Recensione a Joachim Fischer, Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20. Jahrhunderts

Joachim Fischer, Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20. Jahrhunderts, Verlag Karl Alber, Freiburg/München 2008, 684 pp.

L’antropologia filosofica del XX secolo è stata caratterizzata fin dall’inizio da lacerazioni e violenti polemiche fra i suoi tre principali esponenti. Nel 1927 Helmuth Plessner ebbe l’infelice idea di far leggere a Max Scheler, a quel tempo suo referente accademico, il manoscritto Die Stufen des Organischen und der Mensch. Scheler andò su tutte le furie accusando Plessner di aver ripreso le tesi dei suoi lavori senza averlo citato in modo adeguato, anzi di averlo plagiato. Un’accusa ingiusta in quanto Plessner era stato sì influenzato da Scheler, ma sviluppando una propria prospettiva originale. D’altra parte Plessner, a differenza di quanto era avvenuto nei suoi scritti precedenti, da quel momento in poi, per mettere meglio in evidenza la propria originalità, diffuse un’interpretazione decisamente caricaturale dell’antropologia filosofica scheleriana. Gehlen stesso s’inserì in questa vicenda con una logica molto simile, alimentando ulteriori semplificazioni e fraintendimenti. Successivamente l’antropologia filosofica, su cui già gravava la pesante accusa di psicologismo e di soggettivismo da parte di Husserl e di Heidegger, subì un logorante attacco dall’esterno con il risultato di apparire un movimento disordinato e del tutto secondario, quasi un vicolo cieco del pensiero, spesso pubblicamente criticato e magari privatamente saccheggiato.

Joachim Fischer, affermato studioso di Plessner, con il suo libro Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20. Jahrhunderts, getta nuova luce sull’intera vicenda. La prima parte del volume, di circa 480 pagine, è un’eccezionale ricostruzione storica delle vicende dell’antropologia filosofica tedesca dal 1919 al 1975 che non ha assolutamente eguali per ampiezza, equilibrio nell’analisi e completezza.

Su questa prima parte del volume di Fischer mi limito solo a una integrazione: per quanto riguarda le fonti stesse dell’antropologia filosofica ci sarebbe da aggiungere anche l’importanza dell’influsso di Schelling su Scheler, a cui è riconducibile sia il concetto di excentricità, sia quella teoria della Stufengolge dell’autoreferenzialità che rende poi possibile un importante confronto fra l’antropologia filosofica e la teoria dei sistemi.1

Mi soffermo piuttosto sulla seconda parte del volume. Qui Fischer propone di distinguere una «antropologia filosofica» — come il settore disciplinare della filosofia che da sempre ruota attorno alla domanda: chi è l’uomo? — da una «Antropologia filosofica» (che scriverò in maiuscolo) da intendere come una precisa filosofia che trova storicamente il proprio punto di riferimento principalmente nelle opere di Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen. Il presupposto è che al di là delle virulente polemiche personali fra questi tre autori — o meglio: proprio a causa di esse — sia possibile rintracciare una base comune, una autonoma struttura teoretica riconoscibile nei confronti di altre correnti filosofiche, come la fenomenologia, l’ermeneutica o l’esistenzialismo.

A questo proposito Fischer utilizza l’espressione «Identitätskern trotz Differenz» (526-527). È probabilmente il punto destinato a sollevare le maggiori critiche e obiezioni anche perché è in base alla delineazione di questo canone che poi Fischer traccia la distinzione fra chi appartiene a questa corrente filosofica (ad es. Erich Rothacker, Friedrich Buytendijk e Adolf Portmann) e chi no (ad es. Ernst Cassirer, Karl Löwith e  Günther Anders).   Viviamo in un’epoca in cui è impegnativo definire una qualsiasi corrente filosofica, per cui può apparire eccessivo il tentativo di individuare così precisamente il confine dell’Antropologia filosofica, tuttavia ritengo che il modo in cui Fischer imposta la questione abbia senza dubbio un ritorno decisamente positivo in quanto in primo luogo esplicita chiaramente i criteri in base a cui traccia questo confine e in secondo luogo in quanto riesce a mettere fra parentesi le polemiche con cui i tre maggiori esponenti dell’Antropologia filosofica cercarono di rivendicare una sorta di paternità o di supremazia dell’uno nei confronti degli altri. Sulla base di questa «epochè» Fischer contesta due interpretazioni di fondo: quella secondo cui la teoria dell’uomo in Scheler sarebbe «dualistica» e in Gehlen «naturalistica» (552). In questo modo Fischer ottiene un risultato di grande rilievo: è la prima volta che uno studioso riesce a offrire un quadro sostanzialmente obiettivo delle posizioni di tutti e tre i massimi rappresentanti dell’antropologia filosofica. Già solo per questo fatto il volume di Fischer diventa un punto di riferimento imprescindibile imponendo d’ora in poi un nuovo standard per le ricerche su questo tema.

Si tratta inoltre di una posizione coraggiosa in quanto mette in discussione arcaici equilibri interpretativi che tuttora godono di una larga diffusione, pur poggiando su fondamenti di carta. Per quanto riguarda Scheler mi ero già impegnato a criticare i tentativi di ridurre l’ultimo Scheler alle categorie del dualismo cartesiano in un saggio del 1995.2 L’importante lavoro di Fischer mi dà l’occasione per fare il punto della situazione a 15 anni di distanza dal mio primo lavoro su questo problema e mi spinge a porre due questioni: la prima riguarda l’«Identitätskern trotz Differenz» dell’Antropologia filosofica, la secondo la centralità che Fischer assegna al concetto di Geist all’interno dell’Antropologia filosofica di Max Scheler.

Fischer mette in evidenza come l’Antropologia filosofica proponga una rottura nel modo di fare e pensare la filosofia cercando un punto di vista complementare (flankierender Blick) capace di superare il dualismo fra piano psichico e corporeo; questo spinge a sviluppare una propria «Filosofia della biologia», cioè un punto di vista filosofico sul problema della vita e dell’organismo, per arrivare a indagare l’uomo a partire non da una astratta essenza, ma dal proprio posizionamento nel cosmo, inteso come una natura non riduttivisticamente concepita. Ma consente pure di aprire le porte a una nuova teoria della corporeità (Leib). È proprio per cercare di spiegare l’uomo nel suo posizionarsi nella natura che l’Antropologia filosofica sviluppa un serrato confronto con le teorie ambientaliste di von Uexküll (Scheler), con quelle di Hans Driesch (Plessner) e di Louis Bolk (Gehlen).

Quello che può lasciare perplessi è che Fischer, nel tentativo di rintracciare un «Identitätskern trotz Differenz», converga proprio su uno dei concetti più controversi della filosofia scheleriana, quel Geist su cui si addensarono le virulente critiche di Plessner e Gehlen. Perché molti interpreti di questi tre filosofi avranno sicuramente difficoltà a confrontarsi con questa ipotesi di Fischer? A mio avviso perché è ancora dominante una visione legata a un concetto riduttivo e tutto sommato «ideologizzato» di Geist. Fischer invece dimostra che la motivazione e il senso ultimo che spinge Scheler a utilizzare questo concetto è essenzialmente un’istanza antiriduttivistica e che il concetto in sé, una volta esonerato dai presupposti metafisici e ripensato al di là dei tradizionali dualismi e monismi, corrisponde a uno schema simile a quello che poi si ritova all’opera anche in Plessner e in Gehlen.

In Scheler c’è l’esigenza di trovare un’alternativa al riduzionismo e alla filosofia idealistica (oltre l’Idealismo-Realismo, come recita uno degli ultimi saggi di Scheler) e questo nuovo punto di vista è rappresentato da un Geist capace di emanciparsi dall’idealismo tedesco, ma anche dall’intenzionalità della coscienza di Husserl, senza ricadere nel riduzionismo (519-520); piuttosto in Scheler il Geist diventa un nuovo punto di vista sulla vita, capace di cogliere la dimensione psicosomatica o psico-fisicamente-indifferente (521) e porla in relazione alla centralità della relazione fra organismo e ambiente (522). La direzione è quella della duplicità originaria del posizionamento dell’uomo nel cosmo che è un posizionarsi nella natura e contemporaneamente un uscire dalla chiusura ambientale verso la Weltoffenheit.

Nel capitolo successivo Fischer analizza i diversi momenti che possono rappresentare un Identitätkern trotz Differenz fra i diversi autori soffermandosi in particolare sui concetti di Weltoffenheit (Scheler), exzentrische Positionalität (Plessner) e Mängelwesen (Gehlen), ma prendendo in considerazione pure Erich Rothacher (540-542) e Adolf Portmann (546-548).

Di particolare rilievo mi paiono le pagine in cui vengono confrontate direttamente le coppie Geist e Drang (Scheler) e Excentricität e Positionalität (Plessner) (552-554). In Scheler lo spirito si rapporta alla vita così come in Plessner l’eccentricità alla posizionalità: l’eccentricità rappresenta un punto di vista esterno alla posizionalità senza poter prescindere da essa, come in Scheler lo spirito si pone al di fuori della vita senza tuttavia, nella sua impotenza costitutiva, poter fare a meno di essa. Si tratta quindi di un tentativo di sfuggire al riduzionismo naturalistico senza ricadere nell’idealismo in quanto lo spirito non può esistere senza vita, come l’eccentricità senza la posizionalità. In ambedue i casi non c’è l’incapacità di confrontarsi con l’esperienza — anche il riso e il pianto che Plessner concepisce come modo espressivo tipico dell’uomo sono sul piano empirico, pur essendo eccentrici alla logica puramente biologica — ma piuttosto il tentativo di distinguere all’interno dell’esperinza diversi ambiti, esercitando lo sguardo a cogliere l’esperienza da un punto di vista non abitudinario. In questo modo Fischer può mettere in discussione un ulteriore luogo comune: «mentre Scheler (a differenza di Plessner) si presenterebbe nell’Antropologia filosofica come il «metafisico», Gehlen (a differenza di Scheler e Plessner) avrebbe rinunciato alla stessa filosofia […] a favore di una scienza empirica» (554).

Certo si potrà discutere sull’effettiva estensione di questo nucleo originario oppure obiettare che sarebbe meglio pensare all’Antropologia filosofica come a una significativa convergenza fra diverse posizioni, ma se ci poniamo queste questioni è solo perché fino a qui ci ha condotti proprio Fischer. Anzi ad essere onesti prima dell’opera di Fischer l’impressione era che lo sforzo maggiore dei vari interpreti si limitasse spesso faziosamente a dimostrare l’indipendenza e la superiorità del «proprio» autore rispetto agli altri due.

Naturalmente ho anch’io qualche perplessità sul ruolo da assegnare a questo «Identitätskern trotz Differenz» o «schema allargato» all’interno di questi tre autori. Non concordo infatti con Fischer sulla centralità da assegnare al Geist all’interno dell’Antropologia filosofica di Scheler. A mio avviso le interpretazioni sull’Antropologia filosofica di Scheler si sono finora eccessivamente focalizzate sul Geist rendendolo un concetto decisamente «sopravvalutato» e facendo invece passare in secondo piano altri concetti a mio avviso decisamente più importanti per l’Antropologia filosofica come quello di «Bildung» e di «persona». Concordo perfettamente con Fischer nel tentativo di liberare il concetto di Geist da una complessa stratificazione di pregiudizi, tuttavia il Geist rimane, per Scheler stesso, un concetto molto problematico. Inoltre la relazione fra Geist e Drang a mio avviso non è al centro dell’Antropologia filosofica di Scheler, ma piuttosto il punto di partenza della sua metafisica.

A ben vedere il Geist risulta centrale nella conferenza tenuta nel 1927, poi pubblicata nel 1928 con il titolo di Die Stellung des Menschen im Kosmos. Senza togliere nulla alla grandezza di quest’opera, che Maria Zambrano ebbe a definire immortale, bisogna riconoscere che in essa Scheler diede un’esposizione parziale della propria Antropologia filosofica. Mancano ad es. i riferimenti alla teoria dell’eros, che invece ha una notevole rilevanza nel Nachlaß. Una lista delle diverse mancanze viene del resto segnalata da Scheler stesso nella Prefazione. Controllando il testo della conferenza e quello poi pubblicato nel 1928 si può verificare che Scheler non integrò il testo in modo da renderlo il «manifesto» della propria Antropologia filosofica. Piuttosto lo pubblicò senza alcuna modifica, in gran fretta, anche perché pressato dalla polemica con Plessner, limitandosi ad aggiungere le tre pagine della Prefazione. Morì poi il 19 Maggio 1928 poche settimane prima dell’uscita del testo.

La mia tesi è che fra il 1925 e il 1928 Scheler abbia sviluppato diversi progetti di Antropologia filosofica e che la morte improvvisa gl’impedì di unificarli in una visione più complessiva. Facendo riferimento agli scritti di Scheler che verranno pubblicati nel 1928 con il titolo Philosophische Weltanschauung3 è a mio avviso possibile rintracciare il progetto di un’Antropologia filosofica incentrata sulla Bildung, progetto complementare, se non alternativo, a quell’Antropologia filosofica incentrata sul Geist e sviluppata in Die Stellung des Menschen im Kosmos. Si potrebbe ipotizzare che il passaggio da un’Antropologia filosofica del Geist a un’Antropologia filosofica della Bildung fosse anzi proprio la soluzione verso cui Scheler si stava dirigendo, prima di essere fermato dalla prematura morte.

A mio giudizio quella di Fischer si delinea come un’opera che s’impone come un punto di svolta decisivo negli studi dell’Antropologia filosofica. Relativamente a Scheler l’invito è casomai quello di estendere il confronto andando oltre l’Antropologia filosofica del Geist fino a includere anche i temi della Bildung e del Vorbild. Non è forse vero che Scheler, Plessner e Gehlen concordano sul fatto che l’uomo è un sistema aperto che, in quanto incompiuto, dà forma a se stesso in quello che si potrebbe definire un processo di «Bildung»? E non è forse vero che l’individuo dà forma alla propria identità personale solo superando l’orizzonte della propria intrascendenza grazie al Vorbild, all’esemplarità altrui?


  1. Cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Milano 2008, 61-103. ↩︎

  2. G. Cusinato, La tesi dell’impotenza dello spirito e il problema del dualismo nell’ultimo Scheler, in: «Verifiche», XXIV 1995, 65-100. ↩︎

  3. Cfr. la recente traduzione italiana: M. Scheler, Formare l’uomo, Milano 2009. ↩︎