Ricordo dell’origine?

1.

Nel paragrafo di Verità e metodo dedicato al primato ermeneutico della domanda — e più precisamente nella prima parte di esso, in cui s’esplicita il carattere paradigmatico della dialettica platonica quale fondamento e giustificazione di quel primato —, Gadamer scrive: «È qualcosa di più di una pura metafora, ma anzi rappresenta un ricordo dell’origine, il fatto che l’ermeneutica si concepisca come un venire in dialogo col testo».1 Ne consegue che, diversamente da quanto accadeva nella tragica declinazione del platonismo proposta dall’ultimo Husserl — «La tradition est oubli des origines, disait le dernier Husserl», recita l’incipit dell’ammirevole saggio di Merleau-Ponty per il centenario husserliano2 —, in Gadamer è proprio la tradizione come trasmissione attraverso la distanza temporale che realizza l’attivo ricordo dell’origine, grazie al quale quest’ultima è attualizzata e mantenuta in vita.

Ma qual è la struttura o lo statuto di quest’origine, di volta in volta tenuta in vita o dimenticata in virtù della sua stessa trasmissione?

Sia che si tratti di celebrare la sopravvivenza dell’origine nel ricordo della medesima rappresentato dall’ermeneutica in quanto dialogo vivente col testo tramandato dalla tradizione, sia che si tratti di denunciare nel trascorrere stesso di questa tradizione un oblio delle origini la cui autodonazione che si presume immediata sarà allora sempre di nuovo da recuperare e convalidare nel ritorno a un rapporto diretto con le «cose stesse», quel che in ogni caso resta all’orizzonte come indiscussa sorgente ultima del senso è il vagheggiamento o la nostalgia d’una vera e propria immediatezza dell’originario, il cui presupposto implicito è di fatto necessariamente costituito dall’accessibilità diretta dell’origine.

Ma questa accessibilità diretta è tutto meno che scontata. Infatti, l’origine di cui qui si discorre — e che conviene intendere in tutta la sua dignità ontologica di principio, arche o Anfang — è l’origine dei significati e della loro trasmissione storica: origine, dunque, dell’ordine simbolico e indiretto della cultura o del senso, che Merleau-Ponty proponeva d’intendere «come un ordine originale dell’avènement, da non considerarsi derivato da quello, ammesso che esista, degli eventi [événements] puri».3 Si tratta dunque di rivendicare il carattere ontologicamente originario d’un ordine in quanto tale e fin dall’inizio contrassegnato dalla struttura obliqua del rimando, il cui carattere derivato e indiretto non è perciò preceduto da alcun regime immediato, a cui dovrebbe venir attribuita maggiore dignità ontologica e nel quale potrebbe presumersi avvenuta una qualche autodonazione del significato.4 L’ordine della cultura come produzione indiretta del significato è dunque per definizione incapace di fare a meno della deviazione indiretta dei segni, giacché — dice ancora Merleau-Ponty — «il significato senza alcun segno, la cosa stessa — nel suo essere il colmo della chiarezza, sarebbe proprio lo svanire di ogni chiarezza».5

Perciò va attentamente evidenziato, scomposto e messo in discussione il tacito ma illusorio presupposto dell’accessibilità diretta dell’origine, motivo centrale della tradizione filosofica occidentale, culminante nel privilegio ricorrente della dimensione teoretico-speculativa e radicato in una profonda ma illusoria aspirazione del desiderio psichico. Più precisamente, ciò che va scomposto e messo in discussione à la tendenza ad amalgamare e sovrapporre l’originario e l’immediato, il cui scarto insuperabile costituisce il pungolo del desiderio umano, la sua irriducibilità alla nostalgia delle origini.6

2.

Secondo Gadamer, l’intento finale — il traguardo — della comprensione ermeneutica è il superamento dell’estraneità e l’appropriazione di quest’ultima. Ciò presuppone come sua premessa implicita la tesi d’un accesso diretto — ancorché perduto — all’originario. Come se, alla fine d’un lungo itinerario di ricerca e di studio, la scorribanda girovaga dell’interprete nei meandri inizialmente estranei dell’ordine culturale potesse e dovesse appagarsi d’un ritorno all’origine, implicante al tempo stesso una ripresa di sé, finalmente l’uno e l’altra — il ritorno e la ripresa — pienamente riusciti e perciò definitivi. Scrive Gadamer: «Riconoscere il proprio nell’estraneo, familiarizzarsi con esso (oppure: divenir di casa in esso [in ihm heimisch zu werden]), è il movimento essenziale dello spirito, il cui essere consiste esclusivamente nel ritornare a sé dall’altro».7 Qui — nella rassicurante attuazione della circolarità hegeliana — il telos coinciderebbe con l’arche. Infatti, dice ancora Gadamer, «ogni principio [Anfang] è fine [Ende] e ogni fine è principio»:8 l’interpretazione compiuta, pensata sul modello del dialogo, «è un circolo chiuso nella dialettica di domanda e risposta».9

Di conseguenza, la tensione che anima la comprensione, e che orienta il proprio verso l’estraneo, s’appaga grazie al fatto che arriva finalmente ad attingere ciò che si presume ne costituisca il naturale complemento. In questo ritorno in sé, il proprio si trasforma: appropriandosi dell’estraneo, non si limita a tornare all’inizio del processo di comprensione, ma ne riattinge l’origine o il principio che ontologicamente si presume preceda e renda possibile ogni inizio o punto di partenza; riattinge cioè l’originaria intesa o accordo tra il proprio e l’estraneo: riattinge cioè quell’intesa o quell’accordo che nella prospettiva ermeneutica il dialogo «presuppone o meglio costituisce», nella misura in cui è un «trasformarsi in ciò che si ha in comune, trasformazione nella quale non si resta quelli che si era [Verwandlung ins Gemeinsame hin, in der man nicht beibt, was man war]».10 È proprio questo originario aver-in-comune dell’accordo — basato sul privilegio ermeneutico del familiare o del proprio rispetto all’estraneo — che, mentre precede e rende possibile l’iniziale tensione tra di essi, al tempo stesso si configura come la posta in gioco del loro dialogo. Il quale, dunque, come ben dice Gadamer, al tempo stesso presuppone e costituisce «ciò che si ha in comune». Lo presuppone, perché ciò che si ha in comune è l’accordo originario. Lo costituisce, perché il raggiungimento di ciò che si ha in comune è la meta o il traguardo finale del dialogo ermeneutico. Quest’ultimo non sarebbe possibile se non si presupponesse la preesistenza d’un accordo originario, ma non sarebbe necessario se tale accordo non fosse fin dall’inizio minato dal disaccordo e dal fraintendimento, dal sopraggiungere dell’estraneo che intralcia o limita l’autoriconoscimento del proprio. Ragion per cui l’esito finale del movimento ermeneutico, il superamento dell’estraneo e la sua appropriazione, è il ripristino dell’accordo originario.

Ciò che nell’odissea del movimento ermeneutico completa e appaga il proprio, non è mai l’estraneo che il proprio attraversa — dal momento che la vera estraneità resta incomprensibile11 — ma solo ciò in cui il proprio è in grado di ritrovarsi, riuscendo a riconoscere se stesso, a ritrovare qualcosa di familiare. Questo dipende dal fatto che il riconoscimento alla base dell’appropriazione non ha luogo nell’estraneo: il che significa che il proprio, a esser rigorosi, non riconosce se stesso in ciò che gli è e gli resta estraneo ma solo in ciò che gli era stato estraneo all’inizio, e che quindi gli è tale solo in modo provvisorio e passeggero. Il proprio riconosce se stesso solo in ciò che il proprio e l’estraneo hanno originariamente in comune. Ecco che solo sul presupposto speculativo di codesta origine condivisa, il proprio è in grado di riconoscere ciò che, nonostante il sopraggiunto sviamento, può ancora risultargli familiare, perché lo sviamento non annulla l’accordo originario basato su ciò che si ha in comune prima di ogni estraniazione. Di conseguenza, il circolo ermeneutico è l’autocelebrazione del proprio e delle sue stratificazioni, il ritorno nostalgico all’origine attraverso il superamento di ciò che solo inizialmente si presenta come estraneo.

Bisogna riconoscere il carattere altamente problematico d’una simile teleologia dell’appropriazione, e dell’«archeologia» che la fonda: e non certo, però, perché esse disturbino o feriscano un’astratta e aprioristica considerazione tutta positiva dell’estraneo, priva d’ogni fondamento critico e d’ogni giustificazione. Non si tratta cioè di contrapporre al punto di vista ermeneutico dell’appropriazione una qualunque forma d’ingenua esaltazione dell’estraneo, il quale ultimo, in maniera superficiale e falsa, verrebbe implicitamente ritenuto in quanto tale benefico o salvifico, per definizione innocente o vittima, intrinsecamente attraente o affascinante. Un simile punto di vista teso a esaltare con entusiasmo mal riposto le presunte virtù dell’estraneo è certo facilmente criticabile. Ma altrettanto ingenuamente ottimistico e illusorio, benché orientato in senso inverso, è il punto di vista sotteso al proposito finale dell’appropriazione ermeneutica, che presuppone e implica — dandone per scontata la fattibilità — il superamento dell’estraneo, il suo assorbimento nel proprio. Anche questa è un’illusione, destinata a ricevere spiacevoli smentite dal fatto — dal puro dato di fatto — della resistenza dell’estraneo. Giacché questa resistenza che tenacemente l’estraneo oppone alla sua integrazione e incorporazione nel proprio è dovuta precisamente — ed esclusivamente — alla sua estraneità: al fatto di costituire il limite originario del proprio. Ragion per cui tale resistenza è invincibile. La tensione tra il proprio e l’estraneo, infatti, non oppone termini fronteggiantisi in uno spazio neutro che li avvolge e separa, ma dimensioni intrecciate dell’origine — e di quest’ultima quella tensione rivela l’originaria frammentazione o esplosione.

L’estraneo resiste al proprio non tanto e non solo perché gli si contrappone dall’esterno, ma innanzitutto perché ne costituisce l’origine. Perciò l’estraneo non si lascia integrare, sottraendosi all’ordine e al senso, sfuggendo alla comprensione e alla comprensibilità. Ne consegue che la considerazione ermeneutica della riduzione dell’estraneità e della sua appropriazione nello Heimischwerden, appare illusoria e rassicurante. Più che assimilarlo o assorbirlo, il proprio deve convivere con l’estraneo, e non può che adattarsi a esso, semplicemente perché nessun progetto di assorbimento o integrazione riesce ad averne pienamente ragione.

L’estraneo è dunque originariamente e fin dall’inizio intrecciato al proprio, e per questo motivo non è possibile espungerlo in un’esteriorità che si tratterebbe poi di colonizzare e incorporare a sé. In questo senso, l’estraneità è assimilabile al non-senso come orizzonte inesauribile — e insuperabile — del senso: è il caos come premessa e sorgente dell’ordine. L’intento finale dell’ermeneutica consistente nell’appropriazione dell’estraneo si propone il compito impossibile dell’afferramento d’una trasparenza priva di estraneità, implicante la pretesa d’una conclusiva abolizione del non senso e della sua abissale e irriducibile opacità.

Il motivo ermeneutico centrale dell’appropriazione dell’estraneo è in definitiva quello del superamento d’un ostacolo iniziale che — innanzitutto e per lo più, potremmo dire con Heidegger — ci distoglie o ci ha sempre già distolti da ciò che ci è, o si presume ci sia, veramente adeguato e appropriato, e che dobbiamo e possiamo bensì conquistare e fare nostro, però solo in quanto ci è (stato) originariamente familiare. In tal modo l’estraneità viene bensì superata, ma ciò che viene superato è un qualcosa che ci era solo relativamente estraneo, perché in definitiva ciò di cui ci appropriamo è quanto ci è veramente adeguato: ciò stesso che ci «salva».

3.

Svolgendo tutte le implicazioni del cenno gadameriano al rovesciamento ermeneutico del rapporto di domanda e risposta, contenuto nella seconda parte del paragrafo sul primato ermeneutico della domanda, si pongono le premesse per una riflessione radicale sul paradosso della risposta, originaria proprio perché derivata, ossia proprio perché non preceduta da alcuna domanda accessibile in modo immediato e diretto. Solo una tale risposta permette d’accedere a un’estraneità che resti tale, che non venga cioè assorbita e assimilata dal proprio.12

Com’è noto, per Gadamer, «il fenomeno ermeneutico implica in sé l’originarietà del dialogo e la struttura di domanda e risposta. Che un determinato testo — aggiunge Gadamer — divenga oggetto di interpretazione significa già di per sé che esso pone una domanda all’interprete».13 Il quale, però, se vuol comprendere, col suo proprio domandare deve risalire «al di là di ciò che è detto» nel testo, comprendendo cioè «il detto come risposta, in base alla domanda di cui rappresenta la risposta».14

La cosa del tutto singolare, che merita d’esser sottolineata e approfondita, è che l’interprete non ha alcun mezzo per accedere direttamente alla domanda originale o preliminare di cui il testo rappresenta la risposta. Anche se presume che questa domanda abbia una struttura semplice e immediata, da presupporre alla obliquità della risposta costituita dal testo, non può risalirvi se non accontentandosi di partire precisamente dal carattere inevitabilmente indiretto di quest’ultima. Non v’è alcun rapporto frontale all’origine: alla quale si può risalire solo in maniera indiretta.

Ciò ha delle ripercussioni ontologiche decisive. Non si tratta infatti di considerare originaria la deriva indiretta dell’interpretazione solo in ragione della nostra incapacità di accedere all’immediatezza della domanda. Il punto è che una domanda originale e diretta, di cui la risposta a noi accessibile sia una replica automatica e univoca, semplicemente non esiste. Prima della risposta non c’è e non c’è mai stata alcuna domanda esplicita (di cui la risposta sarebbe stata la saturazione o il compimento). Come scrive Castoriadis, «l’umanità si costituisce facendo sorgere la questione della significazione e fornendole fin dall’inizio risposte».15 Certo, aggiunge Castoriadis, «non si tratta di domande e di risposte esplicite», poiché qui «le domande non precedono le risposte»: al contrario «è sulla base delle risposte che possiamo individuare» le domande.16

Non c’è modo di rapportarsi direttamente all’ordine immediato della domanda che si presume abbia preceduto quello della risposta, né è possibile esibire un criterio universale o assoluto per valutare l’adeguatezza della risposta. L’illusione storicistica consiste nel ritener possibile un accesso diretto — saltando l’inevitabile deriva della risposta — alla presunta immediatezza originale della domanda che precede il testo e a cui esso risponde. «All’inizio sta invece la domanda che il testo pone a noi, l’esser direttamente chiamati in causa dalla parola del passato […]. Il rapporto di domanda e risposta risulta in tal modo capovolto. Il dato storico trasmesso, che si rivolge a noi […], pone esso stesso una domanda, e in tal modo pone il nostro spirito nella situazione dell’apertura. Per rispondere a tale domanda che ci è posta noi, gli interpreti, dobbiamo cominciare a nostra volta a interrogare».17

In questo senso, diciamolo subito, la stessa domanda dell’interprete può esser considerata con Waldenfels come un’articolazione del rispondere. In tal modo il primato ermeneutico della domanda viene capovolto. Non solo la domanda dell’interprete, ma ogni domanda umana — a cominciare da quella del bambino — assume la forma del rispondere a un precedente Anspruch: ed è questa preliminare richiesta (nel duplice senso d’una pretesa e d’un appello) che, provenendo dall’estraneo, precede e suscita il domandare, e induce a scorgere in quest’ultimo la traccia d’un rispondere originario. Ma è decisivo il fatto che la formula con cui Waldenfels enuncia l’originarietà della risposta («in principio era la risposta») si legga alla fine d’un paragrafo il cui stesso titolo espressamente esclude che vi siano una prima e un’ultima parola: «Kein erstes und letztes Wort».18 Sostenere l’originarietà della risposta, infatti, significa escludere che essa sia preceduta da una qualche domanda diretta, accessibile immediatamente: significa soprattutto ammettere che ogni domanda, e in modo generale ogni parola e ogni atto umano abbia fin dall’inizio il carattere inevitabilmente indiretto del rispondere.19 Il movimento indiretto e derivato del rispondere consiste nel dar luogo all’estraneo, la cui richiesta o pretesa è precisamente l’interruzione della trama continua delle domande e delle risposte finalizzate alla costruzione d’un sapere. Waldenfels insiste a più riprese sull’irriducibilità dell’Anspruch estraneo allo statuto della domanda mossa da un non-sapere e correlativa d’una risposta (answer). Mentre la domanda è accomunata a quest’ultima dalla continuità d’un determinato contenuto oggettivo, fra l’Anspruch proveninete dall’estraneo e l’evento di darvi risposta (response) c’è un abisso invalicabile.20 La richiesta, la pretesa e l’appello provenienti dall’estraneo suscitano inevitabilmente la risposta del proprio — anzi, si potrebbe sostenere addirittura che solo da essi scaturisce il proprio come originaria risposta —, ma questa risposta non esaurisce né esaudisce mai completamente la richiesta che la provoca. La rivendicazione dell’originarietà della risposta, di conseguenza, fa corpo con la sottolineatura della sua insuperabile incompletezza, il che implica l’attribuzione del carattere derivato e indiretto della risposta alla stessa struttura dell’origine, che in tal modo ne esce trasformata: l’originario è tale solo in quanto — alla stregua del movimento stesso del rispondere — risulta incapace d’autogenerarsi istantaneamente. L’evento di rispondere è dunque al tempo stesso originario e derivato rispetto alla richiesta che l’interpella. È un simile sdoppiamento dell’origine che Waldenfels implicitamente invita a pensare in tutte le sue implicazioni, allorché parla d’un «ritardo» strutturale del rispondere, nella cui strana supplementarità si rifrange il ritardo immemorabile dell’origine, la sua inaccessibilità immediata.21

Da questa matrice fenomenologico-ermeneutica dislocata nella direzione dell’estraneo e del suo intrecciarsi col proprio senza però risolversi in quest’ultimo, risulta trasformato il modo stesso di concepire l’originario e di rapportarsi a esso. In altri termini, se si riconosce che il movimento costitutivo del proprio è il fatto stesso di rispondere a una più originaria richiesta proveniente dall’estraneo, è necessario al tempo stesso riconoscere il carattere non semplice e non puntuale dell’origine, la sua originaria articolazione interna o complicazione, la sua impossibile coincidenza con sé. Il modello dell’origine non può più essere quello dell’armonia e della semplicità: l’originario risulta già in se stesso derivato, differito, inaccessibile direttamente. L’immediatezza dell’origine non è che un’estrapolazione retrospettiva, un’elaborazione posteriore, una fantasia compensatrice del desiderio.

4.

Si fa strada una concezione dell’ermeneutica al cui centro stia proprio l’estraneità irriducibile, quale emerge da questa pagina di Aldo Gargani, che mette conto citare per esteso:

A mio giudizio la specificità della razionalità dell’ermeneutica si disvela nel passaggio da una concezione meccanica della formazione del significato delle nostre espressioni — in cui ogni tratto, ingrediente, elemento sarebbe univocamente e rigidamente connesso a tutti gli altri nei termini di una coazione a ripetere — ad una concezione in cui il senso del discorso non è l’entità risultante da un dispositivo meccanico inesorabile, ma emerge come comunanza di tratti tra loro irriducibili che vengono raccolti insieme in quella che è semplicemente una scena in cui essi coesistono insieme […] Proprio l’estraneità [corsivo mio] di ogni tratto, di ogni elemento del discorso rispetto all’altro, estraneità che è responsabile della circostanza che il discorso sia un dis-correre, cioè un trascorrere da una parola all’altra attraverso il trauma dell’abbandono che un passaggio di tale sorta implica, tale estraneità — che coinvolge l’elemento di opacità di ogni simbolismo — rende conto di una nozione di Essere, come quella al centro della riflessione hedeggeriana intesa non più come ente, come cosa, sostanza immane, ma come evento, accadimento di un senso che è un disvelarsi e insieme un nascondersi in ragione della luce di una scena che si illumina, ma che si ritrae e si nasconde nella dismisura dell’indecisione in cui ogni elemento, ogni cosa da un lato è quello che propriamente è, e dall’altro è la deriva imprevedibile dei suoi significati alla quale va incontro per via della mancanza di stabilità e struttura dell’ente come tale.22

Fra i tanti, suggestivi motivi teorici di cui è intessuto questo passo, ci si soffermerà soprattutto sull’idea di un’originaria mancanza di stabilità e struttura che rende ogni ente, ogni elemento, ogni tratto della scena ermeneutica innanzitutto estraneo a se stesso, oltre che irriducibile agli altri. Una tale mancanza non è espropriazione, giacché in essa non è in gioco la perdita d’un più antico possesso. Quest’estraneità irriducibile attraversa in primo luogo noi stessi: «sin dall’inizio ciascuno di noi è con se stesso, prima ancora che con gli altri, una realtà estranea a se stessa».23 Non c’è alcun «ordine univoco e cristallino della realtà» che precederebbe la deriva simbolica e decentrata della scena ermeneutica: c’è solo il nostro essere abbagliati dall’idea di trovarci un giorno davanti a un tale ordine, che ponga fine alle nostre inquietudini e incertezze,24 che ponga fine cioè alla «cattiva infinità» del desiderio.25 Ma tanto l’aspettativa di questo traguardo finale di pienezza e armonia, quanto il suo presentarsi come il recupero o il ripristino d’un antichissimo stadio originario caratterizzato dall’assenza dell’estraneità e dal pieno possesso del familiare, sono illusorie estrapolazioni del desiderio.

Il ricordo dell’origine, come magistralmente chiarisce Gargani sulla scorta di Freud, è in realtà solo assai impropriamente e abusivamente definito «ricordo»: giacché in esso emerge qualcosa «che non è mai stato dimenticato, per la semplice ragione che non è mai stato appreso coscientemente». Piuttosto che ricordata, l’origine, la scena primaria, che non fu mai vissuta perché non fu mai presente in originale, viene ripetuta: ma queste ripetizioni, queste elaborazioni posteriori, questi differimenti inevitabili, non sono affatto «le repliche monotone e invarianti di un medesimo contenuto. […]. Non c’è dunque un significato isolato della scena primaria separato dalle sue ripetizioni».26

Alla base del presunto ricordo dell’origine c’è dunque un’elaborazione differita dell’immaginazione che, partendo dalle aspirazioni attuali del vissuto, proietta, per dir così, sullo schermo d’un mitico vissuto originale (che però non fu mai direttamente tale) l’accessibilità immediata di cui nella deriva temporale s’esperisce l’assenza e si patisce la mancanza. Quel che nella concreta attualità del vissuto risulta propriamente intollerabile alle più profonde aspirazioni della psiche è il differimento temporale che sempre pospone la realizzazione dei desideri, giacché il trascorrere del tempo è l’allontanarsi del loro appagamento. L’illusoria coincidenza di desiderio e realizzazione è quindi il fantasma di un’istantaneità intemporale dell’origine. Di conseguenza, solo in virtù della retrospettiva immaginaria del desiderio, si produce non già il ricordo dell’origine, ma il suo fantasma, attraverso il quale essa viene vagheggiata e investita d’un tranquillizzante senso narcisistico, ricercato quale balsamo compensatore per le ferite del presente. Ed è solo a partire da questa rielaborazione immaginaria che s’appaga il desiderio di provenire da un’origine pienamente posseduta e goduta, estranea agl’intralci e agl’indugi che inevitabilmente frappongono all’appagamento dei desideri le inevitabili mediazioni del tempo. La mancanza attuale d’accessibilità immediata, vissuta come espropriazione, fa corpo con la promessa d’un ripristino della presunta immediatezza dell’originario, d’un recupero nostalgico della sua immaginaria pienezza, d’un ritorno finale alla vagheggiata armonia dei primordi.

Ma in realtà non c’è alcun traguardo finale raffigurabile in termini di ritrovata coincidenza e recuperata semplicità, poiché non c’è mai stata una verginità dell’origine. L’armonia non è né iniziale né finale. Fin dall’inizio la complicazione del molteplice è problematica. Non c’è appagamento immediato della tensione intenzionale del vissuto in un afferramento istantaneo, cioè intuitivo, della «cosa stessa». L’unica possibilità di accesso ad essa è la sua donazione indiretta e obliqua — l’accessibilità nell’inaccessibilità e non suo malgrado — che Husserl individuava bensì nell’estraneo, attribuendole però un carattere derivato e privativo, in base al presupposto implicito che il proprio o l’appartenente fosse in grado di darsi a se stesso «in originale», senza residui né scarti, in assoluta e istantanea trasparenza: mentre bisogna riconoscere che la deriva temporale della donazione obliqua non è preceduta da un’accessibilità originale e diretta che sarebbe andata perduta, pur restando promessa al recupero della nostalgia. Fin dall’inizio il proprio è attraversato dall’estraneo: da ciò che si rifiuta a un accesso immediato e diretto, perché gli è irriducibile. La donazione obliqua o derivata non costituisce affatto un ripiego, giacché è l’unica modalità possibile del rapporto all’origine.

5.

L’inaccessibilità immediata dell’origine, la sua estraneità irriducibile come limite del proprio, è la fonte d’un desiderio inesauribile, che non s’appaga nostalgicamente nel fantasma d’un ritorno regressivo a ciò da cui presume di procedere, ma s’orienta verso un futuro da creare.

Il nesso tra originarietà della risposta e inappagabilità del desiderio come rapporto all’altro — come desiderio sociale27 — è implicitamente evocato dal seguente passo di Levinas: «Quel che è anteriore a ogni domanda non è a sua volta domanda ma […] Desiderio».28

Prima del domandare ermeneutico, come sua sorgente e origine, c’è dunque il movimento del desiderio, in cui va riconosciuta l’originaria risposta del proprio all’estraneo. La questione che si pone ora è quella di determinare la natura dell’estraneità che suscita il desiderio, verso la quale, cioè, s’orienta e si protende il più profondo movimento intenzionale del proprio. Si tratta di un’estraneità che può essere assorbita e assimilata, e quindi tale che il desiderio sia attratto verso di essa perché vi riconosce una parte di sé, un suo complemento naturale, la possibilità di ritrovare l’origine perduta? O non è piuttosto l’appello di quanto si sottrae a ogni afferramento istantaneo, che risuona in esso come limite originario dell’appropriazione?

L’intelligenza ermeneutica del nesso tra il proprio e l’estraneo non lascia dubbi su questo punto. Si tratta d’una strategia platonica e nostalgica in cui ciò che suscita il desiderio, ciò che gli dà l’abbrivio e ne alimenta l’anelito, è precisamente quanto già ne attenua l’inquietudine nel calmo possesso del proprio, cioè nella ritrovata intimità del familiare in cui ogni tensione s’appaga.

Gadamer è assai chiaro al riguardo allorché, nel suo brillante saggio su «Logos ed ergon nel Liside platonico», giunge ad analizzare la conclusione del dialogo, in cui, com’è noto, il desiderio è determinato come aitia della philia,29 e si dilunga sul senso dell’aggettivo greco oikeion — ciò che appartiene alla casa, alla oikia — in qunto termine capace di esprimere il rapporto carico di tensioni tra il desiderio e il soddisfacimento. Secondo Platone, la tensione affettiva del desiderio, proteso al raggiungimento di quel che gli manca e può soddisfarlo, è determinata da una preliminare dimestichezza o familiarità con esso, cioè esattamente dal fatto che l’oggetto del desiderio, prima di esserci venuto a mancare, ci era appartenuto, ci era stato familiare, oikeion. Scrive Gadamer: «Con l’epressione “ciò che è familiare” viene sempre indicato qualcosa che mi risponde o a cui io rispondo perché mi appartiene» e aggiunge che questa preliminare omogeneità conferisce al desiderio — causa dell’amicizia — la sua legittimità (e, si dovrebbe aggiungere, la sua necessità: giacché in quel passo del Liside30 Platone esclude la possibilità stessa che il desiderato, l’oggetto del desiderio, si sottragga, si riufiuti, sfugga a chi rettamente lo desidera), sicché — conclude Gadamer — «quello che, in fondo, egli [il desiderante] cerca nell’altro è «ciò che gli appartiene» ed è appunto ciò a conferire legittimità al suo desiderio».31

Per Gadamer dunque alla base della risposta — e del desiderio come risposta — c’è il primato della familiarità rispetto all’estraneità, e quindi la caratterizzazione di quest’ultima come d’un che di derivato e provvisorio. La tensione affettiva del desiderio verso il suo oggetto è protesa alla ricostituzione del proprio mediante il superamento dell’estraneo; essa è degna d’esser perseguita e valorizzata solo in quanto si rivela radicata nell’oikeion: in ciò che, originariamente posseduto e costitutivo del proprio, poi venuto a mancare, merita d’esser ritrovato. La struttura del desiderio come causa dell’amicizia è una struttura nostalgica, poiché il desiderio è bensì mosso dall’avvertimento d’una mancanza, ma questa non è che un’espropriazione. La vera provenienza del desiderio è l’oikeion: la familiarità e la pienezza del proprio.

Ecco perché il «ricordo» ermeneutico dell’origine tradisce e presuppone un vagheggiamento dell’origine dominato dal fantasma della sua unità immediata e semplice. Bisogna però distinguere questa unità immediata dell’origine dall’intelligenza ermeneutica delle condizioni iniziali della ricerca, sempre già coinvolte nella possibilità del fraintendimento. L’inizio d’ogni ricerca dell’origine prende le mosse da questo coinvolgimento — che solo apparentemente risulta immediato, ma che in realtà è intessuto di mediazioni e di rimandi — in una dimensione non originaria. In questa dimensione — che Husserl chiamava atteggiamento naturale da sottoporre a riduzione e che in Heidegger diventerà la medietà quotidiana interrotta o ribaltata dall’angoscia — l’autentica immediatezza dell’origine, la sua familiarità è fin dall’inizio perduta e nascosta, seppellita sotto il reticolo o la deriva dei rimandi scambievoli che strutturano l’apparire. Ciò che sembra di primo acchito la nostra relazione immediata con le cose che ci circondano e che appaiono, in realtà non ha nulla d’immediato. La vera immediatezza è la donazione diretta del senso: l’automostrazione e non l’indicazione, non l’apparizione, non la manifestazione — tutte forme di donazione indiretta e obliqua, quindi mediata. Per citare Montale i «silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto»32 sono al di là delle sempre eventualmente ingannevoli mediazioni che strutturano l’ambito derivato e indiretto delle apparenze, in cui già da sempre, cioè fin dall’inizio, siamo immersi.

E tuttavia secondo la pretesa ermeneutico-speculativa dell’appropriazione, l’iniziale non è ancora l’originario. Quest’ultimo è caratterizzato da un’automostrazione o autoesibizione, da un farsi vedere in se stesso a partir da se stesso, da un regime di donazione diretta, da intendersi quale presupposto e fondamento del fatto stesso che qualcosa appaia nel regime derivato e obliquo dei rimandi. I fenomeni in senso fenomenologico, cioè le automostrazioni e non le apparenze o apparizioni, innanzitutto e perlopiù non sono dati: perciò è necessaria la fenomenologia che va per così dire a stanarli dietro le apparizioni che li nascondono ma li presuppongono. Ne consegue altresì che l’originario come tale non appare, ma si mostra. Non appare, perché la struttura del rimando propria all’apparire lo nasconde e lo riduce al derivato, ma si mostra: si lascia vedere direttamente, si dà e si offre in persona.

Nel modello gadameriano — come già può evincersi in filigrana dal suo riferimento alla natura religiosa di quel motivo centrale dell’ermeneutica che consiste nel superamento dell’estraneità — l’obiettivo della comprensione ermeneutica intanto può consistere nell’appropriazione dell’estraneo, in quanto la familiarità è da presupporsi all’estraniamento. Dicendo questo, non si tratta di negare la posizione mediana dell’ermeneutica tra le due polarità estreme dell’estraneità e della familiarità, ma semplicemente di sostenere che il paradigma stesso del dialogo col testo, individuato da Gadamer come emblematico ricordo dell’origine, implica l’idea che nel dialogo fra l’Io e il Tu, piuttosto che l’estraneità, predomini la familiarità di ciò che è comune. L’umanesimo gadameriano è decisamente ottimistico: «Ma è il Tu veramente così estraneo come lo è per definitionem l’oggetto della scienza della natura? Dobbiamo riconoscere che l’accordo è più originario del disaccordo, tanto che il comprendere risfocia sempre nell’accordo ristabilito».33

Quest’orizzonte di familiarità originaria — d’un accordo più profondo, più antico e più originario del pur iniziale disaccordo — è un po’ come la felicità di cui Hegel parla nella sezione della Fenomenologia dello spirito dedicata all’attuazione dell’autocoscienza razionale mediante se stessa, dove si dice che questa autocoscienza razionale è uscita dalla «felicità d’aver raggiunto la sua destinazione e di vivere in essa», oppure che essa «non ha ancora raggiunto quella felicità». E si aggiunge: «si può infatti allo stesso modo dire l’una cosa e l’altra».34 Infatti la felicità della ragione — originaria e finale — ha luogo nell’istantaneità d’una dimensione speculativa che, precedendo l’inizio, costituendone la provenienza implicita ma fondante, è sempre già perduta: e tuttavia, poiché l’origine che precede l’inizio è anche il traguardo finale del processo, quella dimensione è al tempo stesso di là da venire, non ancora attinta nella sua pienezza. Sempre al tempo stesso passata e futura.

L’intrinseca unità dell’accordo non è data all’inizio, altrimenti non sarebbe necessario il lungo itinerario della comprensione ermeneutica, ma intanto può costituirne l’obiettivo, in quanto bisogna considerarla l’originario presupposto dell’inizio, il fondamento semplice della donazione solo indiretta e derivata dell’iniziale.

6.

Se invece l’origine resta immemorabile perché non fu mai vissuta, allora diventa possibile, oltre la nostalgia rassicurante ma paralizzante e ripetitiva del ritorno nella vagheggiata immediatezza del proprio, intendere il pungolo del desiderio come la tensione verso ciò che non fu mai presente, che perciò non fu mai posseduto né conosciuto, ma che resta rimesso alla creatività dell’iniziativa storica. Salvaguardare l’inospitale estraneità dell’origine, inassimilabile alla presunta trasparenza del proprio, è il gesto teorico sconfessato dall’ermeneutica, l’unico capace di dischiudere l’accesso a un futuro che costituisca l’orizzonte permanente e inassimilabile del desiderio.


  1. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, a cura di G.Vattimo, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1972, p. 425, corsivi aggiunti. ↩︎

  2. Maurice Merleau-Ponty, «Le philosophe et son ombre», in Idem, Signes, Gallimard, Paris 1960, p. 201. ↩︎

  3. Idem, «Le langage indirect et les voix du silence», Signes, p. 85. ↩︎

  4. Al contrario, dunque, di ciò che pensa Heidegger, il quale contrappone al carattere originario e ontologico dell’autoesibizione o automostrazione diretta propria del Phänomen, il regime indiretto dell’Erscheinung come sua deriva meramente ontica, nel quale soltanto vige la struttura del rimando. In una prima stesura di quello che poi diventerà il fondamentale § 7 di Essere e tempo, dedicato com’è noto al metodo fenomenologico della ricerca, e cioè nel § 9 delle lezioni del 1925, in stretta continuità con la prima delle Ricerche logiche di Husserl, Heidegger scrive: «L’apparire ha il carattere del rimando e il rimando è caratterizzato proprio dal fatto che ciò a cui l’apparizione rinvia non si mostra in se stesso, ma soltanto rappresenta, indica in maniera mediata, accenna indirettamente. Il titolo di apparizione significa dunque un tipo di rimando a qualcosa che non si mostra in se stessa […]. L’aspetto caratteristico della funzione del rimando nell’apparizione, nell’apparire, è la funzione dell’indicazione, dell’annuncio di qualcosa. Annunciare qualcosa per mezzo di un’altra significa proprio non mostrarla in se stessa, ma presentarla in modo indiretto, mediato, simbolico». Per rendere ancora più chiaro il discorso, Heidegger precisa che viceversa «nel fenomeno [Phänomen] non abbiamo alcuna connessione di rimandi, ma la struttura ad esso peculiare del mostrar se stesso» (Martin Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, a cura di R. Cristin e A. Marini, Il melangolo, Genova 1991, p. 103). Ecco perché in Essere e tempo, dopo aver definito formalmente il Phänomen come «ciò che-si-mostra-in-se-stesso [das Sich-am-ihm-selbst-zeigende]» (Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 50), in conseguenza del fatto che «l’apparire [Erscheinen] è un non-mostrarsi [Sich-nicht-zeigen]» (ivi, pp. 48-9), Heidegger può scrivere: «L’ontologia non è possibile che come fenomenologia. Il concetto fenomenologico di fenomeno intende come il mostrantesi [das Sichzeigende] l’essere dell’ente» (ivi, p. 56). Il che, nonostante tutto, non viene smentito nello sviluppo successivo, tanto che in un celebre passo del suo ultimo seminario tenuto a Zähringen, il vecchio Heidegger ribadisce l’opposizione tra il regime dei rimandi, proprio dell’apparire, e l’ambito diretto del mostrarsi fenomenologico, allorché dice: «La fenomenologia è una via che conduce dinanzi a…, e fa sì che ciò dinanzi a cui arriva si mostri. Questa fenomenologia è una fenomenologia dell’inapparente», (Martin Heidegger, Seminari, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1992, p. 179, corsivo aggiunto). ↩︎

  5. Merleau-Ponty, Signes, p. 103. ↩︎

  6. Come tento d’argomentare in «L’originaire et l’immédiat. Remarques sur Heidegger et le dernier Merleau-Ponty», Revue philosophique de Louvain, maggio 1998. ↩︎

  7. Gadamer, Verità e metodo, p. 37. Sullo Heimischwerden si dilungano, com’è noto, molte pagine hölderliniane di Heidegger, su cui rinvio al mio «La nostalgia dell’origine e l’eccesso del desiderio. Lo Unheimliche e l’angoscia in Freud e Heidegger», in Fabio Ciaramelli, Bruno Moroncini, Felice Ciro Papparo, Diffrazioni. La filosofia alla prova della psicoanalisi, Guerini, Milano 1994. ↩︎

  8. Verità e metodo, p. 539. ↩︎

  9. Ivi, p. 447. ↩︎

  10. Ivi, p. 437. ↩︎

  11. Il nesso tra estraneità e incomprensibilità, già affermato da Husserl nei testi degli anni ’30 (cfr. Bernhard Waldenfels, «Erfahrung des Fremden in Husserls Phänomenologie», in Idem, Deutsch-Französische Gedankengänge, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995, pp. 52 ss.), è riconosciuto dallo stesso Gadamer nel seguente passo, estrapolato da un saggio del 1943: «Prevenire “comprendendo” ogni obiezione dell’altro non serve in realtà a nient’altro che a tenere distanti da sé le esigenze dell’altro. È un modo di non lasciarsi dire niente. Quando però uno è in grado di lasciarsi dire qualcosa, quando lascia valere le esigenze dell’altro, senza comprenderlo in anticipo e perciò limitarlo, allora egli acquista una vera conoscenza di sé. Proprio allora gli si dischiude qualcosa. Quindi non in un sovrano comprendere tutto abbiamo un vero ampliamento del nostro Io impigliato nelle strettoie dell’esperienza vissuta, come vuole Dilthey, ma nell’incontro con l’incomprensibile. Forse noi non prendiamo mai tanto coscienza del nostro essere storico quando soffia verso di noi l’alito di mondi storici del tutto estranei» (Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo 2. Integrazioni, a cura di R. Dottori, Bompiani, Milano 1995, p. 43). ↩︎

  12. Ho presenti i risultati cui giunge Bernhard Waldenfels in un testo su Gadamer per ora inedito («Jenseits von Sinn und Verstehen», che costituirà il capitolo quarto di Bernhard Waldenfels, Vielstimmgkeit der Rede. Studien zur Phänomenologie des Fremden 4, di imminente pubblicazione presso Suhrkamp), nel quale vengono per così dire messe alla prova le tesi dello stesso Waldenfels sulla centralità filosofica della risposta come accesso sempre indiretto all’estraneo, elaborate soprattutto nei suoi recenti volumi: Antwortregister, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994, e Topographie des Fremden. Studien zur Phänomenologie des Fremden 1, ivi 1997, sui quali rinvio a quanto ne ho scritto più ampiamente in «L’inquiétante étrangeté de l’origine», Revue philosophique de Louvain, agosto 1998 e in «L’inospitalità dell’origine. Il fascino e la minaccia dell’«estraneo» tra fenomenologia e psicoanalisi», in G. Borrelli — F.C. Papparo (a cura di), Nella dispersione del vero. I filosofi: la ragione e la follia, Filema, Napoli 1998. ↩︎

  13. Gadamer, Verità e metodo, p. 427. ↩︎

  14. Ibidem. ↩︎

  15. Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto. Il sociale e le istituzioni, trad. R. Currado, a cura di F. Ciaramelli, Dedalo, Bari 1998, p. 22. ↩︎

  16. Ivi, p. 73 e p. 22. ↩︎

  17. Gadamer, Verità e metodo, p. 431 (corsivi aggiunti). ↩︎

  18. Waldenfels, Antwortregister, pp. 269-270. ↩︎

  19. Cfr. ivi, p. 269 e p. 634. ↩︎

  20. Cfr. ivi, p. 242. ↩︎

  21. Cfr. Ivi, pp. 266-267 (“Die Nachträglichkeit der Antwort”). Sul suo debito rispetto alle letture francesi del nachträglich freudiano (da Lacan a Derrida, senza ignorarne gli echi in Merleau-Ponty e Levinas), Waldenfels si dilunga in più luoghi del suo volume Deutsch-Französische Gedankengänge, cit. Limitatamente a Derrida e a Levinas, rinvio ai miei testi: «L’anacronismo», Postilla a Emmanuel Levinas — Adriaan Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini, Milano 1990; «The Posteriority of the Anterior» (trad. Diane Perpich), Graduate Faculty Philosphy Journal, vol. 20 n. 2 — vol. 21 n. 1, 1997 (numero monografico dedicato a Levinas) e «Jacques Derrida et le supplément d’origine», Études phénoménologiques, n. 26, 1998 (precedentemente apparso in versione tedesca: «Jacques Derrida und das Supplement des Ursprungs» [trad. Antje Kapust], in Hans-Dieter Gondek — Bernhard Waldenfels [a cura di], Einsätze des Denkens. Zur Philosophie von Jacques Derrida, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997). ↩︎

  22. Aldo G. Gargani, Il testo del tempo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 18-19. ↩︎

  23. Ivi, p. 89. ↩︎

  24. Cf. Aldo G. Gargani, Sguardo e destino, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 32. ↩︎

  25. Sul mondo del desiderio in Heidegger (cfr. Essere e tempo § 41) come mondo inautentico dell’illimitato rimando e della «cattiva infinità», cfr. Carmelo Colangelo, Limite e melanconia. Kant, Heidegger, Blanchot, Loffredo, Napoli 1998, pp. 124 e ss. A differenza di quanto afferma Gargani verso la fine del lungo passo riportato poco sopra nel testo, la svalutazione heideggeriana del rimando appare piuttosto orientata nel senso dell’ontologia diretta che non in quello auspicato dallo stesso Gargani. Per una critica dell’ontologia heideggeriana come ontologia diretta a partire dall’ultimo Merleau-Ponty, rinvio al mio articolo «L’originaire et l’immédiat. Remarques sur Heidegger et le dernier Merleau-Ponty», Revue philosophique de Louvain, maggio 1998. ↩︎

  26. Aldo G. Gargani, «Freud e Wittgenstein», in Idem, Lo stupore e il caso, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 125-126. ↩︎

  27. Per un più adeguato sviluppo di questo punto rinvio al mio libro La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell’epoca del consumo di massa, Dedalo, Bari 2000. ↩︎

  28. Emmanuel Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961, p. 152. ↩︎

  29. Liside 221 d. Platone specifica che il desiderio è causa dell’amicizia solo nella misura in cui tende a ciò che gli manca; ne consegue che colui il quale manca di qualcosa è amico di ciò che gli manca, perché tende a ritrovare quel che gli era proprio o familiare: oikeion (cfr. Liside, 221 e). ↩︎

  30. Cfr. Liside 222 a. ↩︎

  31. Hans-Georg Gadamer, Studi platonici, vol. 2, a cura di G. Moretto, Marietti, Genova, 1990, pp. 70-71. Su alcune implicazioni di questo punto rinvio al mio «Friendship and Desire», che uscirà nel prossimo numero di Free Association↩︎

  32. Eugenio Montale, «I limoni», Ossi di seppia↩︎

  33. Idem, Verità e metodo 2. Integrazioni, p. 154. ↩︎

  34. Georg W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. E. De Negri, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 296. ↩︎