soltanto un mondo colmo di rischi e alquanto sgradevole. La soluzione dialogica socratica, invece, permette di ricercare la scelta migliore, attraverso il confronto aperto e sereno con gli altri, senza alcuna pretesa di imposizione o di sottomissione assoluta. Accettato il confronto dialogico, ciascuno seguirebbe l’argomento che a suo parere risulti migliore, anche se nessun buon dialogante accetterebbe di troncare questa ricerca comune, per non rischiare di chiudersi ad ogni ulteriore osservazione e per non tenersi fuori da qualsiasi rapporto futuro con gli altri. Il dialogo socratico, secondo Calogero, permette di raggiungere momento dopo momento alcune verità particolari, che in quella determinata situazione risultino migliori, ma non potrebbe mai ammettere la sua conclusione a vantaggio di una di queste verità.80 Per il Socrate calogeriano non esistono, quindi, il Giusto e lo Sbagliato, ma solo il giusto e lo sbagliato in determinate situazioni, secondo il parere di alcuni. Ecco perché limitare il dialogo nel tempo e restringerlo a pochi partecipanti significherebbe limitare enormemente la ricerca della verità, rischiando di ripetere errori più o meno gravi, limitando il progresso umano, fondato sulla continua ricerca. Socrate, infatti, viveva «non nel mondo delle antiche ed eterne verità, ma in quello dei discorsi in contrasto, in cui le parole producono l’incessante mareggiare delle persuasioni, e non è mai dato sapere una volta per tutte chi sia buono e chi sia cattivo, chi abbia ragione e chi abbia torto».81
Partendo dal presupposto che l’uomo sceglie di fare sempre ciò che crede sia meglio, Socrate ne concluse che nessuno sbaglia di propria volontà, perché nessuno sceglierebbe mai di seguire la via che gli apparisse peggiore, a scapito di quella migliore, ovvero, in poche parole, che nemo sua sponte peccat. Ogni uomo, infatti, segue le proprie valutazioni e va compreso nella scelta fatta senza essere giudicato. La lezione socratica, secondo Calogero, venne ripresa anche in seguito da quella evangelica del nolite iudicare.
Tuttavia, per il Nostro, questa forma di intellettualismo etico socratico non toglie responsabilità all’individuo. Non giudicare, infatti, non significa giustificare in tutto e per tutto. La scelta individuale, per Socrate e per Calogero, non è frutto solo del ragionamento o dell’istinto, ma passa inevitabilmente per la via della volontà. Ognuno sceglie ciò che gli sembra giusto non solo perché glielo dice la ragione o l’istinto, ma perché così egli vuole, sancendo in questo modo la perfetta aderenza tra individuo, ragione, istinto e volontà. Nessuno può attribuire le proprie azioni alla responsabilità della sua ragione, o delle sue passioni, poiché sia ragione che passioni non sono altro che la sua stessa volontà, cioè il suo stesso Io.
Sancendo l’autonomia della coscienza individuale, che è sempre responsabile della scelta dell’azione ritenuta migliore, Socrate stabilì anche il carattere della società dialogica, la quale, oltre che fondata sulla sovranità dei singoli su loro stessi, dovrebbe poggiare sull’assoluto rispetto della libertà delle altrui coscienze, imponendo di conseguenza un limite alle singole libertà. Socrate, infatti, «non ha dubbi sul punto che questa sovranità della sua coscienza [nei riguardi di se stessa] presuppone la pari sovranità della coscienza di ogni suo interlocutore, e che quindi egli non potrà mai pleonektèin, cioè “andare oltre il limite giusto”, persino nel caso in cui di una simile sopraffazione egli sia la vittima per colpa altrui».82 Socrate, quindi, cercò di salvaguardare l’autonomia di ciascuno senza che però questa potesse superare il limite dell’autonomia altrui. Egli stesso, nella sua Atene, incarnò tale modello di vita. Di fronte ai giudici che gli chiedevano di sospendere la sua ricerca dialogica, rinunciando ad interrogare gli altri e a sottoporre tutto all’esame della propria coscienza, egli si oppose fermamente, preferendo la condanna a morte. Nessuna autorità, infatti, ha, per lui, il diritto di troncare l’autonomia critica ed espressiva anche di un solo uomo. E davanti ai discepoli che cercavano di aiutarlo, favorendone l’evasione, si oppose altrettanto fermamente, poiché riteneva il suo legame alle leggi ateniesi molto più importante della sua stessa vita. Il vero contratto inalterabile tra uomo e legge, secondo Socrate, «è quello che lega il cittadino stesso alla legge, in quanto egli ha accettato di vivere sotto il suo governo e di ricambiare i vantaggi che da ciò gli vengono con l’obbedienza ad ogni suo comando».83 Come per Socrate anche per Calogero, il singolo uomo, qualora esista una legge che impedisca di esercitare la libera ricerca dialogica, tappando la bocca a qualcuno o limitandone la possibilità d’espressione attraverso la censura o, peggio, la persecuzione, ha il diritto e il dovere morale di ribellarvisi, combattendo per la conquista della libertà di tutti. Tuttavia, se le leggi garantissero tale libertà d’espressione, nessuno potrebbe sottrarsi al loro dettame, nemmeno se esso non fosse condiviso. Sia per Socrate, quanto per Calogero, una legge, infatti, deve poter essere messa in discussione in ogni momento, ma finché vale deve essere applicata.84 La visione politica socratica è il punto di partenza dell’ideale politico calogeriano, il quale però procede oltre, introducendo come cardine fondamentale della costituzione della società dialogica, cioè veramente democratica, non solo la piena libertà d’espressione e di partecipazione politica, ma anche le indispensabili riforme economiche necessarie per la fruizione di tali libertà.
Crediamo che Calogero sviluppi ulteriormente il messaggio di Socrate non solo in ambito politico, ma anche in quello etico. Benché egli non affermi mai di voler superare il maestro ateniese, a nostro avviso il dialogo calogeriano prende spunto da quello socratico, per poi condurlo alle estreme conseguenze, già d’altra parte implicite nelle sue premesse, affinché il principio dialogico possa diventare definitivamente il principio etico universale che si sta cercando.
7. Terzo livello dialogico: favorire la comprensione umana
La comprensione dialogica, abbiamo visto, si può attuare se entrambi i dialoganti intendono favorire tale comprensione non solo con l’ascolto reciproco, ma con un ascolto che sia anche attento ed interessato. Tutto ciò, però, sottintende che ognuno abbia la possibilità di esprimersi ed essere compreso, quindi che abbia la possibilità anche di vivere degnamente, cioè di godere delle condizioni adatte per poter manifestare le proprie idee e le proprie aspirazioni.
A prima vista potrebbe sembrare che la filosofia del dialogo si limiti ad un’etica dell’ascolto. Aldo Capitini sottolineò questo aspetto come il limite più evidente della soluzione calogeriana, e commentando l’interpretazione di Calogero all’evangelica regola aurea, ne motivò la critica. Partendo dalle osservazioni di Capitini, cercheremo di mostrare il più ampio valore della filosofia del dialogo rispetto ad una semplice etica dell’ascolto, evidenziando la differenza che intercorre tra ascolto e comprensione nel suo significato più vasto.
La regola aurea secondo Calogero e la critica capitiniana
Calogero osserva con molto interesse la norma evangelica che in ambiente anglosassone viene chiamata the golden Rule, la regola aurea, la quale prescrive di fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a sé. Spesso, ricorda Calogero, tale norma viene riportata in termini negativi («non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te»), ma ciò deriva solo dagli influssi sulla norma degli antichi decaloghi, che tendevano a promulgare divieti, piuttosto che esortazioni positive.85 Inoltre, questo precetto non deve essere confuso con una norma di stampo utilitaristico, poiché non sancisce alcuno scambio di favori, ma prospetta una scelta del tutto autonoma e priva di secondi fini. In pratica, chi decide di fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a lui, lo fa non per riceverne qualcosa in cambio, ma per puro spirito altruista, scelto in perfetta autonomia.
La regola aurea potrebbe dunque avere le caratteristiche adatte per diventare il principio etico universale che stiamo cercando? Calogero è dell’avviso che, pur essendo una norma di tutto rispetto e che sicuramente racchiude un forte spirito etico, essa si imbatta in una grave difficoltà. Chi volesse seguirla, infatti, avrebbe due scelte: o imporre agli altri i propri gusti, oppure realizzare automaticamente ciò che gli altri vogliono. Nel primo caso, egli sarebbe uno «schiavista», poiché costringerebbe gli altri a subire ciò che egli stesso vorrebbe subire, senza starli a sentire. Nel secondo caso, invece, egli perderebbe la propria autonomia di scelta e con essa la possibilità morale. Se, ad esempio, Tizio ci dicesse che il suo desiderio, che noi abbiamo deciso di realizzare seguendo la regola aurea, è quello di bastonare Caio, saremmo davvero etici ed altruisti nel farlo senza porci alcuna ulteriore riflessione?86
In nessuno dei due casi prospettati, dunque, la regola aurea potrebbe assurgere a principio etico universale. Dobbiamo perciò rifiutarla totalmente? Calogero non crede che nemmeno questa soluzione sia soddisfacente. La regola aurea, a suo parere, è in realtà posteriore ad una regola davvero universale, che è il principio dialogico. Per sapere, infatti, ciò che gli altri vogliono, dobbiamo ascoltarli, dobbiamo cioè entrare in relazione dialogica con loro. Inoltre, comprenderli e agire affinché possano esprimersi e possano manifestare i loro bisogni, non significa affatto obbedire alle loro richieste indiscriminatamente, ma significa recepirle e seguirle solo qualora esse non rischino di impedire ad altri di essere compresi a loro volta. In questo modo la regola aurea si inserisce all’interno della filosofia del dialogo, trasformando la sua formulazione classica in quella del principio dialogico: «La stessa “regola aurea” si manifesta più adeguata se, invece, di suonare “Fa agli altri ciò che vuoi che gli altri facciano a te”, si precisa nella norma “Intendi gli altri così come vuoi che gli altri intendano te, e opera in conseguenza”».87 Capitini valuta criticamente questo capovolgimento, ribadendo, contrariamente a Calogero, che la regola aurea cristiana ha una maggiore ampiezza, e quindi universalità, rispetto al principio dialogico. Per Capitini, infatti, la regola del dialogo
non è che un aspetto della più larga apertura intesa nel detto di Gesù. Che probabilmente vuol dire: sta aperto agli altri, alla loro esistenza, libertà, sviluppo (nel quale rientra anche il perdono dato alle offese ricevute), capovolgi l’atteggiamento abituale della gente che aspetta per stabilire il comportamento verso altri, il vedere come altri si comporta, e tu, invece, prendi l’iniziativa (è meglio dare che ricevere diceva Gesù), anticipa i tempi e brucia l’attesa di essere trattato come apertura: fatti avanti e stabilisci affetto, perdono, aiuto agli altri (e certamente anche il colloquio, anche ascoltare).88
Da queste parole, il confronto tra il socratico Calogero e il cristiano, e rivoluzionario, Capitini, emerge chiarissimo. Da una parte, infatti, troviamo l’ideale della pòlis democratica e civile, dall’altra l’ideale della società «aperta», pervasa da un afflato religioso che spinge ognuno all’amore verso anche l’ultimo degli uomini, vivo o morto che sia. Che vi siano aspetti comuni tra la filosofia del dialogo di Calogero e la «religione aperta» di Capitini, in quanto entrambe sostenitrici di un’apertura completa verso il Tu, è lo stesso Calogero a ribadirlo.89 Tuttavia, a nostro avviso, i due pensatori divergono in particolare su tre punti: il tema della non violenza, la visione escatologica, presente soltanto in Capitini90 e appunto la distanza, rilevata soprattutto da Capitini, tra i loro ideali di società. Mentre i primi due punti separano effettivamente le due posizioni, il terzo pretende di cogliere una distanza che, a nostro avviso, non è proprio così netta. Benché l’ideale capitiniano sia molto più incentrato sull’aspetto religioso e su un’apertura all’Altro che prediliga un rapporto più intimo e amorevole, rispetto all’ideale più politico e laico di Calogero, la società del dialogo calogeriana non è la semplice società dell’ascolto, come sembrerebbe emergere dalle precedenti parole di Capitini. La società civile di Calogero, infatti, oltre che essere la società dell’ascolto, è una società che si fonda sulla piena comprensione dell’Altro. E comprendere è molto più che ascoltare soltanto.
Dall’ascolto alla comprensione
La filosofia calogeriana, a nostro parere, raggiunge con questo ultimo passaggio la sua piena eticità, delineando compiutamente l’azione altruista ed etica. L’uomo altruista, per Calogero, non solo deve ascoltare l’Altro, ma deve aprirsi a lui, tanto che «il riconoscimento del tu non si attua solo con le parole (anzi, in tanti casi, si vuole che non accada solo “a parole”)».91 L’Altro va compreso in tutte le sue esigenze, le quali dunque, possono esprimersi anche senza parole: «La volontà di dialogo non è soltanto volontà di parlare e d’ascoltare, di chiedere e di rispondere, ma anche, più universalmente, volontà di tener conto della presenza altrui, sia quando essa entri in uno specifico rapporto semantico, sia quando invece preferisca di coesistere in silenzio».92 L’Altro, quindi, anche silenzioso, deve essere compreso. Calogero ribadisce più volte questo concetto, affinché si possa cogliere la portata più ampia della sua filosofia: «La comprensione in cui si attua il dialogo […] è un capire non soltanto gli argomenti dell’altro, ma anche le sue esigenze, persino nel caso in cui esse non siano espresse in parole».93
L’Altro, dunque, non solo va ascoltato in tutte le situazioni, ma va anche favorito nella sua espressione. Scrive al riguardo ancora Calogero: «Comprendere gli altri significa capire non solo le loro idee, le loro religioni, le loro filosofie, ma anche le loro aspirazioni, i loro desideri, i loro bisogni. Non esiste quindi alcuna giustificabile differenza di fondo tra società intellettuale e società civile e politica».94 Per garantire, quindi, che l’Altro sia effettivamente compreso da noi, è necessario che noi facciamo tutto il possibile affinché egli sia in grado di costruirsi delle idee, di vivere delle emozioni e poi comunicarcele. L’uomo morale, per Calogero, ha un ruolo estremamente attivo e il suo deve essere un impegno a salvaguardare la possibilità altrui non solo di comunicare, ma anche di farsi un’opinione,95 di vivere dignitosamente, pure nella sua originalità e diversità.96 Calogero è categorico in questo senso, poiché vuole evitare che la sua filosofia venga fraintesa:
Il dovere di comprendere non può, evidentemente, attuarsi in pieno se non tenendo conto delle possibilità di espressione altrui, e cercando di svilupparle al massimo. Il che significa non più soltanto «stare a sentire», ma anche «aiutare a parlare»: e non lo si fa solo suggerendo idee, bensì sviluppando ed accrescendo l’altrui potere di manifestare se medesimo. Se io voglio davvero capire quali nuove prospettive possa significare al mio mondo l’esperienza di Caio, debbo anzitutto aiutarlo a costruirsela. E s’intende tutto ciò che è implicito in questo aiuto.97
La filosofia del dialogo prevede, dunque, una società attenta ai bisogni dell’Altro e rispettosa di tutti i suoi diritti. Tutti i diritti dell’uomo, infatti, secondo Calogero, prendono avvio dalla comprensione tra gli uomini, e quindi dal principio del dialogo: «Capire gli altri, significa volere che essi possano esprimersi: e non c’è riconoscimento di loro diritto fondamentale che non sia implicito in questa volontà».98
La comprensione, per essere universalmente etica, deve allargarsi a tutti, e ciò presuppone che nessuno possa pretendere una comprensione tale che vada a scapito della comprensione di altri. L’altruismo calogeriano, infatti, non si ferma ad un unico Tu, ma si impegna per la promozione di tutti i Tu possibili, affinché ognuno possa coesistere con gli altri senza rinunciare alla propria libertà di vita, in tutte le sue manifestazioni. Una libertà di vita che però sarà limitata in quanto rispettosa delle altrui libertà di vita. La filosofia del dialogo e della comprensione ribadisce, dunque, il suo carattere onnicomprensivo, in cui non si elevi una libertà sulle altre, ma si proclami l’atmosfera di tutte le libertà. In una società dialogica si abbandona la società del conflitto ad ogni costo, per lasciar spazio alla società della coesistenza.
In questo, il messaggio calogeriano va oltre l’etica dell’ascolto e si propone come etica universale, capace, cioè, di rispondere alle problematiche poste da una società veramente universale, in cui ognuno possa essere considerato senza cadere nell’oblio. La speculazione calogeriana, a questo punto, abbandona l’inchiostro e i dibattiti accademici, per fornire il proprio apporto nella costruzione di una società globale e civile.
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Luigi Gallo, Guido Calogero. Etica, politica e filosofia estetica nel pensiero dell’esponente del «moralismo assoluto», Atheneum, Firenze 2000, p. 33. ↩︎
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G. Calogero, La scuola dell’uomo, Sansoni, Firenze 1956, II ed., p. 6. ↩︎
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G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, II vol. delle Lezioni di filosofia, Einaudi, Torino 1960, III ed., p. 9. ↩︎
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Ivi, p. 22. ↩︎
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G. Calogero, L’immortale, in Quaderno laico, Laterza, Bari 1967, pp. 21-22, la citaz. è a p. 22. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Su una possibile distinzione tra «etica» e «morale» cfr. Paul Valadier, Inevitabile morale, (tit. orig. Inévitable morale, 1990), Morcelliana, Brescia 1998. In ogni caso, qualunque sia il significato assegnato alle due parole, rimane il fatto che, per Calogero, è sempre l’Io a decidere di comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, sia che questo lo chiamiamo «etico», «morale» o «immorale». Queste sono definizioni indispensabili, all’interno di una comunicazione, per comprendere a cosa ci stiamo riferendo, ma non determinano affatto l’andamento del nostro agire. Se, ad esempio, vogliamo rispettare gli altri, li rispettiamo perché così decidiamo di fare noi, indipendentemente dal fatto che questa nostra azione venga chiamata «etica», «morale» o «immorale». ↩︎
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G. Calogero, Un dilemma di Aristotele, in Quaderno laico, cit., pp. 321-322, la citaz. è a p. 322. ↩︎
-
G. Calogero, La scuola dell’uomo, cit., p. 157. ↩︎
-
Mario Peretti, La filosofia del dialogo di Guido Calogero, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 1968, LX, n. 1, pp. 70-95, la citaz. è a p. 76. ↩︎
-
G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 25. ↩︎
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Ivi, p. 27. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 30. ↩︎
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Ivi, p. 110. ↩︎
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Ivi, p. 69. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 105. ↩︎
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Cfr. Mauro Visentin, La fine della gnoseologia e la posizione del problema speculativo di Guido Calogero, in AA. VV., Guido Calogero a Pisa tra la Sapienza e la Normale, a cura di Claudio Cesa e Gennaro Sasso, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 275-357, si veda p. 283. ↩︎
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G. Calogero, La scuola dell’uomo, cit., p. 18. ↩︎
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G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 106. ↩︎
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Ivi, p. 44. ↩︎
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G. Calogero, Cinismo e stoicismo in Epitteto, in Saggi di etica e di teoria del diritto, Laterza, Bari 1947, pp. 140-157, la citaz. è a p. 141. ↩︎
-
G. Calogero, Schizzo di una storia dell’etica, in Saggi di etica e di teoria del diritto, cit, pp. 106-139, la citaz. è a p. 110. ↩︎
-
G. Calogero, La scuola dell’uomo, cit., pp. 21-22. ↩︎
-
G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 116. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 117. ↩︎
-
G. Calogero, La scuola dell’uomo, cit., p. 120. ↩︎
-
Ivi, p. 24. ↩︎
-
Ivi, p. 25. ↩︎
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Ivi, p. 26. ↩︎
-
G. Calogero, Il criterio etico, in Saggi di etica e di teoria del diritto, cit., pp. 3-22, la citaz. è a p. 3. ↩︎
-
Ivi, p. 184. ↩︎
-
G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 338. ↩︎
-
G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, cit., p. 157. ↩︎
-
Ivi, p. 160. ↩︎
-
Ivi, p. 164. ↩︎
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G. Calogero, Autonomia ed eteronomia della morale, in Saggi di etica e di teoria del diritto, cit., pp. 48-55, la citaz. è a p. 53. ↩︎
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G. Calogero, Il criterio etico, cit., pp. 21-22. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, L’uomo, l’automa e lo schiavo, in «La Cultura», 1966, IV, n. 1, pp. 1-11, si veda p. 8. ↩︎
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Per le affinità tra il principio calogeriano qui schematizzato e il principio etico della filosofia di Karl Otto Apel cfr. il bel saggio di Stefano Petrucciani, Filosofia del dialogo ed etica del discorso: Guido Calogero e Karl Otto Apel, in AA. VV., Guido Calogero a Pisa fra la Sapienza e la Normale, cit., pp. 227-260. ↩︎
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G. Calogero, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1977, (I ed., 1962; II ed., 1969), p. 73. Altri riferimenti all’indiscutibilità del principio della discussione si trovano disseminati in tutta l’opera calogeriana sul dialogo, cfr. ad esempio G. Calogero, intervento in AA. VV., Ideale del dialogo o ideale della scienza?, a cura di G. Calogero e Ugo Spirito, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, pp. 38-71, si vedano le pp. 52-53. ↩︎
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Ivi, p. 159. ↩︎
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G. Calogero, Verità e libertà, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 163-167, la citaz. è a p. 165. ↩︎
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G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 46. ↩︎
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Raffaele Gambino, Il monologo del dialogo, in «Sapienza», 1961, XIV, nn. 3-4, pp. 294-320, la citaz. è a p. 305. ↩︎
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Cfr. Mario Peretti, La filosofia del dialogo di Guido Calogero, cit., pp. 88-89. ↩︎
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G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 44. ↩︎
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Ivi, p. 45. ↩︎
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Stefano Petrucciani, Filosofia del dialogo ed etica del discorso: Guido Calogero e Karl Otto Apel, cit., p. 238. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 239. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Il muro, in Quaderno laico, cit., pp. 29-30, si veda p. 29. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 69. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., pp. 79-80. ↩︎
-
G. Calogero, Il principio del laicismo, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 279-294, la citaz. è a p. 283. ↩︎
-
G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 117. ↩︎
-
G. Calogero, Il principio del laicismo, cit., p. 280. ↩︎
-
G. Calogero, Religione e laicismo, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 263-268, la citaz. è a p. 268. ↩︎
-
Cfr. ivi, pp. 265-268. ↩︎
-
G. Calogero, Alcune questioni intorno allo spirito di tolleranza, in «La Cultura», 1971, IX, n. 1, pp. 1-14, la citaz. è a p. 5. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, I vol. degli Atti del XXII congresso nazionale di filosofia. Padova 24-27 aprile 1969, a cura della Società Filosofica Italiana, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1969, pp. 20-30, si veda p. 28. ↩︎
-
G. Calogero, Moralità e moralismo, in Quaderno laico, cit., pp. 234-236, la citaz. è a p. 236. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 69-71, si veda p. 71. ↩︎
-
G. Calogero, Uno scambio di lettere con Jemolo, in Scuola sotto inchiesta, Einaudi, Torino 1965, II ed., (I ed., 1957), pp. 46-56, la citaz. è a p. 50. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 105. ↩︎
-
Cfr. ivi, p. 106. ↩︎
-
G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 71-78, la citaz. è a p. 77. ↩︎
-
G. Calogero-Norberto Bobbio, Moralità e logica, in «Rivista di filosofia», 1951, XLII, n. 1, pp. 74-91, la citaz. è a p. 89. ↩︎
-
Calogero cita un articolo di Gonseth, dal titolo La loi du dialogue, presente in «Comprendre», luglio 1952, III, nn. 5-6. ↩︎
-
G. Calogero, Principio del dialogo e diritti dell’individuo, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 357-371, la citaz. è a p. 359. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 131-152, la citaz. è a p. 144. ↩︎
-
Augusto Guzzo, Per una fenomenologia dell’etica e del dialogo, in AA. VV., Il problema del dialogo nella società contemporanea, cit., pp. 89-114, la citaz. è a p. 112. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Socratismo e scetticismo nel pensiero antico, in Scritti minori di filosofia antica, Bibliopolis, Roma 1984, pp. 127-135, si veda p. 134. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, introduzione a Platone, Simposio, a cura di G. Calogero, Laterza, Bari 1928, pp. 3-74, si veda p. 38. ↩︎
-
Cfr. ivi, p. 55. ↩︎
-
G. Calogero, Socrate, in Scritti minori di filosofia antica, cit., pp. 106-126, la citaz. è a p. 121. ↩︎
-
Ivi, p. 113. ↩︎
-
Cfr. ivi, p. 115. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, La regola di Socrate, in «La Cultura», 1963, I, n. 2, pp. 182-196, si veda p. 183. ↩︎
-
Ivi, p. 192. ↩︎
-
G. Calogero, Socratismo e scetticismo, cit., p. 133. ↩︎
-
G. Calogero, Contrattualismo e polemica antisofistica nel «Critone», in Scritti minori di filosofia antica, cit., pp. 247-261, la citaz. è alle pp. 259-260. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Il messaggio di Socrate, in «La Cultura», 1966, IV, n. 3, pp. 289-301, si veda p. 301. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., p. 47. ↩︎
-
Cfr. ivi, pp. 48-49. ↩︎
-
G. Calogero, I gusti degli altri, in Quaderno laico, cit., pp. 6-7, la citaz. è a p. 7. ↩︎
-
Aldo Capitini, Apertura e dialogo, in «La Cultura», 1963, I, n. 1, pp. 78-98, la citaz. è a p. 96. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Apertura e dialogo. Risposta ad Aldo Capitini, in «La Cultura», 1963, I, n. 2, pp. 197-214, si vedano le pp. 198-200. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, ivi, pp. 208-209. ↩︎
-
Ivi, p. 210. ↩︎
-
G. Calogero, Polemica sulla logica e sulla metodologia, in «Rivista di filosofia», 1959, L, n. 3, pp. 336-350, la citaz. è alle pp. 349-350. ↩︎
-
G. Calogero, intervento senza titolo in AA. VV., Ideale del dialogo o ideale della scienza?, cit., pp. 378-396, la citaz. è a p. 379. ↩︎
-
G. Calogero, Principio del dialogo e diritti dell’individuo, cit., p. 358. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Comprensione storica e volontà d’intendere, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 169-184, si vedano le pp. 180-181. ↩︎
-
Cfr. G. Calogero, Verità e coesistenza: l’inversione del rapporto etico-metafisico, in Filosofia del dialogo, cit., pp. 373-386, si veda p. 373. ↩︎
-
G. Calogero, Filosofia del dialogo, cit., pp. 51-52. ↩︎
-
Ivi, p. 52. ↩︎