Emmanuel Levinas: la metamorfosi del femminile come via che conduce all’«altrimenti che essere»?

1. Premessa

Dolcezza, ospitalità, passività, vulnerabilità, verginità, alterità, questi tratti femminili per eccellenza, secondo la tradizione, sono aspetti caratterizzanti del pensiero di Emmanuel Levinas, il quale nel suo percorso filosofico cerca di ridefinire l’identità del soggetto mettendo in questione il Logos greco, razionalità arida ed avvilente. Il primato dell’ontologia, secondo il nostro autore, è il paradigma dell’Occidente: da Parmenide ad Heidegger, infatti, non c’è mai stata la possibilità della singolarità. In Totalità e Infinito, capolavoro del 1961, Levinas scrive:

Filosofia del potere, l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia. L’ontologia heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla relazione con l’essere in generale […] resta all’interno dell’obbedienza dell’anonimo e porta, fatalmente, ad un’altra potenza, al dominio imperialista, alla tirannia. […] L’essere prima dell’ente. L’ontologia prima della metafisica- cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. È un movimento nel medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’altro.1

Configurandosi come fagocitazione dell’altro, l’ontologia fino ad Heidegger si delinea, secondo Levinas, come una filosofia della potenza che porta al dominio ed alla sopraffazione del prossimo. Alla violenza teorica dell’approccio ontologico, infatti, corrisponde, sul piano pratico, l’annientamento della dignità e della libertà dell’uomo e l’intolleranza verso il diverso, tanto che lo stesso Heidegger nel 1933 aderirà al nazismo; scelta quest’ultima che determinerà il radicale distacco di Levinas dal filosofo tedesco.

Ogni teoria della conoscenza è un processo di identificazione, l’alterità dell’ente o oggetto (il termine latino è ob-jectum, cioè «ciò che resiste», «ciò che si oppone») è ricondotto alle categorie del soggetto; l’intelletto umano illumina gli oggetti grazie all’essere e poi se ne appropria. Conoscere significa determinare, comprendere (da cum-capio), concettualizzare, dimostrare (il termine latino è de-monstro, cioè trarre dall’oscurità l’oggetto e renderlo intelligibile), ma anche violentare perché l’oggetto trascendente viene inglobato dalla coscienza che lo rende immanente. Nella teoria della conoscenza, da Cartesio in poi, il soggetto si esplica come attività, posizione e dominio.

L’intelligenza diventa ontologia, cioè capacità dell’uomo di intelligere l’essere.

Ma in questo senso, secondo Levinas, il pensiero occidentale è egologia, primato e prevaricazione del medesimo nei confronti dell’altro, cioè annullamento di ogni differenza nell’universalità dell’essere.

L’uomo, per dirla con Heidegger, è Da-sein, esserci; il ci (da) indica il fatto che l’uomo è sempre in una situazione ed in rapporto attivo nei suoi confronti, egli è manifestazione dell’essere, ovvero l’unico essente che ha il dono del logos; tuttavia non c’è differenza sessuale in Heidegger poiché il Da-sein è neutro. L’esserci che comprende l’essere è già compreso dall’essere e la manifestazione di quest’ultimo avviene nel tempo, ovvero in ciò che segna la dimensione del limite.

Poiché l’essere accade nel tempo, quest’ultimo diviene allora l’«orizzonte dell’essere». Queste sono le ultime parole di Essere e Tempo di Heidegger, capolavoro del 1927 in cui l’autore scrive che la forma suprema di libertà del soggetto umano consiste nell’«essere per la morte».

Ciò che caratterizza l’essere-per-la morte autenticamente progettato sul piano esistenziale può essere riassunto così: l’anticipazione svela all’esserci la dispersione nel si-stesso e… lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del si, effettiva, certa di se stessa e piena d’angoscia: la libertà per la morte.2

L’angoscia, sentimento di nullificazione, è il preavviso della morte che Heidegger definisce come l’«Impossibilità di ogni possibilità»; l’uomo, infatti, di fronte alla minaccia di questo limite insuperabile, prende coscienza della sua finitezza e così, accettandola, è finalmente in grado di vivere autenticamente.

Fin dal saggio del 1935 L’evasione, Levinas si domanda se per dire l’umano sia possibile intraprendere un’altra strada rispetto a quella dell’essere: «Si tratta di uscire dall’essere per una nuova via».3

Nel percorso levinassiano la continua tendenza all’evasione dall’anonimato, dalla neutralità e da se stessi (come identità definite), lascia intravedere «l’immagine dell’ebreo errante come figura ontologica»: nell’uscire fuori di sé, infatti, ogni uomo incontra l’altro. Un cammino che, fedele all’intenzione ebraica del Dabar (il cui significato è sia «parola» che «evento»), ci conduce verso una «Patria nella quale non siamo mai nati». Esodo, partenza, de-costruzione e de-posizione di un soggetto che nella sua autonomia dice e pensa ogni cosa a partire da sé.4

Nel 1974 con Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Levinas sembra riuscire definitivamente nella sua impresa; lo stesso Derridà, nel saggio del 1980 En ce moment même dans cet ouvrage me voici, confrontandosi con il capolavoro di Levinas, riconosce «un effetto di alterità» che va al di là della stessa tematica che l’opera tenta di mettere in luce:

Comment donc écrit-il ? Comment ce qu’il écrit fait-il ouvrage et œuvre dans l’ouvrage ? Que fait-il, par exemple et par excellence, quand il écrit au présent, dans la forme grammaticale du présent, pour dire ce qui ne se présente pas et n’aura jamais été présent, le dit présent ne se présentant qu’au nom d’un Dire qui le déborde, au-dehors et au-dedans, infiniment, comme une sorte d’anachronie absolue, celle d’un tout autre qui, pour être incommensurablement hétérogène à la langue du présent et au discours du même, y laisse pourtant une trace: toujours improbable mais chaque fois déterminée, celle-ci et non una autre ?5

Levinas nella pratica della sua scrittura ha accettato il rischio della «negoziazione obbligata» (la contaminazione originaria ed inevitabile dell’altro con lo stesso, con la lingua dello stesso che è espressione del sistema culturale e del mondo) e ha scritto un testo in cui l’alterità, oltre ad essere oggetto delle sue argomentazioni, è la ragione stessa del suo essere all’opera.

Qui il problema del nostro autore consiste nel pensare una trascendenza dell’Io, che lo liberi dalla sua stessa identità:

Altrimenti che essere. […] Si tratta di pensare la possibilità di uno sradicamento dall’essenza. Per andare dove?

Per andare verso quale regione? Per attenersi a quale piano ontologico? Ma lo sradicamento dall’essenza contesta il privilegio della questione: dove? Esso significa il non luogo. L’essenza pretende di ricoprire e di recuperare ogni ec-cezione; la negatività, la nientificazione e già, dopo Platone il non essere che in un certo senso è.

Bisognerà perciò mostrare che l’eccezione dell’altro dell’essere, al di la del non essere, significa la soggettività o l’umanità, il se stesso che respinge le annessioni dell’essenza. Io unicità, al di fuori di ogni paragone, perché al di fuori della comunanza del genere e della forma, che non trova riposo neppure in sé, in-quieto, che non coincide con sé. […] Unicità senza luogo, senza l’identità ideale che un essere trae dal Kerigma che identifica gli aspetti innumerevoli della sua manifestazione, senza l’identità dell’io coincidente con sé- unicità che si ritrae dall’essenza-uomo.6

Levinas ha dunque ridefinito l’uomo: il sé, la soggettività umana, infatti, è pensabile non come essente ma solo come «altrimenti che essere».

Alla luce di tutto ciò alcune questioni restano in sospeso, quale è per esempio il significato di questo «non-luogo»? Come si giunge all’«unicità dell’io che non coincide con sé»? In questo lavoro c’è un punto di vista diverso rispetto a quello presente negli altri testi di Levinas; qui è possibile intuire ciò che è all’origine dell’eticità e dell’umano, cioè il punto nevralgico verso cui convergono gli sforzi del filosofo lituano.

La tesi che ci proponiamo di sviluppare in queste pagine è un tentativo, forse troppo audace, di andare oltre lo stesso Levinas, o per lo meno, di cercare di far luce su alcuni punti enigmatici del suo pensiero. Ripercorrendo il suo itinerario filosofico, interrogheremo i testi cercando di rintracciare quei frammenti sparsi, simili a fili sottilissimi che restano sospesi ai margini di un tessuto logoro, che, una volta connessi, possano indicarci la presenza di una traccia: il non-intenzionale che rinvia ad un «altrove» o ad un «altrimenti», cioè ad una significanza che cerca di sfuggire alla luce. In un certo senso contro le stesse intenzioni dell’autore, cercheremo di sondare quel «non-luogo» di fronte al quale lo stesso Levinas ha taciuto, praticamente tenteremo di varcare la soglia dell’«indicibile», luogo del «già» e del «non ancora», dove il silenzio è immediatamente predisposizione all’ascolto che si qualifica come «il luogo per eccellenza della verità, dove ciò che è ascoltato responsabilizza verso l’agire morale».7

Noi riteniamo che per cogliere ancora più in profondità il significato dell’«altrimenti che essere» sia fondamentale analizzare l’itinerario e la metamorfosi del femminile presente in alcuni lavori di Levinas. In un certo senso le risposte relative alle domande precedenti sono legate al concetto di femminilità che, nella sua enigmaticità, è da sempre oggetto di analisi critiche disparate e, a volte, opposte tra loro. A nostro giudizio il femminile costituisce la via in grado di condurci verso il cuore del pensiero del nostro autore.

2. Il femminile come mistero

Dopo lo scritto L’evasione e alcune riflessioni sull’ebraismo, la prima opera di Levinas dove si delinea un suo pensiero autonomo (i primi sono saggi su Husserl ed Heidegger) è il testo Dall’Esistenza all’Esistente, opera pubblicata nel 1947, concepita ancor prima della guerra e poi estesa quasi completamente durante la prigionia. In questo lavoro compare per la prima volta il semantema del femminile:

L’alterità d’altri che deve spezzare il carattere definitivo dell’Io non può essere colta con l’aiuto di nessuna delle relazioni che caratterizzano la luce. Possiamo già anticipare dicendo che il piano dell’eros ci permette di intravederla, che l’altro per eccellenza è il femminile, grazie a cui un retromondo prolunga il mondo.8

Il femminile appare dunque come alterità, trascendenza, ovvero come ciò che rompe la continuità della luce (quindi il dominio del soggetto conoscente); tuttavia non viene spiegato in che senso l’eros ci permette di intravedere l’«alterità d’altri» interrompendo, così, la neutralità dell’identico. Quale è, infatti, la relazione che si instaura tra l’eros ed il carattere definitivo dell’io?

Nel testo Il Tempo e l’Altro, pubblicato nel 1948 e contenente lo stenogramma di quattro conferenze che furono tenute da Levinas nel 1946-47 durante il primo anno del suo insegnamento al College Philosophique, c’è il tentativo di liberare l’io nei confronti di sé.

L’io, l’ipostasi è libertà, l’esistente è padrone della sua esistenza e, elemento ancora più rilevante, questo dominio è maschile; Levinas, infatti, giunge addirittura a definirlo come «virile potere del soggetto». «L’ipostasi del soggetto, dunque, si presenta come “virilità”, “fierezza” e “sovranità”».9

Presto però quell’intimità del sé all’io in cui si risolvono tutte le esperienze del soggetto è spezzata dall’evento della morte la quale costituisce un vero e proprio trauma per l’identità dell’io: il soggetto, infatti, si scopre in relazione diretta con l’ignoto, relazione che, non avvenendo nella luce della coscienza, eccede ogni indagine fenomenologica. La morte accade, non è assunta, essa ci rende passivi ed è proprio in questa passività radicale che il nostro autore intravede la fine della virilità:

Nell’approssimarsi della morte, l’importante è che ad un certo momento non possiamo più potere; è proprio per questo che il soggetto perde la sua stessa sovranità di soggetto.10

L’approssimarsi della morte, pertanto, costituisce l’istaurarsi del rapporto con un futuro che non sarà mai presente: la trascendenza assoluta dell’a-venire. Nell’evento della morte si annuncia, così, un’alterità irriducibile all’identità del soggetto: la relazione con l’Altro (autrui) diviene relazione con un mistero. Levinas individua il prototipo di questa relazione nell’eros:

Io penso che il contrario assolutamente contrario, la cui contrarietà non è modificata in nulla dalla relazione che si può stabilire tra esso ed il suo correlativo, la contrarietà che permette al termine di restare assolutamente contrario, è la femminilità.11

A giudizio del nostro autore, dunque, la differenza sessuale si situa al di fuori della divisione logica in generi ed in specie (in netta opposizione all’unità dell’essere proclamata da Parmenide); il femminile, infatti, ci permette di leggere la realtà in termini di molteplicità negando così la possibilità di convertire un termine nell’altro: il maschile, quindi, non si ottiene negando il femminile.

La differenza dei sessi non è neppure la dualità di due termini complementari, poiché due termini complementari presuppongono una totalità pre-esistente. […] L’altro in quanto altro non è qui un oggetto che diventa nostro, o che finisce per identificarsi con noi, esso al contrario si ritrae nel suo mistero. […] La trascendenza della femminilità consiste nel ritrarsi altrove, movimento opposto al movimento della coscienza, ma non è, per questo, inconscio o sub-conscio, e non vedo altra possibilità se non quella di chiamarlo mistero.12

In questo periodo dell’itinerario levinassiano, il femminile si presenta come l’«alterità per eccellenza», il «mistero» che sfugge ad ogni tentativo di presa della coscienza intenzionale; qui non abbiamo a che fare con un esistente, bensì con l’evento dell’alterità la cui essenza è presente nella relazione originale dell’eros, relazione che non è possibile tradurre in termini di potere: il femminile, infatti, permette a Levinas di dare una definizione del soggetto fondata sulla sua passività. In alcune pagine successive il nostro autore afferma che nell’eros non c’è né l’«afferrare», né il «possedere», né il «conoscere» l’altro, ma lo «scacco» di tutto questo.13

Il femminile, infatti, rappresenta la «trascendenza temporale di un presente verso il mistero dell’avvenire»; questa relazione si realizza nel faccia a faccia con altri (autrui) e costituisce, a giudizio del nostro autore, l’effettiva realizzazione del tempo. In altre parole, l’evento del femminile come mistero, ovvero lo squarcio dell’avvenire nella continuità del presente, diviene la condizione stessa dell’accadere del tempo; semplificando, potremmo anche dire che per Levinas il tempo è l’altro.

Questa conclusione è la prima sintesi del pensiero levinassiano di quegli anni: il femminile è dunque un «modo di essere che consiste nel sottrarsi alla luce, un modo di esistere nel nascondersi del pudore».14

Temi questi che conducono al capolavoro del 1961, Totalità e Infinito, nel quale il femminile apparirà in forma differente. Questo argomento sarà ampiamente sviluppato più avanti, per ora però proseguiamo l’analisi di questa prima fase del pensiero levinassiano in cui appare evidente l’ottica maschile e conservatrice con cui l’autore presenta l’alterità indicandola come femminilità. Quest’aspetto venne immediatamente notato da Simone De Beauvoir che nello stesso anno della pubblicazione delle conferenze, commentò così:

Suppongo che Levinas non dimentichi che la donna è anche di per sé coscienza, ma è degno di nota che egli adotti un punto di vista maschile senza porre in evidenza la reciprocità del soggetto e dell’oggetto.

Quando scrive che la donna è mistero è sottinteso che ella è mistero per l’uomo. Cosicché questa descrizione che vorrebbe obbiettiva è in realtà un’affermazione del privilegio maschile.15

Secondo le analisi di De Beauvoir, il maschile, per determinare se stesso come soggetto, nega al femminile la possibilità di essere a sua volta soggetto definendolo «altro per eccellenza» ed impedendo altresì alla donna di fare dell’uomo un essere relativo, cioè altro da sé: il maschile, dunque, definendo il femminile in relazione a sé, pensa di determinare il femminile in sé e proietta su quest’ultimo delle esigenze teoriche senza però elaborare un contenuto positivo.

Anche se nell’opera Il Tempo e l’Altro Levinas distingue la sua posizione da quella romantica e dichiara di non voler disconoscere le pretese legittime del femminismo, ad un primo esame, egli sembra guardare l’alterità con un’ottica prettamente maschile ed in un modo forse troppo evidente per non esserne cosciente.16

Viene spontaneo chiedersi, dunque, se il semantema del femminile nell’itinerario del pensiero di Levinas non nasconda un significato più alto rispetto alla semplice analisi socio-politico-culturale che De Beauvoir gli riserva. Seguendo questa linea è lo stesso Levinas che in una intervista del 1985, sembra indicarci la via da percorrere:

All’epoca del mio piccolo libro intitolato Il Tempo e l’Altro, pensavo che la femminilità fosse una modalità dell’alterità — questo altro genere — e che la sessualità e l’erotismo fossero questa non indifferenza all’altro, irriducibile all’alterità formale dei termini all’interno di un insieme. Oggi penso che bisogna risalire più a monte e che l’esposizione, la nudità e la domanda imperativa del volto d’altri, costituiscono questa modalità che il femminile stesso già suppone: la prossimità del prossimo è l’alterità non formale (Intervista raccolta nel febbraio 1985 dal settimanale Construire [Zurigo] da L. Adert e J-Ch. Aeschlimann).17

Indubbiamente tra gli anni 1947-48 e la fase successiva del pensiero filosofico di Levinas, il concetto di femminilità subisce una metamorfosi misteriosa: dall’eros inteso come «non indifferenza all’altro», si passa al tema del volto. Quale relazione sussiste, dunque, tra il femminile ed il volto d’altri? Levinas ritiene che la differenza sessuale rappresenti un problema importante, la divisione dell’umanità in uomo e donna non è solo una questione biologica; pur tenendo sempre presente che l’eros non è l’agape e che quest’ultimo non nasce dal primo, nel concetto di femminilità si intravede una polisemia: da un primo legame diretto con la dimensione erotica, il significato del femminile sembra ora oscillare verso il piano etico, dall’amore che diventa godimento a ciò che presuppone la responsabilità per altri. Quale connessione sussiste, allora, fra il mistero del femminile e la responsabilità per altri?

Ed infine, come muta il semantema del femminile nelle opere successive del nostro autore? Per ora lasciamo queste domande in sospeso.

3. Ospitalità e verginità

La polisemia del femminile risulta evidente in Totalità e Infinito, lavoro presentato da Levinas nel 1961 (all’età di 56 anni) come tesi di dottorato. Il fine dell’opera, le tematiche ed il lessico evidenziano una continuità con quelle di Il Tempo e l’Altro; qui, però, la critica è rivolta al pensiero della totalità inteso come paradigma dell’occidente che viene scardinato dal desiderio dell’infinito: movimento che va dal mondo all’«altrove», all’«altrimenti», all’«assolutamente altro». La vera rottura con la totalità avviene grazie all’idea d’infinito che scompiglia la coscienza e l’intenzionalità; quest’eccedenza, infatti, è data dal fatto che la realtà oggettiva di cogitatum va al di là della realtà formale della cogitazione. L’idea d’infinito, quindi, mette in relazione il pensiero umano con l’unico ideatum di cui si può avere solo un’idea: la distanza che si crea tra ideatum ed idea costituisce il contenuto dello stesso ideatum, ovvero l’infinito. Ciò rovescia il carattere attivo e dominante dell’intenzionalità permettendo, altresì, al nostro autore, di rintracciare nella passività originaria la condizione autentica del soggetto.18

Secondo la prospettiva levinassiana, infatti, a questa riflessione teoretica corrisponde, nella fatticità, l’esistente che stravolge le strutture del soggetto conoscente e che diviene, in tal modo, la figura centrale di Totalità e Infinito: ecco dunque il delinearsi dell’epifania del volto d’altri. Nell’opera or ora accennata, infatti, il volto viene presentato da Levinas come il senza contesto e l’incontenibile, ovvero senso solo per sé irriducibile ad ogni adeguazione e ad ogni presa; la sua è una venuta che fa avvenimento e che implica un’imprevedibilità radicale, egli, pertanto, eccedendo costantemente l’ordine della coscienza intenzionale, mette in questione la volontà di sapere e di dominio di chi gli è di fronte.19

La relazione con il volto è immediatamente etica, comandamento morale: «Tu non ucciderai», ecco il suo primo messaggio (Trascendenza e altezza 1962). Il volto si colloca nell’esteriorità, cioè al di fuori della totalità e dell’essere, infatti, secondo il nostro autore, tendere all’esteriore significa tendere all’infinito. Il volto è «nudo», è «povero», è «misero», è trascendenza, ovvero «visitazione da un altrove». Il rapporto con lui è metafisica (non più scienza del comportamento), ovvero immediatamente comandamento etico, «discorso», «faccia a faccia»:

Il volto d’altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum — l’idea adeguata. Non si manifesta in base a queste qualità, ma kath’auto. Si esprime. […] Andare incontro ad altri nel discorso significa accogliere la sua espressione nella quale egli va continuamente al di là dell’idea che un pensiero potrebbe portare con sé. Significa dunque ricevere da altri al di là della capacità dell’io; ciò che significa esattamente: avere l’idea dell’infinito. […] Il rapporto con altri o il discorso è un rapporto non allergico, un rapporto etico, ma questo discorso accolto è un ammaestramento.20

In questo passo è esplicito il ribaltamento di tutta la tradizione del pensiero: l’idea d’infinito che produce desiderio assume l’aspetto del volto; dall’autonomia del sapere si giunge all’eteronomia della responsabilità per altri.

Per Levinas, dunque, l’etica è il luogo del senso, essa, infatti, viene prima di tutto (prima della cultura, dell’economia e dell’essere nella sua totalità), e non a caso è definita con il termine di «filosofia prima»; tuttavia il senso si esprime nel volto dell’altro che diviene così la significanza stessa della significazione: il viso, infatti, immediatamente comandamento etico, esprime la precedenza della metafisica sull’ontologia. Tra me e l’altro non c’è reciprocità, il volto è insegnamento, origine del discorso, appello incessante che «investe» la mia libertà e che mi costringe alla responsabilità.

È importante evidenziare, in virtù della tesi che ci accingiamo a sviluppare in queste pagine, la frequenza con cui, nel testo levinassiano, è presente la parola «accoglienza»: essa, infatti, esprime il primo movimento verso altri. Per poter pensare l’etica, dunque, risulta necessario concepire la possibilità dell’accoglienza poiché senza di essa non c’è volto. Alla luce di tutto ciò, a nostro avviso, solo l’ospitalità costituisce quell’evento fondamentale in grado di trasformare la ricettività in relazione etica. La sproporzione or ora accennata, infatti, mette in luce la «legge dell’ospitalità»: la ragione, in quanto accoglimento dell’idea d’infinito, diviene passiva e «riceve» trasformandosi, così, in accoglienza e quindi in ospitalità.21

Nella prospettiva levinassiana, dunque, fin da ora è evidente come quest’ultimo termine risulterà fondamentale una volta connesso con il concetto di femminilità, tuttavia ci sembra opportuno, per ragioni di chiarezza espositiva, fare un passo indietro e procedere con ordine.

In questa panoramica generale, infatti, quale è il posto che il nostro autore riserva al femminile?

La femminilità compare in due momenti diversi del tragitto: il primo è situato nella sezione seconda (Interiorità ed Economia) in particolare nel capitolo «La dimora», mentre il secondo è posto nell’ultima sezione (Al di là del Volto).

A nostro avviso, dunque, risulta rilevante segnalare come nell’architettura di Totalità e Infinito la femminilità compaia prima dell’argomentazione sul volto ed immediatamente dopo. Rispetto ai testi precedenti, infatti, il femminile non è più l’«assolutamente altro», ma, nello stesso tempo, appare evidente il suo legame diretto con la trascendenza del volto. Analizzando queste prime riflessioni, quindi, possiamo anticipare già il fatto che, all’interno della misteriosa metamorfosi del pensiero levinassiano, la femminilità reciterà un ruolo tutt’altro che marginale…

Nel capitolo dedicato alla dimora, Levinas presenta alcune riflessioni sul raccoglimento:

L’intimità che è già presupposto della familiarità è un’intimità con qualcuno. L’interiorità del raccoglimento è una solitudine in un mondo che è già umano. Il raccoglimento si riferisce ad un’accoglienza.22

Qui il nostro autore descrive i luoghi dell’interiorità come per esempio l’a-casa-propria, l’intimità e la familiarità, ovvero i luoghi specifici in cui si realizza l’ospitalità. La dimora, infatti, sancisce la separazione dall’«elementale» (c’è quindi un’interruzione delle risposte immediate stimolate dalla natura), è rifugio, dà sicurezza e consente all’uomo di poter progettare; tuttavia essa non è soltanto il luogo del possesso (dove vengono conservate le cose), altresì costituisce il luogo dell’interiorità (la soggettività umana), dell’intimità (rapporto col mondo sotto forma di godimento, familiarità in cui si svolge la vita) ed infine la condizione di possibilità della donazione. Dal per sé della separazione, quindi, si è giunti al fuori di sé della donazione; il raccoglimento costituisce la possibilità dell’accoglienza ospitale: apertura della porta della propria casa al volto dell’altro che, nella sua umile-maestà, implora, supplica e, contemporaneamente, esige una risposta totale. Ma che cosa consente questo cambiamento radicale?

L’altro la cui presenza è discretamente un’assenza e a partire dal quale si attua l’accoglienza ospitale per eccellenza che descrive il campo dell’intimità, è la donna. La donna è la condizione del raccoglimento, dell’interiorità della casa e dell’abitazione. […] L’abitazione non è ancora la trascendenza del linguaggio. Altri che accoglie nell’intimità non è il voi del volto che si rivela in una dimensione di maestà — ma appunto il tu della familiarità: linguaggio senza insegnamento, linguaggio silenzioso, intesa senza parole, espressione nel silenzio. L’io-tu nel quale Buber scorge la categoria della relazione interumana non è la relazione con l’interlocutore, ma con l’alterità femminile.23

Il femminile si presenta, quindi, come ciò che fa di una casa luogo d’accoglienza. La donna è l’«accoglienza ospitale per eccellenza», la sua alterità è mutata rispetto a quella presentata in Il Tempo e l’Altro, infatti nell’intimità della dimora non c’è più una trascendenza, bensì c’è il tu della familiarità: la relazione con il femminile, quindi, rende possibile il discorso, ma ancora non è il «faccia a faccia». La donna è immanenza, discrezione, «presenza che è un’assenza», condizione di possibilità dell’ospitalità: grazie all’alterità femminile, quindi, siamo in grado di accogliere il volto dell’altro quasi totalmente. Quest’ultima, però, è segnata dalla mancanza della possibilità del linguaggio, cioè la trascendenza del discorso, ovvero l’«ammaestramento» a partire dall’altezza del volto. L’essere femminile comunica nel silenzio ed il suo è, comunque, un linguaggio umano; secondo il nostro autore, infatti, pur non essendo un uomo, la donna resta umana permettendo, altresì, un’accoglienza in cui il linguaggio che sottace resta una «possibilità essenziale»:

La casa che fonda il possesso, non è possesso nello stesso senso delle cose mobili che può raccogliere e custodire. Essa è posseduta perché è da sempre luogo di ospitalità per il suo proprietario. Il che ci rinvia alla sua interiorità essenziale e all’abitante che la abita prima di ogni abitante, all’accogliente per eccellenza, all’accogliente in sé — all’essere femminile.24

L’«accogliente in sé» accoglie nella demarcazione prima descritta, cioè senza trascendenza del linguaggio; questo limite sembra sancire il confine tra il «pre-etico» e l’«etico», come se ci fosse una accoglienza per eccellenza, un’accoglienza ospitale, «in sé», prima dell’etico. Il pre-etico, con cui si sta indicando la dimora dell’essere femminile, non è entrato ancora nella dimensione etica, luogo in cui la «legge dell’ospitalità» è realizzata: l’ospite che riceve («host»), che accoglie e che si crede il proprietario della propria casa, in realtà è un ospite invitato e ricevuto («guest»). Egli riceve dalla propria casa quell’ospitalità che crede di offrire, colui che riceve è ricevuto a casa propria come in una «terra d’asilo».25

Queste analisi ci rimandano ad un discorso più profondo. La terra che crediamo nostra in realtà appartiene a Dio, noi siamo soltanto degli stranieri, le nostre case sono alloggi di passaggio e i proprietari sono originariamente degli inquilini: nulla è effettivamente in nostro possesso. Rosenzweig, nella Stella della Redenzione, cita un versetto del Levitico (25, 23) che lo stesso Levinas riproporrà in vari testi (ciò contribuisce a mettere in luce il legame profondo che unisce i due filosofi), esso ci sembra emblematico:

Nessuna terra sarà irrevocabilmente alienata, poiché la terra è mia, poiché voi non siete che stranieri, domiciliati presso di me.26

La casa non è posseduta, essa è ospitale per il suo stesso proprietario il quale è già un «guest».

La precedenza dell’accoglienza e del raccoglimento è la femminilità stessa: il femminile è, dunque, presentato da Levinas come interiorità.

Da questo discorso emerge la metamorfosi della soggettività umana, infatti la dimora evoca la posizione dello stesso soggetto: io scopro che dietro alla mia apparente condizione di solitudine si cela una compagnia originale, diremmo quasi pre-originale (questo tema sarà approfondito più avanti), un ‘interiorità che mi accoglie ed in virtù della quale posso aprire le porte del mio cuore all’altro, a chi mi è di fronte, al volto che mi invoca e mi mette in questione con la sua venuta. Se posso donare, amare, uscire da me fino a negare me stesso è perché qualcuno mi ha amato in modo pre-originale, amo perché sono amato; quel qualcuno è l’essere femminile che, da alterità trascendente e distante (Il Tempo e L’Altro), diviene ora presenza silenziosa nella dimensione interiore del soggetto, ma presenza inquietante poiché, svelando all’io il suo stato di passività originaria, si trasforma in condizione dell’etica. In accordo con Levinas, dunque, risulta possibile affermare che ogni singolo uomo, in realtà, è ospite di se stesso: ogni soggetto, infatti, da padrone della propria casa diviene ospite. L’identità umana, quindi, subisce una trasformazione dal suo interno: la via che traccia il femminile è quella che porta ad una trascendenza all’interno dello stesso Io.

In Addio ad Emmanuel Levinas, Derridà definisce Totalità ed Infinito come un «trattato sull’ospitalità»; analizzando gli ultimi passi relativi al capitolo «La Dimora», lo stesso Levinas sembra confermare questa tesi:

Il raccoglimento in una casa aperta ad altri — L’Ospitalità — è il fatto concreto ed iniziale del raccoglimento umano e della sua separazione, coincide con il desiderio d’altri assolutamente trascendente. […] La relazione con altri non si produce al di fuori del mondo, ma mette in questione il mondo posseduto. La relazione con altri, la trascendenza, consiste nel dire il mondo ad altri. […] Non è una visione d’altri ma una donazione originaria.

[…] La visione del volto non si separa da questa offerta costituita dal linguaggio. Vedere il volto significa parlare del mondo. La trascendenza non è un’ottica ma il primo gesto etico.27

Ospitalità, volto, desiderio d’altri e donazione originaria, esprimono l’accoglienza dell’altro, il «sì» all’altro dove quest’ultimo si sottrae ad ogni forma di tematizzazione.

L’ospitalità è il termine che indica l’apertura al volto, ciò che lo accoglie, infatti, è un «sì» all’altro che si costituisce come risposta al sì dell’altro, un sì che diviene appello in virtù della risposta responsabile del medesimo. Il mio sì non è un inizio poiché l’infinito dell’altro è stato accolto pre-originariamente: il mio «sì» è sempre preceduto dal «sì» dell’altro, «l’accoglienza è sempre accoglienza dell’altro», insomma si comincia con il rispondere.28

La soggettività è divenuta così responsabilità, risposta possibile a partire da un’accoglienza silenziosa, diremmo quasi misteriosa, quella del femminile: «accoglienza per eccellenza» e condizione dell’etica stessa. Indicare l’essere femminile come il «pre-etico» non significa evidenziarne una mancanza (il non accesso all’etica), bensì riconoscere il ruolo di primo piano che la femminilità recita nell’opera levinassiana. Se l’etica è il fondamento del senso e la realizzazione stessa dell’autenticità dell’umano, allora la femminilità, essendo la condizione dell’accoglienza, dell’ospitalità e della responsabilità, diviene il nucleo della stessa identità dell’uomo; essa, infatti, è alla base della metamorfosi della nuova soggettività che Levinas propone. La femminilità, dunque, appare nell’itinerario del nostro autore come la via che conduce alla ridefinizione stessa dell’umano.

Ma, ancora una volta, alcune questioni restano aperte, per esempio con «essere femminile» Levinas intende le donne empiriche o qualcos’altro? In Alterità, le metamorfosi del femminile da Platone a Levinas, testo dedicato a Simone De Beauvoir, Anna Maria Verna presenta una critica femminista al pensiero filosofico occidentale inteso come dominio della virilità («legge del medesimo») sul femminile presentato come differenza (ovviamente in funzione del maschile). l’autrice, pur riconoscendo il tentativo di Levinas di porsi fuori e contro la cultura dominante, accusa il filosofo di non essere riuscito a modificare il femminile come concetto. Secondo la scrittrice, infatti, Levinas destruttura ciò che era stato dato per fondamentale e propone una soggettività diversa rispetto a quella della tradizione, tuttavia ciò non è per lei sufficiente poiché, a suo giudizio, egli si muove pur sempre all’interno di tematiche date tanto da non intaccare le «ossessioni monosessuali maschili».29 Ecco un passo emblematico tratto dal suo testo:

In tutta la sua opera, Levinas parla dell’accoglienza che il medesimo deve all’altro, di come l’altro mette in discussione il medesimo. Quando il medesimo e l’altro diventano uomo e donna, la teoria si rovescia, tanto da far pensare che gli altri (il povero, lo straniero) siano riconosciuti non in quanto creature, ma in quanto uomini (maschi). La donna infatti, rivela la propria alterità nella dolcezza e nell’impossibilità di mettere in causa l’uomo. Se la donna fosse l’assolutamente altra, o semplicemente un’altra rispetto al soggetto maschile, vi sarebbe la guerra.30

Nella parte finale della sua critica, Anna Maria Verna attribuisce al femminile levinassiano la caratteristica di «alterità dipendente» in opposizione diretta al maschile che, invece, è colui che «crea il linguaggio» e «definisce l’escatologia». Quest’analisi complessiva pone il problema del femminile su un piano sociale, culturale, politico, insomma esclusivamente empirico. Il femminile è ogni donna concreta, quindi è inteso esclusivamente come realtà ontica. Secondo la nostra tesi, invece, Levinas non può essere definito all’interno della dicotomia maschilismo-femminismo; il suo messaggio cerca di andare al di la dell’aspetto socio-politoco-culturale (posto in un orizzonte immanente e legato alla realtà empirica); egli, infatti, accede alla dimensione etica, accetta un «compromesso con la lingua», usa la logica occidentale creando un’implosione del logos stesso e ci pone di fronte ai limiti della logica umana, ma, nello stesso tempo, la demarcazione presentata è già contatto con un al di là, cioè con un incondizionato. Il femminile, allora, ci conduce verso quel «non-luogo» di cui si è accennato nella premessa; comunque, è lo stesso Levinas che, nel capitolo «La Dimora», previene ogni possibile critica femminista:

Il femminile è stato incontrato in questa analisi come uno dei punti cardinali dell’orizzonte in cui si situa la vita interiore — e l’assenza empirica dell’essere umano di sesso femminile in una dimora, non cambia niente alla dimensione della femminilità che vi resta aperta appunto come accoglienza della dimora.31

Un’analisi attenta dell’itinerario levinassiano potrebbe condurci a risultati opposti rispetto a quelli delle critiche femministe; il femminile inteso come «ospitalità assoluta», «accoglienza per eccellenza», «origine pre-etica dell’etica», diverrebbe una realtà meta-empirica all’interno di un discorso etico che va al di la dell’ontologia. Il femminile, pertanto, pur essendo una categoria ontologica eccede l’empirico trasformandosi, così, in una sorta di icona-simbolo del meta-empirico. Derridà spiega così questo passaggio fondamentale di Levinas:

l’accoglienza, origine anarchica dell’etica, appartiene alla dimensione di femminilità e non alla presenza empirica di un essere umano di sesso femminile. […] L’accoglienza assoluta, assolutamente originaria, anzi pre-originaria, l’accoglienza per eccellenza è femminile, ha luogo in un luogo non appropriabile, in un’interiorità aperta il cui maestro o proprietario riceve l’ospitalità che in seguito vorrebbe dare.

L’ospitalità precede la proprietà […].32

L’origine anarchica dell’etica, l’ospitalità che precede la proprietà ed il luogo di quest’interiorità misteriosa, sono temi che Levinas esplicherà in opere successive quali: Umanesimo dell’altro uomo (1972) e Altrimenti che essere (1974). È singolare che le critiche femministe non prendano mai in considerazione questi due testi, probabilmente perché il termine «femminile» non è presente; eppure è proprio lì, a nostro giudizio, che Levinas elabora l’autenticità ed il senso ultimo della femminilità, infatti è proprio lì che, sondando l’origine anarchica dell’etica, il nostro autore, fa ingresso nella «dimensione autentica della femminilità». Comunque sia, questo tema sarà argomentato nel prossimo paragrafo, per ora torniamo a Totalità e Infinito.

Nella sezione «Al di là del volto», Levinas affronta il tema della morte; in gioco c’è la possibilità stessa della soggettività: è forse possibile per l’io vincere l’assurdità della morte? Levinas risponde così:

Dobbiamo dunque indicare un piano che, nello stesso tempo presuppone e trascende l’epifania d’altri nel volto; piano di cui l’io va al di là della morte e si libera anche del suo ritorno su di sé. Questo piano è quello dell’amore e della fecondità, in cui la soggettività si pone in funzione di questi movimenti.33

Dunque la risposta del nostro autore è positiva, l’amore vince la morte grazie alla fecondità che rappresenta la prosecuzione della relazione erotica.

L’erotico è presentato dal nostro autore come «l’equivoco per eccellenza» e la sua originalità sta nel fatto che in esso coincidono bisogno e desiderio, cioè sia la possibilità di godere dell’amata, sia quella di «andare al di là del discorso»; pertanto da un lato c’è la spinta al godimento ed al possesso, dall’altro c’è una tensione a trascendere l’«amata» verso un al di là lontano.

In Difficile libertà, testo del 1963, Levinas riconosce che nell’erotismo e nel sentimento amoroso si produce «la partecipazione del presente al futuro». L’amore (eros), col suo dinamismo, ci conduce al di là dell’amato e del presente: in ciò, infatti, consiste la sua finalità autentica. Tuttavia, dopo la «disobbedienza originale», secondo il nostro autore, c’è stata la separazione tra voluttà e procreazione ed è per questo motivo che noi le troviamo in successione nel tempo.34

La vera essenza dell’amore era la fecondità, ma ora ciò che attira gli innamorati è la voluttà: in ciò consiste l’ambiguità. Il femminile qui è incontrato come «amata»:

L’amore tende ad altri, tende ad esso nella sua debolezza. La debolezza […] qualifica l’alterità stessa. Amore significa tenere per altri, dare aiuto alla sua debolezza. In questa debolezza come nell’aurora, sorge l’amato che è amata. […] L’epifania dell’amata è una cosa sola con il suo regime di tenerezza-commossa.35

Il femminile appare dunque come «amata», «debolezza», «tenerezza», «commozione», ma anche possibilità di fraintendimento nella voluttà. L’eros, tuttavia, non è possesso: la relazione amorosa permette la vittoria sulla morte poiché cerca ciò che è assolutamente futuro, nella loro unione, infatti, il medesimo e l’altro «generano il figlio». La relazione con il figlio, dunque, mette in rapporto l’io con la trascendenza dell’avvenire, ripristinando così la relazione con l’infinito nella dimensione temporale. Stando così le cose, nella paternità, l’io si libera di sé senza cessare di essere io; la relazione padre-figlio, infatti, implica una «rottura» ed un «ricorso»: mio figlio è uno straniero, pur essendo altri è me, ma, nello stesso tempo, non è opera mia, né mia proprietà. Io non possiedo mio figlio, in qualche maniera io sono mio figlio.

In questa sezione, terminando con la paternità, il percorso di Levinas sembra molto simile a quello presentato nelle conferenze di Il Tempo e l’Altro, anche qui infatti la prospettiva assunta dal nostro autore è decisamente maschile. Il femminile è qui presentato come «violabile e inviolabile», è «debolezza», «tenerezza» e «vulnerabilità», aspetti questi ultimi che la tradizione attribuisce inequivocabilmente alla donna. La stessa fine dell’opera, inoltre, sembrerebbe confermare questa tesi: l’individuazione della paternità come relazione ultima con l’infinito, infatti, mette in luce la prevalenza del dominio maschile sulla femminilità.

Spesso, però, le cose non sono come sembrano… Secondo la nostra analisi, infatti, nella sezione «Al di la del volto», sono presenti degli elementi che differenziano quest’ultima parte dalle conferenze del 1948 e che ci permettono, altresì, di rintracciare alla base della stessa soggettività umana una dimensione femminile; ciò è intrinseco nel passo seguente:

L’amata che può sì essere compresa ma che resta intatta nella sua nudità, al di là dell’oggetto e del volto, e così al di la dell’ente, si mantiene nella verginità. Il femminile essenzialmente violabile ed inviolabile, l’eterno femminino è il vergine o una continua ripresa della verginità, l’intoccabile persino nel contatto della voluttà, nel presente-futuro. […] La vergine resta incomprensibile, muore senza omicidio, va in estasi, si ritira nel suo avvenire, al di là di ogni impossibile promessa all’anticipazione. Al fianco della notte come ronzio anonimo del c’è si apre la notte dell’erotico, dietro la notte dell’insonnia, la notte del nascosto, del clandestino, del misterioso, patria del vergine, che, nello stesso tempo, è scoperto dall’eros e sfugge all’eros […].36

Il femminile appare qui come «continua ripresa della verginità»: l’amata rimane integra nella «sua nudità», «resta incomprensibile» ed infine «si ritira nel suo avvenire». Ancora una volta la femminilità traspare come mistero, enigma che sfugge ad ogni tentativo di presa. Simbolo di questo movimento è, senza ombra di dubbio, l’atto della carezza cui Levinas riserva uno studio particolareggiato: essa, infatti, è «un modo d’essere del soggetto» il quale non può inglobare l’altro da sé poiché «ciò che è accarezzato non è toccato». Qui è intrinseco il rimando all’assenza dell’altro, all’impossibilità di fondersi con lui e all’attesa dell’avvenire. Tutto ciò, a nostro avviso, esprime una tensione verso l’«indicibile» che «si alimenta all’infinito» e che trova la sua realizzazione nella fecondità la quale, però, scaturisce dalla verginità. Mentre in Il Tempo e l’Altro il femminile è semplicemente un futuro misterioso, inconoscibile ed enigmatico, nel passo sopra citato ha inizio una metamorfosi della stessa identità femminile: l’amata non è solo diversa dall’amato, essa comincia a possedere dei tratti suoi propri: essa è verginità. Dietro a questo termine apparentemente legato ancora ad una tradizione andro-centrica, si nasconde, a nostro giudizio, l’inizio di un processo che porterà alla lacerazione della «legge del medesimo» (quindi della prospettiva virile) dal suo stesso interno.37

La verginità impedisce il cambiamento (non sublimato) di direzione verso il maschile conservando, così, la pura essenza femminile. La verginità produce fecondità, ma, contemporaneamente, esprime la stessa tensione del corpo verso la maternità (non a caso questo tema sarà trattato in Altrimenti che essere, opera in cui la prospettiva maschile sarà definitivamente abbandonata); la donna, quindi, nella verginità diviene offerta del luogo dove nascere, ma anche possibilità di rinascita come umanità nuova.

L’esperienza della verginità consiste nella presa di coscienza del fatto che non si può pensare l’altro senza affermare un destino che dipende da un «altrove», infatti per entrare in rapporto con l’altro si deve accettare una distanza che non è posta dal medesimo. Il «sì» all’altro è, secondo la nostra prospettiva, l’anticipo dell’eterno nel mondo presente: la verginità, infatti, è traccia della presenza dell’altrove in questo mondo poiché costituisce il richiamo alla responsabilità e l’inizio, nel presente, della redenzione.

La responsabilità, il «sì» che conferma l’assenso pre-originario di fronte al volto, è il gesto dell’ubbidienza nella sua essenzialità ed implica il passaggio attraverso l’immolazione per l’altro da cui scaturisce una fecondità senza limite; ecco, dunque, dove termina la verginità nella sua autenticità: la condizione di verità di un rapporto è il sacrificio, l’uomo non può fare a meno che rispondere alla chiamata dell’infinito, rispondere ad un ascolto pre-originario che si traduce nella testimonianza di una gratuità che precede ogni tempo ed ogni luogo. La testimonianza, infatti, è amore verginale poiché fa sentire accolto e amato chiunque entri nella nostra casa. A nostro giudizio dunque la verginità costituisce l’autenticità stessa dell’umano e, presentandosi come appello all’«altrimenti che essere», rappresenta la via che conduce all’umanità dell’uomo e alla vita etica, ovvero al raggiungimento della Santità.

Stando a queste analisi, quindi, la verginità, anche se in modo latente, sembra unire inscindibilmente il mistero del femminile e la responsabilità per altri: ospitalità, responsabilità e verginità, infatti, rappresentano i nuclei tematici in virtù dei quali, implicitamente, in Totalità e Infinito, il femminile rimette in questione il maschile impedendogli, così, di essere inteso come autonomia.

Se nelle conferenze dell’opera Il Tempo e l’Altro la paternità chiudeva il percorso levinassiano, diversamente in Totalità e Infinito questa conclusione viene affiancata anche dalla presenza del femminile che apre inequivocabilmente nuove prospettive sulla soggettività umana:

In quanto se stesso, l’io, attraverso la relazione con altri nella femminilità, si libera della propria identità, può essere altro a partire da sé come origine. Sotto le specie dell’io, l’essere può prodursi come ciò che ricomincia all’infinito, cioè per essere esatti, come infinito.38

Il femminile, dunque, ci mette in relazione con l’origine; la sua presenza, infatti, diviene la condizione essenziale per scoprire le tracce di un infinito che ci precede: luogo dell’indicibile, dell’indeterminato, dell’incondizionato, potremmo anche definirlo come dimensione dell’«originario».39 Tornano qui gli interrogativi posti nella premessa come quello circa il «non luogo» o dimensione «pre-originaria» dell’ascolto, ma anche quello relativo alla non coincidenza dell’io con sé. Tali questioni ci rimandano direttamente ad Altrimenti che essere opera in cui Levinas perviene alla ridefinizione del soggetto umano attraverso una nuova dimensione di femminilità. Per il momento, tuttavia, resta ancora priva di risposta una domanda fondamentale: in che modo, infatti, il femminile ci conduce all’altrimenti che essere?

Questo tema costituirà il punto focale nel quale convergeranno le riflessioni dei prossimi paragrafi.

4. Anarchia

In Altrimenti che essere la terminologia ed il tema del femminile scompaiono misteriosamente, le ragioni possono essere ricercate nella diversa prospettiva che il testo assume: il problema non consiste più nell’individuare una trascendenza verso l’altro (come in Il Tempo e l’Altro e parzialmente in Totalità e Infinito), bensì nel raggiungere una trascendenza all’interno dello stesso io poiché solo quest’ultima può liberare la soggettività dal legame con la sua identità. Questa coincidenza dell’io con sé, è quindi, per il nostro autore, la radice di ogni violenza; l’essenza, infatti, interpretata come interessamento, si presenta come «conatus degli enti»:

Esse è interesse. L’essenza è interessamento. […] L’interessamento dell’essere si drammatizza negli egoismi in lotta gli uni contro gli altri, tutti contro tutti, nella molteplicità di egoismi allergici che sono in guerra gli uni contro gli altri e, così, insieme. […] L’essenza è così l’estremo sincronismo della guerra.40

L’interessamento, quindi, costituisce la negazione e la sospensione di ogni forma di gratuità, infatti qui la trascendenza diviene mera apparenza. Se nelle opere precedenti il punto nevralgico era il rapporto medesimo-altro, nel capolavoro del 1974 è la stessa soggettività umana ad essere messa in questione: si passa dall’essente all’altrimenti che essente.

In questa prospettiva, dunque, il tema dell’altro perde la sua priorità divenendo secondario; appare chiaro, quindi, il motivo per cui il termine «femminile» risulti completamente assente: in questo lavoro, infatti, il pensiero di Levinas sembra condurci verso nuovi orizzonti. Altrimenti che essere rappresenta il tentativo di mostrare come anche nell’identità umana si realizzi la rottura dall’essenza, frattura che ha la peculiarità di precedere l’ontologia e di essere accaduta in un passato mai stato presente; ciò è evidente nelle analisi che vengono dedicate alla relazione tra «dire» e «detto»:

Il dire precisamente non è un gioco. Anteriore ai segni verbali che esso coniuga, anteriore ai sistemi linguistici e ai riflessi semantici — prefazione alle lingue — esso è prossimità dell’uno all’altro, impegno dell’approssimarsi, la significanza stessa della significazione. […] Il dire originale o pre-originale, il discorso della pre-fazione, annoda un intrigo di responsabilità. Ordine più grave dell’essere e anteriore all’essere. Rispetto ad esso l’essere ha tutte le apparenze di un gioco. Gioco o distensione dell’essere libero da ogni responsabilità in cui tutto il possibile è permesso.41

Il dire sì presenta come la «significanza stessa della significazione», «ordine più grave dell’essere e anteriore all’essere», esso è un atto in cui l’io si espone e si volge verso l’altro. Il dire, quindi, è responsabilità, presupposto di ogni informazione, significato che precede la cultura, la lingua, l’estetica e l’economia: esso rappresenta l’etica nella sua origine anarchica poiché è al di qua dell’essere, è il pre-originario, ovvero luogo in cui la dimensione dell’ascolto

si trasforma in responsabilità incondizionata per l’altro. Il detto, invece, costituisce l’interessamento, il gioco dell’essere, la coincidenza pacifica dell’identità con sé, esso prende corpo solo nel contesto del dire e favorisce la comprensione del reale nella sua totalità.

Parallelamente al rapporto dire-detto, Levinas utilizza altre formule linguistiche come la dicotomia «interessamento-disinteressamento», ma il nucleo semantico non sembra mutare. Da un lato troviamo l’ontologia, neutralità e anonimia dell’essere, finta trascendenza, sistema linguistico che nel tradurre il dire lo tradisce, egoismo e guerra; dall’altro l’etica, «gratuità integrale» che si riferisce ad una «gravità estrema», momento in cui la continuità dell’essenza si inverte rinviando ad un linguaggio pre-originale, al dire, alla responsabilità.42

Ma come è possibile che il dire costituisca un «ordine più grave dell’essere ed anteriore all’essere»? Tornano qui gli interrogativi riguardanti il tema del «non-luogo» o dimensione pre-originale; quale legame sussiste, infatti, tra il «dire pre-originale» e la responsabilità? Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro e considerare alcune pagine dell’Umanesimo dell’altro uomo, testo del 1972, in cui Levinas torna sul tema dell’interiorità, dimensione fondamentale anche in vista delle tematiche che saranno sviluppate definitivamente in Altrimenti che essere.

Ma l’accoglienza pre-originale, l’«accoglienza per eccellenza» che «ha luogo in un’interiorità aperta» non appartiene forse alla dimensione di femminilità?43 Certamente, tuttavia quali siano le conseguenze ultime di queste affermazioni risulterà chiaramente più avanti; intanto possiamo solo anticipare che, in un certo senso, è la stessa femminilità a condurci verso il pre-originale (o anarchia) perché ne conserva le tracce.

Nella sezione «Umanesimo ed Anarchia», il nostro autore mette in luce la precarietà dell’uomo: la crisi dell’umanesimo nasce dall’esperienza del fallimento dell’azione umana. Quest’ultima consiste nel fatto di «incominciare» e si compie all’interno della libertà della coscienza: ogni contenuto di coscienza, infatti, essendo stato presente almeno per un istante è «rammemorabile». Tutto si svolge nell’immanenza della coscienza intenzionale dove il senso si dà solo in riferimento all’essere, alla luce che proiettata sull’oggetto vince la sua resistenza; il diverso entra nell’unità di un genere dando luogo, così, ad un processo di omogeneizzazione continua. Stando così le cose, la ragione si presenta come «archeologia», cioè tensione verso la scoperta dell’origine, luogo che contiene in sé i primordi dell’essere e della verità; tutto ciò che entra nell’io cosciente, infatti, si riduce a manifestazione e diviene presente. L’intelligibilità del soggetto, quindi, consiste nel ritorno all’origine: movimento che costituisce il «porsi del sé».44 L’io qui è un’identità identificante, «il suo uscire da sé è un restare presso sé per adeguare l’essere»:

Ma già nel ricorso all’infinito del sollen, che deriva dal soggetto posto come io, origine di se stesso o libertà, si annunzia lo scacco incluso nell’atto umano e sorge l’anti-umanesimo che ridurrà l’uomo a mezzo, necessario all’essere per potersi riflettere o mostrare nella sua verità, ossia nel concatenamento sistematico dei concetti. […] Non è possibile trovare un senso (un senso alla rovescia, è vero, ma il solo autentico qui) alla libertà medesima, partendo proprio da quella passività dell’uomo in cui sembra che appaia la sua inconsistenza?45

Tra l’umanesimo (secondo cui l’uomo è misura dell’essere) e l’anti-umanesimo (riduzione dell’uomo a mezzo dell’essere), Levinas sceglie un’altra strada: il senso, infatti, non nasce né dal «porsi del sé» come origine, né dall’essere dell’ente o dal sistema. Il nostro autore propone un concetto radicale di passività: si tratta di una passività anteriore al piano ontologico, «anteriorità pre-originaria e metafisica»; appare evidente, quindi, come da questo stato di passività che abita l’umano scaturisca in realtà la stessa possibilità di trovare un senso alla libertà.46 Levinas, pertanto, si domanda se cercare l’identità umana nella passività radicale non significhi sopprimere il soggetto abbandonandolo così alla fatalità o al determinismo, ma la sua risposta è negativa poiché l’alternativa libero-non libero non ha significanza ultima; infatti la soggettività non si ferma all’originario, se così fosse saremmo esclusivamente nella dimensione del «cominciare», luogo della libertà dell’io. Diversamente, per il nostro autore, prima della libertà o della necessità vi è qualcos’altro:

L’al di là o pre-originario o il pre-liminare designano — per abuso linguistico, naturalmente — la soggettività anteriore all’io, anteriore alla sua libertà e alla sua non-libertà. Soggetto pre-originario, oltre l’essere, in sé. […] L’interiorità è il fatto che nell’essere l’incominciare stesso sia preceduto, ma che ciò che precede non si presenti al libero sguardo che l’assumerebbe, non si faccia mai né presente, né rappresentazione; qualcosa è già passato sopra la testa del presente, non ha attraversato il cordone della coscienza e non si lascia recuperare; qualcosa che precede l ‘incominciare e il principio, qualcosa che è anarchicamente, malgrado dell’essere, inverte o precede l’essere. Ma si tratta poi di qualcosa?47

Entra in gioco qui il concetto di an-archia, cioè mancanza di inizio, l’intenzionalità non è assoluta ed escludente nella sua attività, c’è qualcosa che non è ricondotta a lei e quindi non può essere portata a presenza; la coscienza non può né auto-comprendersi, cioè non può essere oggetto di se stessa, né auto-giustificarsi: la sua attività nasce da una passività, una durata che è fuori dall’attività dell’io, «temporalità del tempo che sfugge, attraverso il suo lasso, ad ogni attività di rap(ri)presentazione».48 Qui il capovolgimento di Levinas diviene radicale: dall’attività della coscienza intenzionale si passa alla pura passività del pre-intenzionale, non-luogo dell’indicibile e dell’interiorità. Il pre-intenzionale o non-intenzionale, dunque, è una passività immediata ed il suo primo caso è l’accusativo; la coscienza è accusata e responsabile della sua stessa presenza, il sé non è più io: nella sua immediatezza, infatti, la coscienza è colpevolizzata del suo ritardo (non si può segmentare l’istante) verso altro. Qui si tratta di una passività inassumibile che si nomina per abuso linguistico, «un rovescio che non si può rivoltare», siamo nella dimensione che Kant definirebbe come «incondizionato», termine che rimanda all’indeterminabile, cioè alla dimensione del non-oggetto e dell’infinito; ecco perché Levinas si domanda se ciò che precede l’incominciare sia definibile come»qualcosa», ovviamente la risposta è negativa perché se così non fosse saremmo di nuovo nell’orizzonte dell’essere.

Qui si sta cercando di sondare l’indefinibile, «non-luogo» in cui infinito e nulla sembrano coincidere nell’assoluta mancanza di forme. In questa dimensione riemerge con vigore il senso del mistero che pervade l’umano e grazie al quale è possibile balbettare (tradendolo) qualcosa dell’ineffabile; è proprio qui, infatti, che la femminilità risulterà fondamentale, ma procediamo con ordine. Nella prospettiva levinassiana il pre-intenzionale (o non-intenzionale) diviene traccia di un silenzio pre-originario dell’io in cui la dimensione dell’ascolto resta la condizione ultima di possibilità della responsabilità etica, così, a nostro giudizio, l’interiorità umana diviene «offerta come dimora per la parola». Il parlare diviene, dunque, elemento divino; la parola, infatti, è manifestazione oggettiva di una dimensione trascendente: ora essere io consiste nel dover rispondere del proprio diritto d’essere.

L’ineffabile o l’incomunicabile dell’interiorità, che non si lascia contenere nel detto — è una responsabilità anteriore alla libertà. L’indicibilità dell’ineffabile si descrive come il pre-originario della responsabilità per gli altri, come responsabilità anteriore ad ogni libero impegno, prima ancora di descriversi come incapacità di apparire nel detto.49

Da «archeologia» ad «anarchia», la soggettività umana ha il suo senso al di là dell’essere perché essa incarna la presenza di una responsabilità senza inizio e anteriore a qualsiasi impegno. Il pre-originario è «dire» e significa responsabilità: scoprirsi, esporsi ed essere pronti ad espiare la violenza subita per colpa altrui. Il soggetto assume una responsabilità per la quale non aveva preso nessuna decisione, ma da cui non può sfuggire; egli, infatti, prima ancora di essere intenzionalità, è responsabilità incondizionata ed ostaggio insostituibile degli altri (questo sarà uno dei temi principali di Altrimenti che essere). La soggettività del soggetto non spicca sull’essere in virtù dell’arbitrio, ma a causa di una «suscettibilità pre-originaria» che ridefinisce drasticamente l’umano.50 Non siamo più degli io, ma dei sé: il soggetto nasce come risposta; dal parlare al rispondere in virtù di un ascolto «immemorabile». Dal piano teoretico (dicibile, ordine del sapere, presenza e rappresentazione) del detto (fondazione dell’essere che è nell’essere), si passa a quello pratico (etica, faccia a faccia e discorso) del dire (responsabilità anteriore alla libertà), interiorità ineffabile che non si lascia contenere e che non giunge mai a manifestazione in modo completo. Alla luce di tutto ciò, considerando il tema dell’interiorità, per altro centrale nell’Umanesimo dell’altro uomo, la metamorfosi della prospettiva levinassiana si manifesta in tutta la sua evidenza.

In Totalità e Infinito, infatti, dominava la rilettura dell’idea d’infinito cartesiana, lo stesso sottotitolo dell’opera (Saggio sull’esteriorità) ci rimandava ad una dilatazione nello spazio; lì c’era l’individuazione di una distanza: l’io che «pensa più di quanto possa pensare» rappresentava in realtà la separazione stessa. Nell’idea d’infinito, infatti, il pensiero umano si rende conto che la distanza tra ideatum ed idea costituisce il contenuto dell’ideatum stesso, ovvero l’infinito.51

Nell’Umanesimo dell’altro uomo e due anni più tardi in Altrimenti che essere, Levinas sostituisce l’ampliamento spaziale con una regressione temporale ponendosi così sulle tracce di un passato che non è mai stato presente ed in cui ogni tentativo di rammemorazione risulta impossibile. Se il nucleo centrale del testo del 1961 era l’esteriorità, dimensione incarnata dal volto, cioè l’infinito, ciò che è al di là dell’essere e della totalità; nell’Umanesimo dell’altro uomo, invece, prevale l’interiorità, non-luogo della soggettività anteriore all’io o «soggetto pre-originario oltre l’essere, in sé»:

L’interiorità non si descrive in termini spaziali di alcun genere, come il volume di una sfera avviticchiata e suggellata ad un altro, ma che, formata come coscienza, si rifletterebbe ancora nel detto e apparterrebbe così allo spazio comune a tutti, all’ordine sincronico; neanche se appartenesse alla regione più segreta della sfera.52

L’interiorità appare qui come quell’«al di là che non può essere descritto in termini spaziali» poiché se fosse così si ricadrebbe nell’«ordine sincronico» e nel detto. La dimensione dell’interiorità implica una passività inassumibile, ineffabile ed incomunicabile, quindi una trascendenza incontrovertibile. Questo passo sembra sancire una differenza abissale con le considerazioni che, undici anni prima, lo stesso Levinas aveva dedicato al tema dell’interiorità in Totalità e Infinito.

Nella sezione seconda dell’opera suddetta, infatti, il nostro autore aveva individuato nella dimora il luogo dell’interiorità, lì emergeva chiaramente il legame con lo spazio, ma non solo: l’a-casa propria, l’intimità e la familiarità che costituivano l’interiorità, in realtà presupponevano l’essere femminile, condizione dell’accoglienza e dell’ospitalità. La donna, quindi, in accordo a Levinas, faceva di una casa «luogo d’accoglienza», l’essere femminile infatti era «accoglienza ospitale per eccellenza», discrezione, «accoglienza ospitale in sé prima dell’etico» e, soprattutto, ciò che rendeva il proprietario della casa un «guest». Alla luce di tutto ciò, possiamo affermare che le analisi levinassiane di Totalità e Infinito presentano l’idea secondo cui la dimensione dell’interiorità è la femminilità stessa.53

La dimora lascia intravedere la metamorfosi dello stesso soggetto, infatti l’«host» si scopre «guest» e scorge le tracce di una compagnia pre-originale, cioè un’interiorità che lo ha accolto in un passato immemorabile: L’io è ospite di se stesso perché è donato a se stesso. Stando così le cose, il femminile che è presenza silenziosa nella dimensione interiore del soggetto, svela all’io il suo stato di passività originaria pur restando immanenza legata alla dimensione spaziale dell’abitazione.

In Totalità e Infinito Levinas aveva anticipato già il fatto che il femminile non è una realtà empirica, bensì «uno dei punti cardinali in cui si situa la vita interiore». La dimensione di femminilità, quindi, veniva intesa qui come «accoglienza della dimora».54

Nell’Umanesimo dell’altro uomo l’interiorità diviene trascendenza. Pur non essendo mai citato, infatti, appare chiaramente come il femminile ci conduca verso la trascendenza dell’io, cioè verso un nuovo concetto di interiorità che implica una passività pre-originale in cui la soggettività diviene responsabilità; tuttavia, se prima lo era a partire da un’accoglienza silenziosa, quella del femminile, condizione dell’etica stessa, ora la sua trasformazione avviene prima del tempo, cioè prima della possibilità di dire «sì». Questa responsabilità anarchica implica un’ubbidienza anteriore al ricevimento di ordini, essa precede la presentazione del comandamento che obbliga alla responsabilità, cioè libera l’io da sé ordinandolo all’altro:

La passività è l’essere dell’al di là dell’essere, del Bene, che il linguaggio ha tutte le ragioni di circoscrivere —tradendo, naturalmente, come sempre — in queste due parole: non-essere; la passività è il luogo — o più precisamente, il non-luogo — del Bene, il suo far eccezione alla regola dell’essere, sempre scoperto nel Logos, il suo eccettuarsi dal presente. […] È la responsabilità che oltrepassa la libertà, vale a dire la responsabilità per gli altri. È la traccia di un passato che si nega al presente e alla rappresentazione, traccia di un passato immemorabile.55

L’interiorità, passività inassumibile, è il «non-luogo» del Bene, ovvero «traccia di un passato immemorabile» identificato dal nostro autore come «l’essere dell’al di là dell’essere». La trascendenza diviene qui struttura etica, il richiamo platonico è evidente: come il Bene al di là dell’essenza (epékeina tes ousìas) non può essere espresso in termini di essere (infatti il linguaggio nel tentativo di portare alla luce l’ineffabile, lo tradisce) poiché il primo precede il secondo, così il comandamento indicato da Levinas non può essere posto a livello di coscienza (quindi di arbitrio) in quanto essa gli è posteriore; questa prescrizione è elezione immediata alla responsabilità.

Se in Totalità e Infinito la dimora, in cui la figura della donna recitava il ruolo fondamentale dell’accogliente per eccellenza, era una casa assegnata attraverso la scelta di un’elezione, nell’Umanesimo dell’altro uomo l’interiorità diviene una breccia sul passato anarchico, momento in cui l’io è scelto e si costituisce pre-originariamente come risposta: prima di essere volontà, infatti, l’io diventa me ed è anarchicamente sottomesso al Bene. Nell’Umanesimo dell’altro uomo, la dimensione di femminilità che in Totalità e Infinito compariva come «condizione pre-etica dell’etica» e «accoglienza della dimora», diviene origine anarchica dell’etica, accoglienza pre-originaria che «ha luogo in un luogo non appropriabile ed in un’interiorità aperta»; essa diviene elezione al Bene, responsabilità anarchica ed incondizionata, trascendenza che lascia dietro di sé le tracce di una gratuità infinita:

Proprio in questa prospettiva, aperta dall’irrecusabile responsabilità per gli altri — o dalla positività del Bene — sarà possibile, forse, dire la creazione ex nihilo: passività che esclude persino la recettività, perché nella creazione ciò che sarebbe in grado di assumere, al livello minimo, l’atto — come materia che assume, grazie alle sue potenze, la forma che la permea — non sorge se non dopo che l’atto creatore sia stato compiuto. Tesi che non ha la pretesa — o la debolezza — di arrivare a coincidere con l’affermazione dogmatica della creazione.56

Attraverso la femminilità siamo giunti ad una dimensione di passività originaria che rinvia alla possibilità di pensare la gratuità e la misericordia infinita della creazione dal nulla, momento in cui l’io è donato a se stesso: la creatio ex nihilo, infatti, comporta la pienezza di un amore (agape) in virtù del quale l’origine anarchica dell’etica e l’accoglienza assoluta trovano il loro senso ultimo. La femminilità che ci ha condotto verso l’anarchia, diviene traccia di una dimensione pre-originale a partire da cui scaturisce la possibilità del senso; pertanto, a nostro giudizio, risulta possibile individuare nell’origine anarchica dell’etica il luogo stesso della femminilità.

Levinas non introduce la creazione come «concetto ontologico», cioè non vuole partire dal dato per risalire alla causa prima; la nozione di creazione non può essere neanche una tesi che finisca per coincidere con un’«affermazione dogmatica» poiché se così fosse l’io si presumerebbe increato e quindi in grado di contestare la creazione stessa. Essa non può essere rappresentata perché non è mai stata presente nella coscienza, tuttavia, noi, attraverso la passività inassumibile dell’interiorità, possiamo scorgerne le tracce. La creaturalità del soggetto si colloca nell’ambito di una responsabilità anarchica che supera la libertà, quindi l’io in quanto creatura è un ente situato nella trascendenza che gli impedisce di essere ricondotto ad una totalità. Nella creazione, infatti, l’infinito, contraendosi, produce l’essere e quindi si ritira dalla dimensione ontologica per lasciare un posto all’«essere separato».57 La contrazione creatrice dell’infinito è gratuità; grazie ad essa, quindi, l’uomo si pone come assoluto, ovvero come «per sé senza essere causa sui»: la creazione, infatti, implica la limitazione dell’infinito creatore per favorire la libertà della creatura.58

Dalla creatio ex nihilo, dunque, scaturisce la possibilità per il soggetto di essere inizio a se stesso; paradossalmente, per il nostro autore, la separazione, l’interiorità, lo psichismo e persino l’ateismo recano in se stessi l’affermazione di una gratuità pre-originaria di cui ogni essere umano, inconsapevolmente, conserva le tracce. La creazione, infatti, dona all’uomo la possibilità di porsi come auto-realizzazione continua e quindi come libertà, ma essa lascia alla creatura la traccia di una «dipendenza eccezionale»: il dipendente trae da questa dipendenza, che è relazione, la sua stessa indipendenza.59 Stando così le cose, Levinas, evitando di trattare in termini di ontologia il rapporto tra Dio e la creatura, sviluppa l’idea secondo cui «un essere libero affonda le sue radici nell’infinito di un Dio».60

In questa nuova prospettiva, dunque, muta anche il concetto di libertà: essa non consiste più nel primato del soggetto (autonomia), bensì si presenta come «investitura». Nel contatto Bene-soggetto, infatti, il primo si incide sul secondo trasformando la libertà in elezione alla responsabilità; così, il fine di ogni uomo consiste ora nel divenire ostaggio dell’altro. Il soggetto, infatti, prima di essere in riferimento all’essere si rapporta alla sua elezione: non si parte più dall’essere, ma dal Bene. Ciò nonostante, l’io incarnato, presente nell’essere come volontà ubbidiente, costituisce la tentazione di separarsi dal Bene: il momento in cui il soggetto pensi a se stesso è la possibilità del male, cioè l’egoismo dell’io che si pone come la propria origine negando così la possibilità della creazione. Nell’«interessamento» c’è l’illusione di aver rotto l’anarchica sottomissione al Bene, ma il male, secondo il nostro autore, non può «disdire ciò che il soggetto non ha mai negoziato» infrangendo così «la passività della soggezione pre-liminare»: il male, infatti, è al secondo posto, ovvero è posteriore al Bene.61

La bontà anarchica può cedere il posto all’idiosincrasia, questo accade spesso e significa dimenticare ciò che precede l’origine, ma, secondo Levinas, questa dimenticanza resterebbe seconda e confermerebbe ciò che rimuove e nega: l’odio, l’inospitalità e la responsabilità condizionata dall’arbitrio testimoniano che tutto inizia con il loro contrario, cioè con l’ospitalità incondizionata e con la responsabilità indeclinabile; tuttavia alcune questioni restano aperte.

Come può, altresì, l’umano ridefinirsi scovando la via che lo condurrà al «disinteressamento» e quindi vincere il conatus essendi trovando le tracce del dire ad esso anteriore, responsabilità pre-istorica ed anarchica? È possibile per l’io riscattare quella gratuità anarchica che lo ha pre-originariamente donato a se stesso rendendolo, così, ostaggio di tutti? Ed infine, che rapporto sussiste tra la misericordia infinita della Creatio ex nihilo e la dimensione di femminilità? Tali questioni saranno affrontate considerando alcuni passaggi di Altrimenti che essere, opera fondamentale nell’itinerario levinassiano.

5. Altrimenti che essere

Nel capolavoro del 1974, il nostro autore giunge definitivamente ad individuare quella «nuova via» che, fin dal saggio L’Évasione, aveva costituito la stella polare della sua prospettiva filosofica; è davvero possibile vincere il conatus essendi trovando così le tracce di una responsabilità anarchica? Secondo la nostra tesi è proprio in questo capovolgimento epocale che, anche se indirettamente e senza nessun riconoscimento esplicito da parte di Levinas, risulta fondamentale la dimensione di femminilità; in un certo senso potremmo anticipare già che sussiste un legame non poco rilevante tra la femminilità e l’altrimenti che essere, ma è meglio fare un passo indietro e procedere con ordine.

Il nucleo di Altrimenti che essere è espresso impeccabilmente dalle riflessioni che, nel 4º capitolo, il nostro autore dedica al tema della sostituzione, punto in cui l’itinerario levinassiano sembra giungere al suo esito ultimo. La maggior parte di questo capitolo era già comparsa nel 1968 nella Revue philosophique de Louvain con il titolo di «La substitution», ma è lo stesso Levinas che, respingendo l’idea secondo cui Altrimenti che essere fosse solo una raccolta di articoli, nella «Nota preliminare», ci tiene a precisare che il libro in questione ha preceduto nella sua prima redazione i testi pubblicati e che proprio il capitolo 4º ne costituisce la parte centrale.62 La sostituzione, secondo il nostro autore, rappresenta la vera risposta alla domanda sull’autenticità dell’umano, infatti è proprio lì che la soggettività ritrova il suo senso ultimo: se in Totalità e Infinito venivano individuati possibilità e limiti di una trascendenza verso cui il soggetto era in tensione, in Altrimenti che essere la stessa trascendenza, situandosi nel cuore dell’umano, diviene fonte generatrice di senso capace di trasformare la soggettività in struttura etica. Qui risulta rilevante la nozione di anarchia la quale è direttamente connessa al mistero della sofferenza: il dolore, infatti, scaturisce dall’interruzione dell’auto-possesso dell’io. Il pre-intenzionale, cioè il fatto stesso che qualcosa preceda la coscienza e l’attività del soggetto pur riguardandolo nella sua interiorità, pone l’io in una condizione di scacco e di vertigine di fronte ad un abisso: egli scopre con sconcerto di non essere né padrone, né principio di se stesso, infatti qualcosa eccede le sue possibilità e si presenta come mistero indecifrabile, indicibile ed inquietante; silenzio soffocante che incombe su di lui in quanto angoscia dell’ignoto. Questa invisibile presenza, traccia di un’origine anarchica, diviene allora «contatto», «persecuzione» ed «ossessione»:

Irriducibile alla coscienza, anche se la sconvolge — e, così tradita, non tematizzata nel detto in cui essa si manifesta — l’ossessione attraversa la coscienza controcorrente, inscrivendosi in essa come estranea: come squilibrio, come delirio, disfacendo la tematizzazione, sfuggendo al principio, all’origine, alla volontà, all’archè che si produce in ogni barlume di coscienza. Movimento, nel senso originale del termine, anarchico. […] L’anarchia arresta il gioco ontologico che, precisamente in quanto gioco, è coscienza in cui l’essere si perde e si ritrova e, così, si chiarisce. […] L’impresa dell’altro si esercita sul medesimo al punto di interromperlo, di lasciarlo senza parole: l’anarchia è persecuzione. L’ossessione è persecuzione: qui la persecuzione non costituisce il contenuto di una coscienza divenuta follia; esso designa la firma secondo la quale l’io si addolora, che è una defezione della coscienza.63

Nella coscienza, quindi, trova luogo la passività dell’ossessione, un patire che affonda le sue radici al di là della stessa coscienza, qui si sta parlando di una «messa in questione anteriore all’interrogazione» e di «una responsabilità al di là del logos della risposta», cioè di una persecuzione che trova il suo senso ultimo nell’ambito di un’elezione pre-originaria che l’io subisce e dalla quale scaturisce una responsabilità incondizionata verso il mondo; io non posso non andare incontro all’altro, non posso esimermi dal testimoniare la Parola ascoltata, cioè non posso fare a meno di trasformarmi in dono per il prossimo: ecco la vera persecuzione! È proprio nel mistero della sofferenza che trovano la loro unione responsabilità e persecuzione; infatti la capacità di soffrire da parte di altri (la persecuzione subita) diviene la maniera principale in cui l’io esercita la responsabilità, «come se la persecuzione attraverso altri fosse al fondo della solidarietà con altri».64

Come è possibile che ciò avvenga? Da dove proviene la disfatta dell’auto-referenzialità dell’io? Levinas individua la fonte da cui si genera ogni gesto di solidarietà nel rovesciamento della soggettività che sospende l’avida autonomia dell’io; anche la gentilezza più semplice come quella del saluto, infatti, reca con sé la traccia dell’«altrimenti che essenza»:

Il subire a causa di altri è pazienza assoluta solo se questo a causa di altri è già per altri. Questo transfert — altro che interessato, altrimenti che essenza — è la soggettività stessa. Presenti la guancia a chi lo percuote e sappia saziarsi anche di oltraggi [Lam. 3,30] ; chiedere nella sofferenza subita questa sofferenza (senza fare intervenire l’atto che sarebbe l’espressione dell’altra guancia), non significa trarre dalla sofferenza una qualche virtù magica di riscatto, ma passare, nel trauma della persecuzione, dall’oltraggio subito, alla responsabilità per il persecutore, e in questo senso, dalla sofferenza all’espiazione per altri.65

Alla luce di queste considerazioni, la soggettività ora si presenta come «rigetto verso sé» e responsabilità di ciò che gli altri fanno o soffrono. L’unicità dell’io, pertanto, consiste nel fatto di portare su di sé l’intera colpa dell’umanità, ma questa condizione di passività illimitata si percepisce solo in quanto persecuzione; senza quest’ultima, infatti, «l’io solleverebbe la testa e coprirebbe il sé».66 Questa nuova soggettività prospettata da Levinas, presentandosi come coincidenza dell’altro nel medesimo senza che quest’ultimo lo inglobi, risulta a tutti gli effetti una non-identità; pertanto la responsabilità dell’ossessione, cioè la responsabilità per altri, consiste nell’uscire da sé disintegrando l’identità stessa. L’io che in Totalità e Infinito si era scoperto «ospite» ora diviene «ostaggio di tutti»:

L’ipseità, nella sua passività senza archè dell’identità, è ostaggio. La parola io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti. La responsabilità per gli altri non è stata un ritorno a sé, ma una contrazione esasperata che i limiti dell’identità non possono trattenere.67

Il momento cardine della ridefinizione dell’umano è, per Levinas, il gesto del sacrificio estremo che costituisce la rottura autentica con l’ontologia e, di conseguenza, con la coincidenza dell’io con sé. Nell’incontro con altri il soggetto scopre la sua pre-originaria responsabilità, tuttavia l’autentica responsabilità verso qualcuno è attuabile soltanto «sostituendosi» a questi, cioè attraverso l’immolazione. Solo grazie al sacrificio della propria vita, infatti, è possibile realizzare la trascendenza all’interno dell’io e quindi uscire definitivamente dall’ontologia. L’altrimenti che essere, secondo il nostro autore, consiste proprio nel «disinteressamento», cioè nel farsi carico della miseria, della sofferenza dell’altro e persino della responsabilità che questi può avere nei confronti del medesimo; gesto quest’ultimo che è espresso dalla condizione di ostaggio, emblema della nuova soggettività: l’io ha sempre un grado di responsabilità in più, la responsabilità per la responsabilità dell’altro; ossessione e persecuzione le cui conseguenze conducono all’offerta di sé.

Ricapitolando potremmo dire che l’idea di espiazione per altri significa un altrimenti che essere e giustifica definitivamente il motto platonico che guida Levinas fin dalle sue prime opere: il Bene al di là dell’essere. Ciò riguarda anche l’essere proprio, infatti la perdita della coincidenza dell’io con sé, nel gesto estremo del sacrificio, significa la morte dell’io come compimento di un’adesione totale di quest’ultimo al Bene che precede l’essere, che elegge l’io in un passato mai stato presente e che rende il soggetto unico nella sua condizione di ostaggio. Per realizzare veramente se stesso rispondendo all’appello pre-originario che si incarna nella chiamata inscritta nel volto dell’altro, il soggetto non può che negare il suo arbitrio offrendosi totalmente ad altri: soltanto in questa responsabilità di ostaggio è possibile scorgere le tracce dell’assoggettamento anarchico al Bene; la precedenza della responsabilità sulla libertà (intesa come arbitrio), infatti, rivela proprio la bontà del Bene. L’io, quindi, attraverso il percorso levinassiano, si riduce a «susceptio pre-originaria» e «passività anteriore ad ogni recettività».68 La passività dell’io, nella passione, è spinta al suo limite estremo, pertanto la «sostituzione di ostaggio» costituisce l’unicità autentica del soggetto: l’io può sostituirsi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a lui. La soggettività levinassiana, dunque, è ostaggio, responsabilità, sottomissione ed espiazione anteriore all’iniziativa della volontà, essa infatti, regge l’universo nella passività della convocazione che diviene così persecuzione indeclinabile e sottomissione al sacrificio; ma, poiché non c’è sacrificio senza immolazione, l’elezione anarchica alla responsabilità conduce l’io verso la spogliazione e la morte per la vita dell’altro. L’assunzione volontaria della morte come via per la vita consente, allora, di trasformare l’odio e l’allergia nei confronti dell’altro in ospitalità incondizionata la cui radice è la responsabilità anarchica.

La responsabilità è sempre addossamento a se stessi e mai ad un altro, così il perseguitato è responsabile della sofferenza che subisce nonostante la sua innocenza. Alla luce di tutto ciò, sorgono degli interrogativi inquietanti… In cosa consiste, per esempio, la colpevolezza che qui è in gioco? Quale è il senso della sofferenza che la persecuzione causa all’io?

In Altrimenti che essere non c’è una risposta chiara ed esplicita a queste domande, per il nostro autore, infatti, è impossibile conoscere il luogo da dove proviene la persecuzione poiché la stessa responsabilità che rende l’io ostaggio, è il risultato di un’elezione avvenuta in un passato assoluto in cui il soggetto neppure esisteva. L’io, infatti, non è contemporaneo della creazione ed il mondo non si modella a seconda dei suoi progetti. Stando così le cose, risulta chiaro il motivo per cui, nelle pagine di Levinas, siano assenti riflessioni sull’origine del male.69

Ciò nonostante, nella sua condizione di ostaggio, l’io scorge una traccia; è come se la sofferenza nascondesse dietro la sua tragicità una possibilità ulteriore di senso: la possibilità della salvezza.

A tal riguardo, una nota di Levinas potrebbe risultare decisiva:

L’incarnazione del sé e le sue possibilità di dolore gratuito devono essere comprese in funzione dell’accusativo assoluto del sé, passività al di qua di ogni passività in fondo alla materia che si fa carne […].

Ma bisogna percepire nel carattere anarchico della sofferenza, una sofferenza a causa di ciò che la mia sofferenza ha di pietoso, che è una sofferenza per Dio che soffre della mia sofferenza. Traccia anarchica di Dio nella passività.70

L’uomo nella passività della sofferenza scopre la traccia di Dio, cioè di un «valore unico» che non può darsi mai come tema, concetto o rappresentazione e che appartiene ad un «passato assoluto» ed «irriducibile a presenza», cioè ad una dimensione anarchica.71 Secondo Levinas il termine Dio risulta dicibile solo per abuso linguistico ed è proprio per questa ragione che, nell’opera in questione, esso si trova raramente. Questa prospettiva, insieme al fatto che il perseguitato è accusato prima della libertà e quindi prima di una sua possibile colpa, ci permette di escludere l’interpretazione della sofferenza come punizione: la vittima è caratterizzata da un’«inconfessabile innocenza».

Al contrario di quanto si possa pensare, l’innocenza della vittima rinvia alla «bontà della creazione»; infatti la persecuzione implica un’elezione senza mediazione dell’essere e rinvia ad un passato assoluto in cui una misericordia infinita, nella sua contrazione anarchica, crea l’io donandolo a se stesso. Pensare Dio nell’ottica levinassiana significa scorgere le tracce di una gratuità pre-originale o valore unico che elegge l’io prima che quest’ultimo sia in grado di volerlo. A questo valore è impossibile sfuggire, il soggetto porterà per sempre le tracce di quel contatto come un timbro indelebile nella propria interiorità:

l’impossibilità di sfuggire a Dio (che almeno in questo, non è un valore fra valori) abita in fondo all’io come sé, come passività assoluta. Passività che non è soltanto la possibilità della morte nell’essere, la possibilità dell’impossibilità, ma impossibilità anteriore a questa possibilità, impossibilità di sottrarsi; suscettibilità assoluta, gravità senza alcuna frivolezza, nascita di un senso nell’ottusità dell’essere, di un poter morire sottomesso al sacrificio.72

La passività che abita l’umano, per il soggetto che è nell’essere, non è solo possibilità della morte, ma un’«impossibilità anteriore», «suscettibilità assoluta», comando che giunge da un altrove e che rende l’io «imparentato» con il Bene.73 È per questo che il male, pur presentandosi alla coscienza dell’io come persecuzione, nello stesso tempo, diviene condizione di possibilità per la salvezza del soggetto: l’io è eletto alla persecuzione, ma, contemporaneamente, è salvato da quest’ultima.

Nella sofferenza la coscienza prova sdegno ed orrore nei confronti del male rivelando, indirettamente, la propria associazione al Bene. Dall’orrore e dall’ossessione causati dalla gratuità del male che colpisce l’io innocente, si giunge così al Bene, cioè alla possibilità stessa della teofania richiamata, per altro, dalla «scrittura impronunciabile» con cui termina Altrimenti che essere (questo punto sarà analizzato fra poco).

Il capovolgimento del male si realizza attraverso la misericordia dell’innocente, infatti nel sacrificio, offerta di sé in sostituzione dell’altro, il dolore trova il suo senso nel perdono. Sofferenza e morte sono oltrepassate dalla misericordia, pertanto il sacrificio riposa non nel dolore, ma nella pienezza della gratuità dell’amore (agape). La compassione umana è un sentimento di debito, infatti non si può rispondere alla creazione dal nulla con la stessa gratuità, l’unica via umana di riscatto consiste nell’assumere su di sé il male dell’altro come offerta, cioè come risposta al dono dell’elezione pre-originaria.

L’io levinassiano, quindi, non ha più una dimensione propria, il se stesso è messo in questione dall’altro: la soggettività trova la sua ridefinizione nella negazione del sé e nel fatto che l’io si mette in cammino verso un tempo che non è più il suo, ma dell’altro. Pertanto, solo nel sacrificio l’umano introduce nell’essere la pienezza del senso; infatti è proprio nella gratuità che trova vera luce il mistero dell’uomo: essa è pienezza di senso che sconquassa l’essere nell’evento del dono di sé.

Attraverso il mistero della sofferenza siamo giunti alla verità della misericordia; in questo modo si passa dal silenzio umano, momento in cui il soggetto si pone come essere separato (psichismo e ateismo), a quello divino in cui l’io, negando se stesso per far posto all’altro, nella sua incondizione di ostaggio scopre la traccia di Dio:

In questa opera che non cerca di restaurare nessun concetto decaduto, la de-stituzione e la de-situazione del soggetto non restano senza significato: dopo la morte di un certo dio abitante dietro ai mondi, la sostituzione dell’ostaggio scopre la traccia — scrittura impronunciabile — di ciò, che sempre già passato — sempre esso (il) — non entra in nessun presente e a cui non convengono più i nomi designanti gli esseri, né i verbi in cui risuona la loro essenza — ma che, pro-nome, segna col suo sigillo, tutto ciò che può portare un nome.74

Questo è il punto di arrivo di Levinas: la possibilità della redenzione si gioca attraverso il sacrificio dell’io che nel dono della propria vita riscatta la sua elezione pre-originaria trasformandosi, così, in dono per l’altro. Nella sostituzione è possibile scoprire la traccia di Dio che, assente e distante, diviene presente in virtù dell’azione umana che gli rende testimonianza nella misericordia; ma è proprio qui che il filosofo lituano sembra interrompersi… Il cuore di Altrimenti che essere, infatti, sembrerebbe esaurirsi nella dinamica del disinteressamento sviluppata dall’autore nel corso dell’opera in questione, allora verrebbe spontaneo chiedersi come mai, all’interno di un’indagine sul femminile, ci si sia soffermati a lungo sulla sostituzione e sull’anarchia; temi, questi ultimi, che non sembrerebbero affatto legati con le analisi sull’essenza femminile. Alla luce del percorso fin qui esaminato, la connessione dell’altrimenti che essere con la dimensione di femminilità presentata più volte in queste pagine, risulterebbe infondata, sia per l’assenza del termine, poiché nell’opera in questione il femminile non è mai citato, sia per l’evidente inconsistenza semantica; tuttavia alcune questioni restano aperte. Tenerezza, pietà, responsabilità e misericordia, termini questi ultimi che rimandano ad una dimensione pre-originaria, non sono forse espressioni di un linguaggio tipicamente femminile?

Nell’ultima pagina di Altrimenti che essere (alcune righe prima della citazione precedente), Levinas, quasi involontariamente, fa trasparire dalle sue considerazioni alcuni indizi che, una volta analizzati, potrebbero favorire nuovi orizzonti possibili di indagine:

Per il poco di umanità che orna la terra è necessario un allentamento dell’essenza al secondo grado: nella giusta guerra alla guerra, tremare — ancora fremere — in ogni istante, a causa di questa giustizia stessa. È necessaria questa debolezza. Era necessario quest’allentamento senza viltà della virilità per il poco di crudeltà che le nostre mani ripudieranno.75

Queste ultime frasi di Levinas, oltre a sintetizzare tutto il suo percorso filosofico, presentano alcuni punti enigmatici che, una volta analizzati e connessi con altri frammenti sparsi in tutta la sua opera, potrebbero risultare indizi importanti in vista di un’interpretazione alternativa sul senso profondo dell’altrimenti che essere.

Nel passo sopra citato, l’urgenza del nostro autore consiste sempre nell’uscire dall’ontologia invertendo la tendenza dell’essenza (la cui massima espressione consiste nello scontro e quindi nella guerra), ma i termini usati per descrivere questo «disinteressamento» ci appaiono quantomeno sorprendenti: il capovolgimento passa attraverso «la debolezza». Quest’ultima costituisce la via che conduce verso un «allentamento dell’essenza»; secondo Levinas infatti, è grazie ad essa che l’avversione al conatus essendi diviene una «giusta guerra alla guerra». Ma la «debolezza» non è tradizionalmente uno dei tratti femminili per eccellenza?

La frase immediatamente successiva sembra eliminare ogni possibile dubbio. Quello che precedentemente era stato definito come «allentamento dell’essenza» ora diviene «allentamento senza viltà della virilità»: la debolezza come risposta possibile alla violenza della guerra è messa in opposizione alla virilità, tipico tratto maschile caratterizzato dalla potenza, dall’attività e dal possesso. È come se Levinas ci stesse dicendo che tutto il suo percorso consiste nel passaggio da un punto di vista maschile ad uno femminile e che la gratuità, espressa in molteplici forme (perdono, prossimità, responsabilità, espiazione per altri), costituisce la pura dimensione femminile radicata nel cuore di ogni essere umano. Se queste supposizioni fossero vere, allora il senso autentico dell’umano, secondo Levinas, sarebbe profondamente connesso con la femminilità. Ma ospitalità, misericordia, responsabilità e sacrificio, in fondo nascondono ancora un residuo di maschilismo oppure appartengono effettivamente ad un linguaggio femminile?

Diverse sono le testimonianze che meriterebbero di essere citate, tuttavia ci limiteremo ad evocare esclusivamente tre voci.

Carolina Carriero, nell’articolo dal titolo: Il paradigma della corporeità nel pensiero femminile: l’oblazione come oltrepassamento della responsabilità etica verso l’altro, conclude le sue analisi affermando che «il pensiero femminile diviene il riflesso della capacità umana d’amare».76 Secondo l’autrice, infatti, l’amore che Adamo provò nei confronti di Eva lo condusse verso «una più profonda comprensione di sé e del proprio destino», fino al punto che, nello stesso istante in cui la guardò, egli acquistò «la vocazione a morire a sé per essere amore per l’altro». Alla luce di queste nuove considerazioni, le forme di gratuità ed in particolare l’immolazione per altri, non solo appartengono ad un linguaggio femminile, ma sono generate addirittura da un’originaria dimensione di femminilità: è da Eva, infatti, che si origina l’amore che Adamo sente accadere dentro di sé e soltanto a partire da quel momento egli è realmente in grado di dare la vita per lei.

Queste conclusioni trovano conferma nei risultati di alcune ricerche scientifiche svolte da Carol Gilligan, la quale, in un noto studio del 1982 (Con voce di donna: etica e formazione della personalità), caratterizzando l’etica maschile in termini di giustizia, diritti, norme e l’etica femminile in termini di responsabilità, compassione ed interdipendenza, giunse a distinguere la natura delle due etiche in virtù dei diversi percorsi di evoluzione psicologica che ciascun sesso intraprende. Secondo Gilligan lo sviluppo dell’identità maschile è molto diverso da quello femminile, infatti per l’uomo la «separazione» e l’«individuazione» sono profondamente connesse allo sviluppo dell’identità sessuale, laddove per la donna sono in diretta opposizione. Ciò è spiegato dal fatto che, mentre per lo sviluppo dell’io maschile è essenziale la «separazione» dalla madre, per quello femminile risulta fondamentale l’«attaccamento»; sicché, mentre i maschi sono minacciati dall’«intimità» e tenderanno quindi ad avere problemi di rapporto, le donne risultano intimorite dalla «separazione» e avranno problemi di «individuazione».77

Attraverso queste analisi, dunque, risulta evidente il motivo per cui un’etica caratterizzata dalla sensibilità ai sentimenti, dalla compassione e, soprattutto, dalla responsabilità per gli altri, sia considerata come femminile: l’evoluzione della donna non passa, come quella dell’uomo, attraverso il perseguimento di valori astratti, universali ed impersonali (cioè la formazione canonica di una coscienza morale), bensì attraverso la capacità di immedesimarsi negli altri e nelle loro sofferenze. Alla luce di queste considerazioni, quindi, l’estremo gesto del sacrificio su cui si incentra Altrimenti che essere, appare sempre più come il compimento di un percorso proteso verso la piena realizzazione di un’etica femminile.

A questo punto ci sembra opportuno evocare la voce di Giovanni Salmeri che, nell’articolo dal titolo: L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas (del quale in queste pagine c’è molto più che una semplice citazione), in virtù delle teorie di Gilligan, giunge a prospettare un’interpretazione dell’itinerario levinassiano suggestiva e, per certi aspetti, rivoluzionaria:

Se questa ipotesi è fondata [le teorie di Gilligan], bisognerebbe concludere che il mutamento di prospettiva adottato da Levinas nel passaggio da Totalità e Infinito ad Altrimenti che essere ha ottenuto i suoi effetti in modo ancora più perfetto di quanto esplicitamente dichiarato: la femminilità scompare — è vero — da una considerazione esplicita, perché non viene più tematizzata la trascendenza verso l’altro, ma il fatto che la trascendenza ora avvenga nel soggetto fa sì che la femminilità venga descritta dentro ad esso, venga anzi identificata con la soggettività stessa, come se l’umanità stessa non fosse pensabile senza una matrice di femminilità — di tenerezza e di accoglienza — alla sua base.78

Secondo questa tesi, alla quale noi ci associamo, il femminile spinge Levinas a riformulare la stessa nozione di soggettività umana fino a scorgere in essa le tracce di una misericordia anarchica che, da sempre presente e mai tematizzabile, costituisce il mistero profondo dell’umano. Secondo questa prospettiva, infatti, alla base della nuova soggettività levinassiana ci sarebbe una matrice femminile pre-originaria riscontrabile nell’accoglienza, nella responsabilità e nella prossimità. In parte, ciò sarebbe confermato da Totalità e Infinito, opera in cui Levinas individua la condizione di possibilità della stessa ospitalità umana in un’accoglienza pre-originaria (o gratuità anarchica) di cui il soggetto può scorgere solo una traccia. Pur accettando queste analisi, restano da chiarire alcune questioni. Per esempio, alla luce di questa nuova dimensione di femminilità quale diverrebbe il significato autentico dell’«altrimenti che essere»? La femminilità sarebbe in un certo senso connessa con la misericordia infinita della creazione dal nulla?

6. Misericordia e Shekhinah

In «Essenza e disinteressamento» (1º cap. di Altrimenti che essere), Levinas spiega che l’altrimenti che essere non equivale né all’essere altrimenti, né al non essere poiché «l’essere dell’essere domina lo stesso non essere»; infatti tra i due si crea una sorta di «dialettica speculativa» secondo cui il vuoto lasciato dal non essere è subito riempito dall’anonimia del c’è. Per il nostro autore, quindi, il problema della trascendenza non risiede nella falsa dicotomia essere-non essere, bensì in una differenza radicale che eccede i due termini in questione: l’altrimenti che essere o «altro dell’essere», pertanto, implica una «differenza al di là di quella che separa l’essere dal nulla» e questa differenza è trascendenza.79

Alla luce delle considerazioni levinassiane e, soprattutto, della tesi secondo cui la femminilità venga identificata con la stessa soggettività, Giovanni Salmeri, nel suo articolo, pone una domanda che, a nostro avviso, risulta fondamentale per il prosieguo della presente trattazione:

Insomma: se l’altrimenti fosse inteso come negazione, ciò che si otterrebbe sarebbe ancora una volta l’anonimità, il neutro, ma non è allora così confermata l’ipotesi prima formulata, che cioè nel pensiero di Levinas, più meno coscientemente, sia la femminilità (qui intesa come capacità di compassione e di tenerezza) ad evitare che l’universalità dell’essere si rivolti nell’indecifrabilità di un brusio?80

Questa domanda raggiunge il cuore di Altrimenti che essere e quindi il senso ultimo del percorso filosofico di Levinas; infatti, se queste ipotisi fossero fondate, la femminilità non rappresenterebbe soltanto una via in grado di condurci verso l’altrimenti che essere, bensì costituirebbe l’essenza stessa della nuova soggettività: paradossalmente l’altrimenti che essere andrebbe a coincidere con la stessa femminilità.

A questo punto verrebbe spontaneo chiedersi quale sia, all’interno delle opere di Levinas, il vero significato del termine femminilità o dimensione femminile e, soprattutto, se l’ipotesi presentata prima attraverso l’articolo di Giovanni Salmeri possa essere legittimata da alcuni dati.

Per quanto riguarda il senso della femminilità saremo più chiari in seguito, per ora possiamo solo dire che compassione, responsabilità, ospitalità e misericordia implicano l’essenza femminile; invece per ciò che concerne la questione delle prove, è lo stesso Levinas che nel corso delle sue opere ci lascia degli indizi preziosi.

È come se ci trovassimo di fronte ad un percorso, quello levinassiano, che pur giungendo ad un vero e proprio ribaltamento del paradigma occidentale, lasci, tuttavia, alcuni fili pendenti che, una volta connessi, possano favorire nuovi possibili orizzonti di interpretazione.

L’ipotesi di Salmeri è corroborata da almeno quattro indizi.

Il primo si trova nella metamorfosi dell’io in relazione con il tempo.

In Il Tempo e l’Altro il soggetto era posto di fronte ad una trascendenza che rimandava ad un futuro assoluto: l’assolutamente altro che metteva in questione l’io era rappresentato dal femminile. L’esistente, nella sua coincidenza con sé, era padrone della sua esistenza e questo dominio veniva identificato con il maschile («virile potere del soggetto», «virilità»e «sovranità», Il tempo e l’altro, p. 27); tuttavia l’interruzione di questa tendenza (che in Altrimenti che essere sarà definita come «allentamento senza viltà della virilità», p. 229) avveniva grazie al femminile inteso come «alterità per eccellenza» e «mistero» che sfugge ad ogni tentativo di presa della coscienza; così il femminile diveniva la «trascendenza temporale di un presente verso il mistero dell’avvenire». In questo periodo il nostro autore giunge ad identificare il tempo con l’alterità femminile; alla luce di ciò, secondo l’ottica levinassiana, nel momento stesso in cui Eva viene creata, Adamo non solo è in grado di dire io poiché instaura la sua prima relazione autentica, ma, e questa è la vera novità, attraverso il rapporto con Eva egli, per la prima volta, entra in relazione con il tempo: è come se Levinas ci stesse dicendo che, per il maschile, il tempo nasce con la comparsa di un tu femminile. Questo punto di vista ancora palesemente maschile, cambierà radicalmente nel corso delle sue opere.

In Totalità e Infinito il femminile, pur essendo immanenza, diviene «l’accogliente per eccellenza» che abita la dimora prima di qualsiasi altro abitante; solo in virtù della presenza femminile, infatti, è possibile un’interiorità.

Qui il tempo che in precedenza veniva inteso come futuro assoluto trascendenza ed esteriorità, sembra mutare improvvisamente e divenire quindi una dimensione interiore proiettata verso il passato; esso comincia ad abitare l’io nella sua profondità e tutto questo grazie alla relazione intima io-tu con la femminilità. (Si veda il paragrafo 3 del presente articolo).

Nell’Umanesimo dell’altro uomo ed in Altrimenti che essere, pur scomparendo il termine «femminile», resta comunque la riflessione sul tempo. Se in Totalità e Infinito l’interiorità rappresentata dall’abitazione era qualcosa di immanente, ora essa rinvia ad un passato mai stato presente, non luogo dell’elezione pre-originaria della soggettività e quindi della passività radicale del soggetto. Il tempo qui diviene proiezione al passato assoluto e quindi possibilità di pensare alla misericordia infinita della creazione, pertanto esso, di nuovo trascendenza, abita l’io e lo de-struttura dall’interno. Se in tutti i testi di Levinas la femminilità è legata all’interiorità e al tempo, allora possiamo affermare che anche in Altrimenti che Essere, pur non essendo mai nominata, essa sia la radice da cui si genera la nuova identità del soggetto.

Secondo queste considerazioni, dunque, grazie alla metamorfosi del tempo, si giunge ad un essere maschile (Il tempo e l’Altro in cui l’auto-possesso dell’io era identificato con il maschile), ad un altrimenti che essere femminile (Umanesimo dell’altro uomo e Altrimenti che essere).81

Seguendo questo percorso levinassiano, attraverso la regressione nel tempo, si giunge così ad individuare la traccia di Dio («scrittura impronunciabile»), ovvero ciò che è «sempre già passato e non entra in nessun presente». Ma allora non è forse possibile azzardare l’ipotesi che senza l’essenza femminile non si giunge alla «scrittura impronunciabile»?

Ad ampliare il dubbio scaturito da quest’ultima domanda c’è un secondo indizio ancora più ambiguo: la diversa considerazione della materialità.

Se in Il Tempo e l’Altro essa era imputata dell’«incatenamento a sé della soggettività», adesso essa viene intesa come incarnazione, cioè diviene la stessa possibilità di una identità intesa come sostituzione. In Altrimenti che essere la sensibilità diviene «esposizione all’altro», segno di una possibilità originaria che rovescia la persistenza dell’essenza. Il corpo diventa condizione di possibilità per la prossimità, poiché è grazie ad esso che l’io può avvicinarsi all’altro e così «dare la propria pelle».82

In ultima analisi, quindi, si passa dalla pesantezza della materia intesa come causa della solitudine (Il Tempo e l’Altro), alla prossimità dove si realizzano ospitalità e misericordia (Altrimenti che essere). Posto che il sacrificio della sostituzione appartiene ad un linguaggio femminile (si vedano le considerazioni di Gilligan e Carriero), è possibile affermare che è grazie all’essenza femminile che nell’altrimenti che essere (sostituzione dell’io che vince l’ontologia) si giunge ad intravedere la traccia di Dio. Secondo questa nostra tesi, infatti, il femminile diviene addirittura la via che conduce alla misericordia di Dio; ma questo sarà chiaro più avanti.

Il terzo indizio è costituito dal tema della misericordia.

Se essa in Totalità e Infinito veniva affidata completamente al figlio, il quale, con la sua nascita, rappresentava l’annullamento della colpa insita in modo necessario nell’identificazione con sé (cioè una «nuova storia perdonata»), in Altrimenti che essere la misericordia diviene espressione della sostituzione.83

L’essenza, nella sua serietà di persistenza nell’essenza, colma ogni intervallo del nulla che verrebbe ad interromperlo. Essa è una compatibilità rigorosa in cui, secondo un’espressione banale, nulla si perde e nulla si crea. […] La libertà nel senso autentico non può essere che una contestazione di questa compatibilità attraverso una gratuità. Questa gratuità potrebbe essere la distrazione assoluta del gioco senza conseguenze, senza tracce ne ricordi, di un puro perdono. O al contrario responsabilità per altri ed espiazione.84

Qui il perdono (o misericordia) è messo a confronto con l’espiazione e la responsabilità per altri; ma esso in quanto simbolo di una nuova soggettività non è forse la risposta dell’io alla gratuità pre-originaria dell’elezione al Bene?

Questa sostituzione che esprime l’originaria dimensione femminile del soggetto non costituisce forse l’immagine di una misericordia infinita da cui è scaturita la creazione stessa?

In Altrimenti che essere il perdono, espresso dalla sostituzione, porta un nome preciso: diviene espressione dell’amore materno; la madre, infatti, non è forse l’emblema della passività e della responsabilità di fronte all’evento del concepimento del figlio? Questo tema costituisce il quarto elemento della nostra trattazione.85

Nel nostro itinerario, il tema della maternità è forse quello più suggestivo poiché riunisce in sé tutti gli altri punti e ci consente così di raggiungere il cuore della nostra tesi. Già in Difficile libertà Levinas si era soffermato sull’importanza del ruolo che la donna ricopre nella vita e nella società umana alla luce della sua matrice giudaica.

In questo testo infatti, a differenza di Altrimenti che essere, sono presenti continui riferimenti alla Bibbia ebraica, al Midrash e al Talmud; pertanto, in tale contesto culturale, il ruolo del femminile in generale e la figura della madre in particolare, assumono una connotazione specifica:

Senza la donna l’uomo non conosce né bene, né aiuto, né gioia, né benedizione, né perdono: niente di ciò di cui un’anima ha bisogno! […] Niente di ciò che trasforma la vita naturale in etica, niente di ciò che permette di vivere una vita, nemmeno la morte che si muore per un altro. Certi dicono che l’uomo senza la donna diminuisce nel mondo l’immagine di Dio. E questo ci conduce verso un’altra dimensione del femminile: la maternità.86

Queste parole di Levinas sono a dir poco sorprendenti, infatti non solo egli indica nella femminilità la via che conduce verso la scoperta del Bene e della misericordia, ma, addirittura, fa di essa la condizione stessa della realizzazione dell’etica nel mondo. A questo punto riteniamo opportuno un ulteriore chiarimento: nell’ottica ebraica la femminilità aumenta nel mondo l’immagine di Dio specialmente se si considera la particolare dimensione femminile rappresentata dalla maternità, poiché essa costituisce la salvezza dell’umanità e permette di «compiere Israele» moltiplicando l’immagine di Dio inscritta sul volto degli uomini. Questa affermazione non si limita soltanto a mettere in luce la funzione biologica della madre, bensì evidenzia una prospettiva escatologica. La maternità, infatti, rimanda al messianismo: grazie ad essa è possibile eccedere i rapporti familiari ed intravedere un destino che trasformerà il mondo rivelando l’imminenza d’Israele. Questo destino che si apre sul mondo è la presenza di Dio in mezzo agli uomini, cioè l’evento della redenzione che implica la realizzazione della giustizia sulla terra. È come se Levinas ci stesse dicendo che la redenzione, fine ultimo dell’umanità, non possa avvenire senza una matrice femminile. Può forse esserci giustizia senza misericordia, ospitalità e responsabilità? Ed inoltre, qual è il senso autentico della frase levinassiana secondo cui la maternità salverebbe l’umanità aumentando l’immagine di Dio nel mondo?

Cercheremo di rispondere a queste domande considerando le riflessioni sulla maternità che Levinas sviluppa in Altrimenti che essere, opera quest’ultima che, alla luce del percorso effettuato in quest’articolo, ci darà il quadro generale del significato profondo della femminilità nell’itinerario filosofico del nostro autore.

A differenza di Totalità e Infinito in cui, attraverso la figura del padre, era stato oggetto di analisi dettagliate il rapporto di generazione, in Altrimenti che essere le riflessioni di Levinas convergono sulla maternità la cui essenza non è più la relazione con l’esistenza di un se stesso (il figlio) che tuttavia è un altro, bensì il sostituirsi a quest’ultimo in virtù della compassione, della tenerezza e della misericordia, ovvero di tratti tipicamente femminili:

Il sì del mantenersi e del perdersi o del ritrovarsi non è un risultato, ma la matrice stessa delle relazioni, o degli avvenimenti, che esprimono questi valori pronominali. E l’evocazione della maternità in questa metafora ci suggerisce il senso proprio del se stesso. Il se stesso non può farsi, esso è già fatto di passività assoluta e in questo senso vittima di una persecuzione che paralizza ogni assunzione che potrebbe svegliarsi in esso per porlo per sé, passività del legame già annodata come irreversibilmente passata, al di qua di ogni memoria, di ogni richiamo.87

La maternità, questo termine è usato diverse volte da Levinas nel corso dell’opera, costituisce una metafora preziosa per cogliere il senso dell’umano ed il movimento che il nostro autore definisce «ricorrenza», cioè il movimento del se stesso. La ricorrenza indica la passività pre-originaria del soggetto, il se stesso infatti non è nato di sua iniziativa; questa condizione permette al soggetto di prendere coscienza della propria creaturalità senza il contatto diretto con un creatore. Il parallelismo del se stesso con la figura della madre appare evidente: entrambi, infatti, hanno in comune la passività. L’io ha un’indole materna e questo segna una differenza singolare con le altre opere di Levinas in cui non compare questo termine ma quello di femminilità; perché questo cambiamento? Sicuramente perché rispetto alla femminilità la maternità indica una specifica relazione con l’altro (il figlio) che manca alla prima. Il nucleo della metafora è proprio la relazione con il prossimo: essa infatti rinvia ad una responsabilità tanto pre-originaria (anarchica) quanto incondizionata (gratuita) e che giunge da un passato immemorabile (torna qui l’indizio del tempo).

La madre è eletta perché crei la prima dimora per il figlio, così l’io, divenendo offerta della dimora per l’altro, accoglie la Parola trasformandosi nel primo ambito in cui tutto è di Dio, del Dio che è presente tra noi come traccia attraverso il volto dell’altro uomo. La madre «dà luogo al luogo», permette a qualcuno di usufruire delle sue viscere per farsi carne, qualcuno che ancora non conosce, ma che già ama incondizionatamente; il concepimento di un figlio è un evento che accade, quella presenza trascende l’attività dell’io rendendolo passivo. L’amore materno si genera nella totale passività, esso è pura gratuità. Dal ventre della donna passa la ridefinizione della soggettività umana: è soltanto dopo l’evento del «sì», infatti, che l’io si trasforma in soggettività nuova. Il «sì» della madre consiste in un abbandono al mistero, essa riconosce una presenza più grande di sé e nella sua risposta all’evento del concepimento aderisce ad una responsabilità immensa: nel suo «sì» c’è il farsi carico dell’altro, qualcuno che non è me ma che si genera in me. Questo sì è libertà, cioè capacità di aderire al mistero di un comando che invade la nostra vita in un tempo che non è mai stato presente, appello cui abbiamo già risposto e verso il quale siamo sollecitati a non poter far finta di niente. La madre non può non dire «sì» di fronte a colui che si è incarnato nel suo seno, il rifiuto resterebbe sempre nella sua coscienza come invocazione e grido della vittima che, reclamando giustizia, condanna quell’azione riprovevole. La disubbidienza al comando, infatti, permane nella «cattiva coscienza dell’atto compiuto».

Il «sì» della madre segna la giustizia perfetta della creatura di fronte al comando del creatore; nella maternità c’è la presa di coscienza del fatto che dall’uso della libertà del soggetto scaturisce un destino. Per Levinas l’io responsabile regge l’universo, nella responsabilità materna, infatti, è espressa quella fedeltà alla parola che ridefinisce l’umano.

Grazie al soggetto materno scopriamo che l’altezza dell’uomo consiste nel riconoscere in una realtà umana (il volto) una presenza che giunge da un altrove. Il «sì» all’altro diviene così risposta ad un mistero, il femminile ci conduce proprio lì. La maternità ci pone dinanzi al mistero di un passato assoluto. Ricapitolando lo sviluppo del tema della maternità riteniamo opportuno proporre una sintesi efficace attraverso le parole di Giovanni Salmeri:

La soggettività umana può essere descritta a partire dalla maternità perché l’io è responsabile dell’altro così come una madre è responsabile del figlio, perché l’io viene «colpito» ed è ostaggio dell’altro così come una madre è ostaggio del proprio figlio, perché l’io si sostituisce all’altro così come una madre si sostituisce al figlio — cioè indipendentemente da ogni calcolo e al di fuori di ogni reciprocità.88

Stando così le cose, nel semantema della maternità appare evidente la compresenza di tutti gli elementi prima citati (relazione temporale, misericordia, materialità). Essa, infatti, implica una proiezione verso il passato che mantiene un carattere di estraneità maggiore rispetto al futuro: il concepimento non è scelto liberamente, bensì la madre è passiva e responsabile al di là della sua volontà. Alla maternità risulta connessa la materia poiché quest’ultima non è la «tragedia della solitudine» (Il Tempo e l’Altro, pp. 29-30), bensì ciò che, attraverso la sostituzione, consente all’uomo di essere materno fondando un’etica basata sul perdono, sulla responsabilità, sull’ospitalità e sul sacrificio poiché l’io prima di essere annodato al proprio corpo è già ostaggio di tutti. La materia quindi, è ciò che permette il sacrificio, ciò che consente la spogliazione dell’io e l’apertura radicale all’altro. Infine, la condizione di ostaggio non implica forse la misericordia?

«È in nome della condizione di ostaggio che nel mondo ci può essere pietà, perdono, compassione e prossimità».89

Da ciò risulta evidente che non c’è maternità senza passività, senza misericordia, senza materialità e senza responsabilità. La nuova soggettività di Levinas, quindi, si presenta come ostaggio, cioè come madre di tutti, sicché la maternità giunge a designare quella responsabilità anarchica di ogni essere umano, cioè l’altrimenti che essere-femminile.

Per rispondere alla domanda di Giovanni Salmeri, possiamo affermare che la femminilità costituisce la vera dimensione interiore del soggetto e che l’umanità intesa da Levinas non è pensabile senza gratuità, pertanto nella responsabilità, nella misericordia e nell’ospitalità incondizionata si cela una matrice di femminilità che abita il cuore dell’umano.

L’altrimenti che essere è femminilità, non una donna empirica, bensì una dimensione meta-empirica che esprime la gratuità: della donna, infatti, sappiamo quanto prima poiché in Il Tempo e l’Altro viene identificata nel mistero ed in Altrimenti che essere in un’assenza, tuttavia ciò che è radicalmente cambiato è il soggetto. L’io scardina la coincidenza con sé offrendo la propria vita: ecco la maternità. Il soggetto è madre poiché nel dono di sé è implicita la gratuità del generare, cioè il poter essere terra feconda per il prossimo e quindi l’offerta di sé come vittima in sostituzione dell’altro.

L’uomo diviene immagine dell’ebreo errante che nell’uscita da sé del proprio esilio ed in virtù dell’evento di un incontro, «è chiamato verso la Terra Promessa da abitare nella forma del dono» (Carolina Carriero, si veda la nota 7); così l’io in quanto madre, dà luogo attraverso le sue viscere (rachamim) all’«essere per la nascita»: ecco, dunque, il delinearsi del senso autentico dell’umano!

La morte raggiunta attraverso il sacrificio, costituisce quel mistero verso cui conduce la maternità: il dono di sé come dimora per l’altro oltrepassa la stessa fine poiché in quest’atto di gratuità estrema avviene la vera e propria frantumazione della finitudine.

La condizione del sacrificio nel suo significato più profondo si presenta, quindi, come percezione del nulla: tutto sembra finito, l’io è stato sconfitto e sembra aver fallito; ma è proprio attraverso questo nulla della sofferenza estrema che passa la salvezza. L’immolazione diviene l’atto supremo della creatura che si restituisce completamente al suo creatore e ciò costituisce il riscatto della creazione espresso da una misericordia incondizionata: ecco la dimensione autentica del femminile. Secondo la nostra tesi, dunque, la nuova soggettività (l’altrimenti che essere) è misericordia che riscatta il dono della creazione attraverso l’offerta di sé per l’altro.

Altrimenti che essere, a nostro avviso, tenta di mettere in luce l’autentica dimensione di femminilità, la quale consiste nella misericordia che si manifesta nel per-dono (il quale implica un dono super), nella compassione e nella sostituzione.

Il vocabolo greco da cui ha origine il nostro termine italiano «misericordia» è «oiktìrmon» il quale traduce l’ebraico «rahamin» che significa «utero». Ancora una volta il legame tra la misericordia e la femminilità risulta esplicito.

In Difficile libertà Levinas scrive:

La donna, la fidanzata, non è la riunificazione — in un essere umano — di tutte le perfezioni della tenerezza e della bontà che sussisterebbero in se stesse. È come se il femminile ne rappresentasse la manifestazione originaria, la dolcezza in sé, l’origine di tutta la dolcezza della terra.90

Con queste parole Levinas toglie definitivamente ogni ombra di dubbio sul senso della femminilità, egli infatti riconosce esplicitamente che il femminile trascende la donna in carne ed ossa situandosi al di là di una semplice categoria ontica.

Alla luce di tutto ciò, dunque, la femminilità può essere interpretata, a nostro avviso, come la via che conduce all’altrimenti che essere, cioè al di là dell’ontologia e quindi verso il cuore della trasformazione della soggettività.91 Dicendo questo non stiamo ripetendo con fedeltà il pensiero di Emmanuel Levinas, ma stiamo cercando di dire ciò che il nostro autore non poteva affermare. Infatti, dire che l’altrimenti che essere è femminilità non è in un certo senso ricadere nel concetto, nella definizione e quindi nell’ontologia? Certamente, pertanto spetta esclusivamente al lettore (noi ci consideriamo tali) cercare delle possibili connessioni tra i molteplici frammenti che l’opera levinassiana lascia dietro di sé; sembra quasi che il nostro autore non ne sia consapevole e che, così facendo, permetta alla sua opera sia di non chiudersi mai in una trattazione sistematica, sia di lasciare tracce continue di una significanza ulteriore che nel momento in cui si rivela è già dissimulata.

Il femminile, quindi, non riunifica in una persona umana la dolcezza, la bontà e la misericordia, bensì è l’origine —anarchica — di esse. In un certo senso la femminilità, in quanto misericordia, diviene traccia di un non-luogo che precede l’essere: essa, grazie all’azione umana, giunge perfino a costituire l’essenza dell’inversione del conatus essendi poiché, per Levinas, la misericordia viene prima della giustizia e la responsabilità prima della libertà.

Detto ciò, restano da chiarire alcuni punti importanti come, per esempio, la relazione della femminilità con la «scrittura impronunciabile» ed il ruolo della maternità nella redenzione dell’umanità. Perché la maternità conduce l’umanità verso la salvezza aumentando l’immagine di Dio nel mondo? La femminilità in Levinas conduce davvero a Dio?

Per rispondere a queste domande occorre un’immersione nel contesto culturale giudaico del nostro autore, il quale in un bel passaggio di Difficile libertà scrive:

L’eterno femminino, che tutta un’esperienza amorosa sorta nel medioevo conduce da Dante fino a Goethe, nel giudaismo è assente. Mai la donna assumerà aspetto divino. Né Vergine Maria, né Beatrice. La dimensione intima è aperta dalla donna e non dal senso dell’altezza. Dell’esistenza femminile sarà trattenuta senza alcun dubbio la misteriosa interiorità, per sentire come una fidanzata il sabato, la stessa Torah e qualche volta la Sekinah, la presenza divina presso gli uomini.92

Qui Levinas è molto chiaro: nel giudaismo rabbinico la donna non assume mai sembianze divine, tuttavia apre la «dimensione intima», il femminile infatti implica una «misteriosa interiorità»che permette di sentire intimamente la Torah e la Shekhinah.

Quest’affermazione è molto importante perché ci conferma il fatto che il comandamento pre-originale che in realtà consiste in un insegnamento (Buber e Rosenzweig hanno tradotto il termine Torah con il vocabolo tedesco Weisung che significa «insegnamento») è possibile coglierlo attraverso un’intimità, un’accoglienza, cioè una dimensione femminile.

Per quanto concerne la Shekhinah, ci sembra opportuno un approfondimento.93

Nel giudaismo rabbinico questo termine indica la divina presenza, cioè l’immanenza di Dio nel mondo: il termine Shekhinah (che proviene dal verbo «shakhan» il cui significato è «abitare», «dimorare»), infatti, significa letteralmente «abitare nel tempo e nello spazio»; esso, quindi, implica Dio colto in termini spazio-temporali. La Shekhinah è una presenza reale non verificabile, ci sono dei momenti nella storia dell’uomo in cui essa è maggiormente presente e abita certi luoghi specifici, ma ciò avviene quando si compie un’azione morale nei confronti di qualcuno. Essa esprime la modalità in cui Dio si avvicina al suo popolo (specialmente nell’esilio) e quindi è contraddistinta da tratti di umiltà: nonostante la diaspora il popolo ebraico non è stato mai abbandonato da Dio (si veda: Es 24, 16; Es 40, 34-35; Re 8, 10-12; Ez 10, 3-4; Sal 18, 12). Nell’esilio Dio è presente in mezzo a Israele, la Shekhinah, dunque, è connessa con l’antico vagare nel deserto del popolo ebraico, proprio li infatti dimorava la divina presenza (Es 40, 34-38): un abitare che è legato alla pietà, alla misericordia e all’ospitalità.

Nel Salmo 91, 15 Dio appare vicino al giusto, lo accompagna ovunque vada, è con lui in ogni sua tribolazione, egli porta in braccio l’innocente che è perseguitato. Ma questo non costituisce forse un farsi carico della sofferenza altrui pieno di tenerezza?

In tutte le angosce. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e compassione egli li ha riscattati; li ha sollevati e portati su di sé, in tutti i giorni del passato (Is 63, 9).

Dio è vicino ad ogni uomo, solo nella negazione dell’io si fa veramente esperienza del mistero che circonda l’umano: questo mistero è femminile. Nella sofferenza e nel sacrificio, svuotandoci di noi stessi ci riempiamo di Dio. La Shekhinah è tenerezza e presenza divina che condivide persino l’esilio, ma è anche preavviso dell’imminenza della Terra Promessa. Essa si avvicina ad Israele attraverso la pietà e la misericordia divenendo così il volto femminile di Dio. La Shekhinah costituisce l’aspetto femminile di Dio, qualcuno l’ha addirittura definita come Dio-donna o Dio-madre.

Ripensando ai precedenti passi di Difficile libertà in cui la maternità veniva indicata come via di salvezza per l’umanità e per il compimento di Israele, ciò che accomuna Dio e la maternità è proprio la misericordia infinita di cui la Shekhinah è manifestazione. La madre ha misericordia incondizionata verso il figlio così come Dio nutre un’assoluta pietà per le sue creature: la vera somiglianza tra Dio e l’uomo, quindi, è costituita proprio dalla misericordia che la maternità esprime. Quest’ultima è in grado di simboleggiare la salvezza dell’umanità perché indica una strada precisa: quella della redenzione. Essa è fondamentale per l’ebraismo (non solo per esso poiché anche nel cristianesimo essa assume un ruolo di primo piano) e orienta tutta l’opera di Levinas facendola divenire un vero e proprio cammino verso la salvezza dell’uomo. La redenzione, infatti, diverrà ora il cuore della nostra trattazione: la dimensione femminile (implicita nell’altrimenti che essere), infatti, non è forse profondamente legata con l’evento della redenzione?

La parte finale del presente lavoro si incentrerà proprio su quest’ipotesi.

Alla luce delle considerazioni sulla Shekhinah, ci sembra rilevante, per il proseguo della nostra trattazione, proporre alcune riflessioni su Is 66, 16, versetto biblico in cui è la stessa Shekhinah ad essere giudicata: essa è giudicata nel fuoco, cioè Dio subisce e sperimenta ciò che avviene nel mondo. Pur essendo presente nel mondo essa non riesce ad impedire la sofferenza, la sopraffazione e la morte che continuano a predominare. «Con il fuoco infatti il Signore farà giustizia su tutta la terra», in queste parole sono implicite alcune considerazioni importanti: il Signore prima di essere giudice è giudicato dal fuoco della salvezza non avvenuta, infatti se non fosse giudicato non sarebbe salvato e non salverebbe; la misericordia, quindi, è una giustizia che salva, mentre la giustizia da sola condanna. Tutto ciò sembra lo sfondo di alcune riflessioni che Levinas espone nel corso di un’intervista pubblicata in Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro. In quell’occasione il nostro autore era giunto ad una conclusione interessante: sussiste un rapporto stretto tra carità e giustizia poiché la carità risulterebbe impossibile senza la giustizia e quest’ultima si deformerebbe senza la carità.

Le conseguenze affascinanti cui queste affermazioni potrebbero condurci, divengono ancora più evidenti alla luce della risposta del nostro autore ad una domanda del giornalista riguardante l’entità della relazione tra giustizia e amore:

La giustizia sorge dall’amore. […] L’amore deve sempre sorvegliare la giustizia. Nella teologia ebraica — io non sono guidato esplicitamente da questa teologia — Dio è Dio della giustizia, ma il suo attributo principale è la misericordia. Nel linguaggio talmudico Dio si chiama sempre Rachmana, il misericordioso: tutta questa tematica è studiata nell’esegesi rabbinica. Perché vi sono due racconti della creazione? Perché l’eterno — chiamato Elohim nel primo racconto — ha voluto anzitutto (certamente tutto ciò è solo apologia) creare un mondo appoggiandosi solo sulla giustizia. Esso però non avrebbe retto. Il secondo racconto, in cui appare il tetragramma, attesta l’intervento della misericordia.94

Pur riconoscendo di non essere guidato esplicitamente dalla teologia ebraica, Levinas, dal punto di vista filosofico, resta comunque legato alla matrice culturale giudaica. Il suo intento non è quello di formulare una teologia, bensì quello di ridefinire l’umano a partire da una misericordia che lo abita da un tempo immemorabile.

Giustizia e carità non possono essere separate, infatti non può esserci l’una senza l’altra: la giustizia nasce dall’amore (agape) ed il Dio della giustizia è presente nel mondo in quanto misericordia. Riflettendo sul racconto della creazione esposto da Levinas, una questione resta aperta: perché un mondo creato sulla sola giustizia non avrebbe retto? Perché la giustizia da sola condanna e l’umanità non avrebbe alcuna possibilità di salvezza. Soltanto in un mondo in cui ci sia misericordia, in cui la Shekhinah possa essere giudicata con il fuoco e quindi salvata, può esserci la possibilità della redenzione. La giustizia che si genera dalla misericordia è una giustizia eccezionale poiché invece di punire, assolve.

Se Carol Gilligan identificava l’etica maschile con la giustizia universale, le norme, l’astrazione, il diritto e l’etica femminile con l’interdipendenza, la cura, la compassione e la pietà, allora la giustizia di cui parla Levinas rappresenta il risultato di un percorso che passa dal maschile (giustizia universale che condanna) al femminile (giustizia che nasce dalla misericordia e che salva); così, da queste considerazioni, emerge il profondo legame che unisce la femminilità con l’evento della redenzione. Quest’ultima, infatti, trova la via della sua realizzazione autentica nel sacrificio: l’immolazione per altri, dunque, diviene il gesto estremo in cui l’io, nella sostituzione, si svuota totalmente di se e si riempie di Dio; proprio in ciò consiste il riscatto della creazione. Se quest’ultima, infatti, implicava la contrazione dell’infinito, cioè il ridimensionamento del Creatore che lascia il posto alla creatura, allora, la redenzione, consisterà proprio nel riconsegnare a Dio la stessa creazione: offrendo il proprio corpo come dimora, infatti, è come se nel mistero della carità Dio divenisse presente e, così, dimorasse nel mondo. Aprire totalmente il finito all’infinito: ecco la redenzione. Essa dunque consiste nella dinamica attraverso la quale l’uomo riesce a realizzare il regno di Dio sulla terra; solo così infatti, è possibile una giustizia che nasca dalla misericordia. Ma la misericordia non è la forma per eccellenza della femminilità? Certamente. Attraverso la femminilità infatti, si giunge alla verità più alta: la gratuità del dono. Dio crea l’uomo donandolo a se stesso, lo elegge al Bene, poi nella Shekhinah soffre con lui, lo assiste e viene persino giudicato insieme a lui; a sua volta l’uomo, attraverso l’incontro con il volto dell’altro uomo, si scopre ostaggio, cioè pre-originariamente responsabile di tutti e così, nel sacrificio della propria vita, si trasforma in dono per l’altro riscattando la misericordia infinita della creazione, una misericordia che aveva spinto l’infinito a limitarsi per lasciare un posto all’essere separato. Paradossalmente la salvezza dell’uomo passa attraverso il nulla; infatti è dal nulla della sofferenza che si riceve il tutto. Il termine «uomo» viene dal vocabolo latino «humus» che significa «terra», per Levinas, infatti, la Terra Promessa è ogni uomo poiché ogni essere umano, in quanto eletto, è chiamato a realizzare il regno di Dio sulla terra, cioè un mondo in cui ci sia misericordia. La logica del dono, inoltre, implica la gratuità: Dio, pertanto, è accolto in noi come misericordia e dono solo nella misura della consapevolezza del nostro demerito, della nostra condizione di debito e della nostra distanza infinita da lui, cioè nel riconoscersi come nullità; ma anche la creazione è dal nulla… Il nulla diviene qui punto di riferimento imprescindibile: è da esso che si origina tutto e, al contempo, è attraverso di esso che tutto acquista un senso (per l’uomo la salvezza passa proprio attraverso il nulla).

Stando così le cose, il sacrificio dell’io se da un lato costituisce l’esperienza del nulla poiché tutto sembra finito, dall’altro salva dal nulla stesso, infatti solo attraverso la sostituzione egli scopre la «scrittura impronunciabile», traccia di Dio per la quale tutto riacquista un senso. In questo modo, però, il significato profondo dell’altrimenti che essere appare intrinsecamente connesso con l’evento della redenzione. La «scrittura impronunciabile» incontrata grazie alla dimensione femminile (quella compassione che spinge l’io a sostituirsi all’altro), non potrebbe forse costituire, in un certo senso, l’identificazione del nome di Dio con la misericordia?

Levinas preferisce tacere riguardo al nome di Dio, egli si limita a riconoscere una traccia, una «scrittura impronunciabile» che resta significante pur essendo privata del suo contenuto. Ciò è spiegabile in virtù degli obiettivi che l’autore si pone: egli non vuole cadere nel tranello di un certo tipo di teologia (l’onto-teologia) da cui prende le distanze, egli infatti non intende dimostrare l’esistenza o la non esistenza di Dio; ciò che viene indagato invece è la significazione di questo termine, ovvero una significanza che rompe la fenomenalità. Se si andasse oltre questo limite, il rischio sarebbe quello di ricadere nell’ontologia, infatti prendere coscienza di Dio e parlare di lui significa già inglobarlo in un sapere, in un concetto, in una determinazione; ma l’infinito non è l’indeterminabile per eccellenza in quanto eccede la stessa possibilità della determinazione? Secondo il nostro autore, l’ontologia porta con sé la grande colpa di aver ridotto il termine Dio ad un vocabolo vuoto, cioè ad un semplice suono della voce, in luogo di un pensiero che spiegasse la totalità della realtà. Dunque il pericolo della ricaduta nelle maglie del concetto impone a Levinas di restituire a Dio il posto che gli spetta attraverso il silenzio, un silenzio che implica, nell’assenza di ulteriori riflessioni, la possibilità di scorgere qualcosa di diverso dall’esperienza, dal sapere e dalla coscienza intesa come attività: l’accoglienza autentica dell’assoluto che avviene attraverso l’incontro con il volto. In Di Dio che viene all’Idea, testo del 1982, Levinas scrive:

Ma come se il volto dell’altro uomo, che d’improvviso mi interpella e mi ordina, fosse il nodo dell’intrigo stesso del superamento da parte di Dio dell’idea di Dio e di ogni idea in cui egli sarebbe ancora preso di mira, visibile e conosciuto ed in cui l’infinito sarebbe smentito dalla tematizzazione, nella presenza o nella rappresentazione. […] Responsabilità senza pre-occupazione di reciprocità: devo rispondere di altri senza occuparmi della responsabilità d’altri al mio riguardo. Relazione senza correlazione o amore del prossimo che è amore senza Eros. Per-l’altro uomo e da qui a-Dio!95

In questo passo c’è la sintesi di tutto il pensiero di Levinas, l’unica «relazione senza correlazione» è proprio l’accoglienza del volto, una presenza che mette in questione l’io poiché lo pone di fronte al mistero di un passato immemorabile, non-luogo di un’elezione pre-originaria in cui il soggetto, responsabile della responsabilità dell’altro, si scopre ostaggio di tutti, passività estrema e pazienza, cioè sostituzione: proprio in ciò consiste l’unicità dell’eletto.

Grazie al volto che traduce l’idea dell’infinito in etica, Levinas è in grado di dire Dio altrimenti, cioè non nei limiti dell’ermeneutica (attraverso simboli, metafore, cifre), dell’esperienza e del concetto, bensì attraverso la gratuità dell’accoglienza; così il volto, in quanto possibilità della moralità, indica il senso dell’accoglienza e ci consente di andare al di là dell’ontologia (qui intesa come determinazione, sapere e conoscenza) scoprendo l’autentica idea di Dio (l’idea dell’infinito), cioè un pensiero che pensi più di quanto possa pensare e che ecceda le stesse capacità del cogito.

Attraverso la prossimità, definita da Levinas «amore senza Eros», si giunge a-Dio, questo termine implica ancora una volta un’ospitalità (l’infinito che abita il finito da un tempo primordiale) cioè «Dio-che-viene-all’idea come vita di Dio» (che è proprio l’idea d’infinito), prospettiva, quest’ultima, che realizza il rovesciamento del teoretico nell’etico.

L’idea dell’infinito, dunque, eccede l’ontologia perché è al di là dell’essere e quindi altrimenti che essere; ma il sacrificio di sé non esprime forse la dimensione femminile?

La femminilità, cuore della nuova umanità, ci ha condotti verso un modo di guardare Dio radicalmente diverso da quello della totalità espresso dalla filosofia occidentale; essa, infatti, implica l’ottica della responsabilità, aspetto indiscutibile della visione biblica dell’etica.

Per raggiungere la salvezza, l’io deve divenire per-l’altro, cioè deve sostituirsi al prossimo morendo a se stesso poiché solo in quella dimensione di altezza si scorge il vero nome di Dio: misericordia. A nostro avviso, dunque, solo nell’amore del volto dell’altro l’io incontra Dio!

In queste nostre riflessioni stiamo cercando di andare al di là dello stesso Levinas tramite gli indizi che egli ha lasciato (volontariamente?) nelle sue opere. Tornando alle nostre considerazioni, è come se il nostro autore ci stesse dicendo che: da un lato Dio è amore che non può non amare e misericordia che non può non sentire tenerezza verso la miseria delle sue creature, dall’altro che l’uomo ad immagine di Dio, o il suo essere nella traccia di Dio, significa, per la creatura, trasformarsi in dono ed amare come il creatore ama. Proprio in ciò consiste la dimensione femminile del riscatto. Il riscatto della creazione che avviene attraverso l’altrimenti che essere, implica dunque la femminilità intesa come misericordia.

Se il desiderio dell’uomo è quello di diventare come Dio (Gen 3, 59), nell’incontro con il volto d’altri è possibile intraprendere la via per «diventare Dio». L’essenza di Dio è misericordia (Sir 2, 18) poiché «quale è la sua grandezza, tale è la sua misericordia», ma quest’ultima costituisce l’autentica dimensione di femminilità che abita l’umano e che l’altrimenti che essere tenta di mettere in luce.

In conclusione potremmo dire che Dio misericordioso ci è presentato come padre, ma anche come madre, infatti la sua giustizia non è di condanna, ma di condono ed egli non giudica, bensì giustifica! Ma il fulcro di tutto ciò è, ancora una volta, proprio nella misericordia; infatti per essa accade la creazione ed in essa avviene la Redenzione. L’uomo deve sostituirsi a Dio non nella conoscenza o nel potere, ma soltanto nell’amore, solo allora sarà come lui: il primo grande sacrificio, infatti, è di Dio poiché solo una misericordia infinita poteva limitare se stessa per favorire la molteplicità del creato. L’uomo nel suo amore di debito nei confronti di Dio (donando se stesso) restituisce all’infinito la sua gloria; così l’unico limite al male presente nel mondo è la misericordia e l’unico limite alla misericordia di Dio è quello che nasce dal nostro grembo (rachamim) e che, ancora una volta, è femminile.

7. Conclusione

Secondo Luce Irigaray risulta fondamentale (per l’ordine simbolico che ne scaturisce) affrontare la questione della trascendenza poiché senza un riferimento di questo tipo, cioè una genealogia divina, la genealogia femminile resta incompleta. Secondo l’autrice proprio la legge del medesimo ha impedito alla donna di costituirsi come soggetto, cioè «altro da altro» o «altro come eterogeneo».96 La donna, infatti, viene definita come «altro» in funzione del medesimo poiché, a differenza dell’uomo il cui rapporto con l’origine resta invariato (per mantenere la sua identità l’uomo ripropone con le donne il rapporto che ha con la madre), entrando nella legge del medesimo rompe il suo legame con l’origine e quindi con la possibilità di fondare la propria identità. Stando così le cose, ogni teoria del soggetto risulta essere maschile e la donna, assoggettandovisi, rinuncia inconsapevolmente alla propria specificità che è possibile rintracciare esclusivamente nella fase pre-edipica. Le donne possono rappresentare autonomamente (nella dimensione simbolica) il loro rapporto con la madre fino alla fase edipica, momento in cui la bambina perde il suo desiderio originario senza che questo abbia avuto un riconoscimento nell’ambito culturale; così, restando priva della possibilità di costituirsi come identità (come «altro dall’altro»), si subordina al desiderio maschile. Per uscire da questo circolo vizioso, la donna, secondo Irigaray, deve ricercare modi di simbolizzazione autonomi dal simbolico monopolizzato dal maschile che, ponendosi come medesimo, fa della donna l’altro. L’uomo rispondendo alla sua «volontà di onnipotenza», nega l’esistenza della specificità sessuale femminile imponendo alla donna la sua immagine di femminilità. Così il complesso di Edipo, secondo l’autrice in questione, non serve ad articolare la differenza dei sessi, bensì a far entrare la donna in un sistema di valori che non sono i suoi ma degli uomini. In questo modo, la psicoanalista afferma la specificità del rapporto della donna con la sua origine: la donna, infatti, emancipandosi da un discorso maschile ne determina uno suo proprio ponendosi a sua volta come medesimo. Questo concetto di specificità serve infatti all’autrice anche per evidenziare l’inconsistenza di «caratteristiche femminili culturalmente, socialmente, economicamente valorizzate» perché legate alla maternità; il femminile, pertanto, in accordo ad Irigaray, non può essere ridotto esclusivamente a maternità e maternage. In questo contesto, anche la trascendenza ed in particolare l’idea di Dio che la tradizione ha da sempre presentato attraverso le Sacre Scritture (ad esempio l’identificazione di Dio come padre), rientrano nel dominio e nell’egemonia del maschile: il percorso di un divino patriarcale, pertanto, avrebbe limitato il corso storico della genealogia femminile.

È come se alla base della genealogia femminile ci fosse una genealogia divina, infatti solo in un rapporto diretto e autentico con la trascendenza la donna può raggiungere la sua identità specifica. Alla luce di queste considerazioni, il percorso di Levinas sembrerebbe ancora legato ad una legge simbolica maschile; egli infatti definendo il femminile come «alterità per eccellenza», «mistero», ospitalità, passività, maternità e tenerezza, mette in risalto quei tratti che la tradizione da sempre attribuisce alla donna.

Nel tentativo di scagionare Levinas dall’accusa di maschilismo, possiamo dire, tuttavia, che il suo intento non è quello di individuare la specifica identità della donna, poiché alla fine del suo itinerario (come abbiamo già accennato), di essa si sa quanto prima, cioè molto poco; infatti si passa da un mistero (Il Tempo e l’Altro) ad un’assenza (Altrimenti che essere).

Il vero obbiettivo del nostro autore è quello di ridefinire l’umano, ogni essere umano, scoprendo nel cuore della nuova identità una matrice femminile che non ha nulla a che vedere con l’aspetto sociale, politico, psicologico e culturale della donna come categoria ontica. La femminilità, infatti, pur essendo una categoria ontologica, costituisce altresì la via che conduce ad una dimensione etica. Levinas, dunque, come abbiamo già accennato, intende il termine femminile come una dimensione meta-empirica che trascende la donna in senso stretto, tale dimensione è costituita dalla misericordia che abita ogni essere umano (sia gli uomini che le donne) e che rappresenta la premessa per uscire dall’ontologia conducendo, così, la soggettività a vincere l’egoismo dell’essere per porsi come altrimenti che essere, cioè ospitalità incondizionata che riscatta la contrazione pre-originale dell’infinito. Qui il soggetto, simbolicamente, può essere inteso come una madre che, eletta nel concepimento, pur di dare alla luce il figlio dona la propria vita. Levinas andando al di là dell’ontologia e scoprendo il fondamento del senso nell’etica, si situa al di là di ogni possibile critica maschilista o femminista e scopre nella misericordia la vera traccia di Dio nel mondo, un Dio che non è privilegio ed esclusiva di un solo sesso, bensì un «Valore Unico» e «significante» di ogni essere umano.

Stando così le cose, potremmo dire che il femminile, nell’itinerario levinassiano, diviene la via in grado di condurci verso l’al di là dell’essere e quindi verso l’altrimenti che essere.

Riassumendo le considerazioni presentate nel corso di queste pagine, dunque, è possibile rintracciare alcuni punti determinanti relativi alla metamorfosi della femminilità. In Il Tempo e l’Altro il femminile era individuato dal nostro autore come alterità trascendente che implicava la propensione verso un futuro assoluto. In Totalità e Infinito la donna diviene il «tu» della familiarità, essa implica l’immanenza ed esprime una dimensione di accoglienza legata ancora allo spazio ed al tempo (la dimora rappresenta l’interiorità umana). Nell’Umanesimo dell’altro uomo la dimensione di femminilità rinvia all’origine anarchica dell’etica, cioè ad un’accoglienza originaria ed assoluta; qui l’interiorità che in Totalità e Infinito era possibile grazie alla presenza femminile, diviene la via che conduce ad un non-luogo o dimensione anarchica, cioè al mistero di un passato mai stato presente di cui è possibile scorgere una traccia: la femminilità, quindi, implica la possibilità della gratuità infinita della creazione.

In Difficile libertà, la figura della maternità rappresenta la nuova identità umana: l’altro nel medesimo, cioè responsabilità incondizionata che porta al sacrificio di sé. Nell’immolazione l’umano diventa dimora del divino, infatti la Shekhinah è la presenza femminile di Dio, un Dio che, grazie alla redenzione dell’uomo, torna ad abitare il mondo. Questa prospettiva, anche se in termini diversi, viene sviluppata dal nostro autore in Altrimenti che essere dove la dimensione di femminilità diviene riscatto della creazione, infatti nell’offerta di sé per l’altro c’è la negazione dell’uomo che fa posto al divino, ospitalità estrema che riscatta la contrazione dell’infinito. Levinas, in una delle pagine più belle di Altrimenti che essere, descrive così la gloria dell’infinito:

Eccomi come testimonianza dell’infinito, ma come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia e la cui verità non è verità di rappresentazione, non è evidenza. Non vi è testimonianza — struttura unica, eccezionale alla regola dell’essere, irriducibile alla rappresentazione — che dell’infinito.

L’infinito non appare a colui che ne fa testimonianza. Al contrario è la testimonianza che appartiene alla gloria dell’infinito. È attraverso la voce del testimone che la gloria dell’infinito si glorifica.97

La misericordia della creazione è riscattata dall’uomo che vive, il quale, divenendo il testimone della creazione stessa, glorifica l’infinito. La gloria di Dio, quindi, è l’altrimenti che essere, ma il sacrificio estremo che questo gesto implica non è forse la misericordia? E la misericordia non è forse la dimensione autentica della femminilità?

Dio si ritrae dopo essersi rivelato nel Libro e, da un passato assoluto, continua l’opera della Redenzione attraverso l’uomo che è sollecitato a rispondere alla Rivelazione. Stabilire un regno di giustizia è il compito affidato all’uomo; ma la giustizia non è preceduta dalla misericordia?

Se la Redenzione, come abbiamo visto, passa attraverso la femminilità, perché in Altrimenti che essere il femminile non è mai citato?

Una possibile risposta a questa domanda è contenuta nell’articolo di Maria Grazia Fasoli (Inferno al Dio delle madri) che, nella ricerca di un «volto femminile di Dio», giunge al di là di un «sentito dire» cogliendo il «mistero familiare», un’alterità incomprensibile alla quale risulta possibile dare del «tu»:

Nessuna proiezione patriarcale, ma neppure — al contrario — matriarcale può espropriare Dio del suo mistero. Ovvero può razionalmente garantire la tensione comunionale tra l’uomo — maschio e femmina — e Dio. Il femminile di Dio è un altro nome per dire il suo mistero. Anzi è il volto in ombra del padre, oscurato dalle mediazioni patriarcali.98

Riportando queste considerazioni all’interno dell’opera levinassiana si comprende come, se da un lato il nostro autore cerca di uscire dall’essere (rappresentato dalla virilità e dall’egoismo) attraverso la misericordia (dimensione femminile), dall’altro identificare l’altrimenti che essere con il concetto di femminilità significherebbe ricadere nell’ontologia e limitare così il mistero della redenzione.

Possiamo solo scorgere una traccia di Dio proprio perché dire qualcosa di lui significherebbe limitare la sua infinitezza, pertanto la femminilità svolge la funzione di condurre l’umano dinanzi al mistero di Dio perché solo nella misericordia è possibile scoprire le sue tracce; tuttavia non è possibile andare oltre: il femminile può arricchire il mistero divino di altri nomi ma non può dire Dio imprigionandolo nella finitezza di un concetto.

Attraverso il maschile ed il femminile, quindi, Levinas giunge al di là dei semplici generi, infatti la dimensione femminile non appartiene soltanto alle donne, l’altrimenti che essere non costituisce una definizione della donna in senso specifico, ma di tutta l’umanità (uomini e donne) affinché nel cuore di ogni uomo ci sia ancora quella misericordia che costituisce la vera condizione della giustizia! Con la femminilità, quindi, si giunge al mistero di Dio che, dopo la Rivelazione, nella sua assenza e distanza assoluta, permane accanto all’uomo lasciando una traccia del suo passaggio.

Il Dio dei padri ed il Dio delle madri […] lasciano il posto al mistero di Dio che parla agli uomini e alle donne, ugualmente e differentemente. La rivelazione può darsi come sollecitudine paterna o come cura materna, può incrociare l’uno o l’altro ordine simbolico, assumere analogicamente connotati dell’uno o dell’altro genere, ma entrambi li trascende. Ovvero entrambi li chiama all’auto-trascendimento, che è liberazione e redenzione.99

Nell’evento straordinario della Redenzione, dunque, la femminilità, espressa nella sua dimensione più alta dalla misericordia, si auto-trascende testimoniando, così, la gloria dell’infinito con la sua assenza, un’assenza che, in Altrimenti che essere, testimonia l’infinito con il silenzio divino del sacrificio per altri. Proprio questo silenzio ci conduce al di là di ogni possibile pensiero, parola, concetto o rappresentazione e così è possibile tornare a quella dimensione pre-originale dell’ascolto da cui tutto ha avuto origine.100


  1. Levinas, E., Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2004, pp. 44-45. ↩︎

  2. Heidegger, M., Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1971, par. 53. ↩︎

  3. De l’Évasion, «Recherches Philosophiques», 5 (1935-36), pp. 373-90, trad. ital. Dell’evasione, Elitropia, Reggio Emilia 1984. ↩︎

  4. Magnanimo, A., Emmanuel Levinas, disponibile su World Wide Web http://filosofia.net. Si veda anche Riva, E., «Emmanuel Levinas», Filosofia e dintorni, disponibile su World Wide Web http://filosofiaedintorni.net↩︎

  5. La citazione è presente nell’articolo di Levesque, C., «Deux lectures d’Emmanuel Levinas», Studi francesi, 38, 1-2 e si riferisce a: Derrida, J., «En ce moment même dans cet ouvrage me voici» (1980), in Psyché. Invention de l’autre, Paris, Galilée, coll. «La Philosophie en effet», 1987, pp. 165-166. Per un ulteriore approfondimento si veda anche: Stichauer, P., «Levinas et le sexe faible», Sens-public, http://sens-public.org↩︎

  6. Levinas, E., Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, pp. 11-12. ↩︎

  7. Carriero, C., «Il paradigma della corporeità nel pensiero femminile: l’oblazione come oltrepassamento della responsabilità etica verso l’altro». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 2001, https://mondodomani.org/dialegesthai/↩︎

  8. Levinas, E., Dall’Esistenza all’Esistente, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 77. ↩︎

  9. Levinas, E., Il Tempo e l’Altro, Il Melangolo, Genova 1987, p. 27. ↩︎

  10. Ibidem, p. 45. ↩︎

  11. Ibidem, pp. 54-55 ↩︎

  12. Ibidem, pp. 55-57. ↩︎

  13. Ibidem, p. 59. ↩︎

  14. Derrida, J., Addio a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1998, pp. 102-103. ↩︎

  15. De Beauvoir, S., Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 29. ↩︎

  16. Levinas, Il Tempo e l’Altro, p. 57. ↩︎

  17. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, p. 105 (nota 35). ↩︎

  18. Per un ulteriore approfondimento di questo tema si veda Levinas, E., Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1997 (2a ed.), p. 85 (in particolare il cap. «Dio e la filosofia»). ↩︎

  19. Per uno studio più approfondito sul tema del volto si veda: Baccarini, E., Levinas. Soggettività e Infinito, Studium, Roma 1985 (cap. 3, p. 42). ↩︎

  20. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, pp. 48-49. ↩︎

  21. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, pp. 83-103. ↩︎

  22. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 158. ↩︎

  23. Ivi. ↩︎

  24. Ibidem, pp. 161. ↩︎

  25. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, pp. 101-103. ↩︎

  26. Rosenzweig, F., La Stella della Redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 321. ↩︎

  27. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, pp. 176-179. ↩︎

  28. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, pp. 84-85. ↩︎

  29. Verna, A.M., Alterità, le metamorfosi del femminile da Platone a Levinas, Giappichelli, Torino 1990, p. 10. ↩︎

  30. Ibidem, p. 213. ↩︎

  31. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 161. ↩︎

  32. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, pp. 106-107. ↩︎

  33. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, p. 259. ↩︎

  34. Levinas, E., Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004, pp. 57-58. ↩︎

  35. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, pp. 263. ↩︎

  36. Ibidem, pp. 265-266. ↩︎

  37. Verna, Alterità, le metamorfosi del femminile da Platone a Levinas, pp. 226-227. ↩︎

  38. Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, pp. 281-282. ↩︎

  39. Per approfondire il tema dell’«originario» si veda Baccarini, E., «La passione del filosofo: pensare l’originario», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 1999, https://mondodomani.org/dialegesthai/↩︎

  40. Levinas, Altrimenti che essere, p. 7. ↩︎

  41. Ibidem, pp. 8-9. ↩︎

  42. Ibidem. p. 9. ↩︎

  43. Rimandiamo qui a Levinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, pp. 157-159 (cap. «La dimora»). ↩︎

  44. Levinas, E., Umanesimo dell’altro uomo, Il Nuovo Melangolo, Genova 1998, pp. 111-112. ↩︎

  45. Ibidem, p. 112. ↩︎

  46. Ibidem. pp. 113-114. ↩︎

  47. Ibidem, p. 115. ↩︎

  48. Levinas, E., Tra Noi. Saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano 1998, pp. 169-191 (si veda «Dall’Uno all’Altro. Trascendenza e tempo»). ↩︎

  49. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 116. ↩︎

  50. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 117. ↩︎

  51. Levinas, Totalità e Infinito, pp. 158-159. ↩︎

  52. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 115. ↩︎

  53. Levinas, Totalità e Infinito, p. 161 (riportiamo la citazione nel paragrafo 3 «Ospitalità e verginità»). ↩︎

  54. Ivi. ↩︎

  55. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, pp. 121-122. ↩︎

  56. Ibidem, p. 123 (nota 19). ↩︎

  57. Levinas, Totalità e Infinito, p. 105. ↩︎

  58. Ibidem, pp. 301-302. ↩︎

  59. Ibidem, p. 106. ↩︎

  60. Ibidem, p. 301. ↩︎

  61. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 125. ↩︎

  62. Si veda Levinas, Altrimenti che Essere o al di là dell’essenza, pp. 1-2. ↩︎

  63. Ibidem, pp. 126-127. ↩︎

  64. Ibidem, p. 128. ↩︎

  65. Ibidem, p. 139. Questa citazione è presente anche in: Salmeri, G., «Salvati da che cosa? La sostituzione vicaria in Girard e Levinas». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 2004, https://mondodomani.org/dialegesthai/. Quest’articolo sviluppa il tema del senso della sofferenza in Levinas con particolare riguardo ad Altrimenti che Essere↩︎

  66. Levinas, E., Altrimenti che Essere o al di là dell’essenza, p. 140. ↩︎

  67. Ibidem, p. 143. ↩︎

  68. Ibidem. p. 154. ↩︎

  69. Per quanto concerne l’origine del male: Levinas, Di Dio che viene all’idea, p. 157. In particolare il testo «Trascendenza e male» (si veda la nota 11). ↩︎

  70. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 147 (nota 21). ↩︎

  71. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 122. ↩︎

  72. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 162. ↩︎

  73. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 122. ↩︎

  74. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 229. ↩︎

  75. Ivi. ↩︎

  76. Carriero, «Il paradigma della corporeità nel pensiero femminile: l’oblazione come oltrepassamento della responsabilità etica verso l’altro», nota 4. ↩︎

  77. Gilligan, C., Con voce di donna: etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1991 [or. 1982], pp. 36-37. Questo punto è approfondito in: Salmeri, G., «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 2003, nota 8, https://mondodomani.org/dialegesthai/↩︎

  78. Salmeri, «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», par. 4. ↩︎

  79. Levinas, Altrimenti che Essere, p. 6. ↩︎

  80. Salmeri, «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», par. 4. ↩︎

  81. Per quanto riguarda Il Tempo e l’Altro, si veda il par. 2 del presente articolo, mentre nei parr. 4 e 5 sono approfonditi rispettivamente temi trattati da Levinas nell’Umanesimo dell’altro Uomo ed in Altrimenti che Essere↩︎

  82. Levinas, Il Tempo e l’Altro, pp. 29-30. Questo tema è affrontato più volte in: Salmeri, «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», p. 2 e par. 4 (nota 8). ↩︎

  83. Levinas, Altrimenti che essere, p. 96. ↩︎

  84. Ibidem, pp. 158. ↩︎

  85. Salmeri, «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», p. 13 (nota 9). ↩︎

  86. Levinas, Difficile libertà, p. 55. ↩︎

  87. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, pp. 130-131. Per un ulteriore approfondimento su questo tema si veda: Salmeri, «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», pp. 7-10. ↩︎

  88. Salmeri, «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», par. 4. ↩︎

  89. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, p. 148. ↩︎

  90. Levinas, Difficile libertà, pp. 54-55. ↩︎

  91. Salmeri, «L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas», par. 4. ↩︎

  92. Levinas, Difficile libertà, p. 59. ↩︎

  93. Per quest’approfondimento vedi «Studi ecumenici», Istituto di studi ecumenici S. Bernardino, Castello (Venezia), anno 23, n. 3, luglio-settembre 2005. ↩︎

  94. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, p. 142. ↩︎

  95. Levinas, E., Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1997 (2a ed.), p. 13. ↩︎

  96. Irigaray, L., Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, Milano 1977. Si veda per un ulteriore approfondimento: Verna, Alterità, le metamorfosi del femminile da Platone a Levinas, pp. 226-230. ↩︎

  97. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, pp. 183-184. ↩︎

  98. Fasoli, M.G., «Inferno al Dio delle madri», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 1999, https://mondodomani.org/dialegesthai/↩︎

  99. Ivi. ↩︎

  100. Si veda: Baccarini, E., Levinas: Soggettività e Infinito, Studium, Roma 1985, pp. 183-184 (nota 12). ↩︎