Recensione a Roberto Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista

Roberto Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, pp. 207.

Il termine post-umano è entrato all’interno del dialogo filosofico contemporaneo, come spesso leggiamo, alimentando una discussione vivace intorno alla tecnica e al concetto di uomo, eppure, altrettanto spesso, tale termine risulta confuso, frainteso o impiegato secondo accezioni equivoche. Proprio per questo, il testo Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, di Roberto Marchesini, offre un importante contributo di orientamento e chiarificazione. Marchesini, infatti, è stato uno dei primi pensatori italiani ad aderire alla corrente filosofica del Post-human, contribuendo, con il suo voluminoso testo del 2002 (Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza), sia ad importare in Italia un’accesa discussione sui futuri assetti antropologici in rapporto all’avanzare delle nuove tecnologie, sia a fissarne, i contenuti diventandone, per questo, uno dei maggiori esponenti a livello internazionale.

Proprio per questo, la lettura de Il tramonto dell’uomo, a nostro avviso, è uno strumento essenziale per chiunque voglia affrontare o semplicemente gettare uno sguardo su questo paradigma: non solo perché espone in modo dettagliato tutte le posizioni di questa nuova antropologia, ma anche perché dialoga con i più influenti filosofi contemporanei, alcune volte criticandoli, alcune volte procedendo con una rielaborazione del problema dell’uomo e della questione della tecnologia.

Attraverso un’ampia riflessione sullo stato dell’interpretazione dell’uomo nella società contemporanea, questo testo ha come bersaglio principale lo scardinamento sistematico della cosiddetta “ideologia umanista”, ovvero il paradigma che, secondo l’Autore, ha da sempre diretto ed orientato l’autocomprensione dell’uomo. Tale paradigma, infatti, ha influenzato la costruzione dell’identità umana attraverso una logica espungente/divergente rispetto a ogni alterità non-umana. Questa visione pesantemente antropocentrica ha rinchiuso l’uomo in una torre d’avorio illudendolo, così, di poter preservare una identità scevra da ogni contaminazione; in realtà, è necessario ammettere che le qualità dell’uomo non sono frutto di una negazione dell’alterità, ma performance ibride ottenute grazie ad una contaminazione costante con le entità animali e macchiniche considerate nella loro qualità di partner evolutivi.

Prototipo di ogni coniugazione con l’alterità non-umana, la domesticazione è indagata da Marchesini non solo come un rapporto culturale a flusso unico, ma come vera e propria apertura di una nuova dimensione dell’umano: la partnership evolutiva uomo-animale. In questo senso, l’identità deve essere riscoperta come «un frutto ibrido che si realizza proprio in virtù di processi di contaminazione cosicché l’alterità non è più considerata l’estraneo ma lo sposo, cioè il termine cogniugativo che consente l’emergenza seriale di nuovi processi identitari» (cfr. Ivi, p. 23). Figlio della res extensa e del determinismo del Moderno, il mito identitario della purezza viene superato in vista di una Natura considerata come un’esplosione di identità non sussumibili in un profilo dialettico: «la natura come emergenza di alterità, ovvero come fondamento di pluriversi, annulla la dicotomia di natura naturans e natura naturata» (p. 59).

L’originale critica di Marchesini si pone come primo atto della decostruzione di ogni dicotomia oppositiva tra natura e cultura, in vista di una teoria della complessità del biologico; proprio per questo ha come oggetto, da una parte, il paradigma classico dell’antropologia che vede nell’uomo un essere costitutivamente incompleto, il quale sopperisce a tale mancanza attraverso il ricorso alla componente tecnica e strumentale e, dall’altra, l’ultra-darwinismo che sacrifica l’ontogenesi dell’umano riducendo, così, l’antropo-poiesi ad una mera semantica filogenetica. Se quindi il testo è un atto di accusa alla filosofia tradizionale e moderna, esso compie anche una forte critica degli eccessi di molti neurobiologici, i quali riducono l’interpretazione dell’evoluzione dell’uomo come se l’identità umana fosse solo l’espressione di una partitura scritta nei geni e non, invece, un cammino co-evolutivo con e nell’ambiente. Entrambi questi atteggiamenti, secondo Marchesini, manifestano ancora un’essenziale antropocentrismo ontologico, epistemologico ed etico che impone l’uomo al centro di ogni interpretazione del reale.

Primo passo dell’opera di de-antropocentrismo in cui il testo si impegna è un rinnovato rapporto con il corpo, laddove esso non è più vissuto come un vincolo a cui essere incatenati, ma come una dimensione da abitare, un corpo-paesaggio da vivere ed in cui si acquista la podestà su di Sé. Ogni presunta mancanza che s’imputa al sostrato biologico dell’uomo (il cosiddetto teorema dell’incompletezza, tipico dell’antropologia del primo Novecento) è sempre, in realtà, una mancanza avvertita dopo l’entrata in campo della fitness tecnologica: senza l’introduzione di tale performatività, infatti, non se ne sarebbe neanche sentita la mancanza; nello stesso momento, però, la sua introduzione rende l’uomo sempre più dipendente dall’apparato tecnologico richiedendo così continue ibridazioni. Il corpo non è portatore di una mancanza costitutiva che viene colmata grazie allo strumento, poiché il sentimento di carenza che in esso si avverte «non nasce dall’onere iniziale ma dall’effetto della partnership integrata» (p. 113): la carenza indica la capacità del sistema di rispecchiare l’esterno rendendosi bisognoso di alterità in virtù di una ridondanza filogenetica e di una logica integrativa ontogenetica.

Tale passaggio al somato-landscape implica anche la nascita di una soggettività non derivata da una essenza, ma emergente dal contributo co-fattoriale delle alterità: essa accetta la sua natura ibrida in cui sono anche le alterità ad esprimersi. Proprio per questo, il postumanismo celebra la non-unicità e la non-coesione di tale posizione esistenziale in quanto l’ontopoiesi del Sé è un cammino di integrazione delle alterità, una progressione di assunzione di mondo: «La soggettività post-umanistica è basata sul multindividuo o, se si vuole, sull’assunzione della molteplicità come stato sincronico e della contaminazione come fondamento dell’ontopoiesi, ove si ritiene che qualunque profilo di coerenza e coesione redatto a posteriori sia un artefatto e come tale vada considerato» (pp. 137-138). Tale multindividuo è al centro di un processo di metalocazione e di simultaneità del molteplice che non si sviluppa lungo una direttrice diacronica, ma in un modo sincronicamente molteplice: questo significa essere al di là dell’inserimento spazio-temporale preciso, un essere senza esserci. La soggettività post-umana non si evolve, ma si devolve rendendosi glocale: il multindividuo dispersivo è capace di assumere tutte le locuzioni o di fare a meno di esse, poiché non cerca alcun tipo di coesione ma disgrega la sua presenza.

Ultimo passo di una presa di coscienza post-umana dell’uomo sarà dunque la creazione di una nuova ermeneutica della tecnoscienza in cui essa non sarà più interpretata come una mera emanazione dell’essenza umana, ma come agente di destabilizzazione ontologica grazie a cui l’uomo importa, nella sua ontopoiesi, coordinate di modelli altri. La tecnica modifica il bios umano declinandolo con l’alterità e non separandolo da essa: ogni tecnologia è sempre una biotecnologia perché si incarna nel corpo e nella mente dell’umano. La tecnologia, in questo senso, non è solo un partner ma una nuova dimensione: essa declina la semantica filogenetica dando vita ad un profilo ontologico nuovo dell’umano. Questo, però, non implica che la tecnopoiesi sottragga l’uomo dai percorsi evoluzionistici ma piuttosto, grazie ad essa, vengono istituiti nuovi percorsi coevolutivi: la creazione di nuovi ambienti di selezione è il portato di una tecnica capace di provocare uno slittamento della pressione selettiva nel binomio uomo-tecnologia. Ciò che rimane da fare alla società contemporanea è riconoscere tali mutamenti in modo da rendersi tecnodimensionata nel proprio sforzo di antropodecentrismo: in questo senso, secondo Marchesini, il post-human è quanto di più vicino ad un neo-umanesimo.

Arrivati alla fine de Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista ci si accorge di come il testo sia una lettura essenziale per comprendere in che senso, oggi, ci si debba confrontare con il pensiero post-human, evitando gli slanci transumanisti o ultra-darwinisti che poco hanno da dire su quell’ente che va sotto il nome di uomo. Pur nella radicalità di alcune sue affermazioni, Marchesini ci offre un buon punto di appoggio per ripensare di più e più profondamente il rapporto tra l’umano e la tecnica, un rapporto che sembra sempre di più imporsi all’attenzione delle istituzioni e della società ma che, molto spesso, lascia la filosofia impreparata sul come interpretare le sfide che la società tecno-scientifica ci mette di fronte.