La logica dei pensieri vivi. Considerazioni sulla questione dell’evidenza in Husserl

Sì, vi sono pensieri morti e pensieri vivi. Il pensiero che si muove sulla superficie illuminata, che ogni momento può essere misurato sul filo della causalità, non c’è bisogno che sia vivo. Un pensiero incontrato su questa via resta indifferente come un uomo qualunque in una colonna di soldati in marcia.

— Robert Musil, Il giovane Törless

L’esigenza di delineare un nuovo metodo di ricerca caratterizza la fenomenologia di Husserl fin dalle sue prime movenze, e ciò proprio perché in essa ne va dell’ambizione di prospettare un sapere rigoroso e autentico, non l’ennesima dottrina o visione del mondo genericamente descrivibile come «filosofica». Il metodo non assume dunque il solo significato tecnico di strumento in vista di un determinato fine, bensì, prima di tutto, quello di fondazione teoretica della ricerca, ovvero di apertura originaria di uno spazio di pensiero genuino.1 Heidegger stesso sembra sottolineare proprio questo punto quando in Sein und Zeit parla esplicitamente della fenomenologia come di un concetto di metodo [Methodenbegriff].2 Attraverso di esso, in altri termini, deve divenire possibile accedere in modo chiaro e perspicuo — evidente — ai nodi tematici della riflessione filosofica. La questione dell’evidenza è dunque al centro del progetto fenomenologico husserliano proprio nella misura in cui questo aspira a esercitare un pensiero il più rigoroso possibile. Il fatto che essa costituisca uno sfondo costante della riflessione di Husserl l’ha tuttavia trasformata, paradossalmente, in un dato acquisito ormai una volta per tutte e, come tale, quasi non più meritevole di un’indagine specifica: tutti sono concordi nel sottolinearne l’importanza, ben pochi si premurano in compenso di chiarire quali fondamentali caratteristiche essa assuma nel corpus teoretico husserliano.3 L’evidenza subisce allora il paradossale destino di diventare, a dispetto del senso più intimo del progetto fenomenologico, una di quelle stolide ovvietà (Selbstverständlichkeiten) con le quali abbiamo costantemente a che fare nella nostra vita quotidiana. Lo statuto dell’ovvio è di principio in contrasto con quello del chiarimento fenomenologico, il quale mira a far luce proprio sulle dinamiche originarie di ciò che, nella nostra esperienza, diamo per acquisito e scontato. Un’indagine sul problema dell’evidenza in Husserl non può dunque mantenersi a sua volta nell’agio delle cose ovvie, ma deve sottrarsi proprio a tale comodità, riconsegnando il suo tema all’ambito di ciò che merita di essere messo in questione. Nel contesto del presente contributo non è ovviamente possibile operare una ricostruzione esauriente di tale nodo tematico, però può essere utile delineare alcuni punti centrali che lo caratterizzano in modo specifico.

La molteplicità di testi e contesti teorici in cui prende forma rende il discorso husserliano sull’evidenza molto articolato e, quindi, assai difficilmente riconducibile a una prospettiva unitaria. In prima battuta, infatti, possiamo distinguere almeno tre sensi fondamentali in cui Husserl parla di evidenza:

  1. Evidenza come carattere della nostra esperienza mondana, cioè come quella dimensione di ovvietà che sostiene tutti le conoscenze che realizziamo nell’atteggiamento naturale (evidenza grossolana, come la chiama Heidegger);
  2. Evidenza fenomenologica, intesa cioè come carattere di quell’esperienza peculiare resa possibile dalla riduzione;
  3. Evidenza intesa come verifica/verificazione, cioè come processo di riempimento (illustrazione intuitiva) di un’intenzione vuota.

In verità, queste tre accezioni richiamano tutte, a vario titolo, il modo peculiare in cui Husserl è solito determinare il concetto di evidenza praticamente nella totalità dei suoi scritti: evidenza è quel modo della relazione intenzionale che si caratterizza per il darsi in originale [Selbstgebung], per l’autofferenza originaria, per la presenza in carne ed ossa [leibhaft da].4 Si dà evidenza in senso pieno, in altre parole, solo lì dove il qualcosa intenzionato si presenta da se stesso, nel suo esser-così, allo sguardo intenzionale, quindi senza essere ricavato come conseguenza di altro (nel ragionamento deduttivo e nell’analisi dei concetti), senza essere rappresentato per mezzo di segni o simboli, senza essere denotato solo tramite semplici significati. Si tratta di una determinazione dell’evidenza apparentemente chiara e immediatamente intuibile, la quale però, come ogni cosa ovvia, cela una serie di questioni che troppo spesso non vengono affrontate: come si realizza, infatti, l’autofferenza in originale? Che cosa sta a indicare il concetto di datità, offerenza, donazione? Se l’evidenza, come sembra, deve essere il criterio della conoscenza rigorosa, perché affidarsi alla sola visione diretta e non all’argomentazione analitico-deduttiva, che tanta parte ha nelle nostre conoscenze migliori (come la logica)? O forse dobbiamo credere che l’evidenza abbia uno statuto solo sensibile, per cui ne verrebbe escluso ogni altro atto di pensiero? Si tratta di una serie di domande necessarie e assai complesse, che forse possono essere riassunte e raggruppate fondamentalmente in due ordini di questioni: 1) qual è l’intento teoretico di Husserl nell’insistere sulla centralità dell’evidenza intesa come Selbstgebung, che vantaggio spera di trarne? 2) in che modo si forma e si struttura un’esperienza evidente, vale a dire come deve essere inteso quel vedere in cui essa si realizza concretamente?

1. Filosofare nel modo di un vedere

In primo luogo è opportuno constatare che nell’Evidenzfrage, nella molteplicità delle sue declinazioni, è possibile rinvenire anche la sottile traccia di una polemica che Husserl conduce per un verso contro molta tradizione filosofica, soprattutto moderna, per l’altro, invece, contro il modello delle scienze positive. Queste ultime, in particolare, fanno dell’evidenza dei risultati conoscitivi il loro principale vanto, almeno nella misura in cui quanto determinato mediante legge è obiettivamente riscontrabile tra gli accadimenti naturali e pienamente efficace nel controllo e nello sfruttamento di questi ultimi. L’evidenza empirica delle scienze moderne si attesta dunque sul piano obiettivo di una verifica di principio sempre possibile per ogni membro della comunità scientifica e, nel caso delle applicazioni tecniche, anche per ogni uomo in generale: quantificato tramite gli strumenti della matematica, indagato secondo la dinamica causa-effetto, il fenomeno naturale viene oggettivato per mezzo di una legge che ne descrive il comportamento, in modo che questo sia prevedibile e costantemente confermato da un’induzione continua. Questo tipo di verifica empirica, che ha essenzialmente a che fare con la precisione delle misurazioni e l’efficacia dei risultati, non ci dice in nessun modo quali siano le caratteristiche di quel conoscere che chiamiamo «evidente», ma si limita a sfruttare principalmente tutto lo sfondo di evidenze ovvie che costituiscono la nostra esperienza quotidiana. Da questo punto di vista, richiamandosi in modo acritico a un concetto di evidenza tanto ovvio quanto fondamentalmente incomprensibile, le scienze moderne mostrano di rimanere legate a un feticcio.5 Per Husserl si tratta proprio di qualcosa di «magico», dell’oggetto di una superstizione oscura, che pur essendo qualitativamente di gran lunga superiore al piano delle credenze individuali meramente soggettive, condivide però con queste quella generale dimensione di senso che nella Krisis è chiamata Lebenswelt. «Condividere» qui vuol dire: appropriarsi della sua logica e al contempo tendere a celarla. Anzi, è proprio in virtù di tale condivisione che le scienze moderne hanno potuto affermarsi in modo così imponente nella storia recente dell’umanità.

Per altro verso, la questione dell’evidenza richiama in parte l’esigenza cartesiana di un sapere perfettamente fondato, ovvero basato su una chiarezza indubitabile. Il progetto di un inizio radicale, di una rifondazione della filosofia che, lasciando da parte tutto ciò che si pensa di conoscere, individui un nuovo punto di partenza, una leva archimedea con la quale sostenere in modo rigoroso ogni possibile conoscenza, sembra accomunare Cartesio e Husserl. Si tratta, più in particolare, di un’esigenza fondativa che si articola in entrambi i casi su un doppio registro, quello che tiene assieme il piano del metodo e, al contempo, l’individuazione della dimensione propriamente iniziale: tanto il principio di tutti principi6 husserliano, quanto — mi sembra — la prima regola7 del tetralogo cartesiano, quali elementi metodici fondamentali dei rispettivi progetti filosofici, non sono semplici dispositivi tecnici finalizzati al raggiungimento di determinati obiettivi teorici, bensì già individuano, di per se stessi, l’ambito di evidenza primario, il più originario — quello che in Husserl è dato dalla riduzione fenomenologica e in Cartesio dall’indubitabilità dell’ego cogito. Il metodo, detto in altri termini, si diparte proprio dall’origine e conduce direttamente ad essa. In questo movimento, che sembra accomunare i due pensatori, comincia però già a scavarsi quella distanza incolmabile che Husserl mette fra sé e Cartesio allorquando critica quest’ultimo per aver finito con il fraintendere la «scoperta» del cogito, mancandone completamente il senso più genuino. Agli occhi del fenomenologo, infatti, il pensatore francese ha certo il merito di aver iniziato a circoscrivere la dimensione primaria dell’evidenza, della datità originaria, ma non ha saputo sviluppare coerentemente quest’idea, dal momento che l’ha usata come nuova via d’accesso a una metafisica di matrice ancora scolastica. Il tradimento avviene proprio nel passaggio dall’ego cogito all’ego sum, con tutto ciò che comporta proprio l’interpretazione dell’esse. Tuttavia a Husserl — a differenza di molti critici di Cartesio (a lui contemporanei e non) — non interessa tanto che la posizione dell’esistenza a partire dal solo darsi di un’attività di pensiero sia formalmente scorretta, logicamente insostenibile, bensì gli preme il semplice fatto che il fondatore della filosofia moderna abbandoni il piano dell’intuizione, dell’esperienza diretta, per tornare su quello del ragionamento deduttivo-inferenziale. Detto altrimenti: non è decisivo che si traggano conclusioni errate o anche solo azzardate dal cogito, bensì già che si traggano conclusioni in generale, che si speri di ricavare, da un’evidenza originaria, per via deduttiva e tramite concetti ontologici ereditati dalla tradizione, tutta una catena di conseguenze altrettanto certe (che l’io è una cosa che pensa — res cogitans sive mens, sive animus, sive intellectus, sive ratio8 —, distinta pertanto dalla cosa intesa come ente materiale — res extensa -; che c’è un dio, in quanto l’idea dell’essere perfetto comporta necessariamente anche la sua esistenza ecc.). In certo modo, Husserl rimprovera a Cartesio di non essere rimasto fedele a quel principio metodico che lui stesso afferma di essersi dato, ovvero a quell’origine da lui stesso disvelata. Di averla fraintesa nel senso di una evidence indiziale, tradendo la via maestra di una costante self-evidence. Le Meditazioni cartesiane possono forse essere lette anche in quest’ottica, come lo sviluppo radicale e conseguente della geniale intuizione cartesiana, come quel che avrebbero forse potuto essere le Meditationes de prima philosophia se Cartesio non avesse avuto fretta di articolare il suo discorso metafisico.

Husserl prende perciò le distanze tanto dal concetto di evidenza proprio delle scienze moderne, quanto da quello cartesiano, per lo meno nella misura in cui quest’ultimo finisce con il soccombere, suo malgrado, ai dispositivi di un pensiero analitico-deduttivo che pretende di replicare l’evidenza originaria in un’infinita sequenza di costruzioni concettuali. Si tratta invece di lavorare alla radicalizzazione della nozione di clara et distincta perceptio, considerando che la datità in originale è sì garanzia di rigore conoscitivo, ma sempre e solo nei limiti in cui si realizza l’atto offerente. L’evidenza originaria, in altri termini, non può garantire anche della bontà di tutte quelle argomentazioni, deduzioni, inferenze che vengono compiute — in un certo senso anche legittimamente — a partire da essa. Non si può fare affidamento su di essa per costruire ad libitum qualsiasi argomentazione di cui si ritenga di aver bisogno. Ciò è precisamente andare oltre il limite intrinseco di ogni datità. Ecco allora che la metafora della leva archimedea tende a non funzionare più così bene. La filosofia non può, infatti, riedificare il mondo seguendo la semplice logica interna di concetti che sarebbero legittimati dalla sola evidenza originaria del cogito. Molte delle insensatezze del pensiero moderno successivo a Cartesio derivano proprio da questa assunzione acritica del cogito quale garanzia totale di ogni ulteriore ragionamento filosofico.

Se non può fare affidamento sul procedimento analitico-deduttivo, la nuova fenomenologia husserliana deve allora mantenersi costantemente nei limiti di un atto costantemente e ripetutamente offerente. Ciò equivale a dire che l’evidenza, nel momento in cui viene assunta a principio fondamentale del metodo, viene necessariamente pluralizzata, nel senso specifico che ogni fase concreta della ricerca deve poter essere accompagnata da una corrispondente datità in carne ed ossa. La specificità del pensiero fenomenologico sta in questa volontà di rimanere metodicamente fedele all’evidenza originaria, quella cioè garantita dalla Selbstgebung, senza ricorrere mai a forme di evidenza derivate da essa (come l’evidenza logico-deduttiva appunto). In fondo, nell’impianto husserliano viene innalzato a principio metodico universale un motivo filosofico antico perlomeno quanto la filosofia occidentale stessa: l’idea che non tutto può essere argomentato, che giunge un momento nella riflessione in cui non si può far altro che dire: guarda! Un momento in cui non è possibile procedere ulteriormente per argomentazioni o ragionamenti, ma bisogna cogliere la cosa per così dire «al volo», in modo diretto. Si pensi in quest’ottica, ovviamente, ai principi fondamentali della logica in Aristotele (identità e non-contraddizione, a loro volta riconducibili a Parmenide), oppure anche agli assiomi della geometria euclidea. Husserl si pone sulla scia di questa tradizione di pensiero, salvo però scompaginare la sua struttura classica ed estendere la portata dell’intuizione in maniera esponenziale. Si tratta di una strategia teorica che riconosce i limiti di ogni operazione conoscitiva, proprio perché si sottrae alla pretesa di argomentare o, peggio, dedurre tutto. L’esperienza diretta, il vedere in prima persona garantiscono un’aderenza che non può essere eguagliata da nessuna costruzione logica, nessun sillogismo o calcolo, nessuna deduzione o inferenza, ma che vale tuttavia — non bisogna mai dimenticarlo — solo in relazione a ciò che effettivamente si dà, nel modo e nei termini in cui dà. Si tratta di esibire la cosa direttamente in se stessa, senza tirarla fuori da altro [de-ducere], senza ricavarla come conseguenza di altro. La cosa non trae il suo diritto dal fatto di provenire da altro, cioè dal fatto che qualcos’altro causa e in tal modo giustifica la sua presenza: essa si presenta, in ottica fenomenologica, solo da se stessa, solo in forza del suo proprio darsi, del suo proprio manifestarsi. Il vedere in cui avviene la manifestazione può essere preparato e condotto metodicamente, accompagnato passo passo, indirizzato, ma arriva sempre il momento in cui ogni indicazione non basta più. A questo punto, o c’è l’incontro (Begegnung) con la cosa, o si continua a girare a vuoto.9

Pertanto, con la radicalizzazione e la pluralizzazione dell’evidenza originaria Husserl sancisce il suo netto distacco da qualsiasi filosofia che pretenda di procedere more geometrico, cioè riconoscendo sì l’importanza del darsi in originale, ma solo come momento iniziale da cui ricavare, tramite gli strumenti logici classici (analisi dei concetti, deduzione ecc.) tutte le conseguenze filosofiche che stanno a cuore. Per Husserl si tratta di sospendere — di qui l’epoché! — il nostro confidare spontaneamente negli automatismi logici, per tornare, molto modestamente, a fidarci solo dei nostri stessi occhi, ovvero a rieducare il nostro percepire all’incontro con ciò che si presenta. Il fenomenologo, per dirla con un paragone un po’ provocatorio, non è uno Sherlock Holmes, bensì un San Tommaso (l’apostolo): non procede per deduzioni e inferenze, bensì a forza di sguardi e tocchi. Ciò non vuol dire, d’altra parte, che non venga riconosciuto alcun valore al pensiero argomentativo, deduttivo ecc., ma solo che la portata conoscitiva di questo affonda le sue radici, in ultima analisi, in quell’evidenza originaria ottenuta mediante datità in originale. Se vuole essere filosofia prima, cioè sapere delle origini — o, come dice Husserl ne La filosofia come scienza rigorosa, delle radici di tutte le cose [rizómata pánton]^[10] —, la fenomenologia non può che procedere in conformità ed entro i limiti della sola esperienza diretta. A questo punto è però opportuno approfondire più nel dettaglio il senso di quell’esperire originario che viene chiamato vedente o offerente, nel quale è radicata la possibilità dell’evidenza.

2. Struttura dell’evidenza

Per indicare l’esperienza diretta di contro al procedimento more geometrico, Husserl usa prevalentemente, come noto, termini che rimandano alla semantica del vedere [sehen]: intuizione [Intuition, Anschauung], visione evidente [Einsicht], oltre che il più generale percezione [Wahrnehmung]. Si tratta manifestamente, anche in questo caso, di un’assonanza con la tradizione più antica del pensiero occidentale, che caratterizza l’attività conoscitiva della filosofia proprio come un «vedere» peculiare: si pensi a termini fondamentali come theoréin, éidos, idéa, il cui senso affonda proprio in un’originaria grammatica visiva. Da questo punto di vista, pertanto, l’intuizione cui fa costantemente riferimento Husserl non è riducibile al solo percepire sensibile, come pure si sarebbe tentati di credere. La questione non mette quindi capo, kantianamente, a una distinzione tra sensibilità e intelletto, cioè tra un piano strettamente estetico e uno invece specificamente logico. Il rimando all’intuizione chiama piuttosto in causa quel modo peculiare della conoscenza per il quale essa deve potersi strutturare come presa diretta sull’oggetto del suo ricercare, laddove questo carattere di relazione diretta non afferma un’immediatezza astratta e in fondo muta, cioè l’assenza di processi di mediazione, bensì più semplicemente la presenza in carne ed ossa dell’intentum, senza la frapposizione di alcun tipo di filtro o la rappresentanza vicaria di un qualcosa che «sta per» esso.10 L’essenza dell’intendere è infatti tale che ogni intentio può indirizzarsi al suo intentum anche quando questo non sia realmente presente, ad esempio in un atto di significazione, oppure in una rappresentazione ancora in buona parte vuota (come accade nell’intenzione anticipante, nell’attesa). Per Husserl, pertanto, il problema non è distinguere intuizione e pensiero, bensì riconoscere che tutti i vissuti intenzionali — tanto sensibili quanto logici — hanno una doppia modalità di compimento (la quale comporta un profondo intreccio nel corso concreto dell’esperienza): il modo della semplice significazione e quello dell’intuizione, come si dice nelle Ricerche logiche,11 ovvero il modo dell’intendere vuoto e del riempimento intuitivo, come verrà affermato più in generale nelle opere successive (per evitare di creare una sorta di assurdo aut aut tra significazione e intuizione). Questo punto viene spesso frainteso dai critici di Husserl, i quali continuano a confondere intuizione come componente (sensibile) della conoscenza (discorso kantiano) e intuizione come modo di pieno compimento dell’intenzionalità, cioè del rapporto con il mondo.12

Se le cose stanno così, se la distinzione fondamentale non è quella tra estetica e logica, bensì quella tra semplice riferimento intenzionale e piena datità, allora anche al pensiero appartiene una modalità intuitiva. I concetti di percezione e intuizione, come annunciano già le Ricerche logiche, assumono un significato decisamente più ampio.13 La ragione stessa, nell’ottica di una presa diretta sulla cosa, è un percepire in senso eminente, come Husserl afferma esplicitamente in un manoscritto del periodo di Göttingen, nel quale, facendo leva sull’etimologia di Vernunft, sottolinea proprio il carattere dell’accogliere, dell’apprendere, del cogliere:

Il pensiero compiuto spontaneamente dall’io «si dirige», in una «coincidenza» conforme, alle cose date, viste. La tesi ha il carattere della razionalità [Vernünftigkeit]: essa «percepisce» [vernimmt] ciò che la cosa stessa, la cosa data, dice. La cosa è data nel «vedere». Il vedere è già un vedere attivo: non semplicemente un lasciar-avvicinare, bensì un cogliere, e un cogliere che è un approfondimento interno di quanto realmente ed effettivamente visto e una sua esplicitazione, cui si dirige poi il «pensiero» superiore. Questa è la libertà del pensiero evidente.14

Il carattere della razionalità consiste dunque nel fatto che la tesi dell’io è motivata originariamente da una presa diretta sulla cosa, in virtù della quale quest’ultima ci viene restituita esclusivamente nel modo in cui si dà. Il movimento della ragione, per come ci viene delineato da Husserl, è costitutivamente duplice: accoglienza e afferramento, apertura e prensione, lasciar-apparire e raccogliere. In una parola: percipere.15 Così come, in ottica fenomenologica, la ricettività non è mai passività inerte, così, allo stesso modo, la spontaneità non è mai attività pura e sovrana. Il percepire o intuire indica dunque, in generale, la presenza della cosa allo sguardo intenzionale, la datità in carne ed ossa di contro a tutte le altre modalità di riferimento.

Se l’evidenza è connessa alla pienezza della datità, è allora inevitabile che essa possegga una gradazione, cioè un indice di maggiore o minore intuitività del qualcosa intenzionato. In alcune opere — come le Idee — Husserl distingue tra un’evidenza adeguata e una inadeguata, sostenendo che la prima è quella che compete al vedere eidetico e a quello fenomenologico-trascendentale, mentre la seconda caratterizza la cosiddetta percezione esterna o trascendente. Quest’ultima, infatti, ci presenta le cose sensibili del mondo spaziale, le quali si danno per essenza sempre prospetticamente, sempre attraverso adombramenti parziali, ragion per cui l’evidenza può essere maggiore o minore, ma rimane sempre inadeguata, cioè mai perfettamente conforme alla cosa intesa nella sua interezza (evidenza assertoria). Diversamente vanno le cose invece per le intuizioni eidetica e fenomenologica, le quali sembrano poter cogliere il rispettivo intentum in modo pieno, cosa che le rende evidenti in modo adeguato, cioè non passibile di aumento o diminuzione (evidenza apodittica) .16 L’esperienza fenomenologica, in particolare, in quanto dischiusa dalla riduzione e compiuta in rigorosa immanenza, dovrebbe trovare la garanzia della sua adeguatezza nel fatto che in essa il qualcosa che si manifesta è tale solo nei modi in cui si dà, secondo quella che si annuncia come la personale reinterpretazione husserliana dell’identità di esse e percipi. Questa concezione, tuttavia, rischia di essere fuorviante, specie se l’immanenza è intesa — cosa che certe volte sembra fare lo stesso Husserl, almeno nei suoi primi scritti — come il piano dei contenuti effettivi (reell) di una coscienza ideata in modo ancora troppo cartesiano (cioè come dimensione interna della res cogitans). Se adeguatamente dati sono solo tali contenuti, distribuiti ciascuno in una sequenza continua di punti-ora, allora, come sottolinea giustamente Costa, si avrà una paradossale evidenza indistinta, una clara et confusa perceptio, la cui immediatezza è dell’ordine dell’accecamento improvviso.17 Se, viceversa, l’immanenza è intesa in senso più ampio, come piano fenomenologico o campo trascendentale, allora ciò che è dato è dato sempre nella trama di un orizzonte intenzionale e di un presente vivente continuamente fluente. Ciò vuol dire che l’adeguatezza di cui si parla non può significare datità piena e rotonda — senza gradazione di peso! —, assenza di residui, bensì solo un carattere sufficiente a motivare una tesi dossica razionale. Pertanto, già in alcune lezioni coeve a Idee II problemi fondamentali della fenomenologia del 1910/1118 —, e poi più sistematicamente negli anni Venti, Husserl si convince dell’impossibilità di connotare come assoluto qualsiasi tipo di datità, proprio perché anche le cosiddette evidenze «adeguate» e «apodittiche» mantengono in sé, costitutivamente, un residuo, un rimando, un orizzonte di ulteriorità:

Forse, a ciascuna evidenza e a tutta l’evidenza in generale, in quanto darsi della cosa stessa [Selbstgebung], in quanto coscienza di cogliere ciò che è preso di mira come «esso stesso», appartiene una certa relatività, sicché dovunque parliamo di un’evidenza adeguata e siamo certi di essa in quanto tale, siamo sempre in presenza di un simile processo crescente di evidenze relative, eventualmente continuo e da sviluppare liberamente.19

Questa sottile ma decisiva modifica non significa che venga del tutto meno la distinzione tra percezione esterna e interna, o meglio trascendente e immanente. Per Husserl, infatti, la prima continua a essere un vissuto di adombramento, un atto che presenta la cosa per tagli prospettici, laddove invece per la seconda la datità dell’intentum non è connessa al punto di vista spaziale. In fondo, per Husserl sembra continuare a essere valida una certa preminenza dell’esperienza immanente, la quale desta tuttavia ancora qualche sospetto, poiché ancora in certo modo legata a quegli stessi paradigmi della riflessione moderna che si prefigge di superare. Anche per l’esperienza immanente, in altri termini, sarebbe forse meglio parlare esplicitamente di adombramento o prospetticità, almeno in senso temporale, cosa che, come già anticipato, non è affatto in contrasto con l’esigenza di datità adeguata, proprio perché l’adeguazione è il carattere non di un’evidenza immediata ovvero puntuale, bensì sempre di un processo del rendere-evidente. Proprio quest’ultimo elemento è il più interessante, per cui converrà soffermarcisi ancora un po’.

Nei corsi degli anni Venti sulla logica trascendentale, Husserl affronta in modo sistematico la questione della genesi e dello sviluppo dell’esperienza a partire da sintesi intenzionali primariamente passive, cioè compiute dal percepire in quanto semplice lasciar-apparire e -avvicinare, e poi, nel prosieguo del loro decorso, più esplicitamente attive, vale a dire caratterizzate dall’attenzione egologica e dal suo percepire afferrante. L’evidenza è un carattere di tutti questi atti intenzionali, tanto dei passivi quanto degli attivi. Essa non è pertanto solo il suggello delle più elevate conoscenze teoretiche, bensì un modo dell’esperienza con cui abbiamo a che fare costantemente, già fin dai livelli più originari della nostra vita intenzionale. Solo per questa ragione le scienze naturali possono parlare, ad esempio, delle «evidenze sperimentali» come prove della bontà di una qualche teoria. Così come solo per questo motivo noi viviamo il nostro stare al mondo come un’ovvietà radicata, come una certezza mai questionabile, come una verità indubitabile.20 Tutte queste forme di evidenza rappresentano, in ottica fenomenologica, quel modo di compimento della vita intenzionale caratterizzato dalla presenza in carne ed ossa della cosa, la quale non «sta» semplicemente lì come un qualcosa che richieda un riconoscimento immediato, bensì viene a presenza e recede nell’assenza, si annuncia in un percepire in cui si coappartengono vuoti e pieni intuitivi. L’esperienza guadagna la sua chiarezza, in altri termini, solo se si produce in un processo continuo di verifica o conferma dell’intenzione di partenza, nella quale i momenti del riferimento vuoto vengono riempiti mediante quella che si caratterizza come una fondamentale resa intuitivaVeranschaulichung, che il traduttore italiano rende con «illustrazione intuitiva».21 L’evidenza è pertanto il frutto di un mettersi alla prova, cui l’intenzionalità sottopone se stessa quando segue la tendenza a incontrarsi «faccia a faccia» con il suo intentum. La prova è un comprovare se stessa, dunque la dinamica stessa della verità, che per le cogitationes assume il nome di verifica [Bewährung], mentre per gli atti passivi quello di verificazione [Bewahrheitung]. In entrambi i casi, si tratta del riempimento intuitivo di un intendere vuoto:

Rendere per noi evidente una rappresentazione significa portarla ad una verificazione originariamente riempiente. Non è dunque in questione una qualsiasi sintesi dell’identificazione, ma una sintesi tra una rappresentazione che non dà originalmente ed una rappresentazione che dà originalmente [selbstgebende Vorstellung].22

Una volta di più, dunque, è confermato che la connessione tra evidenza e intuizione, per come ci viene presentata da Husserl, non ha niente a che vedere con una datità immediata non ulteriormente questionabile e maneggiabile, con un’esperienza talmente accecante da risultare simile — per dirla con il vecchio adagio hegeliano — a una notte oscura in cui tutte le vacche sono nere. L’evidenza è invece l’acquisizione [Erwerb] di una sintesi, cioè di un processo, un decorso, un evento complesso e articolato, e in particolare di una sintesi di riempimento: «solo la sintesi ci fa vedere che qualcosa è rappresentato in forma vuota, e ce lo fa vedere solo perché rende intuitivo ciò che è inteso in forma vuota».23 La sintesi di riempimento porta a coincidenza [Deckung] i momenti intuitivi con quelli della semplice intenzione vuota.24 L’evidenza come sintesi di verificazione non è però, già di per sé, la verità tout court. Husserl opera una sottile distinzione tra l’evidenza come processo di coincidenza di intenzione e intuizione, la cui apoditticità non esclude il darsi di orizzonti ulteriori non ancora resi intuitivamente, e la verità come idea di una presa diretta e definitiva sul qualcosa intenzionato. La nostra esperienza, infatti, da un lato ci presenta datità sempre cangianti e momentanee, ma dall’altro ci dà il qualcosa intenzionato anche con il senso di un se stesso fisso e costante. Per rendere ragione di questo aspetto, come noto, Husserl introduce il concetto di idea in senso kantiano,25 intesa come limite ideale di piena datità dell’intentum: si tratta di un’idea che non si impone alla percezione «dall’esterno», ma che si articola invece contestualmente a essa, come unità di tutti gli ulteriori rimandi o orizzonti intenzionali che, in ogni percepire, rimangono privi di riempimento — come la Sicht, la veduta che dà la cosa nella sua interezza, sebbene non tutti gli aspetti di essa siano intuitivamente presenti. L’evidenza in senso proprio si gioca quindi nell’articolazione di questi due elementi: da un lato l’immanenza di quanto intuitivamente presente, dall’altro l’ulteriorità, predelineata nei «punti di fuga» dell’interrelazione di queste stesse datità, di qualcosa che non si presenta in senso stretto e che tuttavia, come veduta complessiva, è esso stesso in qualche modo dato. Se intuizione/percezione non indica più la semplice facoltà conoscitiva sensibile, allora anche il concetto di «dato» non sta più a significare solo quanto ottenuto per via ricettiva, bensì, più in generale, la presentazione in originale, strutturata su vari livelli, di ogni intentum in quanto tale. Dato diviene sinonimo di manifesto, ovvero ancora: dato/datità divengono sinonimi di phainómenon, inteso nel doppio senso di «ciò che si manifesta» e «manifestazione».26 Ciò che si dà in originale si presenta o nella vicinanza di un’intuizione in carne ed ossa o nella lontananza di un limite ideale.27

3. Il pensiero vivo

Da questo percorso all’interno della riflessione husserliana sul fenomeno dell’evidenza sembra dunque emergere un nodo problematico centrale, che inquadra la questione in modo privilegiato. Si tratta della distinzione tra una modalità di pensiero intuitiva o «piena», che ha una presa diretta sul suo oggetto, e una invece indiretta o «vuota», la quale rimanda al suo intentum tramite semplici significazioni, linguaggi simbolici, automatismi logici e così via. La differenza che corre tra vedere e trarre conclusioni, constatare e dedurre, toccare con mano e fidarsi da lontano. Queste distinzioni richiamano poi quella, emersa già nella prima parte, tra pensiero sintetico-intuitivo e analitico-deduttivo. Si ha qui a che fare con determinazioni non perfettamente sovrapponibili o interscambiabili, poiché ognuna di esse mette l’accento su un aspetto diverso o anche solo su una sottile sfumatura, ma che tuttavia sembrano convergere nell’individuazione di una questione centrale: come dare spessore, pregnanza, rigore al pensiero filosofico. Il problema dei consueti procedimenti argomentativi, deduttivi, analitici è infatti che essi prendono come punti di partenza concetti che hanno significati stratificatisi nel tempo nell’ambito del mondo-della-vita o della storia della filosofia, senza risalire alle loro origini di senso. Tali modalità di riflessione sono inadeguate proprio perché, anche senza volerlo, si affidano a elementi epistemici dati per scontato, cercando di trarre dalla loro interrelazione conoscenze autentiche. È quanto fa Cartesio, quando interpreta subito l’evidenza originaria del cogito mediante il concetto di res cogitans, ripreso in modo fondamentalmente acritico dal pensiero medievale, da cui deduce, mediante il vecchio argomento ontologico, l’esistenza stessa di dio. Il fondatore dell’età moderna si affida, senza averne verificato la legittimità, a tutta una serie di concetti e procedure analitico-deduttive ereditati dalla tradizione, tradendo così il primo principio del suo metodo, appunto quello di evidenza.

Husserl radicalizza tale principio e cerca di attenervisi scrupolosamente. Il pensiero sintetico-intuitivo o evidente mira a risalire all’origine del senso delle nostre molteplici esperienze, per sottrarre la riflessione filosofica allo spazio angusto e sterile di significati e concetti ereditati come qualcosa di ovvio e al contempo oscuro, al punto da risultare letteralmente esanimi. Ciò di cui va in cerca Husserl con il suo nuovo metodo dell’evidenza è allora -mi sembra — proprio un pensiero vivo, vale a dire emancipato dai ragionamenti inariditi e dai significati morti, in grado di incontrare di persona le cose a cui si indirizza, di toccarne il senso con mano: «la coscienza è intuire e ciò che intuisce ora lo ha in se stesso o lo coglie in se stesso, lo tocca in se stesso».28 Un simile pensiero è vivo poiché l’evidenza si connota effettivamente come un incontro in carne e ossa, come l’imprimersi del dato nell’unità affettiva del presente vivente.29 Questa presenza vivente non implica, dal canto suo, una pienezza senza residui, poiché nel suo continuo declinare porta costantemente con sé dimensioni oscure e vuote, quindi sempre nuove sintesi di riempimento. Nuove strategie per colmare il vuoto. Si delinea in tal modo la specificità della nozione di evidenza in chiave fenomenologica: il vecchio concetto di clara et distincta perceptio non solo viene limitato alla più rigorosa datità, con l’esclusione di tutte le altre forme di pensiero derivate da essa, ma viene altresì sottratto alla cristallizzazione del feticcio, per essere ripensato sulla base del suo accadere temporale originario come lebendige Gegenwart, cioè come un portare-a-presenza affettivo-impressionale.30 L’evidenza, il toccare con mano la cosa, ha quindi a che fare con la vivacità (Lebendigkeit) del fenomeno intenzionale, che articola, nel tocco, occhio e oggetto visibile, pelle e superficie, intentio e intentum: «l’intuire presente in modo vivente è qualcosa di unico con ciò che è intuito presentemente in modo vivente».31

Ciò che la fenomenologia ha di mira, nel suo metodo dell’evidenza, è dunque l’incontro con la cosa, il faccia a faccia, il rapporto esclusivo e diretto, mettendo da parte ogni altro tipo di riferimento mediato (deduzioni, analisi concettuali, induzioni, ecc.). Solo sulla base del darsi in carne e ossa è possibile una conoscenza originaria. La percezione è per Husserl la modalità privilegiata d’esperienza, ma lì dove essa sia assente, lì dove manchi la sua specifica originalità, si può far ricorso a esempi che provengono anche da esperienze mediate di tipo peculiare, come quelle dell’arte e del mito, facendo leva sulla forza delle immagini, quindi sull’analogia:

La cosa principale è che io attinga dall’intuizione e, dal momento che la percezione in originale ha, proprio in virtù della sua originalità, il privilegio della più grande chiarezza, allora io sceglierò possibilmente tale percezione come punto di partenza esemplare; altrimenti prenderò esempi dove ne trovo di solito più facilmente, come poesie, miti, esperienze degli altri.32

Qui in realtà si aprono questioni ampie e di grande interesse, che chiamano in causa l’intenzionalità della fantasia e dell’immaginazione, strutturalmente intessute, secondo quanto Husserl stesso mette in evidenza in molte sue indagini, con l’esperienza percettiva. Pur non potendo affrontare questo discorso nel presente contesto, si devono comunque sottolineare le molteplici dimensioni di cui si costituisce il vedere fenomenologico. Per questo motivo l’autofferenza, pensata sia come percezione in originale che come intuizione mediata, figurata,33 è il modo privilegiato per sottrarre il pensiero ai significati morti, ai concetti esanimi, agli automatismi logici, affinché esso attinga il suo senso solo da un incontro vivente con la sua cosa. Proprio per il suo carattere vivo, il fenomeno dell’evidenza non si può presentare con il contrassegno di una conoscenza definitiva e incontrovertibile, ma come un evento sempre ancora da compiersi. Essa può rimediare alla fragilità che le è connaturata solo tramite una continua ripetizione delle sue movenze, solo tramite il differimento incessante della sua conclusione. E sempre solo in un rapporto personale-esclusivo. L’evidenza non si può insegnare.


  1. Sulla questione del metodo si vedano i recentissimi contributi pubblicati sulla rivista «Metodo», Vol. 1, No 1, dedicati proprio al tema On Phenomenological Method (accessibile per via telematica all’indirizzo http://www.metodo-rivista.eu)↩︎

  2. V. M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, §7. ↩︎

  3. Scorrendo anche in fretta l’ormai ponderoso catalogo della più prestigiosa collana di studi di fenomenologia, la Phaenomenologica (205 volumi ad oggi), salta immediatamente agli occhi l’assenza di uno studio dedicato esplicitamente al problema, cosa che ha per certi versi dell’incredibile, se si considera il suo peso specifico in tutto il vasto arco della produzione husserliana. Viceversa, la gran parte di tali volumi ha almeno un capitolo o un paragrafo dedicato all’evidenza, segno del fatto che l’importanza riconosciuta al tema non va quasi mai al di là dell’ovvio e del richiamo «d’ufficio». ↩︎

  4. V. ad es. E. Husserl, L’idea della fenomenologia. Cinque lezioni, Bruno Mondadori, Milano 1995, Lezione IV; Id., Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, 2 Voll., Einaudi, Torino 2002, vol. I, §137; Id., I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo, Quodlibet, Macerata 2008, §15; Id., Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini e Associati, Milano 1993, §16; Id., Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, Lezione 31; Id., Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1994, §§ 4-7; Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961, §68; Id., Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 1995, § 4. ↩︎

  5. Dare un senso a questo feticcio è il compito della fenomenologia già fin dalle Ricerche logiche: «Così, per la prima volta, l’«evidenza» (questo rigido feticcio teoretico) diventa un problema, viene sottratta alla predilezione per l’evidenza scientifica e viene ampliata ad autofferenza generale e originale» (Id., Crisi, cit., p. 255). ↩︎

  6. «Ma basta con le teorie assurde. Nessuna teoria concepibile può indurci in errore se ci atteniamo al principio di tutti i principi: cioè che ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’«intuizione» [Intuition] (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (Id., Idee, vol. I, cit., pp. 52-53). ↩︎

  7. «La prima era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente per tale; ossia evitare con cura la precipitazione e la prevenzione, giudicando esclusivamente di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e distinto da non offrire alcuna occasione di essere revocato in dubbio» (R. Descartes, Discorso sul metodo, a cura di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 25). ↩︎

  8. «Ora non ammetto se non quanto sia vero necessariamente: sono dunque, precisamente, soltanto una cosa che pensa, e cioè una mente, o un animo, o un intelletto, o una ragione» (Id. , Meditazioni metafisiche, a cura di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, p. 45). ↩︎

  9. «i ragionamenti e i procedimenti non-intuitivi di qualunque specie hanno soltanto il significato metodico di condurci davanti alle cose, che devono essere successivamente portate a datità attraverso una intuizione diretta dell’essenza» (E. Husserl., Idee, vol. I, cit., p. 179). ↩︎

  10. Questo aspetto è chiarito in modo esemplare da Fink: «l’obiezione di intuizionismo, mossa con un intento critico-metodico, non vale per le Ricerche logiche. Lì non ne va infatti di un primato dell’intuizione [Anschauung] intesa come facoltà conoscitiva, bensì del primato dell’intuitività [Anschaulichkeit] di ogni conoscenza — di contro al compimento semplicemente signitivo della conoscenza. […] la conoscenza (l’evidenza attuale in senso pregnante) è ovunque, per ogni tipo di evidenza, autofferenza [Selbstgebung] delle cose in essa evidenti (stati di cose, valori, stati assiologici, ecc.) ovvero il coglimento e il possesso di tali cose in quanto «esse stesse». L’autofferenza semplice, il presentarsi [sich darstellen] in un sol colpo, è solo un caso particolare di tale evidenza, quello caratteristico della percezione sensibile. Ad esso si contrappone la conoscenza categoriale ed eidetica, la cui autofferenza è possibile essenzialmente solo in una costruzione mediante eventuali molteplici fondazioni superiori» (E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, in Studien zur Phänomenologie 1930-1939, Martinus Nijhoff, Den Haag 1966, pp. 79-156, p. 88). ↩︎

  11. «L’opposizione tra intuizione e significazione. L’intuizione come percezione o immaginazione (categoriale o sensuale, adeguata o inadeguata che sia) viene contrapposta al mero pensare, in quanto mero intendere significativo» (E. Husserl, Ricerche logiche, 2 Voll., Il Saggiatore, Milano 1968, vol. II, p. 502). ↩︎

  12. «La critica è ovunque cieca per l’elemento fondamentalmente nuovo della dottrina husserliana, vista quale primo chiarimento dell’essenza intenzionale dell’evidenza, ovvero dell’evidenza in quanto modo fondamentale (Grundmodus) appartenente all’intenzionalità in generale (a tutti i tipi di atti), il quale trova il suo contro-modo (Gegenmodus) nell’intenzione «signitiva», «vuota»» (E. Fink, Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, cit., p. 88). ↩︎

  13. V. E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, cit., p. 420. ↩︎

  14. «Das vom Ich spontan vollzogene Denken »richtet sich« in getreuer »Deckung« nach dem gegebenen, gesehenen Sachen. Die Thesis hat den Charakter der Vernünftigkeit: Sie »vernimmt«, was die Sache selbst, die gegebene Sache spricht. Gegeben ist die Sache im »Sehen«. Das Sehen ist schon aktives Sehen: nicht bloß ein Herankommenlassen, sondern Erfassen, und ein Erfassen, dass, das ein in das wirklich und eigentlich Gesehene Hineinvertiefen und Explizieren ist, wonach sich dann das höhere »Denken« richtet. Das ist die Freiheit des einsichtigen Denkens» (Ms. A VI 12 I, Bl. 12a). ↩︎

  15. Su questo aspetto Heidegger sembra seguire il maestro. Anche per lui, infatti, tanto la áisthesis quanto il lógos sono forme di vernehmen (v. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., §§ 6, 7b). ↩︎

  16. «Ognuna di tali evidenze — intendendo la parola nel nostro senso ampliato — è o adeguata e per principio non può essere «rafforzata» né «indebolita» ed è quindi senza gradazione di peso; oppure è inadeguata e quindi suscettibile di aumento o diminuzione» (E. Husserl, Idee, vol. I, cit., p. 345). ↩︎

  17. Su questa critica di Costa al primo concetto husserliano di evidenza di veda V. Costa, Il cerchio e l’ellissi. Husserl e il darsi delle cose, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 61-76. ↩︎

  18. V. E. Husserl, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., pp. 49-59. ↩︎

  19. Id., Filosofia prima, cit., p. 41. ↩︎

  20. «In qualche modo il non vero, il non esistente si elimina già nella passività» (Id., Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 145). ↩︎

  21. V. ivi, p. 110. ↩︎

  22. Ivi, pp. 108-109. ↩︎

  23. Ivi, p. 114. ↩︎

  24. «Nella coincidenza che, in quanto risultato, è presente alla coscienza, ciò che è intenzionato si rivela identico per ciò che concerne il senso e mostra ora congiunti i due modi del se stesso: il modo non riempito e quello della pienezza; certo li mostra uniti nel carattere dell’«intenzione confermata», cioè nella saturazione risultante dal processo» (ivi, p. 134). ↩︎

  25. V. Id., Idee, vol. I, cit., §143. ↩︎

  26. «La parola fenomeno ha un doppio senso per via dell’essenziale correlazione fra l’apparire e ciò che appare. Phainómenon vuol dire propriamente ciò che appare, e tuttavia è usato di preferenza per l’apparire stesso, per il fenomeno soggettivo (se è permessa questa espressione che si presta a essere fraintesa in modo grossolanamente psicologico)» (Id., L’idea della fenomenologia, cit., p. 53). ↩︎

  27. «il se stesso interamente visibile […] è però solo un’idea da guardare da lontano [herauszuschauende Idee], un limite ideale» (Id., Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 162). ↩︎

  28. Id., I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 58. ↩︎

  29. Husserl stesso parla esplicitamente di «evidenza vivente [lebendige Evidenz]» (Id., Idee, vol. I, cit., p. 352), che si contrappone, come evidenza originaria, a tutte le altre forme di evidenza mediata (logica, scientifica, ecc.). ↩︎

  30. Riguardo alla declinazione dell’intenzionalità in generale come rapporto vivente con il mondo, mi permetto di rinviare a M. Deodati, La dynamis dell’intenzionalità. La struttura della vita di coscienza in Husserl, Mimesis, Milano 2010, in particolare pp. 199-235. ↩︎

  31. Id., I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., pp. 58-59. ↩︎

  32. «Die Hauptsache ist, dass ich aus der Anschauung schöpfe, und da die Selbstwahrnehmung vermöge ihrer Originalität den Vorzug der größten Klarheit hat, werde ich nach Möglichkeit Selbstwahrnehmung als exemplarischen Ausgangspunkt wählen, im übrigen aber Beispiele hernehmen, wo ich sie am bequemsten sonst finde, etwa aus Dichtungen, Mythen, Erfahrungen an Anderen» (Hua IX, p. 538). ↩︎

  33. «La pienezza della rappresentazione è tuttavia il sistema di quelle determinazioni ad essa relative, per mezzo delle quali essa rende presente il suo oggetto mediante l’analogia o lo coglie come dato in se stesso» (Id., Ricerche logiche, vol. II, cit. p. 376). In generale, la pienezza è caratterizzata nelle LU come ricchezza della raffiguratività [Bildlichkeit]: «Quanto più una rappresentazione è «chiara», quanto maggiore è la sua «vivacità», tanto più alto è il grado di raffiguratività che essa raggiunge: tanto più essa è ricca di pienezza» (ibid.). Sull’importanza di questo aspetto, soprattutto dal punto di vista del linguaggio specifico della fenomenologia, si veda J. Bassas Vila, Le soi dans l’éscriture de Husserl. La «bildliche Rede» et la «comme-thèse» (in J. Leclercq, N. Monseu (a cura di), Phénoménologies littéraires de l’éscriture de soi, Editions Universitaires de Dijon, Dijon 2009, pp. 21-31). ↩︎