Tecnologia e psicopatologia in Karl Jaspers: dalla filosofia dell’esistenza alla digital addiction

1. La filosofia dell’esistenza

Ripensare l’essere e il fare del filosofo attraverso il pensiero di Karl Jaspers restituisce alla filosofia il suo significato più autentico in una contingenza storica che sembra prediligere la razionalità strumentale e i dettami della scienza. La filosofia di Jaspers, infatti, è una filosofia dell’esistenza, ossia, una modalità attraverso la quale poter riscoprire il vero significato dell’essere prendendo le mosse da se stessi, poiché

il filosofare è il cammino dell’uomo che, nel suo tempo, coglie storicamente l’essere che si manifesta solo in questo apparire e non in se stesso. Nel filosofare si esprime una fede senza alcuna rivelazione, una fede che si appella a ciò che si trova lungo lo stesso sentiero, ma che non è un’indicazione oggettiva che, nella confusione, addita la via; ognuno afferra solo quella possibilità che egli stesso è attraverso se stesso, ma osa quella dimensione che pone in luce l’essere nell’esserci, con lo sguardo proiettato verso la trascendenza. In un mondo divenuto in ogni sua parte problematico, filosofando, cerchiamo di tenere una direzione senza conoscerne la meta.1

Nella nostra realtà, infatti, possiamo individuare le cifre dell’esistenza, ovvero, quegli aspetti che ci permettono di oltrepassare l’apparenza, ma che si rintracciano nella stessa esperienza. Gli orientali le chiamerebbero illuminazioni: momenti in cui l’individuo coglie la trascendenza, la quale completa la dimensione del reale. Una dimensione mancante nel fondamento e per questo legata alla trascendenza, la cui alternativa sarebbe il nulla. Del resto, a differenza di Heidegger, Jaspers si affaccia su una scelta pessimistica dell’esistere che condensa in sé tutta la sua precarietà.

Invero per poter comprendere al meglio il senso di una tale speculazione filosofica risulta utile considerare la lenta evoluzione del pensiero jasperiano che prende le mosse dalla concezione della stessa filosofia come prospettazione del mondo, passa alla filosofia come esistenza individuale, e, infine, approda alla filosofia intesa come metafisica. La prima definizione di filosofia si lega alla distinzione kantiana tra intelletto e ragione, ovvero, tra ciò che parte dai dati sensibili e ciò che, invece, prescinde da essi. La filosofia intesa come prospettazione del mondo coincide con quel sapere capace di interpretare il mondo. Si tratta di una conoscenza scientifica, intelletto, ricerca della verità assoluta che si rivela all’uomo come una conquista dell’orizzonte e non del tutto: un sapere destinato a essere inevitabilmente provvisorio. Tuttavia, una ricerca di questo tipo conduce verso un fallimento, poiché l’uomo deve poter conquistare non solo l’orizzonte, ma, soprattutto ciò che ingloba l’orizzonte, il quale è sempre dentro qualcosa che sfugge. Per questo Jaspers individua i limiti della verità scientifica che — tuttavia — non svaluta completamente al modo di Heidegger: il sapere scientifico è un sapere parziale.

La seconda concezione della filosofia intesa come esistenza individuale fa luce sull’idea che ogni esistenza sia contemporaneamente un esserci e un essere: un soggetto e un oggetto di esistenza. Come soggetto di esistenza l’individuo è inesorabilmente destinato alla sua unicità, la quale permette di comprendere il vero valore della soggettività: l’analisi di ogni esistenza. E proprio in questa duplicità di soggetto e oggetto l’uomo non è puro essere ma poter essere, dover essere: proiezione di se stessi sul proprio esistere. Un esistere che si lega alla temporalità poiché l’esistenza dell’individuo è sempre in relazione col tempo e — a sua volta — il tempo dell’uomo è sempre in relazione con l’eternità. Il tempo dell’uomo risiede dentro l’eternità e questo concetto Jaspers lo pone in maniera semplice attraverso la distinzione tra momento e attimo. Il momento è un dato temporale, qualitativamente diverso dal precedente e dal successivo e in questa frazione di tempo l’attimo interviene raramente poiché quest’ultimo appartiene all’eternità e non al tempo. L’attimo è un bagliore di eternità che rende possibili le attese, i sogni dell’individuo. Per questo il valore dell’attimo ci ricollega alla terza definizione di filosofia avanzata da Jaspers, ovvero, la filosofia intesa come metafisica, nella quale si completa l’idea dell’esistenza dell’uomo come irriducibile a ogni formulazione scientifica. Si tratta di un’esistenza che pone un duplice aspetto della libertà individuale: da un alto si scopre la libertà, dall’altro si prende coscienza dell’impossibilità di controllare e decidere su determinati eventi o situazioni. Situazioni che Jaspers chiama limite «come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire».2 Le situazioni limite sono il dolore, la morte e la stessa vita, delle quali non possiamo conoscere l’origine né prevedere la direzione.

Esse non mutano in sé, ma solo nel loro apparire; nei confronti del nostro esserci hanno un carattere di definitività. Sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo. Non possiamo operare in esse alcun mutamento, ma dobbiamo limitarci a considerarle con estrema chiarezza, senza poterle spiegare o giustificare in base a qualcosa. Esse sussistono con l’esserci stesso.3

Le situazioni-limite si sposano col duro linguaggio della necessità che, tuttavia, aprono le porte alla trascendenza e alla metafisica rendendo la filosofia stessa — questo è il terzo significato — sostanzialmente una lunga preparazione alla morte. Il nucleo del pensiero di Jaspers si trova nella riflessione sulla trascendenza, la quale risulta irriducibile all’immanenza dell’esserci.

2. Dalla filosofia dell’esistenza all’approccio fenomenologico della psicopatologia

La filosofia dell’esistenza di Jaspers si completa nella psicopatologia e, soprattutto, nell’approccio fenomenologico che ribalta la tradizionale metodologia applicata nell’ambito psicologico e antropologico. Proprio prendendo le mosse da un approccio fenomenologico, Jaspers si propone di superare la mera razionalità strumentale e di cogliere il senso dell’esperienza umana: della singola esperienza del singolo soggetto. Se attraverso la filosofia dell’esistenza si svelano i limiti della ragione e della stessa verità scientifica, con la psicopatologia jasperiana si indaga la totalità dell’essere, dell’esistere e dell’individuo. Non solo l’apparenza ma anche l’essenza. Non solo l’esterno ma anche l’interno. Ma, recuperare la totalità dell’essere non può prescindere e trascurare la lunga tradizione dicotomica che rintraccia nell’individuo la scissione di soggetto e oggetto, di anima e corpo, di autenticità e inautenticità. La storia della filosofia affonda le sue radici proprio in questo dualismo: si pensi a Pitagora per il quale il corpo non è altro che prigione dell’anima, oppure a Eraclito che considera la conoscenza sensibile come incapace di cogliere l’essenza della natura, la verità ultima. Pensieri che si completano e si risolvono nella distinzione parmenidea tra doxa e aletheia: tra conoscenza sensibile e conoscenza razionale, mettendo in evidenza la superiorità dell’intelletto sulla fisicità. La sfera dell’essere vero si configura come dimensione appartenente all’anima, alla mente: termini che si contrappongono a quello di corpo, il quale si caratterizza come ciò che appesantisce l’uomo, trattenendolo nelle tenebre della «notte dell’apparenza», e come ciò che rende difficile il percorso dell’anima verso la «luce della verità». Teorie che si riversano nello spiritualismo platonico e si completano nel dualismo cartesiano che conclude il passaggio dall’anima alla mente e, di conseguenza, la dicotomia interna all’uomo tra res cogitans e res extensa. Infatti, il dualismo cartesiano sfalda l’unicità della sostanza, della natura umana, proprio considerando la compresenza di due sostanze distinte: mente e corpo, le quali, pur interagendo tra di loro, si caratterizzano per attributi incompatibili, ovvero, per il pensiero e l’estensione. Pensiero ed estensione sono caratteristiche prime della mente e della materia, e la loro incompatibilità alimenta l’impossibilità di rintracciare un’unica sostanza, di considerare l’individuo come tutt’uno di anima e corpo. E l’approccio fenomenologico di Karl Jaspers alla psicopatologia prende le mosse proprio da questa tradizione dualistico-cartesiana, proponendosi di restituire all’uomo la sua totalità che trascende la semplice conoscenza scientifica. Cosciente di ciò, Jaspers pone davanti a sé l’obiettivo della non-oggettivazione dell’essere umano prima, e del paziente dopo, definendo la stessa divisione tra soma e psiche una mera astrazione: qualcosa che può frenare la comprensione autentica del soggetto. Il metodo scientifico, dunque, risulta essere estremamente riduttivo se associato all’esistenza: una sorta di

fraintendimento che vizia il modo di pensare psichiatrico poiché nasce dal fatto che si trascura la natura della cosa da pensare. Se infatti l’oggetto della psichiatria è l’uomo, e non solo il suo corpo, ma lui stesso nella totalità della persona, occorre rendersi conto che l’uomo, nella sua totalità, sta oltre ogni possibile e afferrabile oggettivazione. In quanto aperto alla comprensione delle cose, l’uomo non può essere ridotto a oggetto di studio, perché così si distrugge quella totalità comprensiva che noi siamo, per far emergere solo qualche suo aspetto oggettivo.4

La scissione soggetto-oggetto non può esaurire la comprensione dell’essere e del suo modo d’essere. Comprensione che diviene un termine essenziale per la psicopatologia jasperiana e per l’approccio fenomenologico. Scoprire il senso dell’esistenza nell’esperienza del singolo paziente assurge al significato di comprendere e non di spiegare, dato che si può spiegare l’esistere senza comprenderla. Ciò vuol dire andare oltre il metodo scientifico e capire dal di dentro il senso dell’esserci. Non pura descrizione, bensì, «indagine fenomenologica che ha il compito di rendere presenti ed evidenti di per sé stati d’animo che i malati sperimentano (erleben) realmente astenendosi da tutte le interpretazioni che trascendono la pura descrizione».5 Da qui si completa la filosofia dell’esistenza unendosi alla psicopatologia e soprattutto a una cultura psicopatologica che supera l’oggettivazione del reale. Del resto

è più facile imparare semplicemente uno schema ed apparentemente essere sempre, mediante alcune formule, all’altezza di tutto. La cultura viene dalla conoscenza dei limiti di un sapere ordinato e dalla capacità di pensare in modo chiaro ed evidente, che sia in grado di muoversi in tutte le sue direzioni. Per la formazione psichiatrica occorre l’esperienza personale, che abbia sempre una visione intuitiva ciò che non è in grado di dare alcun libro, la chiarezza concettuale e la mobilità poliedrica del modo di intendere.6

3. FOMO, Nomophobia, Checking habit: le psicopatologie del terzo millennio e il «comprendere» di Karl Jaspers

Richiamare, oggi, il pensiero di Karl Jaspers non vuol dire soltanto rivalutare il compito della filosofia che — come abbiamo potuto notare — si risolve nell’autentica comprensione della situazione esistenziale, ma, soprattutto, aprire le porte a una possibilità di interpretazione della società del XXI secolo. Una società in cui si afferma sempre più prepotentemente il concetto di malessere sociale che supera diametralmente il termine di malattia circoscritto e limitato alla fisicità, all’organico. Il disagio collettivo assume oggi il volto di evento sociale, o meglio, di fenomeno di massa.7 Patologia individuale e collettività divengono termini intercambiabili e, soprattutto, sovrapponibili, dato che il secondo risulta essere capace di inglobare il primo in tutta la sua interezza. Si tratta di un sistema sociale tendenzialmente malato che invade la sfera del singolo fino a renderla partecipe di quella che possiamo definire una psicopatologia. Niente di nuovo se pensiamo che da sempre i malesseri sociali si uniscono ai fenomeni culturali e attivano tra loro una costante metamorfosi. Ogni epoca, infatti, si caratterizza per il suo «modo culturale» di concepire e manipolare la salute, la malattia e la sofferenza. Si pensi, ad esempio, alla figura della donna appartenente alla classe borghese: la cosiddetta isterica, oppure, si pensi al romanticismo e alle «patologie saturnine» nelle quali rientra la melanconia. Ma ciò che oggi ci distingue è l’assenza di una frammentazione, di un confinamento in gruppi di appartenenza, in élite ben precise. Richiamare il concetto di psicopatologia, ai nostri giorni, vuol dire prendere in considerazione un fenomeno che si dirama e pervade tutta la società trascendendo concetti come quelli di classe e di ruolo. Ogni membro ne è «contagiato», senza distinzione alcuna, poiché la tecnologia — matrice di svariate psicopatologie — investe ognuno di noi rendendo la stessa società una massa esposta a ciò che passa sotto l’appellativo di «nuovi mali». Tecnologia e psicopatologia, dunque, rintracciano la loro valenza più autentica in un rapporto di causa-effetto direttamente proporzionale e immediatamente disponibile alla vista di chi osserva e tratteggia i caratteri salienti dell’uomo del terzo millennio. Questa «generalizzazione» e, quasi, «universalizzazione» psicopatologica rischia, però, di ricondurre l’analisi dei fenomeni allo spiegare e non al comprendere jasperiano. Sembra, infatti, che la collettività di cui prendiamo parte, e nella quale ci relazioniamo trascini con sé l’esistenza del singolo individuo che diviene semplice anello di una catena e non portatore di senso di un’esistenza. Si trascura il fatto che

la vita psichica ci sta di fronte, ci si presenta non solo come un tutto infinito, ma come un tutto che sfida ogni sistematizzazione logica, come un oceano che navighiamo lungo le coste e solo di tanto in tano in alto mare, ma sempre alla superficie. Riportare la vita psichica ad un qualche principio universale, e per così dire dominarla nel principio, è falso nelle premesse, perché impossibile: quando ci serviamo di pensieri teorici, che hanno una parentela formale con teorie scientifico-naturalistiche, questi non sono che aggiunte (ipotesi), per gli scopi di una conoscenza particolare e limitata, ma non per la conoscenza dell’anima e della sua totalità.8

Quando oggi si fa riferimento alla psicopatologia, infatti, si tende a considerarla un fenomeno di massa e non ciò che interessa il singolo che la compone. E solitamente lo schema capace di compendiare i «nuovi mali» finisce col circoscrivere l’attività del comprendere di jasperiana memoria, nella descrizione e spiegazione del problema. Recentemente proliferano su riviste scientifiche e divulgative gli articoli dedicati alle psicopatologie dell’uomo contemporaneo che sono legate principalmente all’uso massificato degli strumenti tecnologici: c’è la FOMO «fear of missing out», ovvero, la paura di essere tagliati fuori, la Nomophobia «paura di aver perso o dimenticato il cellulare», la Checking habit «controllo continuo dello smartphone».9 A queste nuove forme di psicopatologie se ne possono aggiungere altre di sempre più nuova generazione e i sintomi divengono quasi simili tra di loro e possono essere definiti come veri e propri fattori omologanti. Nevrosi, stati d’animo alterati, attacchi di panico costituiscono gli effetti che vengono inseriti nel «maxi grafico» dei malesseri contemporanei. Effetti che hanno una causa: lo strumento tecnologico a essi connesso. Emblematica è la cosiddetta digital addiction o, se vogliamo, Internet Addiction Disorder:10 una dipendenza da Internet che racchiude in sé svariate manifestazioni e che, proprio per questo, riesce a catalogare scientificamente i disagi sociali del terzo millennio. La suddivisione in sindromi, infatti, fa riferimento a una vera e propria crisi d’astinenza rientrante nei disturbi mentali. Esiste, dunque, una spiegazione (e anche molto esaustiva) di ciò che ci circonda. Ma esiste anche una comprensione? Il singolo soggetto, l’esperienza del singolo soggetto si smarrisce e si confonde nei meandri della massa tecnologica che oggettivizza e spersonalizza l’esistenza di ognuno di noi omettendo di considerare che «i disturbi correlati all’uso di Internet, trovano terreno fertile solo in preesistenti assetti psicopatologici individuali (per i quali la rete funge semmai da catalizzatore)».11 Basterebbe pensare alle svariate modalità attraverso cui si manifesta l’impatto dell’uso delle nuove tecnologie su ogni singolo individuo. Sarebbe sufficiente prendere in esame il gap generazionale secondo cui esiste una «generazione Z» che comprende i cosiddetti «nativi digitali», e una generazione denominata di «immigranti digitali».12 Solo questa semplice distinzione può indurre a riflettere sulla complessità della nostra contingenza storica, e sulla necessità di differenti approcci nello studio delle psicopatologie odierne. L’individuo appartenente alla generazione dei «nativi digitali puri», condivide con i suoi «simili» — sin dai suoi primi mesi di vita — smartphone e capacità di apprendimento indite rispetto alle generazioni precedenti. Tuttavia, a questa massificazione e oggettivazione delle nuove generazioni si contrappone un pericoloso schiacciamento identitario che riduce l’esistenza del singolo all’esistenza dei molti procedendo con una metodologia scientifica attinente allo strumento, e non a chi utilizza esso. Per questo, l’approccio fenomenologico di Jaspers capace di osservare dal di dentro si perde nell’osservare dal di fuori una materia informe o, come direbbe Zygmunt Bauman, liquida, la quale non ha né direzione e né meta. E le psicopatologie che continuano a proliferare non si riducono al mero utilizzo di quel particolare strumento tecnologico. C’è molto di più: come ad esempio l’abbattimento dei concetti di tempo e di spazio della realtà globalizzata e di quella virtuale; la sostituzione del volere, del preferire e dello scegliere, con quella del dovere, dell’aggiornare e del potere; l’annebbiamento del desiderare che conduce a un annichilimento dell’individuo. Individuo che compone una massa, ma che non si sostituisce a essa e né si sovrappone. L’esperienza di ogni singolarità determina l’unicità dell’esistenza di ognuno, che — ai nostri giorni — sembra perdere il contatto con la realtà. Del resto, se procediamo per particolari e non per pericolose generalizzazioni, è opportuno prendere in considerazione i singoli fenomeni della vita psichica per rivedere le psicopatologie contemporanee. Ad esempio tutto ciò che viene associato alla realtà virtuale può essere compresa attraverso la perdita dell’esperienza del tempo e dello spazio in quanto

le dinamiche odierne della riproduzione sociale rivelano una rapidità che coinvolge tutte le articolazioni del nostro modello sociale, manifestando un’inclinazione cronografa, vale a dire una disposizione assai importante a mobilitare le energie sociali non tanto per meglio assumere il tempo e lo spazio come componenti essenziali dell’agire, quanto per annullarle.13

Annullare spazio e tempo significa eliminare le due categorie fondamentali dell’esistenza, la cui interpretazione si trova alla base della stessa indagine fenomenologica e psicopatologica.14 Le psicopatologie contemporanee, infatti, non derivano direttamente dall’uso della rete — riprendendo il caso di studio Internet — , ma dall’effetto che questo strumento genera sulla percezione di spazio e tempo. Queste due categorie si legano a concetti come quelli di appartenenza e di progettazione. La nostra realtà globalizzata manca del senso di territorialità e quindi di appartenenza, così come di quella tensione verso il progettare, verso il divenire e il futuribile. Tendere verso qualcosa vuol dire espletare l’essenza più autentica dell’esistere: un esistere individuale innanzitutto e capace di entrare in comunicazione con i suoi simili in un determinato spazio. Del resto, la maggior parte dei «nuovi mali» contemporanei sono legati alla perdita del tempo poiché

la sensazione della presenza, dell’assenza e della realtà è originariamente legata alla coscienza del tempo. Con lo scomparire del tempo, scompaiono il presente e la realtà. Noi sentiamo la realtà come un attuale temporale; oppure sentiamo come se fosse presente il «nulla», privo di tempo.15

Per questo, nella nostra realtà tecnofila risulta necessario rivalutare il pensiero jasperiano e inaugurare un’era del comprendere e non del semplice spiegare.


  1. K. Jaspers, Filosofia, in U. Galimberti (a cura di), Mursia, Milano, 1977, p. 61. ↩︎

  2. Idem, Chiarificazione dell’esistenza, sez. III, p. 678. ↩︎

  3. K. Jaspers, Filosofia, UTET, Torino, 1932, p. 678. ↩︎

  4. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, Morano, Napoli, 1969, p. 29. ↩︎

  5. K. Jaspers, Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1964, p. 58. ↩︎

  6. Idem, p. 55. ↩︎

  7. Cfr., P. Levy, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano, 1999; G.O. Longo, Il nuovo Golem. Come il computer cambia la nostra cultura, Laterza, Bari, 1998. ↩︎

  8. K. Jaspers, Psicopatologia generale, op. cit., p. 18. ↩︎

  9. Cfr., P. Cagnan, Digital Stress, in «L’ Espresso», n. 34, 2013, pp. 114-121. ↩︎

  10. Cfr., K. S. Young, Caught in the Net, John Wiley & Sons, New York, 1998. ↩︎

  11. V. Lingiardi, Male, female, e-mail: fluidità di genere, cyberidentità, relazioni fantastiche, in V. Caretti, D. La Barbera (a cura di), Psicopatologia delle realtà virtuali, Masson, Milano, 2002, p. 53. ↩︎

  12. Cfr., P. Ferri, Nativi digitali, Mondadori, Milano, 2011. ↩︎

  13. U. Fadini, La vita eccentrica, Dedalo, Bari, 2009, p. 145. ↩︎

  14. Cfr., G. Fontò, Psicoterapia e fenomenologia, Imago, Milano, 2011. ↩︎

  15. K. Jaspers, Psicopatologia generale, op. cit., p. 91. ↩︎