Recensione a Russel Stannard, The End of Discovery: Are We Approaching the Boundaries of the Knowable?

Russel Stannard, The End of Discovery: Are We Approaching the Boundaries of the Knowable?, Oxford University Press, Oxford 2010, pp. 240.

Ci stiamo avvicinando ai confini del conoscibile? è questa la domanda che Russell Stannard, professore emerito di Fisica alla Open University, pone nel provocatorio sottotitolo di questo volume, in cui delinea i motivi per cui in futuro (quanto remoto, non è dato di sapere) la scienza fondamentale giungerà al termine delle sue conoscenze.

Già nel 1900 Lord Kelvin aveva — prematuramente — affermato che ormai non vi è, in fisica, più nulla di nuovo da scoprire. Tutto ciò che rimane da fare è una misura più precisa; per quanto il secolo che è ormai trascorso dalle parole di Kelvin sia stato, paradossalmente, il secolo delle grandi scoperte scientifiche, gli scienziati talvolta si scontrano con quelli che sembrano effettivamente essere dei limiti del conoscibile: ci riferiamo, ad esempio, alle domande sulla origine delle leggi di natura, sulla causa di quel Big Bang dal quale, teoricamente, è nato l’universo, sul perchè l’universo è life-friendly e sulla possibile esistenza di universi diversi dal nostro, non considerando quelli che sembrano essere degli autentici e misteriosi enigmi, quali la cosiddetta energia oscura, la materia oscura, il comportamento delle particelle infinitamente piccole nel dominio sub-atomico e la natura del tempo.

Elemento di pregio del testo del prof. Stannard è l’invito a un apprezzamento non pregiudiziale (e non esclusivo) delle conquiste scientifiche; nella Introduzione egli infatti afferma che il libro intende opporsi ad affermazioni come la scienza è l’unica strada per la conoscenza, affermando che esso, mentre cerca di promuovere apprezzamento per le conquiste della scienza, intende anche generare un sempre più grande reverenziale timore dinanzi al mistero dell’esistenza. Il testo si caratterizza come una breve ma esaustiva rassegna delle più solide acquisizioni in ambito cosmologico, della fisica delle alte energie e della meccanica quantistica, benché — basandosi sull’idea che l’evoluzione cerebrale negli umani abbia avuto luogo per rispondere ad altre esigenze e non per sondare problemi complessi posti al di là dell’esperienza — egli al tempo stesso tenga a sottolineare i limiti di conoscenza di queste aree dello scibile umano. La tesi fondamentale è questa: la fine avverrà non quando gli studiosi potranno dire di aver scoperto tutto quello che c’era da scoprire sull’universo, bensì «quando scopriranno tutto quanto è accessibile alla comprensione umana.

Il testo di Stannard si distingue rispetto a quello, dal titolo simile (The End of Science), che il giornalista americano John Horgan scrisse nel 1996 e in cui sostenne l’idea che non vi fossero più le condizioni per raggiungere nuove e grandi scoperte scientifiche. Stannard, al contrario, afferma che, mentre si potranno comunque compiere nuove scoperte, l’estensione della conoscenza accessibile alla scienza sarà sempre e inevitabilmente limitata. Limitazioni soggettive (il cervello umano, nonostante tutto, ha infatti una limitata capacità di concepire o comprendere), unitamente a fattori oggettivi e ben più pragmatici — ad es. la necessità di apparati sperimentali sempre più costosi in quanto sempre più grandi, per poter raggiungere quelle alte energie che i fisici auspicano al fine di testare tutte le idee create dalla mente umana — portano infatti lo studioso inglese ad affermare che la nostra conoscenza non potrà che restare ed essere sempre incompleta. Tale idea viene anche suffragata avvalendosi di altri elementi, come l’apparente impossibilità di provare (o scartare) la teoria delle stringhe o le differenti interpretazioni della meccanica quantistica, senza tenere conto del fatto che alcuni aspetti del funzionamento del cosmo vanno semplicemente oltre la comprensione umana.

Il libro si conclude con una critica verso la Teoria del Tutto (anche considerandola solo in quanto potenzialmente possibile), basata sul fatto che essa non potrà mai adeguatamente rappresentare la coscienza, il libero arbitrio, l’estetica, la morale e lo spirituale, anche se occorre dire che nessuno dei fisici che l’hanno postulata ha mai inteso affermare che a una tal — ipotetica — Teoria spetti anche il compito di risolvere le questioni pertinenti a tali aree della metafisica, della teologia o della psicologia.

L’invito all’umiltà di Stannard si traduce in una visione pessimistica circa le potenzialità dell’intelletto umano. Se anche — egli afferma — in futuro si potrà avere una evoluzione diretta di esso, anche attraverso una modifica ambientale del patrimonio genetico, è anche vero — continua — che questa evoluzione potrebbe terminare, ad esempio, a causa di un evento nucleare distruttivo su scala planetaria. Occorre peraltro ribadire che i più recenti studi sulla coscienza hanno permesso almeno di supporre che, nel corso dell’evoluzione, nel cervello abbia avuto luogo un processo di emergenza di nuove proprietà, giustificabili biochimicamente, allo scopo di sviluppare e condurre a un livello superiore le funzioni cerebrali. Se questo fosse effettivamente vero, non vi è allora alcun motivo per dubitare del fatto che questo possa continuare ad accadere — e anche in tempi relativamente brevi — evolvendo ulteriormente il cervello umano al di là delle sue esigenze «originarie». Pur accogliendo quindi l’invito all’umiltà — che dovrebbe sempre essere l’atteggiamento primario di ogni pensatore — riteniamo siano quindi possibili delle visioni alternative. Già il premio Nobel per la fisica Neils Bohr, come peraltro anche Stannard opportunamente riferisce, ebbe modo di sostenere che gli scienziati scrivono nei libri di testo non è una completa descrizione di com’è mondo, ma una descrizione di come gli uomini vedono il mondo, vale a dire di come interagiscono con esso. Se si cerca di spingersi oltrequesta interazione, al fine di descrivere il mondo stesso — continua Bohr — si finirà «per impantanarsi in quei paradossi che derivano dal cattivo uso del linguaggio è tali paradossi sono impossibili solo quando il linguaggio viene utilizzato esclusivamente per descrivere con correttezza le nostre osservazioni». Conseguentemente, non potremo mai sapere se il mondo-in-sè esiste davvero, oltre le nostre osservazioni.

I misteri del cosmo resteranno, probabilmente, sempre tali e, di conseguenza, gli sforzi per spiegarli saranno solo effimeri tentativi. Compito della scienza, allora, non deve essere quello di spiegare il come o il perchè, e ancor meno di interpretarli; a essa spetta solo il nobile compito di formulare modelli, ossia costrutti matematici che descrivono fenomeni osservabili, e di verificare sperimentalmente la loro verosimiglianza.

Per una valutazione complessiva del testo — e dello sforzo a esso retrostante — va infine considerata una ulteriore componente del vissuto dell’autore che, a nostro avviso, assume un ruolo determinante nella definizione del background e degli scopi del volume. Stannard appartiene infatti a quella che si potrebbe definire come la categoria degli scienziati devoti: ha vinto nel 1968 il Templeton Project Trust Awardper il suo significativo contributo nel campo dei valori spirituali, è stato visiting fellow presso il Center of Theological Inquiry di Princeton ed è autore di numerosi testi sul dialogo scienza-fede. Sebbene nel testo non si faccia mai menzione esplicita dell’elemento religioso, appare evidente come tutto il tentativo costituisca una risposta ai libri pubblicati da Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, nei quali i due — peraltro rinomati — studiosi negano l’esistenza di Dio o di un qualsiasi essere trascendente. In alcuni passaggi del testo la rigorosa disamina scientifica, probabilmente in ossequio a questo vissuto personale, lascia quindi il posto a digressioni di tipo filosofico-teologico, in alcuni casi frammentarie: esemplarmente, evidenziamo il passaggio in cui Filone e Agostino, insieme a Kant, vengono evocati al fine di sostenere l’incapacità di affermare cosa possano essere la massa o la carica elettrica, concetti sui quali il filosofo ebreo, il filosofo-vescovo di Ippona ebbero modo di riflettere (p. 125).

Pur con questi limiti, le informazioni che Stannard offre permettono di classificare il testo come una buona introduzione ad alcuni dei concetti e delle idee-chiave della scienza moderna, in particolare della fisica. Le spiegazioni sono chiaramente orientate a un pubblico di non specialisti, le technicalities sono ridotte al minimo (ne abbiamo trovate solo nella sezione dedicata all’unificazione delle forze elettromagnetica e debole), la scrittura piana e comprensibile rende il testo godibile. Se si desidera una guida per muoversi agevolmente all’interno di alcune tra le più difficili questioni scientifiche con le quali — certamente per tutto il XXI secolo — gli scienziati dovranno confrontarsi, la lettura di questo testo certamente potrà essere d’aiuto.