L’uomo e il suo «desiderio naturale di vedere Dio» in Tommaso d’Aquino

La struttura «interna» dell’uomo, per Tommaso d’Aquino, è intrinsecamente dinamica: le facoltà dell’anima, infatti, si influenzano e «spingono» reciprocamente per il conseguimento del fine ultimo verso cui ogni uomo tende «con tutte le sue forze» e nel quale soltanto consiste il «bene» che ricerca, anche inconsapevolmente. Le facoltà dell’anima, infatti, sono tra loro ordinate secondo un coordinamento di forze finalizzate al raggiungimento della felicità.

Trattando del libero arbitrio e chiedendosi se esso sia una potenza appetitiva, Tommaso argomenta così a proposito della scelta o elezione: «per l’elezione concorre qualcosa da parte della virtù cognitiva e qualche cosa da parte di quella appetitiva. Naturalmente, dalla parte della cognitiva si richiede il consiglio, per il quale si giudica che cosa sia da preferire ad un’altra; invece, da parte dell’appetitiva si richiede che appetendo si accetti ciò che è giudicato mediante il consiglio».1

Si dà, dunque, un interagire tra le facoltà umane, in modo peculiare nel libero arbitrio. Poiché l’uomo si qualifica, come vedremo, per il suo «desiderio naturale di vedere Dio», e quindi conoscerLo (è questa conoscenza ciò che vuole), la volontà muove l’intelletto nell’esercizio delle sue capacità in ordine al raggiungimento di questo fine (che è il bene desiderato: «vedere Dio»); quanto, invece, all’appetizione di questa o quell’altra cosa, l’intelletto muove la volontà, in quanto giudica che essa è più conforme al raggiungimento del fine: «la volontà muove l’intelletto quanto all’esercizio dell’atto: poiché anche lo stesso vero, che è la perfezione dell’intelletto, è contenuto sotto il bene universale come qualche bene particolare. Ma quanto alla determinazione dell’atto, che è da parte dell’oggetto, l’intelletto muove la volontà, poiché anche lo stesso bene è appreso secondo qualche speciale ragione compresa sotto la ragione di vero universale».2 Ma quale tra gli atti delle menzionate facoltà ha il primato su quelli dell’altra; tra le due, cioè, qual è la più nobile?

Quanto qualche cosa è più semplice ed astratta tanto, secondo se stessa, è più nobile e più alta. E così l’oggetto dell’intelletto è più alto rispetto all’oggetto della volontà. Poiché, allora, la ragione propria di potenza è secondo l’ordine all’oggetto, ne segue che, secondo sé e simpliciter, l’intelletto è più alto e più nobile della volontà. Invece, secondo qualcosa e per la comparazione ad altro, la volontà talora si trova più alta dell’intelletto, per il fatto che, certamente, l’oggetto della volontà si ritrova in una cosa più alta rispetto all’oggetto dell’intelletto […]. Quando, allora, la cosa nella quale c’è il bene è più nobile della stessa anima, nella quale c’è la ragione intellettiva, la volontà è più nobile dell’intelletto in rapporto a tale cosa. Quando, al contrario, la cosa nella quale c’è il bene, è al di sotto dell’anima, allora anche in rapporto a tale cosa l’intelletto è più alto della volontà in rapporto a tale cosa. Quindi è meglio l’amore di Dio che la conoscenza di Lui; al contrario, invece, è meglio la conoscenza delle cose corporali che il loro amore. Tuttavia semplicemente, l’intelletto è più nobile della volontà.3

Nello stato di viatori in cui ci troviamo, dunque, l’amore di Dio vale più della conoscenza di Lui (in questo stato, infatti, non si dà conoscenza sostanziale di Dio); ma poiché siamo stati creati per vederLo «così come egli è»,4 l’intelletto si troverà direttamente congiunto al «sommo vero», realizzando appieno il desiderio naturale della volontà: in questo consiste la sua superiorità.

Il vero, assolutamente parlando, secondo la ragione è prima del bene. Ciò appare da due cose. 1. Certamente per il fatto che il vero si ha più prossimo all’ente, il quale è prima del bene. Infatti il vero riguarda lo stesso essere semplicemente ed immediatamente; la ragione di bene, invece, consegue l’essere secondo che è in qualche modo perfetto; in questo modo, infatti, è appetibile. 2. Appare dal fatto che la conoscenza precede l’appetito. Quindi, poiché il vero riguarda la conoscenza, il bene invece l’appetito, secondo la ragione primo sarà il vero piuttosto che il bene.5

Stabilita la superiore nobiltà, intesa in senso assoluto, della facoltà conoscitiva, rimane da chiarire in che termini l’una influenza l’altra; come, cioè, la conoscenza interagisce nelle scelte e viceversa.

Al posto della virtù estimativa nell’uomo c’è la virtù cogitativa, la quale è detta da alcuni «ratio particularis», per il fatto che è raccoglitiva (collativa) delle intenzioni individuali. Quindi nell’uomo l’appetito sensitivo è nato per essere mosso da essa. La stessa «ratio particularis», invece, nell’uomo è nata per essere mossa ed essere diretta dalla «ratio universalis»; quindi dalle proposizioni universali le conclusioni singolari sono concluse nelle sillogistiche. E così è chiaro che la «ratio universalis» impera all’appetito sensitivo, che si distingue in concupiscibile e irascibile,[^6] e così l’appetito è a lui obbediente.6

L’intelletto, dunque, impera alla volontà di indirizzarsi su un bene piuttosto che su un altro: «infatti il bene conosciuto muove la volontà»,7 ma l’adesione della volontà al comando dell’intelletto è necessaria oppure contingente? Per rispondere a questa domanda prima di tutto bisogna intendersi sul concetto di «necessità» e di «necessario»:

»necessario» si dice in molti modi. È necessario, infatti, «ciò che non può non essere»; questo certamente conviene a qual cosa: a) in un modo per il principio intrinseco, o materiale, come quando diciamo che ogni cosa composta dai contrari è necessario che si corrompa; b) oppure, formale, come quando diciamo che è necessario che il triangolo abbia tre angoli uguali a due retti. E questa è la necessità naturale o assoluta. In un altro modo conviene a qualche cosa che non possa non essere in riferimento a qualche cosa estrinseca, che può essere o il fine o l’agente. c) Naturalmente, per il fine quando qualcuno senza una data cosa non può conseguire, oppure non può conseguire bene, un qualche fine, come il cibo che si dice necessario alla vita, e il cavallo per il viaggio; e questa è chiamata necessità del fine, la quale a volte è detta anche utilità; d) invece, a qualcosa conviene dall’agente, come quando qualcuno è costretto da qualche causa agente, così che non possa fare il contrario; e questa è chiamata necessità di coazione. Questa necessità di coazione, allora, ripugna completamente alla volontà. […] Invece la necessità del fine non ripugna alla volontà quando al fine non può pervenire se non in un modo […]. Allo stesso modo neanche la necessità naturale ripugna alla volontà.8

La volontà, allora, aderisce necessariamente solo al fine ultimo, quello «universale e perfetto», non ai fini intermedi. Dalla possibilità di abbracciare il «sommo bene» deriva il rifiuto di accontentarsi del contingente: «poiché la possibilità della volontà è riguardo al bene universale e perfetto, tutta la sua possibilità non sottostà a qualche bene particolare, e così non è mossa da quello per necessità».9

Nella ricerca della felicità, di quella beatitudo che soltanto nella visione di Dio potrà compiersi, l’uomo vuole necessariamente solo l’ultimo fine, le altre cose, invece, in riferimento e per il conseguimento di esso:

la volontà non vuole per necessità tutto ciò che vuole. Per l’evidenza di ciò bisogna considerare che, come l’intelletto per natura e necessità si lega ai primi principi, così la volontà all’ultimo fine […]. Ci sono alcuni beni particolari che non hanno connessione alla beatitudine, poiché senza di questi qualcuno può essere beato; e a questo genere di beni la volontà non aderisce per necessità. Ci sono invece quelli che hanno qualche connessione necessaria con la beatitudine, naturalmente, quelli per cui l’uomo si unisce a Dio, nel quale solo consiste la vera beatitudine. Ma tuttavia, prima che la necessità di tale connessione sia dimostrata per la necessità della divina visione, la volontà non si unisce a Dio, né alle cose che sono di Dio, per necessità. Ma la volontà di vedere Dio unisce a Dio per necessità, come ora per necessità vogliamo essere beati. È chiaro, dunque, che tutto ciò che vuole la volontà non lo vuole per necessità.10

Si verifica, così, nella scelta dell’uomo, un indirizzo verso soluzioni opposte, in quanto gli oggetti del desiderio (da cui le cose da farsi) sono contingenti, poiché ad essi la ragione non aderisce necessariamente come al fine ultimo: «la ragione, infatti, intorno alle cose contingenti ha la via aperta verso soluzioni opposte, come appare chiaro nei sillogismi dialettici e nelle persuasioni retoriche. Invece, le cose particolari da fare sono in qualche modo contingenti; così riguardo ad esse il giudizio della ragione si ha verso cose diverse, e non è determinato da una cosa sola».11

Si appetisce, dunque si vuole, il bene sommo in cui c’è la massima perfezione,12 che è ciò che si desidera raggiungere.13

Ora, l’anima, che è una sostanza intellettuale sussistente,14 per natura desidera «conoscere tutto ciò che ha pertinenza con la perfezione dell’intelletto; e perciò le specie ed i generi e le loro ragioni»;15 ma «la perfezione dell’intelletto è il vero come conosciuto»,16 cioè la certezza;[^18] dunque è naturale desiderio dell’uomo conoscere la pienezza della verità, nella quale consiste la sua piena e duratura felicità.

Vanno fatte due considerazioni. La prima è che l’uomo non è perfettamente beato, nella misura in cui gli resta qualcosa ancora da desiderare e da cercare. La seconda è che la perfezione di qualunque potenza si raggiunge secondo la ragione del suo oggetto. Ora, l’oggetto dell’intelletto è ciò che è, cioè l’essenza delle cose, come si dice nel III libro del De Anima di Aristotele. Per cui, la perfezione dell’intelletto in tanto progredisce in quanto conosce l’essenza di qualcosa. Se, dunque, un qualsiasi intelletto conoscesse l’essenza di un certo effetto, attraverso la quale non può conoscere l’essenza della sua causa, ossia conoscere della causa che cos’è, non si può dire che ne abbia avuta una conoscenza vera, anche se attraverso l’effetto può sapere della causa che essa esiste. E così, per natura, nell’uomo rimane il desiderio, una volta conosciuto l’effetto e saputo che esso deve avere una causa, di conoscere pur di questa causa che cos’è. E questo desiderio proviene dalla meraviglia e causa la ricerca, come si dice al principio della Metafisica aristotelica.17

La conoscenza dell’essenza di tutte le cose potrà realizzarsi solo quando l’uomo conoscerà la divina sostanza; «nell’uomo è infatti naturale il desiderio, quando vede un effetto, di conoscere la causa: da qui il sorgere dell’ammirazione negli uomini. Se dunque l’intelligenza della creatura ragionevole non potesse giungere alla causa suprema delle cose, in essa rimarrebbe vano il desiderio naturale».18 Ma la causa prima e suprema di tutte le cose è Dio; così, «è necessario affermare che ogni cosa, in qualsiasi modo esista, viene da Dio. […] È quindi necessario che tutte le cose, le quali si differenziano secondo una diversa partecipazione dell’essere tanto da risultare esistenti in modo più o meno perfetto, siano causate da un solo primo essere, il quale perfettamente è».19

Nella visione di Dio, dunque, il desiderio dell’uomo si compie totalmente e definitivamente; in Lui, che è la fonte dell’essere e quindi della verità, l’intelletto attinge l’essenza stessa della verità, appagandosi pienamente, non avendo altro da desiderare. «Se (l’anima) dunque solo vedesse Dio, che è la fonte e il principio di tutto l’essere e della verità, si compirebbe talmente il suo naturale desiderio di conoscere, che nient’altro cercherebbe e sarebbe beata».20

La visione della divina sostanza, però, non soltanto permette all’uomo di conoscere l’essenza delle cose, in quanto di esse ne comprende la causa intima e sostanziale, ma soprattutto unisce l’intelletto a Dio, facendogli raggiungere «la stessa essenza della causa prima»: «per la perfetta beatitudine si richiede che l’intelletto raggiunga la stessa essenza della causa prima. E così avrà la sua perfezione per l’unione con Dio, come con l’oggetto in cui soltanto consiste la beatitudine dell’uomo».[^23]

La controprova di quanto abbiamo sino a qui analizzato ce la fornisce lo stesso Aquinate quando ricorda che «siccome l’ultima beatitudine dell’uomo consiste nella sua più alta operazione, che è l’operazione intellettuale, se l’intelletto creato non può in nessun modo conoscere l’essenza di Dio, una delle due: o mai raggiungerà la beatitudine o essa consisterà in altra cosa diversa da Dio».21

Da quest’ultima indicazione traiamo due possibili obiezioni, che si possono così formulare: l’intelletto o riesce ad avere una visione sostanziale di Dio anche nello stato di viator, oppure ha un desiderio naturale inutile (inane).22

Alla prima di esse Tommaso risponde semplicemente che «è impossibile che in questa vita ci sia l’ultima felicità dell’uomo».23 La sostanza divina, infatti, eccede le possibilità dell’intelletto; la conoscenza che in presenti condicione possiamo avere di Dio è «sapere di non conoscerlo»: «c’è da affermare che, per il fatto che il nostro intelletto non può abbracciare la divina sostanza, ciò che costituisce proprio la sostanza di Dio rimane eccedente rispetto al nostro intelletto: e così essa è da noi ignorata. E per questo, l’ultima conoscenza che l’uomo ha di Dio è che sa di non conoscere Dio, in quanto conosce che ciò che Dio è eccede tutto ciò che possiamo comprendere di Lui».[^27]

Alla seconda obiezione l’Angelico così replica: «il desiderio naturale non può essere inutile».24 Il motivo è semplice: anzitutto «ogni potenza, secondo ciò cui è potenza, è ordinata all’atto»25 e, poiché la facoltà appetitiva è una potenza attiva, cioè un’attitudine positiva all’essere, «a ciascuna potenza attiva corrisponde la possibilità del proprio oggetto, per la stessa ragione di quell’atto su cui è fondata la potenza attiva».26 Per Tommaso, dunque, la possibilità di pervenire al fine è data dal fatto che in ogni desiderio c’è già «un inizio del fine stesso»:

nessuna cosa può ordinarsi ad un certo fine se non preesiste in essa una certa proporzione a questo fine, dalla quale proporzione proviene in essa il desiderio del fine; e questo dipende dal fatto che in qualche modo in essa c’è già un inizio (inchoatio) del fine, perché niente desidera il bene se non in quanto ha in sé una qualche somiglianza di quel bene. E da ciò deriva che nella stessa natura umana vi è un qualche inizio del bene che è proporzionato a questa natura. E da ciò deriva che nella stessa natura umana vi è un qualche inizio del bene che è a questa natura proporzionato.27

In questa argomentazione, di matrice chiaramente agostiniana, ciò che emerge nella dialettica del desiderio è una «presenza»[^32] dinamica;28 il «desiderio», infatti, cosa è se non la ricerca di qualcosa che in un certo senso si possiede (o si è posseduta), anche se in modo imperfetto, ossia non pienamente e totalmente.

Uno dei più grandi discepoli di Tommaso (non nel senso che ha assistito alle sue lezioni, ma che ha attinto a piene mani dalla sua dottrina), il poeta Dante Alighieri, nella sua monumentale opera, La Divina Commedia, ha cantato questi concetti:

Oh abbondante grazia ond’io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squadema: sustanze e accidenti e lor costume, quasi confiati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’i’godo. …………………………….. Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faccasi accesa. A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossìbil che mai si consenta; però che ‘l ben, ch’è del volere obietto, tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch’è lì perfetto.29

Ed in Tommaso tutto questo non soltanto è oggetto di speculazione scolastica, ma si esprime in preghiera a colui che (per utilizzare la terminologia del Catechismo di Pio X) ci ha dato il desiderio di conoscerlo ed amarlo in questa vita, per goderlo nell’altra: visu sim beatus tuae gloriae.30

  1. «L’appetito concupiscibile è una semplice tendenza che sospinge ad appetire ciò che è percepito come bene ed a sfuggire ciò che è percepito come male; l’appetito irascibile è una tendenza a superare difficoltà e ostacoli per conseguire il bene ed evitare il male […]» (E. J. Gratsch, Manuale introduttivo alla Summa Theologica di Tommaso d’Aquino, Piemme, Casale Monferrato [Al], 1988, 94).

    Più avanti, lo stesso autore porrà queste distinzioni: «nell’appetito concupiscibile ci sono sei passioni o operazioni: 1) l’amore, che è la tendenza dell’appetito verso il bene, mentre 2) l’odio è l’avversione dell’appetito verso il male. 3) Il desiderio è l’inclinazione dell’appetito verso un bene non ancora posseduto, ma conseguibile, mentre 4) la fuga o ripugnanza è l’avversione dell’appetito dal male non ancora avvenuto. Ma ritenuto prossimo. Per terminare, 5) il piacere è il riposo dell’appetito nella percezione e possesso del bene, mentre 6) il dolore è la pena causata dalla percezione e presenza del male […]. Ci sono cinque passioni, o operazioni, nell’appetito irascibile: 1) la speranza, che è un movimento dell’appetito verso un bene percepito come difficile, ma possibile da ottenere; 2) la disperazione, che è la reazione dell’appetito di fronte a un bene percepito come impossibile da ottenere; 3) l’audacia, che è il coraggio, o movimento, dell’appetito in risposta a un male percepito come terribile e imminente ma superabile; 4) il timore, che è il turbamento dell’appetito di fronte ad un male considerato terribile, imminente e insuperabile, e infine 5) l’ira, che è l’inclinazione dell’appetito a infliggere punizioni a un colpevole» (ibid., 128-129).

  2. Newman, in un celebre passo, così si esprime a proposito della certezza: «la certezza consiste nel percepire il vero e percepire che il vero è vero: è quella consapevolezza di sapere che si esprime nella frase: «So di sapere», oppure: «So di saper di sapere»; o semplicemente: «So». Giacché una sola asserzione riflessa dello spirito su se stesso abbraccia tutte le serie di auto-coscienze senza bisogno di sgranarle tutte per intero» (J. H. Newman, Grammatica dell’assenso, trad. it., Jacca Book, Milano 1980, 119).

    Per Tommaso d’Aquino, la certezza è un atto squisitamente intellettuale: «ciò che muove propriamente l’intelletto è ciò che è vero di una infallibile verità. Cosicché tutte le volte che l’intelletto si lascia muovere da un segno fallibile vi è in esso un disordine, sia che si muova in modo perfetto che imperfetto» (De Veritate, in Quaestiones disputatae, I, q. 18, a. 6, c). Quest’atto disordinato non dipende dall’intelletto ma dalla ricerca razionale, che per l’uomo, infimo tra le creature intellettuali, è necessaria in quanto lo stesso intelletto ha un difetto strutturale: «la certezza della ragione viene dall’intelletto, ma la necessità della ragione viene da un difetto dell’intelletto: coloro che sono pienamente intellettuali non ne hanno bisogno» (S. Th., II-II, q. 49, a. 5, ad 2). Ora, «il termine intelletto è desunto dall’intima penetrazione della verità; mentre ragione deriva dalla ricerca e dal processo discorsivo» (S. Th., II-II, q. 49, a. 5, ad 3); infatti, «la ragione differisce dall’intelletto come la moltitudine dall’unità; quindi dice Boezio nel IV libro del De Consolatione che il suo rapporto all’intelletto è simile a quello della circonferenza al centro, o del tempo all’eternità. Ciò che le è proprio è il diffondersi intorno a molti oggetti e di raccoglierne una conoscenza semplice […]; l’intelletto al contrario, vede anzitutto una semplice ed unica verità da dove ricava la conoscenza di una moltitudine» (In Librum Boethii de Trinitate, Ps. 3, q. 6, a. 1, c. 21).

    Osservazioni davvero pertinenti su quest’argomento sono state date da Rousselot: «il movimento reale dell’intelligenza non è spiegato se non si vede in essa, prima di tutto, una facoltà di sintesi» (P. Rousselot, Gli occhi della fede, Jaca Book, Milano 1977, 45-47).

  3. S. Th., I-II, q. 3, a. 8, c. Tali considerazioni per Tommaso sono anche oggetto di predicazione. Nel quaresimale in cui spiega il Credo Apostolico, infatti, quando tratta dell’ultimo articolo, così si esprime:

    «Est autem primo considerandum in hoc articolo, quae vita sit vita aeterna. Circa quod sciendum quod in vita aeterna primum est quod homo coniungitur Deo.

    Nam ipse Deus est ipse premium et finis omnium laborum nostrorum: Gen. XV, 1: «Ego protector tuus sum, et merces tua magna nimis».

    Consistit autem haec coniuctio in perfecta visione: I Cor. XIII, 12: «Videmus nunc per speculum in aenigmate: tunc autem facie ad faciem».

    Item consistit in summa laude: Augustinus, in 22 De Civit. Dei: «Videbimus, amabimus, et laudabimus»; Isai. LI, 3: «Gaudium et laetitia invenietur in ea, gratiarum actio, et vox laudis».

    Item in perfecta satietate desiderii: nam ibi habebit quilibet beatus ultra desiderata et sperata. Cuius ratio est, quia nullus potest in vita ista implere desiderium suum, nec unquam aliquod creatum satiat desiderium hominis: Deus enim solus satiat, et in infinitum excedit: et inde est quod non quiescit nisi in Deo, Augustinus, in I Conf.: «Fecisti nos, Domine, ad te, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». Et quia sancti in patria perfecte habebunt Deum, manifestum est quod satiabitur desiderium eorum, et adhuc gloria excedet. Et ideo dicit Dominus, Matth. XXV, 21: «Intra in gaudium Domini tui». Augustinus: «Totum gaudium non intrabit in gaudentes, sed toti gaudentes intrabunt in gaudium». Psal. XVI, 15: «Satiabor cum apparuerit gloria tua»; et iterum CII, 5: «Qui replet in bonis desiderium tuum». Quidquid enim delectabile est, totum est ibi superabundanter. Si enim appetuntur delectationes, ibi erit summa et perfectissima delectatio, quia de summo bono, scilicet Deo: Iob XXII, 26: «Tunc super omnipotentem deliciis afflues»; Psal. XV, 11: «Delectationes in dextera tua usque in finem». Item si appetuntur honoris, ibi erit omnis honor. Homines praecipue desiderant esse reges, quantum ad laicos, et episcopi, quantum ad clericos: et utrumque erit ibi: Apoc. V, 10: «Fecisti nos Deo nostro regnum et sacerdotes»; Sap. V, 5: «Ecce quomodo computati sunt inter filios Dei».

    Item si scientia appetitur, ibi erit perfectissima: quia omnes naturas rerum et omnem veritatem, et quidquid volemus, sciemus, et quidquid volumus habere, habebimus ibi cum ipsa vita aeterna. Sap. VII, 11: «Venerunt mihi omnia bona pariter cum illa». Prov. X, 24: «Desiderium suum iustis dabitur»» (In Symbolum Apostolorum, Vitam aeternam, 23-83).

  4. De potentia, in Quaestiones disputatae, q. 7, a. 5, ad 14.

    Detta argomentazione è valida anche per la conoscenza che del Creatore ne dà la creazione: «poiché l’intelletto umano, secondo lo stato della vita presente, non può comprendere le sostanze che sono state create separate [dalla materia], molto meno può comprendere l’essenza della sostanza increata. Quindi simpliciter c’è da dire che Dio non è la prima cosa da noi conosciuta; ma piuttosto attraverso le creature perveniamo alla conoscenza di Dio, secondo quello che dice l’Apostolo Paolo: «Le realtà invisibili di Dio, attraverso le cose che sono state create, possono essere contemplate»» (S. Th., I, q. 88, a. 3, c). Infatti, la conoscenza che di Dio fornisce il creato non riguarda l’essenza stessa di Dio, ma la sola sua presenza; cioè, l’ente creato non dice «che cosa» è Dio, ma soltanto che «deve esserci» (le cinque vie si muovono in questa direzione, e ne sono una riprova); la creazione è «l’effetto» del Creatore, per cui «est necesse ponere aliquam causam efficientem primam: quam omnes Deum nominant» (S. Th., I, q. 2, a. 3, c).

  5. «In due modi si dice che Dio è in qualche cosa. Primo, nel modo della causa agente; e in tal modo è in tutte le cose da lui causate; nell’altro modo, come l’oggetto dell’operazione è nell’operante; ciò si verifica proprio nelle operazioni dell’anima, a seconda che la cosa conosciuta è nel conoscente, e la cosa desiderata nel desiderante. Or bene, in questo secondo modo Dio è presente in modo speciale nella creatura ragionevole, che lo conosce e lo ama in atto o per una disposizione abituale (quae cognoscit et diligit Illum actu vel habitu)» dovuta alla grazia (S. Th., I, q. 8, a. 3, c).

    Tommaso spiegherà filosoficamente questa seconda indicazione quando porrà la questione se qualche intelletto creato può vedere Dio grazie alle proprietà naturali; argomentando in questo modo: «Cognitio contingit secundum quod cognitum est in cognoscente. Cognitum, autem, est in cognoscente secundum modum cognoscentis. Unde cuiuslibet cognoscentis cognitio est secundum modum suae naturae. Si igitur modus essendi alicuius rei cognitae excedat modum naturae cognoscentis, oportet quod cognitio illius rei sit supra naturam illius cognoscentis […]. Ea quae non habent esse nisi in materia individuali, cognoscere est nobis connaturale, eo quod anima nostra per quam cognoscimus, est alicuius materiae. Quae tamen habet duas virtutes cognoscitivas. Unam, quae est actus alicuius corporei organi; et huic connaturale est cognoscere res secundum quod sunt in materia individuali; unde sensus non cognoscit nisi singularia. Alia vero virtus cognoscitiva eius est intellectus, qui non est actus alicuius organi corporalis. Unde secundum intellectum possumus cognoscere huiusmodi res in universali; quod est supra facultatem sensus […]. Cognoscere ipsum esse subsistens sit connaturale soli intellectui divino, et quod sit supra facultatem naturalem cuiuslibet intellectus creati, quia nulla creatura est suum esse, sed habet esse partecipatum. Non igitur potest intellectus creatus Deum per essentiam videre, nisi inquantum Deus per suam gratiam se intellectui creato coniungit, ut intelligibile ad ipso» (S. Th., I, q. 12, a. 4, c).


  1. S. Th., I, q. 83, a. 3, c. ↩︎

  2. S. Th., I-II, q. 9, a. 1, ad 3. ↩︎

  3. S. Th., I, q. 82, a. 3, c. ↩︎

  4. 1 Gv 3, 2 ↩︎

  5. S. Th., I, q. 16, a. 4, c. ↩︎

  6. S. Th., I, q. 81, a. 3, c. ↩︎

  7. S. Th., I, q. 82, a. 3, ad 2. ↩︎

  8. S. Th., I, q. 82, a. 1, c. ↩︎

  9. S. Th., I, q. 82, a. 2, ad 2. ↩︎

  10. S. Th., I, q. 82, a. 2, c. ↩︎

  11. S. Th., I, q. 83, a. 1, c. ↩︎

  12. «Unumquodque enim dicitur bonum, secundum quod est perfectum. Perfectio autem alicuius rei triplex est. Prima quidem, secundum quod in suo esse constituitur. Secunda vero, prout ei aliqua accidentia superadduntur, ad suam perfectam operationem necessaria. Tertia vero perfectio alicuius est per hoc, quod aliquid aliud attingit sicut finem. Utpote prima perfectio ignis consistit in esse, quod habet per suam formam substantialem, secunda vero eius perfectio consistit in caliditate, levitate et siccitate, et huiusmodi, tertia vero perfectio eius est secundum quod in loco suo quiescit. Haec autem triplex perfectio nulli creato competit secundum suam essentiam, sed soli Deo, cuius solius essentia est suum esse; et cui non adveniunt aliqua accidentia; sed quae de aliis dicuntur accidentaliter, sibi conveniunt essentialiter, ut esse potentem, sapientem, et huiusmodi»: S. Th., I, q. 6, a. 3, c. ↩︎

  13. «Duplex est rei perfectio, prima, et secunda. Prima quidem perfectio est, secundum quod res in sua substantia est perfecta. Quae quidem perfectio est forma totius, quae ex integritate partium consurgit. Perfectio autem secunda est finis. Finis autem vel est operatio, sicut finis citharistae est citharizare, vel est aliquid ad quod per operationem pervenitur, sicut finis aedificatoris est domus, quam aedificando facit. Prima autem perfectio est causa secundae, quia forma est principium operationis. Ultima autem perfectio, quae est finis totius universi, est perfecta beatitudo sanctorum; quae erit in ultima consummatione saeculi»: S. Th., I, q. 73, a. 1, c. ↩︎

  14. Cfr S. Th., I, qq. 75-83. ↩︎

  15. S. Th., I, q. 12, a. 8, c. ↩︎

  16. S. Th., I, q. 16, a. 2, c. ↩︎

  17. S. Th., I-II, q. 3, a. 8, c. ↩︎

  18. S. Th., I, q. 12, a. 1, c. ↩︎

  19. S. Th., I, q. 44, a. 1, c. ↩︎

  20. S. Th., I, q. 12, a. 8, c. ↩︎

  21. S. Th., I, q. 12, a. 1, c. ↩︎

  22. Nella nostra epoca una simile riflessione è stata proposta e portata avanti da Sartre: «ogni realtà umana è una passione in quanto progetta di perdersi per fondare l’essere e per costruire l’in-sé che sfugge alla contingenza essendo il proprio fondamento, l’Ens causa sui che le religioni chiamano Dio. Così la passione dell’uomo è l’inverso di quella di Cristo, perché l’uomo si perde in quanto uomo perché Dio nasca. Ma l’idea di Dio è contraddittoria e ci perdiamo inutilmente; l’uomo è una passione inutile» (J. P. Sartre, L’Essere e il Nulla, Milano 1964, 738). ↩︎

  23. S. c. G., L. I, C. 3, n. 1. ↩︎

  24. S. c. G., L. III, C. 57, n. 4. ↩︎

  25. S. Th., I, q. 77, a. 3, c. ↩︎

  26. S. Th., I, q. 25, a. 3, c. ↩︎

  27. De Veritate, in Quaestiones disputatae, q. 14, a. 2, c. ↩︎

  28. Far conseguire il fine a ciascun ente pertiene alla Divina Bontà, «infatti poiché è dell’ottimo produrre cose ottime, non conviene alla somma bontà di Dio che le cose prodotte (da Lui) non pervengano alla perfezione […]. Quindi alla divina bontà pertiene che, così come ha prodotto le cose nell’essere, così anche le faccia pervenire al fine» (S. Th., I, q. 103, a. 1, c). ↩︎

  29. D. Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, C. XXXIII, v. 82-107. ↩︎

  30. Tommaso d’Aquino, Adoro te devote, 28. ↩︎