Emmanuel Levinas: esteriorità e verità ovvero Kierkegaard

1. Il vero dimorante nella verità; la verità dimorante nel vero ovvero preludio a Kierkegaard

Che cos’è la verità? Di essa sappiamo il come del suo manifestarsi; ciò che ci sfugge è il «che cosa». Abile è la metafisica che ne ha fatto il manifestarsi nel linguaggio, manifestarsi che avviene tramite il vero; anzi il vero è «questo manifestarsi». L’intelletto si adegua alla cosa… Affermazione che lascia di sasso se non presupponiamo ad essa che «la riflessione sta nel linguaggio». Nel tramite del linguaggio, nel tramite del medio che media possiamo avere una corretta adeguazione alla cosa: solo tramite il linguaggio «la correttezza si palesa». La proposizione che sto per enunciare mi dice: «Sopra la scrivania c’è il libro di Levinas su Kierkegaard». Mai affermazione è stata più corretta: Sopra la scrivania c’è in effetti un libro, questo è scritto da Levinas, tratta di Kierkegaard. L’intelletto (tramite il linguaggio) è adeguato alla cosa; ciò che l’intelletto «dice» è vero: «è vero» che sopra la scrivania c’è il libro di Levinas su Kierkegaard. La metafisica fa capolino affermando che se c’è una verità questa si manifesta nella proposizione sopra la scrivania c’è il libro di Levinas su Kierkegaard che è manifestazione della verità in quanto «vero». La manisfestazione della verità è il vero; diciamo cioè il vero quando affermiamo che il libro di Levinas su Kierkegaard è sulla scrivania. Ma la verità qual è? Essa non è di certo il «vero»: il «vero» è manifestazione della verità. La manifestazione di ciò che è, in questo caso la verità, non è ciò che è ma qualcosa d’altro da ciò che è — in questo caso il «vero» —. La verità sembra quasi una costante nel mondo: essa si palesa sempre; si fa un gran parlare di «verità ultima» o di «verità ultime», perché c’è soprattutto il plurale della verità, le verità sembrano essere molteplici, si fa un gran baccano solo per riconoscere che la verità sta nell’affermazione adeguata alla cosa. La verità sta nel linguaggio come pure l’acqua di mare sta nel bicchiere: il fatto è che l’acqua di mare sta e non sta nel bicchiere; questa è acqua di mare, è acqua di mare solo se sta nel mare, l’acqua di mare in un bicchiere è solo acqua di un bicchiere. Così per la verità: la verità è manifesta nel linguaggio ma ciò che si richiede al linguaggio è di affermare come conclusione che la proposizione è vera; è vera e niente più: che ne è della verità?

L’idealismo pretendeva che il dispiegamento dell’Essere operato dal pensiero permettesse al soggetto di librarsi al di sopra di sé e di consegnare alla Ragione il suo estremo segreto. La situazione era paragonabile perciò a quella di un pittore che, nel terminare la sua opera, si ritrovasse imprigionato proprio nel quadro che usciva dal suo pennello e trasportato in un mondo che lui stesso aveva creato.1

L’idealismo faceva della verità l’esteriorità ultima, cioè l’esteriorità oltre la quale se la verità non fosse stata perfetta ci sarebbe stato il nulla, se fosse stata perfetta la pienezza d’essere che non ammette nulla. L’oggetto è esteriorità: esso è il posto. Il pensiero — in questo caso parliamo dell’idealismo e non della filosofia dell’Heidegger secondo per cui il pensiero è il retroriferimento a ciò che la sfrontatezza del Da-sein non accoglie come oggetto — ha come oggetto «l’oggetto» del proprio pensare; esso in quanto oggetto non può essere altrimenti che esteriorità. Esso è però interiore al pensiero che lo pensa e non esteriore ad esso: come ogni oggetto del pensiero è interiore al pensiero, non può darsi oggetto del pensiero che sia esteriore a questo. Quindi è interiorità. La verità dell’idealismo in quanto oggetto del pensiero è sia esteriore che interiore. Esteriorità e interiorità coincidono, non di per se stesse, ma come stanti sotto lo stesso medesimo riguardo: il riguardo dell’oggetto.

Cosa succede se a parlare non è più il pensiero ma il soggetto finito? Succede che «l’esteriorità non è in grado di coincidere con l’interiorità umana: il soggetto custodisce un segreto — mai esprimibile — che determina la sua stessa soggettività. Segreto che non è semplicemente una conoscenza della quale non si fa parola; al contrario esso resta, di per sé, inesprimibile, ed è identificato innanzitutto con la ferita bruciante del peccato. Nessuna verità trionfante, cioè razionale o universale, nessuna espressione sarebbe in grado né di coprirlo, né di cancellarlo».2 Resta il fatto che c’è un vero che senza remore, né esitazioni ci attesta che il libro di Levinas su Kierkegaard è sul tavolo ma la verità di questa affermazione rimane un segreto. È una verità tutta propria del soggetto nella quale il vero con sicurezza dimora: questa verità permane al di qua dell’esteriorità e non coincide con questa; funge da dimora al dimorare del vero. Nella verità propria del soggetto l’esistenza è tesa su di sé, essa è «aperta sull’esteriorità con un atteggiamento d’impazienza e di attesa, impazienza che l’esteriorità — degli uomini e delle cose, inglobata dal pensiero disteso e impassibile — non è in grado di soddisfare. E al di là di questa sete di salvezza, una tensione più antica dell’anima umana — forse per questo “naturalmente cristiana” — che si consuma di desideri».3 La soggettività finita «consiste nel modo in cui un essere si produce, un modo caratterizzato dal fatto che la sua identificazione non si risolve in una pura e semplice tautologia logica che potrebbe dirsi in riferimento all’essere — la ripetizione contenuta nell’espressione: A è A — e che lascerebbe indifferente il suo modo di fluttuare al di sopra del nulla o il suo carattere meteorico».4 La verità che il soggetto finito porta con sé non è indifferente alle pressioni dell’esteriore solo che non si riduce, come per dire non si lascia consumare dalle pressioni dell’esteriorità: il vero dimora nella verità e la verità sottrae se stessa nel manifestarsi come vero; essa non è mai sotto il riguardo dell’oggettivo. Così come Adamo che ha il Niente dentro di sé è l’uomo; di fatti Levinas scrive in merito a Kierkegaard: «Lo stadio da lui chiamato “estetico”, quello della dispersione nel sensibile, conduce infatti al vicolo cieco della disperazione, in cui la soggettività si perde».5 Adamo nell’angoscia combatte contro il Niente; il suo Io non è ideale né tanto meno concreto, egli ha a disposizione il Niente per lasciarsi angosciare, traviare, e solo ad un certo punto, quando l’esteriorità è posta come il divieto di non mangiare dell’albero della conoscenza, Adamo si riconosce come «quello che è ai piedi dell’albero, come quello che può». Può tentare la propria possibilità ma ciò che coglie è un nulla: di nuovo Adamo è ai piedi dell’albero, addenta la sua mela, è la libertà più assoluta di volere che schiaccia se stessa ai piedi dell’albero. Quella dell’identità, è identità mal posta nel finito; lungi da essere A che è A, l’identità è un farsi identità, nella disperazione, nell’angoscia, nel peccato: «L’identificazione di A come A è l’ansia di A per A».6 L’ansia di A per A è una tensione costitutiva di cui si può dire «che non si è mai arrivati alla fine, che non si è mai arrivati al compimento». La verità di Adamo sa che può, tuttavia non può farsi mai «oggetto» del pensiero, dimora nel vero perché è il vero che è presente in lei, eppure la verità non è mai presente.

2. La verità ovvero Kierkegaard

La fede religiosa non è una conoscenza imperfetta di una verità che sarebbe, in se stessa, perfetta e trionfante, capace di esercitare al primo colpo la sua azione sul pensiero di tutti, la conoscenza di una verità soltanto incerta; poiché in questo caso la fede religiosa sarebbe una pura e semplice degradazione del sapere. La soggettività che ne è portatrice sarebbe confusa con una opacità che percorre il campo assolato dell’esteriorità prima di svanire.7

La verità del sapere filosofico — o almeno di quel sapere che non si identifica con il sapere kierkegaardiano — è la verità trionfante; la verità che fa del proprio dispiegamento il trionfo. Il trionfo della verità è trionfo della esteriorità: l’oggetto che è oggetto del pensiero è posto dal pensiero stesso. La verità, così posta in quanto oggetto, è ad un tempo esteriore e interiore: esteriore perché posta, interiore perché inerente al pensiero; da questo pensata. È la verità dell’idealismo, la verità filosofica per eccellenza. La fede religiosa è però ben altra cosa dall’idealismo, la fede religiosa ha a che fare con una verità che non si lascia ingannare dall’oggettività:

La fede religiosa rinvia alla condizione di un’esistenza che nessun «di fuori» riuscirebbe a contenere e che è, nello stesso tempo, bisognosa e indigente, povera di quella povertà radicale, di quella povertà irrimediabile, di quella fame assoluta che è, in ultima analisi, il peccato. La fede religiosa è in relazione con una verità sofferente. La verità che soffre e che è perseguitata: è tutt’altra cosa rispetto a una verità a cui ci si accosta in maniera inadeguata. È tutt’altra cosa a tal punto che, per Kierkegaard, nella verità sofferente si esprime la manifestazione stessa del divino: simultaneità del Tutto e del Nulla? Rien?, Relazione con una Persona che è, allo stesso tempo, presente e assente — con un Dio umiliato che soffre, muore e lascia disperati coloro che salva. Certezza che coesiste con l’incertezza assoluta, fino al punto che ci si può chiedere se la Rivelazione in quanto tale non sia per caso contraria all’essenza di questa verità crocifissa, se la sofferenza di Dio e il disconoscimento della verità non dovrebbero raggiungere il loro livello sublime in un incognito totale.8

Come è possibile il salto dal segno al suo significato? Questo mondo, ossia il vero di questo mondo, deve pur essere manifestazione di una verità intangibile. E più si sonda questa verità, più si tenta di ingannare la superficie per non venire ingannati da questa, più ci si ritrova in superficie: mondo. Dio sembra manifestarsi nel creato, ma questo «sembra» sta a significare che la manifestazione di ciò che è non è a sua volta ciò che è ma ciò che non è. Il vero che è manifestazione della verità non è a sua volta verità ma manifestazione di questa. E ciononostante la verità riposa nel vero che ne è manifestazione: essa è comunque assente.

3. La verità; ossia il Niente

La contraddizione tra la presenza e l’assenza, nel cui ambito si mantiene la fede religiosa, resta non-conciliata: come una ferita aperta, nella situazione di un’emorragia che non si può fermare. Il rifiuto della sintesi non è in questo caso una debolezza dell’intelletto. È commisurato esattamente a questo nuovo modo di essere della verità: la sofferenza e l’umiliazione non costituiscono il risultato di un’avventura che capita alla verità dal di fuori; esse si inscrivono nella sua essenza di verità e in qualche modo nella sua stessa divinità. Perciò l’uscita da sé, la sola possibile alla soggettività, è la fede, la solitudine del tu-per-tu con Dio — cioè l’unica via che Kierkegaard ammette come tu-per-tu. Il salto mortale che l’esistenza compie per passare dall’assenza alla presenza è sempre da ricominciare daccapo. Il possesso non è mai assicurato. Se si producesse la sintesi, il tu-per-tu sarebbe interrotto. In questo caso esso potrebbe essere detto. La soggettività perderebbe la sua tensione su di sé, la sua contrazione, il suo egoismo radicale, entrerebbe nell’esteriorità e nella generalità. Diventerebbe filosofia o Vita Futura. Nella fede religiosa, l’esistenza cerca il riconoscimento, come la coscienza in Hegel. Essa lotta per questo riconoscimento, quando cerca il perdono e la salvezza; ma questo riconoscimento le è concesso da una verità essa stessa schernita e non-riconosciuta, sempre da riconoscere, così che il soggettivismo della soggettività non è mai concluso.9

Ciò che Levinas descrive non è solo il venire meno di una verità che all’uomo Kierkegaard si riferisce, ma il venire meno di quella verità che si affacciò dapprima nella vita del singolo Kierkegaard e poi nello Heidegger dei Contributi alla filosofia. La verità in questione non è la facile trionfante verità dell’idealismo per cui l’esteriorità del vero coincide con l’interiorità della verità facendo un tutt’uno tra vero e verità: è la verità dell’essere. Con tale verità, prima Kierkeggard all’interno di un rapporto non tematizzato ossia non esplicitato a dovere e poi Heidegger, con una mano che scriveva come fosse «dall’altra parte», fecero i conti. L’essere della verità «si dispiega» — utilizzando un termine metafisico che non dovremmo utilizzare ma che non possiamo fare a meno di utilizzare — come verità dell’essere, ossia apertura all’essere che noi in quanto Lichtung, radura per il velato, siamo. Il Da-sein è nel suo «Da» tale verità dell’essere, tale apertura all’essere. Fin qui sembrerebbe di trovarci nella verità trionfante, nel trionfo del dispiegamento della verità come oggettività: ma la verità (dell’essere) non è oggettività; è un «qualcosa» di così contrario all’esteriorità che ogni tentativo di dire «è così o così» viene meno. Entrambi, sia Kierkegaard che Heidegger, fanno dello stato d’animo dell’angoscia il palesarsi di questo Niente — è facile dunque capire perché la verità sia sofferente — ed entrambi muovono partendo dal territorio proprio della metafisica, dal territorio proprio dell’oggetto. Kierkegaard muoverà dall’incantamento prodotto dallo stadio estetico, Heidegger dall’incantamento proprio di tutta la storia metafisica che è storia dell’ente.

Che il soggetto debba sempre ricominciare daccapo nell’appropriazione della verità è dato dal fatto che ci si appropria del vero e non della verità: si ha sempre tra le mani l’appiglio sicuro di questa o quella cosa chiamata verità ma ci si ritrova sempre con una manciata di «veri», nessuno dei quali esaurisce la verità; esaurendola «il vero» si troverebbe a identificarsi con questa. L’uomo Kierkegaard, come Levinas fa notare, è l’uomo che va a ritroso, l’uomo che esce dall’inesauribile miscellanea etica per coprire la distanza incolmabile tra lui e la verità, tra lui e Dio. Questo è movimento ogni volta da rifare, movimento che ad un primo tempo è caratterizzato dal farsi Idea di Dio, dal porsi di questo nel fondo della coscienza in quanto Idea di Dio; è tutto un rapporto del soggetto con se stesso, tutto un rapporto del soggetto che investe la propria interiorità: c’è una sola grande Idea, avanti l’Idea, dietro i ricordi, i ricordi di Regina, ammutolita l’esteriorità. Ma c’è un secondo tempo, occupato da un secondo movimento, è un movimento ascetico che va a sostituirsi al primo grande movimento dell’Idea, movimento della filosofia; bisogna detronizzare l’Idea, si rischierebbe di giocarci, giocando con se stessi. Spazio allora al silenzio, al Niente che invade pervadendola la coscienza: può la distanza tra Kierkegaard e Dio essere colmata da un’Idea? Può l’Idea comprendere la grandezza di un Dio? Può l’Idea esaurire l’infinito andare oltre se stessi che è Dio? Può l’Idea esaurire l’infinito?

La coscienza afferma il vero, nell’affermare il vero vi è l’affermarsi della costanza del cambiamento: di vero in vero la filosofia avanza, ma sempre di vero si tratta e non di verità. Siamo nell’impeto dell’Idea, nel mutare della costanza filosofica. Il rapporto tu-per-tu è un rapporto tra l’uomo Kierkegaard e «il vero» di Dio; esso non è la verità ma Idea, Idea di Dio. Nel vero la coscienza si acquieta; almeno per un po’. Essa trova stabilità. Tende a una meta: la meta è il vero che acquieta. La coscienza si placa, tira il fiato e si prepara ad un nuovo, ennesimo tendere: il tendere «al vero dopo il vero». La verità che si preserva dall’oggettivazione è sempre dall’altra parte. Ma la coscienza anche ammettendo il Niente, tende al Niente e si mantiene sotto il riguardo del retroriferimento: ammazza l’esteriorità compiaciuta di se stessa. La coscienza che al Niente guarda e non all’Idea si mantiene non solo sotto il riguardo del retroriferimento ma, mantenendosi sotto tale riguardo, non può che mantenersi nel solco metafisico del vero. Anche del Niente la coscienza ne fa rappresentazione: esso è rappresentato come l’irrappresentabile; in quanto l’irrappresentabile. Anche il Niente — se vogliamo fare di esso la verità che viene meno o Dio è lo stesso — è governato dal governo dell’Idea, dal governo della rappresentazione: esso è Idea. A prova del fatto che anche del Niente abbiamo rappresentazione c’è la metafisica. Essa insegna che il Niente può essere «così o così». C’è il Niente di qualcosa; il che significa «che Dio non è niente di questo mondo ma è comunque qualcosa in sé» e c’è il Niente positivo, il Niente che ha carattere d’essere; il che significa «che Dio è un nulla» — mi viene da pensare in questo senso al Nirvana la cui definizione oscilla tra un «qualcosa» che non è niente di questo mondo ma è un qualcosa in sé e un «qualcosa» che si dà nella pienezza d’essere del nulla —. Anche rapportandoci alla verità come Niente, ci rapportiamo all’Idea, e di questa Idea ci facciamo l’Idea che possa essere così o così; vi è il vero come affermarsi della costanza del cambiamento. Kierkegaard di nuovo deve giocare con l’Idea, di nuovo deve ricominciare tutto daccapo, oscillando, sempre oscillando tra due Idee del Niente: quella di un Niente privativum, per cui «qualcosa» è il nulla di qualcosa e qualcosa in sé e il Niente positivo che è la pienezza d’essere del Niente. Ha ragione Levinas nel chiamare in causa l’esistenza con un «c’è» (il y a). Ha ragione Levinas nel fare della modalità d’essere dell’essere la «sostanza» dell’essere stesso.

4. Violenza ed esteriorità

Questa esistenza, la cui interiorità è troppo grande per l’esteriorità, e non può entrarvi, si ritrova così, in larga misura, nella violenza del mondo moderno e nel suo culto dell’Ardore e della Passione; comporta una irresponsabilità, un fermento di disintegrazione. Compaiono filosofi maledetti o maledicenti, così come poeti maledetti.10

È come se l’esteriorità dovesse venire meno «a colpi di martello»: è il figlio di Abramo. Qual è la finalità del porsi dei fini? Nessuna. Qui risiede l’essenza della libertà. Se la finalità del porsi dei fini è Dio qui risiede la possibilità della violenza, la possibilità del Male, la possibilità della sua esistenza:

La violenza nasce in Kierkegaard proprio nell’istante in cui, superando lo stadio estetico, l’esistenza non riesce a mantenersi in ciò che essa ritiene uno stadio etico, quando entra nello stadio religioso, ambito della fede religiosa. Quest’ultima non si giustifica più dall’esterno. Anche nella sua interiorità essa è, contemporaneamente, comunicazione e solitudine e, perciò, violenza e passione. In questo modo comincia il disprezzo per il fondamento etico dell’essere, il carattere in qualche modo secondario di ogni fenomeno etico che, attraverso Nietzsche, ci conduce all’amoralismo delle filosofie più recenti.11

L’uomo che va a ritroso si riversa come colata lavica sull’uomo etico, sull’uomo che è parecchi e tuttavia nessuno in particolare:

Tutta la polemica tra Kierkegaard e la filosofia speculativa presuppone la soggettività in tensione su di sé, l’esistenza come cura che un essere assume della propria esistenza e come un tormento per sé. La dimensione etica si identifica per Kierkegaard con la dimensione della generalità. La singolarità dell’Io andrebbe perduta sotto la regola valida per tutti. La generalità non può né contenere né esprimere il segreto dell’Io infinitamente indigente e angosciato per sé».12

È sotto il riguardo del retroriferimento — il che vuol dire sotto il riguardo della finalità divina che in quanto Idea di Dio dimora nell’interiorità del soggetto — che il soggetto esce da sé ma solo per rientrarvi, solo per colpire a colpi d’ascia l’altro. Infatti Abramo non può che sentire la voce di Dio nell’intimo della propria irriducibile interiorità e nell’uscire allo scoperto impattare con l’esteriorità, il cui venir meno «solo» può ricongiungerlo con Dio. È un doppio movimento quello che riduce l’interiorità — che poi in fin dei conti non viene ridotta che per l’attimo dell’azione — all’esteriorità, e il venir meno di questa al salto mortale definitivo nell’interiorità. Eppure Abramo — e ciò Kierkegaard se lo dimentica — sa anche fermarsi e fare del salto definitivo, il salto mortale, la possibilità che manca di effettuazione. Egli rompe con l’etica ma per fare di questa rottura un distacco temporaneo. Di tutto ciò Kierkegaard non coglie l’essenziale: l’essenziale rimane taciuto come all’altro capo di una corda sospesa, il cui incamminarsi di Kierkegaard a un certo punto si blocca; egli, Kierkegaard, non porta a compimento la camminata, si ferma giusto quell’attimo prima che l’essenziale possa essere colto e con esso il senso del dramma biblico. È una presa di posizione, quella Kierkegaardiana, che non solo non rende giustizia alla grandezza del dramma biblico, ma non si sofferma nemmeno in quella che è la dignità del pensiero; Levinas sostiene che «l’attenzione che Abramo presta alla voce che lo riconduceva all’ordine etico, proibendogli il sacrificio umano, è il momento più alto del dramma. Il fatto che lui abbia obbedito alla prima voce è sorprendente; il fatto che si sia posto, nei confronti di questa obbedienza, a una distanza sufficiente per sentire la seconda voce: ecco l’essenziale».13 Il fatto che Abramo si sia posto a distanza nei confronti di questa obbedienza quel tanto che basta per poter non tanto sentire, ma comprendere ciò che Dio gli comandava con la seconda voce, significa che solo per un mero fatto esteriore — cioè per il tempo che può avere un’azione — egli si discostò dall’etica, e ciò significa che non si discostò affatto; in cuor suo non erano chiari gli intenti divini, non era chiaro il perché di quel volere e il senso di una volontà divina che sembrava così distante dai propri precetti etici. Dio risultava così distante da se stesso da non destare in Abramo una convinzione che fosse più profonda, una convinzione che fosse così tanto profonda da dire: «sì, sono convinto, la mia convinzione è ferma, nessuno mi potrà impedire di…». E di fatti, Abramo si ferma, ma è come dire che non si ferma affatto, infatti sub specie aeternitatis Abramo non parte per alcuna terra, Abramo non porta il figlio con sé; è solo una differenza quantitativa, una differenza composta da un numero tale di azioni che può ingannare l’occhio poco scaltro. In realtà Abramo si ferma, ma in verità non si ferma affatto perché non è mai partito. È implicito nell’ordine delle cose che Abramo si discosterà per una semplice azione dall’ordine etico, il che vuol dire che non si discosterà affatto, perché il suo cuore rimarrà eticamente intatto. Ciò sta a significare che Abramo è pronto, cioè già da sempre è pronto a fermarsi, e solo agli occhi di chi ha perso o forse non ha mai ottenuta la fede ciò può sembrare terribile. Per parlare nei termini di Hegel, e renderci così più espliciti, Abramo in realtà parte, in realtà porta Isacco con sé, in realtà è intenzionato al sacrificio, ma sul piano ideale ciò che conta è la verità e la verità sul piano ideale è manifesta — solo sul piano empirico, in virtù del tempo si manifesterà secondariamente come un «qualcosa» che viene dopo —. Idealiter: è la verità ciò che conta; e la verità è manifesta, che dopo questa si manifesti nel tangibile mondo empirico passando per il negativo da dissolvere, cioè per il negativo di un Abramo che parte e porta Isacco con sé, non toglie alla verità il suo carattere di sostanza: delle apparenze ne facciamo a meno.

5. Il dramma della verità: contra Heidegger

La grandezza della verità trascendente, la sua stessa trascendenza, deriverebbe dalla sua umiltà: la verità trascendente si manifesta come se non osasse dire il suo nome e, perciò, sempre sul punto di partire; perciò non viene a collocarsi tra i fenomeni, con i quali si confonderebbe immediatamente, come se non venisse da altrove. Ci si può anche chiedere se la Rivelazione non si opponga all’essenza della verità trascendente, in quanto quest’ultima può manifestarsi autenticamente soltanto come perseguitata; ci si può chiedere se l’incognito non dovrebbe costituire la modalità stessa della rivelazione, se la verità che si è detta non dovrebbe anche apparirci come ciò di cui non si è detto nulla. L’idea che la trascendenza di ciò che è trascendente risiede nella sua estrema umiltà ci permette di intravvedere una verità che non è un disvelamento. L’umiltà della verità perseguitata è così grande che non osa presentarsi «nell’apertura illuminata» di cui ha parlato Heidegger. O, se si vuole, la sua presentazione è equivoca: è presente come se non fosse presente. Questa è, per me, la novità filosofica introdotta da Kierkegaard. L’idea di verità perseguitata ci permette forse di porre fine al gioco del disvelamento, in cui sempre l’immanenza prevale sulla trascendenza: poiché, una volta che l’essere si è disvelato — anche se parzialmente, anche se nel Mistero — esso diventa immanente. Non c’è esteriorità vera e propria in questo disvelamento. Ed ecco che, con Kierkegaard, qualcosa si manifesta e, poi, ci si può chiedere se vi è stata manifestazione. Qualcuno ha aperto un discorso. Ma no, non ha detto nulla! La verità si gioca in due tempi: l’essenziale è stato detto ma, nello stesso tempo, se volete, nulla è stato detto. Ecco la situazione nuova, la lacerazione permanente, un approdo che non è un approdo. Rivelazione e, subito dopo, nulla. Questa nuova modalità della verità introdotta da Kierkegaard non è pura invenzione da filosofo. È veramente la traduzione di un’epoca (e ciò che diceva Beaufret, su Kierkegaard che è il pensatore del nostro tempo, è assolutamente vero ma, forse, non soltanto per le ragioni addotte da Heidegger), che ha perduto la fiducia nell’autenticità storica delle Scritture senza perdere la possibilità di cogliere, attraverso di esse, una voce che viene di laggiù. Che cosa sono le Scritture? Forse nulla; a partire dalla Critica Storica della Bibbia, si spiegano con diverse contingenze. E tuttavia un messaggio ci fu. In questo senso c’è, nella maniera kierkegaardiana della verità, una nuova modalità del Vero.14

Levinas tira le conclusioni nella brevità di uno scritto, quello su Kierkegaard, che è breve nella forma, ossia nella formulazione di un linguaggio asettico e asciutto, ma infinito nel contenuto. Ciò da cui Levinas muove è il sentiero dell’essere, il sentiero di cui la metafisica ha fatto domanda incessante e di cui la risposta si è riversata in una molteplicità di risposte; da qui l’approdo ad Heidegger — se si intende e «solo» se si intende la metafisica come filosofia (l’unica possibile) e la filosofia come un processo consequenziale per cui il seguente è implicito nel precedente — era inevitabile e necessario. Ma c’è il riversarsi nel mondo dei fenomeni, nell’esistenza umana variopintamente angosciata, di una possibilità ulteriore, cioè della possibilità di uscita da una verità, quella dell’essere, anch’essa trionfante perché oggettiva? Heidegger si mantiene nell’ambito metafisico — anche se più che un metafisico è uno storico della metafisica — per due interessanti movimenti; profondi l’uno quanto l’altro. Egli è pressato dall’oggettività, e, come tutti i metafisici la trascende, la trascende non volendo pervenire ad un punto d’approdo consuento — ente — , volendo approdare alla stranezza dell’es gibt; alla stranezza del Niente. Ma questo secondo movimento che vorrebbe essere per l’Heidegger giovanile come pure per l’Heidegger anziano un po’ più esoterico un punto di non approdo, in verità approda ad una verità stabile e sicura, ad una verità che non ha le determinazioni dell’oggetto proprio ma che è comunque oggetto di un discorso, e prima ancora, oggetto di una riflessione: se si riflette in Heidegger si riflette sul Niente. E si fa addirittura un terzo, appena accennato movimento, si cerca lo spazio attraverso il quale questo Niente illumina il circostante, attraverso il quale si può ben dire che il Niente abbia un senso, il senso, perché l’unico possibile: il senso del Niente. Questo senso è l’uomo. Di nuovo è il retroriferimento a farla da padrone, a svolgere il nodo della matassa. Heidegger — sub specie aeternitatis — non muove un passo in avanti, è metafisico, non solo nelle conclusioni alle quali giunge, che lo ripetiamo, sono un punto d’approdo stabile e sicuro, ma nel rigore logico e quindi metafisico attraverso il quale indica queste stesse conclusioni: indica, egli, indicando l’oggettività, l’oggetto, l’ente e dall’ente, solo dall’ente perviene a ciò che è l’essere dell’ente: Niente. Kierkegaard rappresenta la novità rispetto ad Heidegger, una novità paradossale, perché è novità che cade molto tempo prima: egli è comunque una novità. Ciò che muove il concetto di verità in Kierkegaard è la categoria, da lui coniata, ma che sempre presente è stata il più delle volte celata dall’ipocrisia della religione cristiana, la categoria dello scandalo.

La novità assoluta che fa della filosofia di Kierkegaard la filosofia nuova è lo scandalo. Questa è categoria che per farsi, per rendersi presente a se stessa e agli altri adduce — come spesso succede nella dialettica del finito di Kierkegaard — un plurimovimento; un doppio movimento. Essa si contrappone alla verità e nello stesso tempo e in un senso ancora più ampio «si appropria» di questa verità non appropriandosi di questa verità, lasciandola cioè fluire nel magma fluido e fumoso del quale è costituita.

La verità della quale fa parola Kierkegaard è una verità filtrata dalla categoria dello scandalo; che la verità sia crocifissa, sia umiliata, che questa sia una verità sofferente getta tutti nello scandalo. Ci fa dire: tutto ciò è uno scandalo! Quanti lo hanno pensato, ma in quanti pochi hanno avuto il coraggio di farne parola! Da una parte il primo movimento tenta di farci fuorviare in un troppo facile e becero ateismo: le Scritture — si potrebbe dire — sono una falsità. E allora nessuna verità sarebbe manifesta, andrebbe manifesta per le strade battute dagli uomini. Ma lo scandalo non si limita a questo, da limite diventa spazio per il gioco, un gioco terribile, che getta nell’angoscia, ma pur sempre un gioco, un gioco inteso non come mero balocco per trastullarsi, ma come tecnicismo, un «qualcosa» che sosta nelle spire della dialettica del finito che Kierkegaard ha avuto il merito di instaurare. Il gioco si fa quindi pericoloso. Come pure la filosofia. Al primo movimento del rigetto delle Scritture lo scandalo fa seguire una verità che subito da esclusa diventa posta: lo scandalo dubita, dubita di questa verità, ma al dubbio segue la presa di coscienza, questa è un tutt’uno con il dubbio; se si dubita di questa verità — si dice — questa è oggetto del proprio pensiero, del proprio dubitare. Potrebbe quindi esistere; è stata e viene sottoposta all’esame. E il secondo movimento filtra la verità, in realtà non filtrandola, incardinandola a colpi di martello dall’altra parte dello scandalo che adesso non la rigetta più, non contrapponendosi ad essa, ma la lascia fluire come magma fluido e fumoso: ci si rende conto, e Kierkegaard in primis, che la verità in quanto tale verità, l’unica, non può che essere assoluta trascendenza, trascendenza che rifiuta l’immanenza, rifiuta il mondo dei fenomeni preferendo, per la sua preservazione, il mondo dell’idealità. L’uomo da una parte, e Dio dall’altra. Questa è la verità «presente e non presente» come sottolinea Levinas. Lo scandalo attraverso il suo filtro poderoso — poderoso perché non si lascia penetrare — sottolinea che questa verità non è fatta per il mondo degli uomini; è fatta bensì per il mondo della riflessione, ma non alla stregua di una riflessione post-metafisica metafisica alla Heidegger per cui essa diventa «oggetto» alla stregua degli altri oggetti, degli altri fenomeni, ma alla stregua di una riflessione che si rifiuta — e qui grazie allo scandalo — di rifletterci. La verità rimane intatta, preservata; nella sua idealità, e ogni tentativo di dire: «è così o così» non la tange, non la corrompe, essa come la volontà di Schopenhauer si manifesta nell’unica sua modalità, che è modalità del vero, si manifesta tutta intera, in tutti «i veri» della riflessione filosofica ma preservandosi nella sua unità. Essa non diviene. Ciò che diviene è la sua modalità di manifestazione-preservazione del «vero». La verità, attraverso lo scandalo, non filtrata da questo, ma sottoposta ad un unico grande filtro che la fa permanere dall’altra parte, il grande filtro impermeabile dello scandalo, è ad un tempo «presente e assente», presente perché manifesta nella manifestazione del vero, assente perché ciò che è manifestazione della verità, ossia il vero, non è la verità stessa.


  1. E. Levinas, Kierkegaard, tr. it. Corrado Armeni, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 10. ↩︎

  2. Op. cit., p. 12. ↩︎

  3. Op. cit., p. 13. ↩︎

  4. Op. cit., pp. 13-14. ↩︎

  5. Op. cit., p. 11. ↩︎

  6. Op. cit., p. 14. ↩︎

  7. Op. cit., pp. 19-20. ↩︎

  8. Op. cit., pp. 20-21. ↩︎

  9. Op. cit., pp. 21-23. ↩︎

  10. Op. cit., p. 23. ↩︎

  11. Op. cit., p. 28. ↩︎

  12. Op. cit., p. 29. ↩︎

  13. Op. cit., p. 44. ↩︎

  14. Op. cit., pp. 48-51. ↩︎