La parole e le cose. La filosofia del nome di P.A. Florenskij

La poliedricità di una pensatore come Florenskij può essere in qualche modo dominata soltanto se ci si sforza di andare alla radice di alcuni temi che fanno da punti di attrazione del suo pensiero. Ma individuare questi temi significa già a sua volta impoverire l’irruente vitalità di un intellettuale che ha saputo essere contemporaneamente filosofo e matematico, ingegnere e critico d’arte. Correre questo rischio è però inevitabile, anche se è bene correrlo in modo consapevole, sapendo che l’illusione dell’unica prospettiva interpretativa è proprio ciò che Florenskij per tutta la vita ha voluto evitare.

Il punto di osservazione attraverso cui entreremo nel mondo di Florenskij è qui la sua «filosofia del nome», che non è semplicemente una teoria linguistica o una filosofia del linguaggio, ma una vera e propria concezione ontologica della parola che trova nel nome il prisma attraverso cui interpretare l’esistenza umana e i suoi prodotti culturali. Il «nome» infatti non è un prodotto dell’intenzione comunicativa del soggetto, ma una forza autonoma dal singolo e appartenente al gruppo, al popolo e ancora più in generale all’umanità. «Le parole si affermano e si parlano da sole», l’uomo le fa semplicemente risuonare: esse hanno una loro indipendenza ontologica nei confronti di cui il parlante è responsabile.

Parlare di filosofia del nome significa quindi porsi in una prospettiva complessiva dove il linguaggio non è visto come una questione regionale, ma è inserito in una Weltanschauung generale, connotata da un realismo estremo che vede nella parola e nell’immagine, nel nome e nell’icona, le due forme per eccellenza della relazione tra uomo e realtà, tra elemento soggettivo e elemento cosmologico. La parola e l’immagine, nella loro forma densa di «nome» e «icona», sono infatti contemporaneamente spazi di rivelazione dell’invisibile nel visibile e dell’inaudibile nell’ascoltabile e strumenti dinamici attraverso cui l’uomo costruisce il suo mondo culturale, o se vogliamo il suo spirito oggettivo. È così che la parola, al di là della sua natura prettamente linguistica, costituisce un mondo intero, onnicomprensivo in cui si realizzano a vari livelli e in una molteplicità di modi le singole potenzialità spirituali dell’uomo. «La parola è la realtà stessa», dice Florenskij in Imjaslavie kak filosofskaija preposylka, sia quella dell’uomo, sia quella del cosmo, sia nella sua realtà ficisa che nei suoi presupposti metafisici. La parola è la soglia su cui si incontrano i due mondi, quello fisico e quello spirituale, quello umano e quello divino.

Ho adesso accennato velocemente alla tesi centrale della filosofija imeni, filosofia del nome, ma per coglierne la portata teorica è utile avvicinarsi progressivamente al problema attraverso alcune tappe.

1. Il contesto della filosofia del nome e la centralità del linguaggio nella filosofia di P.A. Florenskij

Occorre in primo luogo segnalare una convergenza significativa. L’interesse che Florenskij nutre per la lingua si inserisce all’interno di una centralità più complessiva che il tema della parola ha all’interno della cultura russa di inizio secolo. Sarebbe lungo anche solo soffermarsi su un elenco di autori che hanno fatto del linguaggio il centro del loro lavoro nei primi venti anni del novecento: si pensi a V.F. Ern, G.G. Spet, S.N. Bulgakov, A.F. Losev, L. Vygotskij, M. Bachtin o in ambito poetico A. Belyj e Chlebnikov. Si potrebbe parlare, come suggerisce la Ferreri Bravo, di una vera e propria «logologia»,1 tanto che Bachtin arriverà a dire nel 1919: «Intorno alla parola e al suo posto sistematico si sta svolgendo una vivace battaglia di cui si può trovare qualcosa di analogo soltanto nelle diatrive medievali sul realismo, nominalismo e concettualismo».2

Non è difficile riconoscere che questa diffusione del linguaggio ha la sua matrice in due grandi esponenti della cultura russa del XIX secolo, A. Potebnja e A. Veselovskij. che rielaborarono con una prospettiva originale le due correnti fondamentali della culturologia romantica, il primo quella dinamico-vitalistica risalente a W. Von Humbold, secondo cui il linguaggio è essenzialmente enérgeia, e il secondo quella che potremmo definire «enciclopedica» iniziata da Novalis, sulla cui linea Veselovksij sottolinea l’elemento concettuale del linguaggio e il suo fondarsi sull’ipotesi di un deposito di simboli ancestrali che governano l’attività psichica dell’uomo.

Su questo contesto Florensksij si inserisce con una propria interpretazione particolare del linguaggio del problema che nasce in rapporto a due correnti culturali: da una parte il simbolismo poetico di inizio secolo e in particolare dalla sua profonda amicizia con A. Belyj e dall’altra il dibattito interno alla chiesa ortodossa sull’imeslavie [glorificazione del nome].

I simbolisti avevano infatti trovato nella concezione solov’eviana dell’arte come incarnazione del Logos il terreno fertile su cui costruire una concezione della parola liberata dai legami pragmatici dell’utile e dai rigidi schemi della ragione. La parola poetica era da essi vista all’interno di un alone mistico-religioso, densa di petere magico e teurgico e mezzo privilegiato dell’incantesimo che il poeta pronuncia sul mondo. In netta contrapposizione con le concezioni convenzionalistiche del linguaggio, essi ponevano al centro della loro poetica il rapporto tra la parola e la realtà, per sottolineare la portata intrinsecamente ontologica della parola, perché come dirà Brjusov, «la lingua è il mezzo non per esprimere un pensiero finito, ma per crearlo».3

La stessa centralità di una ontologia del linguaggio si ritrova nel movimento dell’imeslavie che si sviluppa in alcune frange minoritarie del monachesimo ortodosso. Con imeslavie si intende la disputa sul nome di Dio sorta all’interno dei monasteri dell’Athos in seguito alla pubblicazione nel 1908 del libro Na gorach Kavkaza del monaco Ilarion, culminata poi nel 1912-13 e che vide contrapporsi da un lato gli onomatodossi e dall’altra gli onomatoclasti. Secondo i «glorificatori del nome» nell’atto di pronunciare nella preghiera il nome di Dio si offre all’orante una realistica possibilità di incontro con il Divino, che nel nome si fa presente. Seguendo la concezione anticotestamentaria e la tradizione dell’esicasmo binzantino vi si concepisce il nome di Dio come il luogo per eccellenza della sua rivelazione che avviene ogni volta che si sperimenta la preghiera del cuore.

Florenskij elabora la sua dottrina sul nome a partire dagli stimoli che gli vengono da queste due correnti e inserisce queste provocazioni all’interno dell’ampia costellazione di questioni che gli stanno a cui fin dai primi anni del novecento. Il suo pensiero maturo al riguardo si troverà nell’insieme di scritti pensati per il volume mai pubblicato Mysl’ i jazyk [Pensiero e linguaggio] la cui stesura risale ai primi anni venti, ma un primo importante accenno alla questione si ha in una articolo del 1908 dal titolo Obsceceloveceskie korni idealizma [Le radici onniumane dell’idealismo], la cui importanza è fondamentale per comprendere il primo elemento chiave della filosofia del nome, ovvero la radice platonica della concezione realistica del linguaggio.

2. Il nome, il simbolo e l’idealismo platonico

La tesi fondamentale dello studio del 1908 è chiara: il platonismo è la concezione filosofica più vicina alla coscienza diretta della realtà tipica dell’uomo comune e quindi ad esso occorre ritornare contro la deriva scientista moderna. Esso eredita e traduce filosoficamente la visione del mondo magica, cioè non mediata dalle astratte categorie scientifiche. All’interno di questo rapporto magico con il mondo, il nome è centrale in quanto spetta alla parola la funzione fondante di identificazione della realtà. «Nella misura in cui il nome rappresenta il nodo di tutti gli incantesimi e di tutte le forze magico-teurgiche è comprensibile che la filosofia del nome sia la filosofia più diffusa e risponda alle aspirazioni più profonde dell’uomo. Anche una filosofia fine ed elaborata pone il nome come il suo concetto base, come principio metafisico dell’essere e della conoscenza».4

A parte l’accenno alla magia in cui si vede il debito di Florenskij nei confronti dei simbolisti5 e della generale ripresa di interesse per le tematiche esoteriche tipica di questi anni, si individua nel brano riportato la grande preoccupazione di mettere in rilievo la valenza universalmente culturale del problema del nome. Esso è come un Giano bifronte: è all’origine nello stesso tempo di visioni del mondo estremamente semplici, quali quelle dell’uomo primitivo e di complessi sistemi di teoria linguistica, quali l’idealismo platonico e il simbolismo russo.6

Alla concezione del nome, secondo Florenskij, fanno riferimento tutti i principali problemi gnoseologici che hanno caratterizzato la storia della filosofia occidentale. Esso è un vero e proprio spartiacque del pensiero: è possibile infatti schizzare una tavola sinottica che vede da una parte i valorizzatori del significato ontologico della parola (Eraclito, Platone, i realisti medioevali, l’idealismo) e dall’altra i suoi detrattori (i sofisti, gli scettici, i nominalisti, i sensisti). Solo il primo gruppo può, secondo Florenskij, annoverarsi nell’insieme delle teorie «onni-umane». Alla base di queste sta la concezione espressa nel Cratilo7 platonico dove si afferma chiaramente che la conoscenza dei nomi fornisce anche la conoscenza delle cose. «I nomi esprimono la natura delle cose e non sono soltanto segni condizionati di esse. Per questo la conoscenza dei nomi porta con sé la conoscenza delle cose. Le cose hanno i loro nomi secondo la loro natura, la conoscenza delle cose permette di dare loro dei nomi; questi ultimi vengono dati alle cose secondo l’arbitrio umano attraverso uno statuto iscritto oggettivamente nella natura».8

Le correnti anti-platoniche hanno fatto del nome una pura apparenza, un semplice flatus vocis (espressione che viene fatta risalire a Roscellino) che non ha più nulla a che vedere con l’essenza della cose. Con questo presupposto hanno segnato una frattura irreparabile tra manifestazione e sostanza, tra nome e nominato, riducendo la conoscenza a pura illusione soggettiva e la nominazione a puro atto di arbitrarietà dell’uomo. Ma questo non ha nulla a che vedere con la coscienza originaria dell’uomo; essa non accetta la distinzione tra nome ed essenza, anzi li considera la stessa cosa, il nome-essenza appunto, per cui il cambiamento di uno è il cambiamento dell’altro.

A sostegno della tesi secondo cui l’idealismo platonico non ha fatto altro che portare a dignità filosofica la percezione magica tipica dell’uomo, Florenskij istituisce in Obsceceloveceskie korni idealizma una correlazione tra nome ed idea platonica. Per delineare i problemi della filosofia del nome si può quindi usare come modello la concezione dell’eidos platonico e in particolare le sue differenti definizioni dell’interazione tra idea e cosa. Secondo Platone l’eidos si rapporta alla cosa in tre modi: a) come somiglianza e imitazione della cosa con l’idea; b) come partecipazione delle cose all’idea; c) come presenza dell’idea nella cosa.

Tutti questi tipi di interazione tra idea e cosa — conclude Florenskij — si ritrovano nell’applicazione all’interazione di nome e cosa nominata. a) Tra il portatore del nome e il nome stesso viene riconosciuta una somiglianza e tale somiglianza viene pensata talvolta come imitazione del nome da parte del nominato. In questo senso ad un ragazzo viene dato un nome con un qualsiasi significato, affinché egli imiti un nome e la sua vita sia corrispondente al nome. Ma anche accanto a questo significato razionale del nome esso ha un particolare contenuto mistico ed è questo contenuto che il nominato imita inconsciamente. b) Tuttavia il nominato non imita soltanto il nome ma ne partecipa, così tutti i membri di una stirpe partecipano del nome della famiglia. c) Ma si può dire anche viceversa: il nome è presente nel nominato, entra in esso, ed è in questo senso la forma interna del nominato. Se in un primo tempo si pensava che l’uomo imitasse da sé ed autonomamente il nome, ora vediamo che egli possiede da se stesso il nome per il fatto che il nome stesso lo forma ed è in esso presente. Così i nomi teofori trasmettono ai loro portatori caratteristiche divine.9

La filosofia del nome di Florenskij, lo si vede da questa citazione, non media soltanto un problema di teoria del linguaggio: essa va al cuore del problema ontologico dell’antinomia e del simbolo. Nel nome e nel suo suono si offre all’uomo una «rappresentazione fisica della sfera sovrasensibile». La dialettica nome/cosa, particolarmente nel punto c) del testo citato, fa acquisire al nome una forza rivelativa, per cui, specialmente nel nome proprio, si crea una vera e propria coincidentia oppositorum tra fenomeno e noumeno. È chiaro allora il motivo per cui nella famosa pagina autobiografica di Ai miei figli Florenskij oltre a dichiarasi fin dall’infanzia simbolista e platonico, afferma anche di essere sempre stato un imeslavec, un onoratore del nome.

Sono sempre stato platonico e veneratore del nome. La manifestazione per me è sempre stata manifestazione del mondo spirituale, e un mondo spirituale al di fuori della sua manifestazione l’ho ritenuto come non conoscibile, essente in sé e per sé e non per me. La manifestazione è l’essenza stessa che si manifesta. Il nome è colui che è nominato nella misura in cui è capace di entrare nella coscienza e diventare oggetto della coscienza, ma la manifestazione biunitaria, materiale e spirituale, simbolo, per me è sempre stata cara nella sua immediatezza, nella sua concretezza, nel suo nome.10

3. Il potere del nome e la sua venerazione

I problemi impostati nel saggio del 1908 verranno sistematicamente trattati negli scritti contenuti nella raccolta Mysl’ i jazyk, in particolare nei saggi La glorificazione del nome come presupposto filosofico e La magicità della parola, dove diventa molto stretto il riferimento al dibattito sull’imeslavie. Di questo dibattito a Florenskij non interessa soltanto il relativo significato teologico (che troviamo analizzato nel saggio Sul nome di Dio), ma più in generale lo considera come occasione a cui riferire la centralità del rapporto tra linguaggio e realtà. Due sono le linee lungo cui è possibile cogliere la provocazione per il pensiero dell’imeslavie: una è la pecezione che il nome ha un potere e la seconda che nel caso del nome di Dio essendo l’energia della presenza del nominato richiede adorazione. Ecco perché la venerazione del nome è un esempio esplicito della necessità di concepire un legame sostanziale e non soltanto convenzionale tra il nome e ciò che viene nominato. Negare l’imeslavie significa quindi negare il valore ontologico del linguaggio, ridurre la parola a guscio vuoto e convenzionale.

Anche in questi saggi ci troviamo di fronte a due prospettive antitetiche che hanno attraversato la storia della cultura occidentale. Da una parte coloro che hanno sostenuto un realismo linguistico e dall’altra coloro che sono invece caduti in un esplicito nominalismo. Per Florenskij è importante tracciare una chiara linea di demarcazione tra le due posizioni perché spesso le si confonde e la confusione non aiuta a combattere l’errore. Eppure l’abisso che separa le due tesi è profondo.

Innanzitutto ad essere stato messo in secondo piano è il potere della parola, che nella società attuale erede del nominalismo ha subito uno svuotamento radicale. «Che cos’è la parola agli occhi dei più? Un senso enucleato più o meno felicemente; un concetto, plasmato in modo più o meno preciso, trasmesso a un altro mediante una traccia sonora e un segnale collegato esternamente al concetto». Su queste basi si infiltra un’abitudine, prima linguistica e poi globalmente culturale, a sottovalutare la parola. «Sono solo parole», si sente dire, come a significare che le parole non hanno nessun valore intrinseco, sono un nihil audibile come dicevano i nominalisti medioevali. Ma se, con un atto che richiama l’epoché husserliana, si fa un passo indietro e ci si stacca anche per un solo momento dalla superficialità abituale con cui si guarda alla parola, ci si rende conto che essa è qualcosa di più della semplice articolazione di un suono. «Ciò che si chiama buon senso e che in realtà è la comune coscienza umana deve invitare ciascuno a prendere in considerazione i principi fondamentali della venerazione del nome».

Riportare la parola alla sua forza originaria significa allora cogliere la potenza creativa in essa contenuta e la capacità che ogni nome ha di condensare strati differenti di significato. Tale era la convinzione che animava i simbolisti e Florenskij stesso è convinto che «il rinnegamento del nome è il rinnegamento della possibilità del simbolo», perché significa negare che diversi strati dell’essere possano entrare in relazione tra loro, che individuale e universale possano coappartenere alla parola senza separarsi e senza confondersi.

Anzi per sottolineare ulteriormente la capacità di mediazione simbolica della parola egli parla di «potenza magica» del nome. Esso eredita e traduce filosoficamente la visione del mondo magica, cioè non mediata dalle astratte categorie scientifiche. All’interno di questo rapporto magico con il mondo, il nome è centrale in quanto spetta alla parola la funzione fondante di identificazione della realtà. «Nella misura in cui il nome rappresenta il nodo di tutti gli incantesimi e di tutte le forze magico-teurgiche è comprensibile che la filosofia del nome sia la filosofia più diffusa e risponda alle aspirazioni più profonde dell’uomo. Anche una filosofia fine ed elaborata pone il nome come il suo concetto base, come principio metafisico dell’essere e della conoscenza».

Ne è un esempio l’uso che si fa del nome nell’incantesimo o nell’esorcismo. Non esiste popolo primitivo che non abbia visto nella parola e nel nome una reale possibilità di intervenire nel mondo, anche se in modo misterioso e occulto. Nelle parole dello sciamano il nome porta con sé la presenza reale di ciò che viene pronunciato, fa essere ciò che viene nominato. Certo, l’uomo contemporaneo, alla scuola dell’illuminismo e del positivismo, non si lascia più così facilmente suggestionare, ma non si può negare che resti in lui una nostalgia per un rapporto diretto con il mondo, che non sia offuscato da una visione frammentata della realtà. È in questo senso che va interpretato l’uso non casuale del termine «magia». Magico è il rapporto che il linguaggio instaura con mondo, la sua capacità di farsi tramite della spinta centrifuga del soggetto verso la realtà e di condensare la sua volontà. Di questo si era già accorto uno dei primi interpreti di Florenskij, A.F. Losev che aveva mostrato come il termine magia non avesse un significato di basso profilo, ma facesse riferimento alla tradizione colta della magia rinascimentale e alla sua concezione olistica del mondo.11 In questo senso più propriamente la forza magica della parola è in realtà un modo estremo per esprimere l’irriducibilità dell’energia della parola all’analisi razionalistica. La parola è in fondo la forma per eccellenza dell’esperienza spirituale e mistica del mondo: solo se la parola è realmente il ponte misterioso tra mondo e soggetto si può pensare a un rapporto reale con l’essere delle cose e più ancora, solo se si mantiene e si porta agli estremi la capacità di mediazione simbolica del nome si può cogliere che essa diventi mediazione del divino, concreta presenza dell’energia di Dio nel mondo.

4. Antinomicità e forza di concentrazione della parola

Per cogliere a pieno il valore magico della parola è però necessario porre attenzione alla struttura interna del linguaggio e al processo che porta l’uomo alla nominazione. In russo come in greco il termine slovo [parola] non indica soltanto la parola come singola parte del discorso, ma anche la frase, in quanto ogni singolo termine non è esistente in modo autonomo, «ma solo come nodo di quei processi che costituiscono il discorso», per cui è la parlata viva che fa la parola e non la solitudine del vocabolario.12

Ora, in questo senso forte la parola è strutturata al suo interno da due elementi in rapporto antinomico: per un verso la lingua è un prodotto finito, érgon e per l’altro è invece una inarrestabile attività enérgeia:

Ecco l’essenza dell’antinomia secondo Humboldt: nella lingua tutto vive, tutto scorre, tutto si muove; ed effettivamente nella lingua soltanto c’è l’origine istantanea, l’atto istantaneo dell’animo, l’atto singolo nella sua peculiarità e per di più proprio nella sua realizzazione concreta. Per questo l’uomo è creatore della lingua, divinamente libero nella sua creazione linguistica, completamente definito dalla sua vita spirituale, dal di dentro. Tale è la tesi, la costellazione di tesi dell’antinomia humboldiana. Al contrario l’antitesi, o la costellazione di antitesi, parla del carattere monumentale della lingua. Le parole e le regole della loro combinazione sono fornite al singolo individuo dalla storia come qualcosa di pronto e di assoluto. Noi possiamo far uso della lingua, ma non siamo affatto i suoi creatori.13

Secondo Florenskij il merito di Humboldt è di aver colto l’intrinseco legame tra linguaggio e vita, per cui la lingua non può essere ridotta a una statica oggettivazione dello spirito umano, ma deve concepirsi come un «equilibrio mobile» tra energeia ed ergon, tra creatività e monumentalità. Per il filosofo tedesco la lingua, a cui Florenskij si riferisce come modello, è «una fresca e palpitante creazione dello spirito»; l’uomo è un libero creatore della lingua, ma essa nello stesso tempo è anche patrimonio di un popolo, tanto che, isolando uno dei poli della tensione, si decreterebbe la morte del linguaggio. Se ci si limita al fattore creativo, individuale, originale della lingua si cade nell’incomunicabilità: è il caso, secondo Florenskij, della poesia futurista dove la parola si svuota di senso e diventa pura inarticolazione, perdendosi in suoni naturali come rumori, battiti, sibili, bisbigli e grida. Se si assolutizza il momento oggettivo si rischia di considerare la lingua come un oggetto morto e ci si adopera alla sua fredda analisi negli stantii laboratori dei positivisti.

Occorre allora affermare che la parola è come un ponte che mette in comunicazione l’energia interiore (energeia) con il deposito di significati contenuto nel termine che viene usato (ergon). E in modo ancora più radicale distrugge la barriera che la filosofia moderna ha eretto tra soggetto e oggetto. Se si riconosce a fondo questa capacità mediativa della parola si deve riconoscere che l’uomo non è il soggetto del linguaggio. Nella parola è il cosmo stesso a parlare, o più correttamente è l’umanità stessa a esprimersi: il singolo parlante è soltanto uno strumento di questo linguaggio universale che cerca sfogo nell’atto della denominazione.

Si giunge così a quella che è la tesi centrale di tutta la filosofia del nome comune a Florenskij e ad altri filosofi russi di inizio secolo come S.N. Bulgakov e A. Losev. L’uomo non possiede la parola come un suo tesoro, ma la trova come un dono. Il suo compito è coltivarla, portarla a maturazione, incrementando attraverso la propria energia il deposito da sempre esistente nei termini. Allora si riconosce quando afferma Bulgakov, «Si è acceso il senso e la parola è nata, ecco tutto… Le parole nascono, non è giusto dire che vengono utilizzate, nascono prima di questa o quella utilizzazione, è tutta qui la faccenda».14


  1. D. Ferreri Bravo, Slovo. Geometrie della parola nel pensiero russo tra ’800 e ’900, ETS, Pisa 2000, p. 13. ↩︎

  2. Michail Bachtin, «Le più recenti tendenze del pensiero linguistico occidentale», in Il linguaggio come pratica sociale, Dedalo, Bari 1980, p. 165. ↩︎

  3. V. Brjusov, Sobranie Sochinnenij, Moskva 1976, Vol. VI, p. 585. ↩︎

  4. P.A. Florenskij, Obsceceloveceskie korni idealizma, in «Bogoslovskij vestnik» 4 (1909), p. 49. ↩︎

  5. I simbolisti hanno molto insistito sull’idea del poeta come mago. Cfr A. Belij, Magija slov, Moskva 1909 (trad. it. di Serena Vitale, La magia delle parole, in «Almanacco dello specchio», 7 (1978), pp. 19-39. ↩︎

  6. V. Ern sostiene una tesi simile: «Se la parte del cuore della devozione del nome di Dio è molto semplice e accessibile ai bambini, quella intellettuale invece, teologica e filosofica, è davvero incommensurabile» in V. Ern, «Razbor Poslanija sv. Sinoda ob Imeni Boziem» [Analisi della risoluzione del Santo Sinodo sul nome di Dio], in Bor’ba za Logos, Moskva 1911, p. 6. ↩︎

  7. Le teorie linguistiche del Cratilo platonico sono un riferimento costante in tutti i saggi di Mysl’ i jazyk. Cfr in particolare la discussione contenuta in «Dialektika», in U vodorosdelov mysli, Moskva 1990, 144ss. ↩︎

  8. Ivi, p. 51. ↩︎

  9. Ivi, p. 59. ↩︎

  10. P.A. Florenskij, Detjam moim, Moskva 1992, p. 154. ↩︎

  11. Cfr. Ju. Rostvcev, P.V. Florenskij (a cura), Pavel Florenskij po vospominanijam A. Loseva, in «Kontekst», (1990), pp. 6-24. ↩︎

  12. Cfr. G. Lingua, Oltre l’illusione dell’Occidente. P.A. Florenskij e i fondamenti della filosofia russa, Torino 1999, pp. 219-221. ↩︎

  13. P.A. Florenskij, «Antinomija jazyka», in U vodorazdelov mysli, Moskva 1990, p. 155. ↩︎

  14. Cit. in R. Salizzoni, L’idea russa di estetica, Torino 1992, p. 166. ↩︎