Vocazione e Bildung: fenomenologia del «divenir se stessi»

Naturalmente, alla tesi secondo la quale noi […] non siamo altro che geni e ambiente si possono muovere obiezioni. Si può ripetere che no, c’è qualcos’altro. Ma se si prova a visualizzare la forma di questo altro o a definirlo con precisione, si scopre che è un’impresa impossibile, perché qualsiasi forza che non stia nei geni o nell’ambiente è al di fuori della realtà fisica quale è da noi percepita. Esula dal discorso scientifico […]. Ma questo non significa che non esista.

— Robert Wright, The Moral Animal1

Gli studi della genetica e della psicologia, attraverso l’analisi delle caratteristiche che abbiamo ereditato dai nostri genitori e delle circostanze date in cui siamo venuti al mondo e cresciamo in esso, dicono tantissimo degli individui che siamo. Tuttavia, queste discipline sembrano non possedere gli strumenti metodologici e le categorie concettuali per rendere pienamente ragione dell’affascinante unicità del nostro esser persone.

Il caso dei gemelli omozigoti che, pur avendo lo stesso patrimonio genetico ed appartenendo alla stessa comunità di vita, manifestano — spesso fin da bambini — dei profili personali (cognitivi, emotivi e relazionali) inconfondibili dimostra che non basta il riferimento esclusivo ad ereditarietà ed ambiente per risolvere l’enigma della nostra identità personale. C’è bisogno di uno sguardo diverso per cogliere pienamente il senso e il valore delle nostre vite, uno sguardo che sappia andare oltre il determinismo di natura e cultura, per mettersi alla ricerca di quell’essenziale «qualcos’altro» che fa di ciascuno noi non semplicemente un risultato, ma un vero e proprio inizio. Questo guadagno di prospettiva, a mio parere, può essere offerto dalla fenomenologia, in quanto stile di pensiero ispirato dal principio secondo cui niente — e quindi, nemmeno il fenomeno dell’unicità personale — «appare invano», cioè senza un fondamento nella realtà, che può essere rinvenuto ed esaminato.2

Nelle pagine che seguiranno, si inizierà con la dimostrazione che interrogarsi sull’irripetibile novità delle persone che siamo (par. 1) significa, in definitiva, interrogarsi sull’inconfondibile creatività della nostra formazione (par. 2). Tale intreccio teorico verrà dischiuso dall’approfondimento e dallo sviluppo di alcune nozioni fondamentali della personologia scheleriana: in particolare, quella di ordo amoris, inteso come il sistema strutturato delle nostre preferenze di valore, e quella di vocazione, intesa come l’inconfondibile appello del nostro individuale «dover-essere». Si chiarirà quindi che la possibilità di fiorire secondo l’ordine di rilevanza che più si avverte come proprio rappresenta un diritto, e che il rispetto di questo diritto è universalmente dovuto (par. 3). Si metterà poi in luce che non si «diviene se stessi» nella chiusura di una dimensione solipsistica, ma nello spazio di «rinascita» aperto dall’incontro con una personalità esemplare (par. 4). Per approfondire come si qualifica l’influenza formativa di un’esemplarità autentica, verrà proposto un confronto fra i «Vorbilder» di Scheler e le «esemplarità decisive» di Jaspers (par. 5). Si procederà quindi con l’analisi dell’illusione formativa che scaturisce dalla frequentazione di «pseudoesemplarità» (par. 6), per arrivare infine ad evidenziare il nesso costitutivo che sussiste fra «felicità» personale e rinnovamento sociale (par. 7).

Il procedere argomentativo di questo mio lavoro si propone anche di dare una sistematizzazione coerente ed originale agli importanti contributi che, in questi ultimi anni, De Monticelli e Cusinato hanno offerto allo studio della fenomenologia scheleriana. Paragrafo dopo paragrafo, si arriverà alla delineazione di una teoria fenomenologica della formazione personale, incentrata sull’idea di un’etica vocazionale. Questo risultato porterà, nelle riflessioni conclusive, a mettere in discussione il presupposto scheleriano di una gerarchia assoluta delle classi valoriali, per arrivare a ribadire come il criterio di compatibilità etica di ogni ethos vocazionalmente costituentesi non vada ricercato nella conformità ad un sistema assiologico gerarchico esterno all’individuo, ma vada piuttosto rinvenuto nella disponibilità da parte di quell’inconfondibile ethos a rispettare il diritto alla fioritura di tutti gli altri ethe.

1. «Chi sono?»: l’enigma dell’identità personale

Quando ci chiediamo chi una persona sia, a meno di non stare al livello puramente «estrinseco» della sua identità anagrafica, facciamo riferimento alla sua identità essenziale, dischiusa dalla sua unica ed irripetibile haecceitas.3 Ma cos’è l’haecceitas di un individuo? Per Scheler è il suo ordo amoris (o ethos),4 ovvero il sistema strutturato delle sue preferenze e opzioni di valore, che rimanda in definitiva alla forma di organizzazione delle disposizioni dominanti ed egemoniche di amore ed odio, e che definisce il suo stile motivazionale, la sua disposizione d’animo fondamentale, il suo atteggiamento orientativo ultimo rispetto al mondo. La fenomenologia rinviene il momento costitutivo dell’identità personale nell’organizzazione della sensibilità assiologica individuale: una persona è quella e non un’altra per il modo unico ed inconfondibile con cui si apre all’universo valoriale, per il modo unico ed irripetibile con cui, attraversandolo, dà forma a se stessa.

L’ordo amoris può essere inteso come un «apriori emozionale individuale»5 che, funzionalizzando la posizione esistenziale di una persona nel mondo, predetermina dinamicamente attraverso un fascio di rilevanza i confini di possibilità della sua esperienza: agisce come un polo magnetico, capace di orientare il microcosmo conoscitivo, affettivo e relazionale di un individuo. Grazie ad una sorta di «ripercussione retroattiva», poi, le esperienze che l’ordo amoris rende possibile entrano a far parte della strutturazione assiologica personale, modificandone l’espressività e diventando esse stesse matrici di nuove possibilità di esperienza. L’ethos individuale è ciò a cui, in definitiva, fa riferimento anche il pronome interrogativo chi che compare nella domanda «chi sono? »: la conoscenza di sé non si dà che come conoscenza, sempre inadeguata e mai completa, di ciò che ci sta a cuore, dell’ordine dei nostri amori e delle nostre preferenze di valore.

Per Scheler, «a ogni persona individuale corrisponde un mondo individuale»,6 proprio perché ciascuna persona si apre alla realtà assiologica oggettiva attraverso una prospettiva che le appartiene in modo unico ed irripetibile. Da questo nesso essenziale tra la persona ed il mondo dei valori scaturisce l’idea di una «verità personale»:7 non si tratta di un ossimoro, né di un abbaglio relativista, ma di un’espressione coerente con il realismo scheleriano. Vi è infatti un’evidenza che funge da base di giustificazione di questa tesi che, ad una prima lettura, sembra piuttosto ardua da sostenere: tale evidenza è costituita dall’esperienza fondamentale della vocazione (Berufung), intesa nel senso etimologico del termine.

Il mondo dei valori si presenta come carico di un particolare richiamo personale, un appello alla «salvezza» (Heil), in un certo senso, a cui ciascuno è libero di rispondere, rispondere inadeguatamente o non rispondere mai. L’esperienza della vocazione è l’esperienza di una sollecitazione esistenziale che interpella me e me soltanto: per Scheler, si tratta di un «dover-essere individuale»8 (individuell Sollen), il cui contenuto materiale è rappresentato da quello che il filosofo definisce un «bene in sé per me»9 (An-sich-Guten für mich). Nel Formalismus, viene specificato che in quest’ultima espressione non sussiste alcuna contraddizione logica, dal momento che quel «per me» non costituisce una specificazione epistemologica, ma una specificazione ontologica, per altro perfettamente compatibile con un’assiologia realista:

Non è «per» me (nel senso del mio vissuto corrispondente), che qualcosa è buono in sé. In questo ci sarebbe una contraddizione evidente. Piuttosto qualcosa è buono «in sé» proprio nel senso di «indipendentemente dalla circostanza che io lo sappia o no», perché questa è l’implicazione di «in sé»; ma inoltre è il bene in sé per «me», nel senso che in questo specifico contenuto materiale originario a priori del bene in sé c’è, a volerlo descrivere, un rinvio (esperito) a me stesso, quasi un dito puntato che esce dal contenuto e indica me, come se mi sussurrasse: «per te».10

Questa concezione postula cioè l’esistenza di un bene oggettivo, che si riferisce ad una determinata persona, a prescindere dal fatto che essa ne faccia effettivamente esperienza o meno. Tale bene, diverso per ciascuno, attribuisce all’individuo una posizione unica nel cosmo morale, orientandolo ad azioni, atti ed opere che lui solo è chiamato a realizzare.

La vocazione, dunque, delinea l’«essenza ideale di valore» (das ideale Wertwesen) propria di una persona, cioè quel paradeigma assiologico che per ciascuno rappresenta la propria individuale destinazione (Bestimmung). Se il destino ha a che fare con quel tanto di determinato che le disposizioni psichiche innate e le circostanze date impongono ad ogni vita, la vocazione — che potremmo definire anche come l’insieme delle possibilità esistentive di ciascuno — ha a che fare con il percorso individuale, libero e creativo che una persona può compiere verso la propria eudaimonia, cioè verso la propria autentica fioritura.

Mi sembra importante sottolineare che la vocazione non deve essere intesa come una chiamata ad un ordo amoris già da sempre predeterminato che la persona dovrebbe soltanto portare ad espressione: se la intendessimo in questo modo, incorreremmo nel paradosso di un determinismo vocazionale, che non lascerebbe alcuno spazio alla libertà, e quindi nemmeno alla responsabilità, della formazione individuale. Ritengo invece che la vocazione debba essere intesa come l’appello ad un’unicità personale, il cui profilo — mai compiutamente definito — si qualifica vivendo, nelle diverse esperienze di incontro con l’altro (in particolar modo, con quell’altro che per noi risulta esemplare) e di incontro con il mondo. Se, dunque, l’analisi fenomenologica ci consente di affermare che ogni nascita racchiude in sé la costitutiva destinazione a portare nel mondo una novità assiologica (per quanto piccola possa essere), occorre però al tempo stesso evidenziare che il contenuto di tale novità non può essere pensato come ab origine determinato, salvo scivolare in una concezione leibniziana dell’esistenza, che — contro il principio ispiratore della fenomenologia — renderebbe da ultimo impossibile argomentare a favore della creatività personale evidentemente manifestata da ogni processo formativo. Con queste precisazioni, si può allora certamente parlare della vocazione come di una «destinazione» individuale; a mio parere, occorre invece rigettare il termine «determinazione» con cui, a volte, viene tradotto il tedesco Bestimmung. Non si tratta solo di una questione terminologica, ma di una questione sostanziale. Parlare dell’esistenza di una «deterrminazione individuale oggettiva», infatti, risulta fenomenologicamente problematico dal momento che, come fa notare Mortari, questa idea «fa pensare al divenire del proprio essere nella forma del movimento del tendere a un’idea di sé già stabilita rispetto alla quale una vita autentica sarebbe la fotocopia a colori».11 Il contenuto della nostra vocazione ci si rivela un po’ alla volta (e comunque mai compiutamente) nell’esperienza del nostro ordo amoris, come ciò a cui esso è chiamato a conformarsi: rappresentando il momento esemplare del nostro essere individuale concreto, la vocazione costituisce il punto di riferimento qualitativo ultimo del nostro ethos fattuale e l’unità di misura assiologica della sua adeguatezza. Per Scheler, le vie della conoscenza di sé, come progressiva scoperta della propria vocazione, sono essenzialmente di due tipi: quella per così dire negativa, che viene presentata in Ordo Amoris, e quella positiva, suggerita invece nei saggi Vorbilder und Führer, a cui si allude anche nell’ultima parte del Formalismus, e Die Formen des Wissen und die Bildung.

Innanzitutto, Scheler dice che l’immagine della nostra Bestimmung «emerge solo sul tracciato sempre ripetuto dove e quando ce ne discostiamo, quando e dove, in senso goethiano, seguiamo «false tendenze» e, per così dire, emerge nelle linee di demarcazione di questi punti del tracciato, in un secondo momento collegati in un tutto, in una conformazione della persona»:12 l’intuizione del proprio possibile avverrebbe cioè attraverso «atti di conoscenza di sé in senso socratico», consistenti nel «distogliere, rimuovere, sanare»13 tutte quelle direzioni esistentive che, nel loro manifestarsi, verrebbero riflessivamente avvertite come in contrasto rispetto a quell’orientamento vocazionale che, esattamente in questo modo, farebbe avvertire alla persona il proprio richiamo. Scheler aggiunge che la conoscenza di sé così intesa si configura come una vera e propria «tecnica»,14 il cui metodo è simile a quello della teologia negativa: il riferimento, che però in Ordo Amoris non viene esplicitato, è probabilmente alla riduzione fenomenologica, che — come fa notare Cusinato — in Scheler si configura come una tecnica di rinnovamento esistenziale e, in questo senso, mostra di avere un significato propriamente etico, al di là di quello meramente epistemologico che le era stato attribuito da Husserl.15

La seconda via per la conoscenza di sé, come progressiva scoperta della propria vocazione, ha invece a che fare con la natura costitutivamente relazionale di ciascuna persona, il cui essere è sempre un con-essere e il cui vivere è sempre un con-vivere. Quest’altro modo della conoscenza personale viene trattato nelle pagine scheleriane sulla Vorbildung, a cui verrà dedicato il quarto paragrafo di questo lavoro: si tratta di un tema affascinante, che offre interessanti suggerimenti di ricerca per gli studi sulla formazione, ma che, sorprendentemente, ad oggi risulta ancora poco approfondito. L’idea fondamentale suggerita da Scheler è che la più importante opportunità di risveglio a noi stessi ci venga offerta dall’incontro con un’alterità che, in virtù della sua riuscitezza esistenziale, viene da noi avvertita come esemplare.

Poiché, per Scheler, il mondo dei valori viene dischiuso innanzitutto dallo sguardo del cuore (cioè da quel caratteristico modo della percezione che è il Wertfühlen), anche la conoscenza del contenuto valoriale della propria vocazione è fondamentalmente resa possibile dall’apertura assiologica offerta dall’amore: se da una parte non c’è possibilità di autentica fioritura dove non c’è un moto agapico orientato alla cura di sé, dall’altra parte può anche accadere che sia un’altra persona (una persona che ci vuole bene, cioè che ci vuole felici) a scorgere l’orientamento qualitativo della nostra vocazione prima e meglio di quanto ciascuno di noi riesca a fare. Ecco cosa scrive Scheler a questo proposito:

Se l’atto in cui si rivela l’essenza di valore ideale di una persona è la piena comprensione, fondata sull’amore, di quella persona, allora questo vale in egual misura per lo svelarsi di quell’essenza attraverso se stessi o attraverso gli altri. L’amore di sé più elevato, dunque, è l’atto con cui la persona perviene alla piena comprensione di se stessa e, con ciò, arriva a intuire e a sentire la propria salvezza. Ma è possibile, inoltre, che una persona mi indichi la via della salvezza grazie all’amore pieno di comprensione che prova per me; e che l’amore per me, di conseguenza, un amore più puro e più profondo di quello che io provo per me stesso, i dia un’idea della mia salvezza più chiara di quella che io stesso potrei farmi da solo.16

È proprio in quest’ottica vocazionale, allora, che appare sensato porsi il problema della formazione personale, ovvero il problema del «diventare chi si è»: si tratta di capire in che modo ciascuna persona possa scoprire e realizzare la propria destinazione all’unicità a partire dal proprio destino; in che modo ciascuna persona, alla luce della propria inconfondibile vocazione, possa progressivamente dare forma a quell’ordo amoris che la definisce essenzialmente, qualificandola «intrinsecamente» come un individuo unico ed irripetibile.

2. «Diventare chi si è»: fenomenologia della rinascita

Scheler fornisce il proprio contributo alla riflessione sulla Bildung17 in una serie di saggi pubblicati fra il 1925 e il 1929,18 che si inseriscono nell’ambito dell’antropologia filosofica, ma che non possono essere davvero compresi senza il riferimento all’ontologia della persona sviluppata in Ordo Amoris e nel Formalismus.

L’ambivalenza semantica del termine Bildung, che può essere inteso sia come processo di formazione sia come risultato finale di tale processo, sembra in un certo senso rispecchiarsi nell’apparente paradosso dell’imperativo «divieni ciò che sei»: in tale espressione, cogliamo infatti l’idea di un’identità che è essenza e destinazione, l’idea di un’identità che siamo e che dobbiamo diventare, l’idea di un’identità che è principium individuationis e compito da realizzare. Il paradosso appare meno problematico se riletto in ottica vocazionale: chiedersi come si diventa ciò che si è o, per meglio dire, chi si è, significa chiedersi come fiorisca e come si strutturi quell’ordine del cuore che ci identifica essenzialmente e che più risulta conforme a quella chiamata individuale che ci appella in modo unico ed inconfondibile. Per Scheler, la formazione è una «categoria dell’essere, non del sapere e del vivere»:19

«Formato» non è colui che sa e conosce «molto» intorno alle determinazioni contingenti delle cose (Polymathia) o è in grado di controllare e prevedere al meglio i processi sulla base di leggi — il primo soggetto rappresenta l’“erudito”, il secondo il «ricercatore»; «formato», invece, è colui che ha fatto propria una struttura personale, un insieme di schemi ideali dinamici connessi l’uno all’altro a formare l’unità di uno stile.20

Se pensiamo alla Bildung nella prima accezione semantica del termine, cioè come processo, possiamo intenderla come l’acquisizione di «una forma individuale e peculiare per ciascuno, una conformazione, una ritmica che stabilisce limiti e criteri secondo i quali hanno corso tutte le libere attività spirituali di un uomo e, da queste guidate e indirizzate, anche tutte le manifestazioni vitali automatiche e di natura psicofisica (espressione e azione, il parlare e il tacere), dunque ogni «comportamento» dell’uomo in questione».21 Se invece pensiamo alla Bildung nella seconda accezione semantica del termine, e dunque come risultato finale del processo di formazione, possiamo dire che si tratta «di un’impronta che si è andata fissando, della configurazione complessiva presa da un particolare essere umano, da non intendersi, tuttavia, al modo della forma di una statua o di un quadro, ossia come impronta e configurazione date a una sostanza materiale, bensì come impronta e configurazione assunte da una totalità vivente nella forma del tempo, di una totalità che consiste soltanto di decorsi, processi, atti».22

Poiché l’ethos che siamo chiamati a portare a fioritura è un microcosmo di valori e poiché, per la fenomenologia, l’atto originalmente offerente con cui vengono colti i valori è il sentire (Wertfühlen), la maturazione di una persona avrà innanzitutto a che fare con la maturazione del suo sentire, in ampiezza e in profondità. Ma, poiché — come abbiamo visto nel paragrafo precedente — la strutturazione affettiva della nostra sensibilità ci individua essenzialmente, è anche evidente che la maturazione di una persona sarà da ultimo riconducibile al suo livello di individuazione. Individuazione rispetto a che cosa? Rispetto alla sfera del «si dice», «si pensa» e «si fa» che è la sfera del senso comune dominante, in cui fin dall’inizio, a partire dalla relazione prepersonale e unipatica che lega madre e bambino, ci troviamo immersi.

Cusinato definisce «principio di espressività» la tesi secondo cui «l’espressività di qualcosa rappresenta la discontinuità ontologica che lo evidenzia rispetto allo sfondo da cui emerge»:23 questo vale anche per la persona, il cui livello di espressività è direttamente riconducibile al livello di fioritura raggiunto. La persona si individua essenzialmente in questo manifestarsi differenziante, rispetto allo sfondo originario dell’indistinzione e della ripetizione: l’essenza personale è depositata nell’«aus-drücken»,24 nel salto qualitativo in avanti, da cui emerge un’autodatità capace di squarciare il substrato del già dato con un annuncio di novità.

Il metodo fenomenologico consente di mettere in luce che «divenir se stessi» equivale in definitiva a «fare qualcosa di sé» attraverso quegli atti liberi del secondo livello, con cui emergiamo dalla nostra comunità di vita, fornendo o meno il nostro assenso affettivo (atti liberi in senso lato) e il nostro avallo decisionale (atti liberi in senso proprio) ai valori che essa incarna, a seconda che siano avvertiti come più o meno fonte di autenticità per le esistenze che, vocazionalmente, ci sentiamo chiamati a condurre.25 Questo processo di maturazione per elevazione è il fenomeno dell’«individuazione secondaria»,26 che costituisce il modo specifico della formazione tanto dell’adolescente quanto dell’adulto.

L’ordine del cuore che emerge dallo sforzo adolescenziale di deviazione rispetto alla comunità di nascita, evidentemente, non può dirsi definitivo: questa prima configurazione assiologica «intrinsecamente» individuante sarà invece soggetta ad un processo di costante verifica, trasformazione e rinnovamento, che impegnerà la libertà dell’individuo lungo tutto il corso della sua esistenza. Crescere non significa soltanto «nascere una seconda volta», ma significa «rinascere continuamente», nell’autenticazione o non autenticazione dell’ethos sociale in cui ci si trova di volta in volta immersi. Secondo Cusinato, la persona, che si esprime interamente ed interamente muta in ogni atto, si rivela una «totalità ontologicamente incompiuta»:27 la sua formazione, che passa attraverso la libera posizionalità, è costitutivamente aperta. Ogni atto riaprirà lo spazio dell’individuazione, ristrutturando più o meno in profondità l’ordo amoris che di volta in volta lo fonda.

A partire dalle diverse vocazioni che le contraddistinguono, le diverse persone manifesteranno diversi stili di crescita, vale a dire diversi modi di «divenir se stessi»: all’infinita diversità del «bene in sé per me» che le diverse persone sono chiamate a realizzare corrisponderà un’infinita diversità di percorsi formativi, cioè un’infinita diversità di modi di individuazione possibili. Dovremmo allora concludere che la ciascunità di ogni individuo si esprime, da ultimo, nel suo inconfondibile processo di Bildung, ovvero nello stile di fioritura esistenziale che lui e soltanto lui può dispiegare nell’interminabile cammino di crescita orientato dalla sua irripetibile destinazione. Una personalità riuscita, come quella che riconosceremo nelle esemplarità, non è una personalità che ha terminato la sua formazione, giacché essa è inconcludibile, ma una personalità che, nel suo percorso di maturazione, ha raggiunto una pienezza d’essere particolarmente rilevante, che ben si conforma all’immagine ideale di valore delineata dalla sua inconfondibile vocazione.

3. La fioritura: un dovere, un diritto e un dovuto

Il fine della Bildung è il dispiegamento di una vita «felice». De Monticelli fa notare che la «felicità» non è propriamente un vissuto della sfera affettiva, ma è ciò che gli affetti annunciano come presente o assente, vicina o lontana, ancora al di là da venire o irrimediabilmente perduta.28 Si può intendere la «felicità» come quel fenomeno a cui gli antichi si riferivano con la parola eudaimonia:29 essa si dà laddove riesca davvero a vivere in noi ciò che ci rende inconfondibilmente unici. Una vita «felice» non è una vita che ha terminato il proprio percorso formativo, giacché come abbiamo visto la formazione personale è inconcludibile, ma è una vita che ha imparato a dar forma a se stessa secondo la direzione assiologica della propria irripetibile destinazione, che è qualitativamente diversa da quella di ogni altra vita. Una persona «felice», in questo senso esistenziale del termine «felicità», è una persona che sa esprimere la propria singolare identità, il proprio inconfondibile ordo amoris, in ciascuno dei propri atti: una persona che, proprio per questo, è capace di autenticità.

Secondo Ferrara, il concetto di autenticità può essere analizzato sulla base di quattro dimensioni essenziali della fioritura individuale: la coerenza, la vitalità, la profondità e la maturità.30 La coerenza implica coesione attorno ad un progetto riconoscibile, continuità, ovvero riconducibilità degli eventi di una vita ad una narrazione dotata di senso, e demarcazione da ciò che è altro da sé.31 La vitalità riguarda aspetti più specifici, quali «la percezione del Sé come degno di amore e di stima» e «la capacità di aderire alla vita e di sviluppare un interesse nei suoi confronti».32 La profondità designa invece «la capacità di una persona di accedere alle proprie dinamiche psichiche e di iscrivere questa consapevolezza nella costruzione della propria identità»: tale dimensione dell’autenticità è concepita in chiave cognitiva come «conoscenza di sé o autoriflessività», e in chiave pratica come «autonomia e governo di sé».33

Infine, la maturità, nel suo senso più ampio, è intesa da Ferrara come «capacità di venire a patti con la fatticità del mondo naturale e sociale, come pure con la fatticità del mondo interno, senza compromettere con ciò la propria coerenza e vitalità — senza diventare un altro»;34 più in particolare, la maturità viene intesa come «capacità di distinguere fra le proprie rappresentazioni, proiezioni, desideri e la realtà “quale essa è” o, per meglio dire, quale appare a coloro che interagiscono con noi e a terzi non coinvolti; come capacità di addomesticare proiezioni di onnipotenza del Sé, di tollerare l’ambivalenza delle motivazioni umane, di esercitare una dote di flessibilità nel rapportare i propri intendimenti al piano della realtà e di accettare emotivamente la propria finitezza».35

La lettura fenomenologica di queste quattro dimensioni della fioritura personale delineate da Ferrara consente di mettere in evidenza il fatto che una vita autentica è, in ultima analisi, una vita libera. Libera non solo secondo quella libertà che si qualifica in termini di autodeterminazione ma anche, e innanzitutto, secondo quella libertà che si qualifica in termini di «libertà interiore».36 Tale fenomeno rappresenta l’accordo con se stessi, ovvero l’accordo del proprio comportamento effettivo volontario con l’ordine delle priorità di valore che ciascuno riconosce come proprio. La libertà interiore, in cui ciascuna vita «felice» esprime interamente se stessa, si concretizza in quella posizionalità del secondo livello in cui ciascuno di noi decide sempre nuovamente di sé, di quello che vuole diventare. Bisogna però sottolineare che non può esserci vita libera autenticamente «felice» laddove essa non manifesti di essere anche una vita autenticamente razionale, cioè in grado di esibire buone ragioni (comunque sempre suscettibili di ulteriore verifica) per la giustificazione delle proprie prese di posizione: solo questo, arendtianamente, ci consente di pensare, cioè di rendere conto di ciò che si fa e di ciò che si è a quell’altro-se-stesso che ci fa compagnia nella solitudine dialogica del «due-in-uno».37 Ma una vita pensata è prima di tutto una vita sentita: perché si possa render ragione del proprio agire e del proprio essere, occorre infatti che ogni presa di posizione particolare si manifesti come la risposta adeguata ad un’esigenza valoriale specifica giustamente colta, colta appunto attraverso il Wertfühlen.

Occorre dunque evidenziare che, ciascun individuo è, almeno parzialmente, responsabile della propria fioritura: lo è proprio per quel tanto di sé che si dispiega nella libertà, grazie alla libera posizionalità. Come abbiamo visto, la vocazione personale si manifesta al modo di un «dover-essere individuale», a cui la persona è chiamata a rispondere, prendendo posizione a modo proprio rispetto alle esigenze che il mondo offre allo sguardo affettivo del suo sentire.

Ma questo vissuto di dovere è, al contempo, un vissuto di potere: la persona è libera di rispondere inadeguatamente o, addirittura, di non rispondere mai alla chiamata della propria vocazione. Il demone del fallimento esistenziale si manifesta infatti in tutti i casi in cui l’individuo esercita la propria costitutiva libertà nello smettere di prendere posizione sulla realtà assiologica, lasciando che il proprio sentire e la propria personalità si atrofizzino. Come afferma Stein, «l’essere umano è responsabile di se stesso»,38 perché è nella libertà che egli diventa o non diventa chi essenzialmente, cioè vocazionalmente, è: infatti, la stessa paralisi della posizionalità è paradossalmente promossa da un atto libero, e propriamente da un atto di rimozione.39 Ma formare se stessi, alla luce della propria destinazione, non è solo un dovere il cui adempimento o non adempimento implica responsabilità: formare se stessi, alla luce della propria inconfondibile destinazione, è anche un diritto, che si fonda sulla nostra natura di esseri unici ed irripetibili.

La società deve quindi fornire le condizioni per poter permettere agli individui di realizzare questo diritto, educando i propri membri ad un’autentica cultura del rispetto, come «sentimento dell’assolutamente dovuto a qualunque persona».40 E cosa, in ultima analisi, è universalmente dovuto? Precisamente la possibilità di fiorire liberamente secondo l’orientamento qualitativo della propria inconfondibile vocazione. Non tutti gli ethe vanno quindi considerati come potenzialmente accettabili, ma sono quelli che nel loro percorso formativo avranno attraversato quelle esperienze educative che li avranno resi «compatibili con l’etica».41 E come si qualifica un ethos compatibile con l’etica? Si qualifica come un ethos rispettoso, cioè come un ethos che, nella propria irripetibile costituzione, richiederà per sé quello stesso diritto alla fioritura che saprà garantire ad ogni altro ethos.42

4. L’alterità esemplare: fenomenologia della Vorbildung

Facciamo ora un passo avanti in questa riflessione sul come ciascuno diventa se stesso, nel modo di individuazione che più gli è proprio, e chiediamoci con Scheler: «Che cosa si deve aggiungere dall’esterno per farci accogliere attivamente la chiamata della nostra destinazione, la richiesta silenziosa di questa immagine, rispetto alla quale ci facciamo tanto più piccoli quanto più la avviciniamo? ».43 I fattori esteriori che possono agevolare la nostra formazione sono moltissimi, ma secondo Scheler «il primo e più importante tra essi»44 è dato dall’incontro con un Vorbild, ovvero con un’alterità che per noi risulta esemplare.

«Vorbild» è un termine di difficile traduzione, poiché può essere inteso in almeno due diversi modi: nel suo senso più puro, indica un riferimento esemplare che promuove in un individuo una trasformazione dell’identità personale all’interno di un determinato stile individuale; nel suo senso più ampio, invece, indica un riferimento esemplare che agisce attraverso forme di imitazione, come quelle rintracciabili nell’influenza uniformante della tradizione e della consuetudine. Cusinato suggerisce di parlare di «esemplarità» quando il termine «Vorbild» è usato nel primo senso, e di parlare di «modello» quando il termine «Vorbild» è usato nel secondo senso.45 Il Vorbild può essere definito come una figura di valore formata personalmente (personal geformte Wert-gestalt), che è riuscita a raggiungere una pienezza d’essere particolarmente rilevante, ampliando i confini del proprio orizzonte assiologico ed inoltrandosi più di altri in una determinata classe valoriale.

In base a questa idea, in Vorbilder und Führer, Scheler, individua delle forme di eccellenza esistenziale corrispondenti a ciascuna classe valoriale, delineando così una vera e propria tipologia dei Vorbilder: alla sfera dei valori sensibili corrisponde l’artista del godimento; alla sfera dei valori della civilizzazione corrisponde la mente dirigente della civilizzazione; alla sfera dei valori vitali corrisponde l’eroe; alla sfera dei valori spirituali (o culturali, o propriamente personali) corrisponde il genio; alla sfera dei valori religiosi corrisponde il santo.46 Si tratta, appunto, di tipi di Vorbilder (Vorbildmodelle), «idee di valore “a priori” (cioè indipendenti dal quantum di esperienza contingente) date esse stesse con l’essenza della persona umana e con le superiori categorie di valore a essa corrispondenti», che diventano però «vigorosamente efficaci soltanto insieme alla materia empirica degli uomini storici».47 Questa duplice sottolineatura, permette a Scheler di concludere che in ogni esemplarità «risiede un momento empirico e un momento apriorico, ciò che è e ciò che ha da essere, una componente d’immagine e una di valore».48

Dal momento che l’influenza formativa del Vorbild si dispiega unicamente dal suo esser-così, e non abbisogna quindi di alcun atto intenzionalemente rivolto alla persona in formazione per essere efficace, il Vorbild potrebbe non venire mai a conoscenza dell’influenza esemplare che esercita su qualcun altro.49 Inoltre, qualcuno potrebbe assumere come proprio esempio esistenziale una personalità non immediatamente data qui ed ora, ma vissuta nel passato, o tramandata dalla tradizione, o tratteggiata nella letteratura.50 Un’adeguata fenomenologia della Vorbildung, a mio parere, dovrebbe fornire una risposta ad almeno tre questioni:

1) qual è il tipo di efficacia formativa che un Vorbild esercita su un Nachbild?51

2) a che livello dell’intenzionalità e della consapevolezza è colto un Vorbild?

3) in che modo il Nachbild riesce, per così dire, ad «attingere» in modo formativo alla strutturazione assiologica personale del Vorbild?

La trattazione di queste questioni, che verranno affrontate una alla volta nei sottoparagrafi che seguiranno, permette di delineare le caratteristiche essenziali della relazione che si instaura fra un Nachbild ed un Vorbild. Scheler ha avuto il grande merito di mostrare l’importanza formativa di questa relazione, senza però intraprenderne uno studio approfondito e sistematico: tuttavia, egli ha lasciato nei suoi scritti alcuni interessanti spunti di analisi, che aprono molteplici piste di ricerca non solo nel campo della filosofia ma anche in quello della pedagogia.

4.1. Efficacia maieutica e trasformativa

I Vorbilder hanno un’efficacia maieutica e, al tempo stesso, trasformativa: richiamano il Nachbild al contenuto valoriale della sua vocazione personale e, in questo modo, lo inducono al rinnovamento esistenziale. Le esemplarità aprono nell’affettività del Nachbild uno spazio in cui egli trova lo slancio per «rinascere» dentro i confini di quel «bene in sé per me» che è dischiuso dalla sollecitazione vocazionale del suo «dover -ssere individuale». Se l’influenza di un capo (Führer) produce assimilazione, quella di un’esemplarità induce alla differenziazione. Scrive Scheler a questo proposito:

I Vorbilder non sono oggetti che richiedono imitazione o cieca sottomissione, […] sono piuttosto precursori che ci spingono ad ascoltare la chiamata della nostra persona […] . Le personalità esemplari devono renderci liberi e ci rendono liberi — nella misura in cui esse stesse non sono schiave, ma libere -, liberi per l’accoglimento della nostra destinazione.52

Mettendo in moto quel processo di deviazione assiologica che è appunto l’individuazione secondaria, il Vorbild estende l’orizzonte affettivo del Nachbild consentendogli di scorgere le differenze qualitative richieste per il riconoscimento e la realizzazione della sua vocazione individuale. Nell’immagine di valore che l’alterità esemplare incarna, inoltre, il Nachbild trova la misura del proprio essere, del proprio vivere e operare: egli si approva e si loda, oppure si rifiuta e si biasima, a seconda che si senta in conformità o in contrasto con questa esemplarità.53 Funzionalizzando ogni esperienza del Nachbild, cioè predeterminando dinamicamente i confini della sua apertura al mondo, il Vorbild gli indica il cammino del rinnovamento e della «rinascita»: promuove in lui un processo di intrinseca trasformazione (Umbildung), necessario a quel riposizionamento nel cosmo che più si addice al contenuto della sua vocazione.

4.2. Affinità del cuore ed elezione affettiva

Scheler, inoltre, fa a più riprese notare come l’esemplarità altrui venga colta innanzitutto dall’intenzionalità della sfera affettiva, cioè alle spalle degli atti del giudicare e dello scegliere, ai quali spetterà poi il compito ulteriore di avallare o non avallare ciò che è già stato liberamente selezionato ed approvato dalla posizionalità del sentire. In Vorbilder und Führer, Scheler afferma che la forza d’attrazione dei Vorbilder sta proprio nel fatto «essi ci possiedono e ci attirano, prima che noi possiamo sceglierli».54 Lo stesso concetto è ribadito in Die Formen des Wissen und die Bildung, dove si asserisce che il Vorbild non si sceglie: è lui «che ci afferra, seducendoci e invitandoci, attirandoci impercettibilmente al suo seno».55 Sebbene questa relazione formativa non implichi, almeno inizialmente, alcuna scelta, essa sembra tuttavia implicare una certa qual forma di elezione. Non si tratta ovviamente di un’elezione volontaria, ma di un’elezione affettiva, non immediatamente e non necessariamente consapevole, motivata da quella particolarissima affinità del cuore che sussiste fra Nachbild e Vorbild.

Non qualunque alterità potenzialmente esemplare per qualcuno diventa effettivamente esemplare per noi, ma solo quella il cui profilo assiologico risulti convincente, e dunque meritevole di consenso da parte del nostro sentire. Tale consenso si configura come la posizionalità tipica dell’ammirazione, la cui rilevanza formativa è messa in luce anche da Mortari, che scrive: «L’ammirazione è quel sentimento che crea movimento, produce spostamento dall’ordine simbolico. Essere capaci di ammirazione significa uscire dall’autarchia del sé e aprirsi all’alterità».56 L’eccezionale forza di convincimento affettivo, che sta alla base del sentimento d’ammirazione, va ricondotta alla concordanza o similarità che l’ordo amoris fattuale di questa particolare alterità manifesta rispetto a quello che noi sentiamo essere il contenuto assiologico della nostra inconfondibile vocazione.

4.3. Compartecipazione e co-esecuzione degli atti

Rimane da capire come il Nachbild riesca ad «attingere» in modo (tras) formativo alla strutturazione assiologica personale del suo Vorbild. Si tratta di un punto piuttosto problematico perché per Scheler la persona, che in ogni atto concreto sta e al contempo varia tutta intera, è inoggettivabile.57 Come fa notare Cusinato, che si è occupato approfonditamente di questo aspetto della Vorbildung, l’unico modo di attingere all’ordine del cuore di un’esemplarità consiste nel «compartecipare» al suo stesso forzo di esprimersi, «co-eseguendo» i suoi atti.58 L’essenza del Vorbild riassume schematicamente non solo i processi attraverso cui egli si è formato fino a raggiungere una particolare pienezza d’essere, ma anche i processi attraverso cui egli continuamente si forma: compartecipando a tali schemi, attraverso la co-esecuzione degli atti, il Nachbild ha la possibilità «non d’anticipare attualmente qualcosa nell’immaginazione, ma di scoprire nell’esemplarità altrui la matrice generativa di un’esperienza nuova»59 che possa creativamente fare anche sua. La Bildung, che è da ultimo Umbildung, del Nachbild, si strutturerà attraverso il suo modo singolarizzante di co-eseguire gli atti del Vorbild, in primo luogo i suoi esemplari atti d’amore.60

Gli atti di co-amore, sono atti di co-apertura: è solo nell’aprirsi all’universo valoriale a cui il Vorbild stesso si apre che si giungerà, infine, a cogliere il suo ordine del cuore esemplare, nel momento stesso del suo (continuo) costituirsi. Appare allora chiaro anche cosa voglia dire Scheler in Vorbilder und Führer quando, a proposito dei Vorbilder, dice che «amandoli diventiamo simili ad essi nel nostro essere»:61 vuol dire che, aprendoci ai Vorbilder nell’amore e co-eseguendo i loro atti, ci faremo motivare dalla realtà in modo simile ad essi. Simile, attenzione, non uguale: infatti, è co-eseguendo a modo proprio il percorso formativo attraverso cui l’esemplarità si è costituita secondo regole autonome che il Nachbild, in definitiva, emergerà anche da questa relazione compartecipativa, rivelando quello stile motivazionale unico ed irripetibile che avrà acquisito proprio grazie ad essa.

Nella co-esecuzione degli atti, ancora di più che nella loro semplice esecuzione, la persona si rivela un’entità innovativa, capace di portare al mondo un nuovo stile di vita: nuovo rispetto a quello espresso dal senso comune su cui di volta in volta si eleva, ma anche rispetto a quello espresso dall’esemplarità che, con la propria efficacia tras-formativa, l’ha aiutata in questa elevazione.

5. I Vorbilder di Scheler e le personalità decisive di Jaspers

Storicamente, il concetto di esemplarità si è spesso intrecciato con quello di grandezza: esemplari e grandi erano i sovrani dei tempi antichi; esemplari e grandi erano gli eroi dei poemi omerici; esemplari e grandi erano i personaggi dei principali testi sacri e i fondatori delle diverse correnti religiose; esemplari e grandi sono stati i pensatori che hanno maggiormente influito sull’avanzamento culturale dell’umanità. Il rapporto esistente fra esemplarità e grandezza può essere meglio approfondito attraverso la lettura de I grandi filosofi di Karl Jaspers e, nello specifico, attraverso la lettura del capitolo dedicato alle «personalità decisive». Leggendo Jaspers, si intuisce chiaramente che esemplarità e grandezza possono essere connesse tra loro soltanto in virtù di due termini medi, l’universalità e l’insostituibilità:

La grandezza è un universale esistente nell’insostituibilità di una singola figura storica. […] L’universale che s’è fatto veramente reale in una figura storica conserva il fondamento dell’inafferrabile infinità della sua realtà autentica. […] Ciò che avrebbe potuto fare anche un altro non è grande. […] Solo l’insostituibilità ha grandezza.62

Queste righe ci riportano alla definizione scheleriana di Vorbild e, nello specifico, all’idea che ogni esemplarità esistente manifesti un momento empirico e uno apriorico, una componente d’immagine e una componente di valore. Secondo Jaspers, inoltre, il sentimento che ci permette di avvertire la grandezza dei grandi è il «timore reverenziale», attraverso cui sentiamo al tempo stesso la piccolezza di ciò che siamo e l’immagine di ciò che siamo chiamati a diventare:

La grandezza è laddove noi nella venerazione e nella chiaroveggenza avvertiamo il modo di divenire migliori. Dai grandi uomini procede la forza che ci fa crescere per la nostra stessa libertà; […] Colui che mi appare grande mi rivela ciò che io sono. Io pervengo al mio me stesso pertanto che vedo la grandezza ed entro in relazione con essa. […] La possibilità che appartiene al proprio essere è il mezzo per percepire la grandezza. […] Chi vede la grandezza sente la pretesa d’essere se stesso.63

Anche in queste parole di Jaspers sentiamo risuonare chiaramente alcune caratteristiche del Vorbild scheleriano: come si ricorderà, infatti, l’esemplarità è autenticamente tale solo nella misura in cui riesca a richiamarci a noi stessi, al nostro vero essere, all’appello inconfondibile della nostra destinazione. Secondo Jaspers, caratteristica della grandezza divenuta esemplare è quella di manifestare una sorta di «freschezza», per l’originarietà con la quale può essere disvelata in modo sempre più approfondito da ogni nuova generazione su cui riesce ad avere effettiva influenza: «I grandi sono comparsi nel mondo per essere ascoltati, ma lungo i secoli possono anche essere scomparsi finché un uomo non ne percepisca di nuovo il linguaggio».64 Questa speciale connessione di grandezza ed esemplarità risulta particolarmente evidente nel caso di quelle personalità eccezionali che sono definite «decisive» per il fatto di aver avuto un’efficacia storica di ampiezza e profondità incomparabili. Jaspers ne individua quattro: Socrate, Buddha, Confucio e Gesù.

Secondo il filosofo, l’influenza millenaria di queste figure è stata così potente che l’evidenziazione della loro essenza e della loro opera «assume il valore di una chiarificazione della coscienza storica universale».65 L’efficacia formativa che questi uomini hanno avuto fino a noi, per Jaspers, è «un dato di fatto che non costituisce una dimostrazione razionale ma un’indicazione che necessita dell’assenso del nostro spirito».66 Socrate, Buddha, Confucio e Gesù sono ancora autenticamente visibili ai nostri occhi, perché ancora oggi continuano ad operare. In questo si rivela la loro grandezza esemplare: nell’evidenza che essi, nonostante i fraintendimenti, le sovrapposizioni e le falsificazioni della critica storiografica, non cessano mai di agire.67 Ciò che più li accomuna è l’annuncio di una radicale trasformazione del mondo, di cui si fanno promotori in un modo del tutto particolare:

Indicano quel che si deve fare, ma in modo che non possa essere conseguito mediante una tecnica di mezzi e di fini e tanto meno ridotto ad un programma per il riordinamento del mondo. Irrompono attraverso le consuetudini, le verità comunemente ammesse, il semplice oggetto di pensiero. Creano uno spazio nuovo con possibilità nuove e lo popolano di tentativi che non vengono mai portati a compimento definitivo. […] Le loro richieste non si esauriscono in precetti; per intendere ciò che hanno arrecato in questo mondo bisogna innanzitutto stare in ascolto in seguito a un rivolgimento personale.68

L’esemplarità di queste personalità decisive, così come la loro grandezza, sta nella loro efficacia maieutica e nel loro carattere aurorale, cioè nella loro capacità di annunciare il nuovo, non con vuote imposizioni, ma con la viva testimonianza del loro stesso essere. Proprio come i Vorbilder di Scheler, anche le personalità descritte da Jaspers promuovono quella deviazione dal senso comune, che è il motore principale non solo di ogni crescita personale ma anche — come vedremo in seguito — di ogni crescita sociale; spingono all’individuazione, rompendo con i canoni uniformanti della tradizione. Anche le personalità decisive, cioè, agiscono non come semplici «modelli», ma come vere e proprie «esemplarità», secondo la distinzione chiarita da Cusinato: non inducono all’imitazione, ma alla trasformazione; non ci chiedono di raggiungere il loro livello d’essere, ma di elevarci al nostro, cioè — usando il linguaggio scheleriano — di divenire chi vocazionalmente siamo. Riporto, ancora una volta, le parole di Jaspers, perché anche su questo punto risultano davvero molto significative:

Ci rendiamo conto che nella nostra realtà effettiva non siamo i seguaci di nessuno di loro. Ma quando avvertiamo la distanza tra la serietà di questi grandi e l’incertezza che domina il corso della nostra vita, comprendiamo la necessità di trovare la nostra serietà possibile. Quelle figure determinanti divengono così degli orientamenti e non modelli da imitare. Senza determinarci in un contenuto particolare, possiamo però seguirli tutti in questo unico punto: nel lasciarci cogliere dalle esigenze della loro serietà.69

La riflessione di Jaspers appare una pietra miliare per qualsiasi altra riflessione che voglia interrogarsi sull’essenza e sull’efficacia delle personalità esemplari: un breve accenno all’opera I grandi filosofi era quindi d’obbligo anche per questa mia riflessione relativa al ruolo dei Vorbilder nella formazione dell’identità personale. Va però chiarito che fra le personalità decisive di Jaspers e i Vorbilder di Scheler ci sono anche alcune differenze evidenti, che richiamerò qui di seguito. La grandezza dei Vorbilder, per configurarsi come autenticamente formativa, non deve necessariamente essere una grandezza storica: esemplare può essere anche una personalità che è grande innanzitutto per me, che ha un’efficacia maieutica e trasformativa innanzitutto per la mia vita.

Una personalità che posso incontrare nella mia esistenza, che posso frequentare nella mia quotidianità e che tuttavia non verrà mai ricordata sulla scena millenaria del mondo e non animerà mai le pagine dei libri di storia, può risultare grande ed esemplare, almeno per la mia formazione, non meno e non diversamente rispetto a quanto lo sono state le personalità decisive descritte da Jaspers per la formazione dell’intera umanità. Il mio Vorbild, se sarà autenticamente tale, potrà avere portata universale, pur senza avere portata storica: sarà universale nella misura in cui riuscirà a promuovere in tutte le persone che lo prenderanno ad esempio quel processo di deviazione ontologica ed elevazione assiologica che più si conformerà all’orientamento qualitativo della loro inconfondibile destinazione.

Inoltre, esemplare nel senso delineato da Scheler non è necessariamente una personalità che è storicamente insostituibile: esemplare è, innanzitutto, una personalità che è insostituibile in quanto tale, cioè in quanto individualità eccezionalmente riuscita. Insomma, non sono solo le grandi personalità storiche a poter diventare autentici Vorbilder per la formazione dell’individuo: essenziale ad ogni esemplarità per come è descritta da Scheler non è il fatto di essere storicamente decisiva, ma il fatto di essere almeno personalmente decisiva, cioè decisiva per me, per la mia crescita, per la mia trasformazione, e per la crescita e la trasformazione di tutte quelle persone la cui vocazione individuale è qualitativamente smile alla mia.

6. Pseudoesemplarità e illusione formativa

Chiarito in cosa consiste l’efficacia formativa di un’esemplarità autentica, può essere interessante concentrarsi almeno brevemente sull’influenza esercitata da quell’esemplarità inautentica che potremmo definire «pseudoesemplarità». Scheler, a questo proposito, parla di Vorbilder immaginari (eingebildeten): si tratta di personalità che il singolo identifica come propri Vorbilder, ma che in realtà sono «esattamente l’opposto» delle esemplarità autentiche ed efficaci.70

La pseudoesemplarità si comporta come un «modello», nel senso ampio descritto da Cusinato: non riesce davvero a risvegliarci a noi stessi, per il semplice fatto che ci tiene legati alla ripetizione di sé; è una figura di valore incarnata personalmente che promuove cieca imitazione, piuttosto che libera elevazione. La sua influenza si esplica nelle forme del contagio affettivo e della fusione unipatica, proprio come quella del capo (Führer), sebbene il concetto di pseudoesemplarità, a differenza di quello di capo, non sia un concetto sociologico, ma appunto un concetto assiologico-esistenziale. Scheler accenna appena alla possibilità che possano darsi dei Vorbilder immaginari, e nel Formalismus non dà alcuna indicazione per comprendere il tipo di illusione formativa implicata in questo fenomeno. Dalla lettura dell’opera Die Idole der Selbsterkenntnis emergono però alcuni suggerimenti che possono aiutare quantomeno ad impostare un possibile percorso d’analisi.

Il fenomeno della pseudoesemplarità sembra trarre origine dall’illusione che un insieme di valori significativo per i più sia, automaticamente, significativo anche per me e, di conseguenza, dall’illusione che le persone che incarnano questo sistema dominante di valori siano esemplarmente capaci di portare a realizzazione il meglio di me. Nei termini di Scheler, questa illusione consiste, propriamente, nel «considerare proprio l’estraneo»,71 e nel trasferire «fatti che provengono dalla percezione dell’estraneo nel contenuto della percezione di sé».72 Si tratta dell’illusione di percepire come autenticamente propria la direzione di fioritura indicata dall’ethos tradizionale veicolato dalla famiglia, dal popolo e dalle altre forme di comunità di cui siamo membri. Questo è il motivo per cui, sovente, ci capita di prendere a modello personalità che esprimono in modo esemplare quell’ordo amoris dominante che la società, ma non la nostra vocazione individuale, ci chiama a realizzare:

Preferiamo considerare un sentimento proprio come mera immaginazione (pura rappresentazione di un sentimento), poiché esso «non combacia» con i sentimenti vissuti in una comunità, piuttosto di dubitare dei sentimenti del nostro prossimo per il fatto che non siamo in grado di attestarli con una propria analoga esperienza vissuta in prima persona.73

Nella misura in cui tali pseudoesemplarità siano personalità realmente esistenti qui ed ora, l’illusione affettiva e relazionale che alimenta l’inautenticità del fenomeno ha in se stessa la propria chiave di risoluzione. Proprio come avviene per le illusioni della percezione esterna, infatti, anche l’illusione di cui ho parlato in riferimento ai Vorbider immaginari può essere messa in scacco sottoponendo ad ulteriore verifica l’esperienza in cui originariamente tale illusione si dà: si tratta, in questo caso, di assumere una postura riflessiva e critica, con cui impegnarsi ulteriormente in atti di conoscenza personale rivolti alla conoscenza di sé e alla conoscenza dell’altro.

Il vero problema sussiste, invece, se l’esemplarità inautentica non è concretamente esistente, ma è una pseudoesemplarità tramandata dal passato, dalla letteratura o dalla tradizione, che mi contagia con i valori dominanti di un mondo che non è quello in cui io vivo attualmente qui ed ora, ma che io sento illusoriamente come mio, allo stesso modo con cui molti sentono illusoriamente come proprio il mondo valoriale veicolato dal senso comune dominante. Qui, dove l’incontro con l’altro non avviene nella forma della presenza ma nella forma della rappresentazione, che preclude ogni approfondimento di realtà e, dunque, ogni possibilità di verifica, il rischio di rimanere bloccati nell’illusione è veramente alto: l’unica via d’uscita, in questi casi, è una «rettificazione» del sentire che passi attraverso l’incontro con un’esemplarità autentica, meglio se vivente qui ed ora, capace di richiamarci a noi stessi, alla direzione qualitativa della nostra vera vocazione. A questa «rettificazione» del sentire, prodotta dall’incontro con un’esemplarità autentica, dovrebbe aggiungersi un’educazione del cuore alla corretta percezione del valore, educazione che, insieme alla formazione del pensiero come capacità di critica e problematizzazione, è uno dei compiti principali delle istituzioni educative propriamente dette.

7. Felicità personale e rinnovamento sociale

Fino a quando ci saranno personalità autenticamente riuscite, capaci cioè di esprimersi in modo esemplare, ci sarà speranza non solo per l’elevazione individuale dal senso comune, ma anche per l’elevazione sociale del senso comune. Ogni vita «felice», che è stata capace di formare se stessa deviando dall’ethos di massa, potrà contribuire al rinnovamento sociale, semplicemente in virtù della propria espressività esistenziale potenzialmente esemplare: la sua opera sarà tanto più universale quanto più si dimostrerà capace di risvegliare gli strati affettivi più profondi di tutti gli individui con cui verrà in contatto, motivando ciascuno di essi a seguire un diverso percorso di individuazione assiologica, cioè un diverso percorso di formazione personale. Ciascun membro richiamato a se stesso dall’influenza formativa di una personalità riuscita, diventerà poi per gli altri ciò che il suo Vorbild è stato per lui, e così via attraverso un movimento« a raggiera» che si estenderà lentamente a tutti coloro che non avranno ancora raggiunto quella condizione (im) personale di cecità assiologica da cui non può più darsi alcun risveglio.

L’impegno a divenire chi essenzialmente si è, rispondendo alla chiamata inconfondibile della propria vocazione, non va dunque inteso soltanto come una responsabilità nei confronti di se stessi, ma anche come una responsabilità nei confronti di tutti coloro per cui la nostra «felicità» esistenziale potrebbe esemplarmente rappresentare un’occasione di «rinascita». La libertà delle persone che sentono adeguatamente e pensano criticamente, in definitiva, si dimostra autenticamente tale laddove si rivela capace di influenzare il dispiegamento di ulteriore libertà, influendo maieuticamente sul rinnovamento del sentire e del pensare di tutti.

Se l’impegno alla realizzazione di sé si configura, allo stesso tempo, come impegno solidaristico alla realizzazione degli altri,74 ciascuno di noi — vocazionalmente — è sempre anche un potenziale formatore: quanto più sarà capace di far fiorire se stesso, tanto più sarà d’aiuto per la formazione altrui. Alcuni avvertiranno in questa vocazione alla formazione degli altri, essenzialmente implicata dalla vocazione alla formazione di sé, una chiamata professionale a cui dedicare l’intera vita: si tratta, naturalmente, degli educatori propriamente detti. Ma non sono soltanto gli educatori a dover adempiere al difficile compito della formazione personale altrui: tutti siamo chiamati ad influire sulla realizzazione esistenziale degli altri, attraverso la testimonianza viva del nostro stesso essere, nel momento in cui siamo chiamati a realizzare noi stessi.

Una vita fallita, che si struttura in modo contrario all’ordine dei valori indicato dalla propria inconfondibile vocazione o che rinuncia definitivamente (e liberamente) alla possibilità di ascoltarne l’appello o, ancora, che si dimostra irrispettosa degli ethe dischiusi dalle personalità altrui, è dunque un’occasione di rinnovamento mancata non solo per l’individuo stesso, non solo per la comunità in cui egli vive, non solo per la società in cui tale comunità è compresa, ma anche per l’intera umanità, che verrà in questo modo privata di quella prospettiva assiologica, tanto inconfondibile quanto potenzialmente esemplare, che quell’individuo «infelice», e soltanto lui, avrebbe potuto portare al mondo.

8. Riflessioni conclusive: da Scheler oltre Scheler

L’idea di un’etica vocazionale derivante dallo sviluppo in chiave formativa del concetto scheleriano di Bestimmung rende a mio parere problematica la concezione presentata nel Formalismus di una gerarchia assoluta, eterna ed invariabile dei valori. Le tesi espresse nei paragrafi precedenti in relazione all’irripetibile individualità di ciascun ordo amoris e all’inconfondibile creatività di ogni autentico processo di Bildung mi portano infatti a rilevare come tale gerarchia sia non solo troppo limitata dal punto di vista qualitativo, ma anche eccessivamente rigida dal punto di vista strutturale.

Innanzitutto, il numero delle classi valoriali proposte da Scheler sembra definito in maniera arbitraria. Dopo la mossa antiriduzionista consistente nell’evidenziare l’esistenza di una differenziazione fra le classi valoriali, Scheler limita le infinite sfumature della rilevanza assiologica ai soli regni dei valori sensoriali (come il piacevole e lo spiacevole), della civilizzazione (come l’utile e il dannoso), vitali (come il nobile e il volgare), spirituali (come il bello, il giusto e il vero) e religiosi (come il sacro e il profano). Per risolvere questo primo problema, Blosser75 propone di integrare la gerarchia scheleriana con l’elenco degli aspetti modali stilato da Dooyeweerd:76 vi apparirebbero così anche ordini di valori morali, economici, sociali, linguistici, storici, logici, biotici, cinematici, spaziali e numerici. Potremmo anche pensare ad una classe di valori relazionali, dove la relazione in questione riguarda non solo il rapporto con le altre persone, ma anche il rapporto con gli animali, in quanto esseri senzienti; una classe di valori civici e politici, della cui riscoperta collettiva sembra esserci tanto bisogno in questa nostra società sempre più votata all’egoismo e al qualunquismo; una classe di valori ecologici, che manifestano le salienze e le esigenze dell’ambiente naturale che ci circonda.

Oltre alla limitazione arbitraria delle classi valoriali, l’assiologia scheleriana indagata alla luce del concetto di vocazione personale mostra un secondo aspetto problematico: si tratta dell’idea per la quale il criterio di «rettificazione» di ogni ethos individuale vada da ultimo rinvenuto in una gerarchia assiologica oggettiva pensata come statica. L’aporia consiste nell’evidente difficoltà di far convivere da un lato il fenomeno dell’individuazione personale, che si configura come la strutturazione di un ordo amoris unico ed il ripetibile, e dall’altro lato il fenomeno della conformazione ad un ordine assiologico dato, che precederebbe il processo stesso di individuazione e ne garantirebbe l’adeguatezza da un punto di vista etico. La tesi secondo cui la volontà buona è quella che realizza il miglior valore (cioè quello più alto nella gerarchia) in ogni situazione data rischia di limitare eccessivamente i profili personali ritenuti eticamente accettabili.

In base alla gerarchia delle classi valoriali proposta da Scheler, dovremmo affermare ad esempio che i valori della buona cucina, in quanto afferenti alla classe dei valori sensoriali, siano inferiori rispetto ai valori della conoscenza, in quanto afferenti alla classe più alta dei valori spirituali: eppure, anche ammettendo che sussista una priorità assiologica oggettiva di questo tipo, essa non sembrerebbe ancora di per sé una valida base per fondare come universalmente obbligante l’ipotetica norma di non mettersi a cucinare ogni qual volta ci fosse l’occasione di dedicarsi alla ricerca scientifica.

Questa norma suonerebbe assurda per la precisa ragione che non tiene conto della definitezza assiologica dei profili individuali, ossia tanto dei loro limiti quanto delle loro potenzialità di realizzazione assiologica, vale a dire della questione di quale e quanto bene ciascuno può realizzare corrispondendo, nella misura del possibile, a se stesso. Chi continuerà a cucinare, se la sua vocazione anche solo domestica di cuoco corrisponde effettivamente a quella assiologica, ovvero se riuscirà a realizzare le sfumature di squisitezza che è meglio d’altri in grado di cogliere, realizzerà più bene che se avesse tentato di mettersi invece a fare lo scienziato senza averne la vocazione — o almeno il talento.77

Anche la tipologia dei Vorbilder, strettamente connessa con la proposta di un’etica vocazionale, fa emergere un aspetto aporetico dell’assiologia scheleriana: da un lato l’ordo amoris debitamente «rettificato» è quello che si conforma alla gerarchia assoluta delle classi valoriali, dall’altro lato vengono individuate delle forme di eccellenza esistenziale all’interno di ciascuna classe valoriale. La strategia di collocare in un ordine gerarchico, sulla base della gerarchia delle diverse classi valoriali, anche i Vorbilder archetipici manifesta tutta la sua problematicità di fronte all’evidenza per cui, anche ammettendo che la sfera dei valori culturali sia superiore a quella dei valori sensoriali, «un intellettuale mediocre non è affatto da preferire a un genio dell’edonismo». .78

Una soluzione dell’aporia viene suggerita da Cusinato, che mette in crisi la tesi dell’assolutismo etico statico, ovvero l’interpretazione per la quale la gerarchia dei valori andrebbe pensata come «collocata in una sorta di kosmos noetos contrapposto dualisticamente a quello reale».79 Secondo Cusinato, l’intuizione scheleriana sottesa alla strutturazione gerarchica delle classi valoriali consisterebbe piuttosto nell’idea che il valore funzioni come il «diaframma di una macchina fotografica»,80 che da un lato regola l’ampiezza dell’orizzonte di rilevanza che viene dischiuso al sentire della persona, dall’altro regola i modi del nostro esistere nel mondo in quanto enti capaci di trascendere la chiusura egologica nella direzione di una realizzazione solidaristica.

A parere di Cusinato, però, è solo «passando attraverso l’atto dell’amare agapico» che i valori si articolano in una gerarchia:81 non ci sarebbe quindi alcun principio eterno e immutabile in base al quale un valore della buona cucina risulterebbe sempre e in ogni caso inferiore a un valore conoscitivo, proprio perché la qualità della realizzazione di un valore dipende in gran parte dalla singolarità della persona che lo attua. La gerarchia dei valori si configura allora come statica solo in relazione alla volontà, dal momento che l’ordo amoris non è modificabile a proprio piacimento (e in questo consiste la sua oggettività, che è cifra dell’individualità), ma in relazione alla creatività dell’amare82 essa si configura invece come dinamica: del resto, non bisogna dimenticare che per Scheler l’ordo amoris è modificabile retroattivamente dal divenire della persona, in quanto capace di autotrascendenza e, quindi, di trasformazione e di «rinascita». In base a questa concezione, Cusinato può dunque arrivare a concludere che la gerarchia dei valori, nella sua complessità, può essere pensata come continuamente posta dall’atto agapico della comunità illimitata delle persone.

Se, come abbiamo visto, l’idea di una gerarchia assoluta delle classi valoriali sembra vacillare sotto le argomentazioni di una teoria vocazionale della formazione, dove rintracciare il criterio di «rettificazione» di ogni ethos personale? Credo che tale criterio possa essere rinvenuto all’interno dello stesso sistema scheleriano. Tanto l’etica vocazionale quanto la tipologia dei Vorbilder derivano, infatti, dal presupposto fondamentale per cui la persona è un valore assoluto, non sacrificabile in nessun caso. Ed è nel rispetto delle persone altrui, cioè del loro diritto a fiorire secondo una vocazione inconfondibile, che è possibile rinvenire il criterio non solo di compatibilità etica, ma anche di «rettificazione» assiologica dei diversi ordini del cuore: una cuoca o un genio dell’edonismo che realizzeranno la loro inconfondibile vocazione nella capacità di ampliare, più di altri, i confini dell’orizzonte assiologico del piacevole non saranno meno esistenzialmente «felici» di un intellettuale vocazionalmente dedito alla ricerca scientifica, purché sia i primi che il secondo portino ad espressività un ethos eticamente compatibile, cioè rispettoso dei profili di unicità di tutti gli altri ethe. Proprio sul rispetto per l’irripetibile novità di ciascuno, per la sua vita e per la sua libertà, dovrebbero dunque fondarsi quelle norme universalmente obbliganti che prescrivono, nelle situazioni di contrasto fra diverse aree di rilevanza, di anteporre il valore assoluto della persona ad ogni altro valore.

Da un lato, l’etica vocazionale mette in questione la gerarchia delle classi valoriali proposta da Scheler, dall’altro ne salva il presupposto fondamentale, al punto da poter addirittura essere pensata come derivata da esso: vale a dire, l’idea che la persona, con il suo diritto a fiorire secondo l’ordine di rilevanza che più avverte come proprio, rappresenti un valore assoluto.

Dopo aver ribadito che una teoria fenomenologica della formazione personale, incentrata sul concetto di vocazione, non si qualifica affatto come una teoria relativistica dell’arbitrario «lasciar essere», ma rinviene anzi nel rispetto il criterio di compatibilità etica di ogni ethos vocazionalmente costituentesi, possiamo dunque tornare alla questione iniziale da cui aveva preso le mosse questo mio lavoro: la necessità di dare un riempimento fenomenologico a quel «qualcos’altro» rispetto a natura e cultura che, identificandoci essenzialmente, conferisce il sigillo dell’unicità alle nostre esistenze personali. Si tratta di quell’ordine del cuore che si dispiega e si struttura nella libertà, attraverso un inconcludibile processo formativo orientato dalla «bussola assiologica» della vocazione individuale, il cui profilo inconfondibile viene esemplarmente — sebbene mai definitivamente — presentificato dai diversi Vorbilder che incontriamo nel corso delle nostre vite.


  1. La traduzione italiana del passo citato è tratta da James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 2008, pp. 10-11. ↩︎

  2. Cfr. Roberta De Monticelli — Carlo Conni, Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologia e la ricerca oggi, Mondadori, Milano 2008, pp. 6 ss. ↩︎

  3. Cfr. Roberta De Monticelli, La novità di ognuno. Persona e libertà, Garzanti, Milano 2009, pp. 344 ss. ↩︎

  4. Max Scheler, Ordo amoris, in Id., Scritti sulla fenomenologia e l’amore, a cura di Vittorio D’Anna, Franco Angeli, Milano 2008, p. 109. ↩︎

  5. Guido Cusinato, Rettificazione e Bildung, in Max Scheler, Formare l’uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, a cura di Giuliana Mancuso, Franco Angeli, Milano 2009, p. 11. ↩︎

  6. Max Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Bompiani, Milano 2013, p. 765. ↩︎

  7. Ivi, p. 769. ↩︎

  8. Ivi, p. 945. ↩︎

  9. Ibidem↩︎

  10. Ibidem↩︎

  11. Luigina Mortari, Aver cura di sé, Mondadori, Milano 2009, nota 10, p. 62. ↩︎

  12. Max Scheler, Ordo amoris, cit. alla nt. 4, p. 116. ↩︎

  13. Ivi, p. 117. ↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Guido Cusinato, Katharsis. La morte dell’ego e il divino come apertura al mondo nella prospettiva di Max Scheler, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999, pp. 64 ss. ↩︎

  16. Max Scheler, Il Formalismo, cit. alla nt. 6, p. 947. ↩︎

  17. Alcune interessanti coordinate sulla storia della Bildung si trovano in Mario Gennari, Storia della Bildung, La Scuola, Brescia 1995; Michele Borrelli-Franco Cambi (a cura di), «Teoria e Prassi della Bildung. Un confronto italo-tedesco/Theorie und Praxis der Bildung. Ein deutsch-italienischer Vergleich», Topologik — Rivista Internazionale di Scienze Filosofiche, Pedagogiche e Sociali, vol. 10, Pellegrini Editore, Cosenza 2011. ↩︎

  18. Questi saggi sono consultabili in italiano nel volume Max Scheler, Formare l’uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, a cura di Giuliana Mancuso, Franco Angeli, Milano 2009. ↩︎

  19. Max Scheler, Le forme del sapere e la formazione, in Id., Formare l’uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, a cura di Giuliana Mancuso, Franco Angeli, Milano 2009, p. 54. ↩︎

  20. Ivi, pp. 85-86. ↩︎

  21. Ivi, p. 54. ↩︎

  22. Ivi, pp. 54-55. ↩︎

  23. Guido Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Franco Angeli, Milano 2008, p. 286. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Cfr. Roberta De Monticelli, La novità di ognuno, cit. alla nt. 3, pp. 311 ss. ↩︎

  26. Se una teoria dell’«individuazione primaria» rende conto di come, nei primi anni di vita, si costituisce la nostra soggettività (il nostro essere un soggetto d’atti, che vive e si vive come tale), è ad una «teoria dell’«individuazione secondaria» che spetta il compito di descrivere come fiorisce la nostra personalità, fenomenologicamente individuata dal nostro inconfondibile ordo amoris (Cfr. ivi, pp. 287 ss.). ↩︎

  27. Guido Cusinato, La totalità incompiuta, cit. alla nt. 23, p. 294. ↩︎

  28. Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, 2ª ed., Garzanti, Milano 2008, p. 289. ↩︎

  29. Ivi, p. 291. ↩︎

  30. Alessandro Ferrara, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 53-54. ↩︎

  31. Ivi, p. 53. ↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. Ivi, p. 54. ↩︎

  34. Ibidem↩︎

  35. Ibidem↩︎

  36. Cfr. Roberta De Monticelli, La novità di ognuno, cit. alla nt. 3, pp. 124 ss. ↩︎

  37. Hannah Arendt, La vita della mente, 2ª ed., Il Mulino, Bologna 2009, pp. 274 ss. ↩︎

  38. Edith Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2000, p. 123. ↩︎

  39. Cfr. Edith Stein, Contributi per una fondazione filosofica della psicologia e delle scienze dello spirito, in Roberta De Monticelli (a cura di), La persona: apparenza e realtà. Testi fenomenologici 1911-1933, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 177 ss. ↩︎

  40. Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore, cit. alla nt. 28, p. 219. ↩︎

  41. Roberta De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 152. ↩︎

  42. Ivi, p. 153. ↩︎

  43. Max Scheler, Le forme del sapere, cit. alla nt. 19, p. 71. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. Guido Cusinato, Sull’esemplarità aurorale, in Max Scheler, Modelli e capi. Per un personalismo etico in sociologia e filosofia della storia, Franco Angeli, Milano 2011, p. 8. ↩︎

  46. Max Scheler, Modelli e capi. Per un personalismo etico in sociologia e filosofia della storia, Franco Angeli, Milano 2011, p. 66. ↩︎

  47. Ivi, pp. 58-59. ↩︎

  48. Ivi, p. 59. ↩︎

  49. Ivi, p. 55. ↩︎

  50. Ivi, p. 56. ↩︎

  51. Per indicare la figura di colui che viene esemplarmente influenzato da un Vorbild manterrò il tedesco Nachbild. L’uso dell’italiano «seguace», con cui viene generalmente tradotto il termine scheleriano, rischia infatti di indurre a fraintendimenti. ↩︎

  52. Max Scheler, Le forme del sapere, cit. alla nt. 19, p. 72. ↩︎

  53. Max Scheler, Modelli e capi, cit. alla nt. 46, p. 64. ↩︎

  54. Ivi, p. 65. ↩︎

  55. Max Scheler, Le forme del sapere, cit. alla nt. 19, p. 71. ↩︎

  56. Luigina Mortari, Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 2002, p. 106. ↩︎

  57. Max Scheler, Il formalismo, cit. alla nt. 6, pp. 759-761. ↩︎

  58. Guido Cusinato, La totalità incompiuta, cit. alla nt. 23, pp. 287-288. ↩︎

  59. Ivi, p. 208. ↩︎

  60. Cfr. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, Franco Angeli, Milano 2010, p. 171. ↩︎

  61. Max Scheler, Modelli e capi, cit. alla nt. 46, p. 65. ↩︎

  62. Karl Jaspers, I grandi filosofi, Longanesi & C., Milano 1973, p. 126. ↩︎

  63. Ivi, pp. 127-128. ↩︎

  64. Ivi, p. 167. ↩︎

  65. Ivi, p. 199. ↩︎

  66. Ivi, pp. 309-310. ↩︎

  67. Ivi, pp. 319-320 ↩︎

  68. Ivi, p. 313. ↩︎

  69. Ivi, p. 320. ↩︎

  70. Max Scheler, Il formalismo, cit. alla nt. 6, nota 248, p. 1111. ↩︎

  71. Max Scheler, Gli idoli della conoscenza di sé, in Id., Il valore della vita emotiva, a cura di Laura Boella, Guerini e Associati, Milano 1999, p. 119. ↩︎

  72. Ivi, p. 120. ↩︎

  73. Ivi, pp. 119-120. ↩︎

  74. Cfr. Guido Cusinato, «L’atto come cellula della persona», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 11, 2009, par. 2. ↩︎

  75. Cfr. Philip Blosser, «Per una soluzione delle antinomie della teoria del valore di Max Scheler», in Stefano Besoli-Guliana Mancuso (a cura di), «Un sistema mai concluso, che cresce con la vita. Studi sulla filosofia di Max Scheler», Discipline Filosofiche, Anno XX, numero 2, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 87 ss. ↩︎

  76. Cfr. Herman Dooyeweerd, New Critique of Theoretical Thought, 4 voll., Paideia Press, Jordan Station, Ontario, 1984. Vol. II: The General Theory of Modal Spheres, pp. 55-413; vol. III: The Structures of Individuality of Temporal Reality, pp. 54-156. ↩︎

  77. Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore, cit. alla nt. 28, p. 116. ↩︎

  78. Guido Cusinato, Sull’esemplarità aurorale, cit. alla nt. 45, p. 23. ↩︎

  79. Guido Cusinato, Katharsis, cit. alla nt. 15, p. 241. ↩︎

  80. Ivi, p. 250. ↩︎

  81. Guido Cusinato, «Orientamento al bene e trascendenza dal sé. Il problema dell’oggettività dei valori in Max Scheler», Verifiche, XL, 2011, p. 46. ↩︎

  82. Cfr. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit. alla nt. 60, p. 159. ↩︎