Il pluralismo doxastico delle tradizioni religiose

1. Approccio sostantivo e approccio funzionalista

La tesi che argomenterò nel presente lavoro è che ogni religione esprime una eterogeneità di posizioni doxastiche, per lo più non condivise fra gli aderenti a essa. Un modo alternativo di formulare tale tesi è dire che ogni religione è costitutivamente pluralista da un punto di vista doxastico. Il mio intento è duplice. In primo luogo vorrei mostrare che l’autocomprensione tradizionale delle religioni abramitiche – autocomprensione secondo la quale aderire a una religione consiste nell’assumere un pacchetto di credenze fondamentali – è sostanzialmente erronea. In particolare, mi sembra sbagliato ritenere che una religione sia un sistema doxastico che veicoli una concezione del trascendente (oppure del sacro, del divino, del numinoso, o di qualsiasi altro termine si voglia utilizzare per qualificare l’oggetto referenziale dell’ambito di discorso religioso) incompatibile con quella affermata dalle altre religioni; e che tutti coloro che aderiscano a una religione assumano la medesima concezione del trascendente, risultando questa incompatibile con quella assunta da coloro che aderiscano alle altre religioni. In secondo luogo vorrei portare ragioni per la tesi che ciò che è sbagliato nell’autocomprensione tradizionale non consista nel fatto che la dimensione doxastica delle religioni sia un epifenomeno, o comunque qualcosa di ontologicamente secondario; piuttosto, che tale dimensione doxastica non possa essere trattata alla luce dell’applicazione del principio dell’esclusività del vero alla totalità del corpo dottrinale di una religione nel confronto con le altre.

Il mio punto di partenza è la ricerca sociale sulla religione, per l’ovvia considerazione che le religioni siano (fra l’altro) fenomeni sociali. Nell’ambito dell’indagine sociologica è invalso l’uso di avvicinarle nei termini di due alternativi paradigmi definitori.1 Secondo l’approccio sostantivo una religione è individuata dal contenuto delle proprie credenze, delle proprie attività rituali, e delle proprie simbologie, generalmente relative alla valutazione assiologica della natura di una dimensione oltre-empirica del reale e alla conseguente promozione di azioni relazionali fra il fedele e tale dimensione trascendente l’esperienza. Secondo l’approccio funzionalista, invece, una religione è individuata dall’insieme di funzioni sociali che essa rende possibili e appaga tanto al livello individuale che collettivo (formazione dell’identità personale, elargizione di benessere psicofisico, promozione della coesione sociale, fissazione ed espressione di rappresentazioni sociali, eccetera). Con l’efficace formula di P. Beyer, si può dire che «le definizioni sostantive di religione mettono a fuoco cosa sia una religione, laddove le definizioni funzionaliste cercano di dire cosa una religione faccia».2

Sembra evidente che le definizioni prodotte dai due modi di procedere non siano fra loro logicamente disgiunte. In fin dei conti ciascuna religione fa quello che fa essendo ciò che è. Vale a dire che ciascuna religione mostra di svolgere certe funzioni sociali (anche) perché essa fa presa sui propri aderenti grazie alle peculiarità doxastiche del corpo dottrinale confessato. Ciò nonostante, nella ricerca contemporanea si manifesta l’evidente tendenza a contrapporre l’uno orientamento all’altro, interpretando l’alternatività di approccio sostantivo e approccio funzionalista non nei termini di una complementarità di punti di vista, bensì di una incompatibilità.

A grandi linee, l’approccio sostantivo afferma la natura irriducibile dell’esperienza religiosa: l’unico modo per comprendere una determinata religione consiste nel prendere sul serio l’impegno credenziale che essa esige dai propri aderenti. Ossia, dire di un certo x che egli aderisce alla religione R, significa dire che x ritiene, da un punto di vista assiologico, che le credenze di R siano corrette. Non si tratta cioè di negare che una religione positiva svolga anche delle funzioni sociali, ma di mettere in luce, semmai, che tali funzioni siano una conseguenza diretta e lineare della confessione di un certo corpo dottrinale. Di conseguenza, ciascuna religione è una risposta cognitiva a un peculiare problema legittimo di senso. Detto in modo antifunzionalista: la funzione che una religione eminentemente svolge è offrire una soluzione positivamente determinata al manifestarsi del problema religioso per gli esseri umani. Ne risulta, dunque, che le definizioni sostantive di religione siano tendenzialmente ristrette (la definizione distingue in modo netto fra ciò che è religioso e ciò che non lo è), univoche (le religioni sono competitors chiaramente incompatibili sul mercato religioso) ed esclusive (poiché la definizione di una religione R muove dal corpo credenziale di R, la definizione di R avrà caratteri che le appartengono peculiarmente).

Al contrario, l’approccio funzionalista afferma la natura riducibile dell’esperienza religiosa. Se comprendere cosa sia un certo qualcosa è cogliere la differenza specifica che il tale qualcosa mostra rispetto agli altri esemplari del genere di appartenenza, comprendere qualcosa è coglierne i caratteri peculiari come possibili varianti di tratti universali. Il funzionalista sostiene la tesi che ciò che si dimostra universale nelle religioni non può essere identificato a livello doxastico, perché esso è di natura funzionale. Cioè, tutte le religioni svolgono l’una o l’altra funzione sociale universale. Detto in modo antisostantivo: la sostanza di una religione è la sua funzione sociale per l’individuo e la collettività. Di conseguenza, le definizioni funzionaliste di religione sono tendenzialmente ampie (la definizione incorpora nell’ambito religioso oggetti di studio che gli aderenti a una religione non considererebbero religioni), equivoche (la stessa religione può anche svolgere funzioni diverse in tempi e luoghi diversi) e inclusive (nessuna definizione funzionale sembra in grado di specificare cosa appartenga peculiarmente all’una o all’altra religione positiva).

2. Da un approccio puramente funzionale a un approccio non puramente funzionale

Al fine di determinare in modo più preciso la distinzione fra i due approcci, introduco adesso la nozione di puramente funzionale. La motivazione consiste nel fatto che tale nozione mette in luce la ragione teorica che promuove l’interpretazione oppositiva della relazione fra definizioni sostantive e definizioni funzionaliste. Sia R una religione. Una definizione di R è puramente funzionale se riduce il contenuto delle credenze, dei riti e delle simbologie di R alla funzione sociale (individuale o collettiva) da essa svolta. L’attribuzione di socialità alla funzione svolta da una religione deve qui essere letta come logicamente implicante l’essere eminentemente non religioso. Ossia, una definizione di R puramente funzionale consiste nella stipulazione di una clausola eteronomica che rinviene la legge e la natura dell’ambito religioso in qualcosa di eminentemente non religioso. Mi sembra banale affermare che, date queste premesse, una tale definizione tenda a svuotare di senso l’esperienza religiosa (in quanto esperienza religiosa).

Grazie all’impiego della nozione introdotta, l’approccio sostantivo alla religione sarà da qualificarsi come un approccio non puramente funzionale, mentre l’approccio funzionalista alla religione come un approccio puramente funzionale.3 Questo lascia aperta l’interessante possibilità di riformare ciò che usualmente si intende con approccio sostantivo nei termini di una interpretazione complementare delle definizioni sostantive e funzionaliste (qualificando le funzioni sociali che una religione svolge come effetti della natura irriducibile della sfera religiosa dell’esistenza individuale e collettiva); e caratterizzare ciò che usualmente si intende con approccio funzionalista nei termini di una interpretazione oppositiva delle definizioni sostantive e funzionaliste. Infatti, secondo un approccio non puramente funzionale, il corpo doxastico religioso produce effetti funzionali a tutto campo (i.e., effetti religiosi e non religiosi): la correlazione fra sostantivo e funzionale va dal sostantivo verso il funzionale. Al contrario, secondo un approccio puramente funzionale, il corpo doxastico religioso produce effetti funzionali di ordine non religioso, perché esso risponde a bisogni individuali e collettivi che non hanno niente a che fare con l’ambito della religione (i.e., i bisogni individuali e collettivi che sorgono dalle relazioni sociali trovano nella concettualità e nell’esperienza religiosa un appagamento traslato). In questo caso il verso della correlazione va dal funzionale al sostanziale.

La mia tesi è che l’approccio puramente funzionale sia da rigettarsi a vantaggio di un approccio non puramente funzionale. La ragione è molto semplice: data la natura riduzionistica dell’approccio puramente funzionale, esso non sembra in grado di rendere adeguatamente conto dell’esperienza di fede compiuta da chi aderisce a una religione positiva.4 Indipendentemente dal fatto che tale esperienza possa essere decettiva e che la natura di essa possa consistere in un meccanismo finalizzato all’appagamento traslato di necessità socio-identitarie (tanto a livello individuale che collettivo), l’esperienza di fede è soggettivamente vissuta (nell’appartenenza a una certa comunità religiosa) nei termini delle credenze assunte. Infatti, l’esperienza di fede ha la propria sorgente nell’intenzione individuale di adeguare un’ortoprassi in linea con la confessione di una collezione di credenze assiologiche sulla natura della dimensione oltre-empirica del reale. Cioè, chi vive un’esperienza di fede crede, generalmente, che la ragione ultima per la giustificazione per l’essere determinato così e così della propria esistenza sia costituito da ciò che egli ritiene essere vero da un punto di vista religioso. Vale a dire che il fedele spiega a se stesso la propria esperienza alla luce di ciò che egli crede.

Altrimenti detto: l’esperienza di fede non consiste, così come sostenuto da un approccio puramente funzionale, esclusivamente nell’eventuale possesso di una certa identità personale nei termini di dinamiche di gruppo, nell’eventuale elargizione di una certa quantità di benessere psicofisico, nella eventuale fruizione di una determinata coesione sociale, nella eventuale comprensione e godimento di certe rappresentazioni sociali, ecc., ma nel ritenere ogni accadimento del genere fondativamente connesso alla confessione di un certo corpo dottrinale. La dimensione doxastica delle religioni positive è irriducibile perché fattualmente ineliminabile dall’esperienza di fede di chi aderisce a esse. Non sembra del resto un caso che in differenti lingue europee l’aderente a una religione venga spesso chiamato credente (inglese believer, francese croyant, tedesco Gläubige, spagnolo creyente).

Ora, è naturalmente possibile che l’esperienza di fede sia fallace, e che, ciò nonostante, essa giochi un ruolo funzionale per l’individuo e la collettività. Cioè, è possibile che la confessione sociale di una certa collezione di credenze promuova l’occorrere di un certo numero di fenomeni (individuali e collettivi) anche nel caso che il contesto referenziale delle credenze assunte non abbia una realtà sostanziale. Tuttavia, se così stessero le cose, quello che ordinariamente diremmo è che una collezione di credenze false ha dato origine a una ortoprassi non giustificata da un punto di vista doxastico. Si consideri, per esempio, la religiosità politeista che caratterizza il mondo greco-romano. Probabilmente nessun storico dell’antichità crede all’esistenza di Afrodite. Ed è anche possibile che nel rendere ragione della fede in Afrodite degli antichi adotti un sistema interpretativo del politeismo volto a mettere in luce le funzioni sociali da esso giocate. Non può, però, in ogni caso, prescindere dalla ricostruzione delle collezioni di credenze che esprimono tale fede nel tentativo di rendere conto dell’esperienza di fede compiuta dall’uomo greco-romano: essa ci appare comprensibile nei termini di ciò che egli credeva (le funzioni sociali da essa rese possibili ci appaiono generate dal fatto che egli credeva, falsamente, che le cose in merito ad Afrodite stessero in un certo modo).

3. Bipartizione dell’approccio non puramente funzionale

Dalla tesi che l’approccio puramente funzionale sia da scartare segue la tesi che l’approccio non puramente funzionale sia l’orientamento corretto per la trattazione delle religioni positive. Tale approccio può essere distinto in due differenti modi di concepire la relazione fra gli atteggiamenti proposizionali doxastici espressi dagli aderenti a una religione positiva e il corpo dottrinale della medesima. Sia data una religione positiva R, il suo corpo dottrinale D ≣{P1, P2, …, Pi, …, Pn} dove Pi è la generica credenza che qualcosa così e così è il caso, una collezione di sue credenze fondamentali (sotto forma di una confessione di fede) F≣{CB1, CB2, …, CBi, …, CBn} dove CBi è la generica credenza fondamentale che qualcosa così e così è il caso; degli individui x, y, z che aderiscono a R.

Si avrà che:

A) ∀x : Se x aderisce a R, x crede ciascuna proposizione appartenente a F, e FD;

B) ∀x, y, z : Se x, y, z aderiscono a R, x crede alcune proposizioni appartenenti a F, alcune proposizioni appartenenti a D, e FD;y crede alcune proposizioni appartenenti a F, alcune proposizioni appartenenti a D, e FD; z crede alcune proposizioni appartenenti a F, alcune proposizioni appartenenti a D, e FD; e, le proposizioni appartenenti a F e a B credute da x non sono necessariamente le stesse proposizioni credute da y e le stesse proposizioni credute da z; le proposizioni appartenenti a F e a B credute da y non sono necessariamente le stesse proposizioni credute da z.

Secondo l’approccio non puramente funzionale (A), il corpo dottrinale di una religione può essere ridotto a una confessione di fede che tutti gli aderenti a R accettano (FD). Al contrario, secondo l’approccio non puramente funzionale (B), il corpo dottrinale di una religione non può essere ridotto a una confessione di fede che tutti gli aderenti a R accettino (niente impedisce di postulare l’identità di F e D, e comunque i vari x, y, z non credono sempre le medesime proposizioni).

A grandi linee, (A) cattura il tradizionale approccio sostantivo alla religione. L’intuizione fondamentale a sostegno di (A) è espressa dalla tesi che l’ordinaria variabilità del corpo dottrinale di una religione può essere resa omogenea nei termini di una collezione ristretta di credenze che, congiuntamente assunta, esprima le peculiarità di tale religione rispetto a ciascuna delle altre. Ogni religione positiva raccoglie, infatti, materiali credenziali eterogenei che determinano differentemente un medesimo contesto referenziale, individuato dall’interpretazione teologica di un qualche evento ritenuto normativo (e.g., la pre-esistenza alla narrazione storica di una tradizione rivelativa vedica nell’induismo, la vita del Buddha nel buddhismo, l’erranza ebraica verso la terra promessa nell’ebraismo, la vicenda di Gesù Cristo nel cristianesimo, le visioni di Maometto nell’Islam, eccetera). Tale eterogeneità è innanzitutto espressa dalla frammentazione tradizionale dei movimenti religiosi in orientamenti confessionali o eretici; i quali appaiono più o meno stabili da un punto di vista storico in funzione della propria istituzionalizzazione come sottogruppo della religione di appartenenza (ciascun orientamento confessionale è in genere una interpretazione teologica alternativa rispetto agli altri orientamenti confessionali della medesima religione). Ora, il teorico dell’approccio sostantivo alle religioni ritiene, in genere, che tutti gli aderenti a una certa religione, seppure appartenenti a diverse confessioni, condividano l’assunzione di un gruppo ristretto di credenze fondamentali (i.e., confessione di fede); le quali individuano le peculiarità di essa sullo sfondo della pluralità delle altre religioni. Di conseguenza, (A) tratta le religioni positive come induismo, buddhismo, ebraismo, cristianesimo, islam, eccetera, come se queste fossero sistemi di pensiero che, almeno relativamente al proprio nucleo concettuale essenziale, siano integralmente condivisi fra i propri aderenti; e tali da risultare nettamente e rigorosamente distinguibili l’una dall’altra nei termini della visione del mondo di cui ciascuna sarebbe portatrice incompatibilmente alle altre.

Seguendo P. van Inwagen, una tale concezione della dimensione credenziale delle religioni positive può essere rigorosamente espressa nei termini seguenti (d’ora in avanti modello sostantivo vI).5 Sia -ismo un termine che possa essere rimpiazzato dal nome di qualsiasi religione positiva. Si ha che:

vI1) ciascun -ismo è logicamente inconsistente con ogni altra religione;

vI2) ogni sistema di credenze o di pensiero (eccetto -ismo stesso) che sia logicamente consistente con -ismo non è una religione;

vI3) secondo -ismo è razionale accettare -ismo;

vI4) per le persone la cui situazione epistemica cada sotto la tipologia di situazione epistemica degli -ismisti è razionale accettare -ismo;

vI5) le persone la cui situazione epistemica cada sotto la tipologia di situazione epistemica degli -ismisti (e tali che accettino -ismo)non violano alcuno dei propri doveri epistemici.

Secondo una tale lettura della nozione di sostantivo, ciascuna religione si presenta in competizione con le altre perché la verità dell’una esclude la verità delle altre: ogni religione positiva offre una peculiare risposta alle (universali) problematiche dell’ambito religioso (che è un ambito d’essere transcontestuale dell’esistenza umana). Tale peculiare risposta costituisce l’essenza di ogni determinata religione positiva. Per questo motivo l’approccio sostantivo si oppone tradizionalmente all’approccio funzionalista: alla luce di tale comprensione delle religioni positive, per esempio, essere cristiani (avere una determinata identità personale, godere di un certo tipo determinato di benessere psicofisico, partecipare a un certo modo di realizzazione della coesione sociale, esprimere e comprendere certe rappresentazioni sociali, eccetera) consiste negli effetti generati e appagati (incompatibilmente alle altre religioni)dall’aderire al peculiare modo di rispondere cristiano alle universali aspettative religiose; essere buddhisti (avere una determinata identità personale, godere di un certo tipo determinato di benessere psicofisico, partecipare a un certo modo di realizzazione della coesione sociale, esprimere e comprendere certe rappresentazioni sociali, eccetera) consiste negli effetti generati e appagati (incompatibilmente alle altre religioni) dall’aderire al peculiare modo di rispondere buddista alle universali aspettative religiose; eccetera.

Al contrario, (B) cattura il tradizionale approccio fenomenologico alla religione (uso qui il termine fenomenologico prescindendo dalla questione metodologica posta dalla fenomenologia della religione: approccio fenomenologico alla religione significa approccio storico-empirico alla molteplicità dei fenomeni religiosi). Un tale approccio consiste nell’avvicinare la religione a partire dall’autocoscienza religiosa di chi aderisce a una qualche forma di religiosità (socio-culturalmente riconosciuta come tale). Di conseguenza, (B) afferma la necessità di comprendere la religione muovendo dalle esperienze concrete che gli esseri umani fanno di ciò che volta a volta ritengono religioso. Ora, mi pare evidente che tali esperienze concrete siano molto differenziate le une dalle altre: ciascuno aderisce alla propria religione a partire dal proprio contesto d’esistenza e dalla propria storia relazionale a tale contesto. Questo significa che ciascun aderente a una religione ha una sua comprensione della propria esperienza religiosa, e che la confessione della medesima credenza da parte di due individui che aderiscano alla stessa religione non implica l’identità dell’esperienza di fede provata dall’uno e dall’altro. Mi sembra un notevole pregio di questo modo di vedere le cose la capacità di coniugare il riconoscimento dell’irriducibilità dell’esperienza di fede, affermata innanzitutto grazie alla tematizzazione del carattere espressivo della dimensione doxastica nell’esperienza vissuta del credente, con l’assunzione della tesi che tale dimensione doxastica promuova effetti sociali funzionali per l’individuo e la collettività.

Questa capacità di coniugare sostantivo e funzionale mostra la peculiarità dell’approccio fenomenologico. Esso, a differenza dell’approccio sostantivo, non si limita a riconoscere la presenza di effetti funzionali come conseguenza della confessione di una collezione di credenze: poiché non caratterizza l’accettazione di tale collezione come confessione di una collezione ristretta di credenze fondamentali condivisa fra tutti gli aderenti a una certa religione, l’approccio fenomenologico è pronto a riconoscere la natura indiretta e non lineare della relazione causale fra dimensione credenziale ed effetti funzionali di essa. Di conseguenza, la dimensione funzionale non può essere semplicemente menzionata e quindi messa fra parentesi nella considerazione del fenomeno religioso, così come invece tende a fare l’approccio sostantivo: essa resta epistemologicamente centrale al fine di comprendere la natura del religioso.

Come orientarsi fra (A) e (B)? Poiché non mi sembra che in letteratura siano presenti altre alternative rispetto a queste due opzioni di caratterizzazione dell’orientamento non puramente funzionale, ed esse sono mutualmente esclusive, risulterà che se non vale l’una delle due valga l’altra. La prima opzione presenta numerosi problemi che sono sufficienti a scartarla. Ne concludo che (B) (d’ora in avanti approccio esperienziale alla religione) sia l’unico orientamento metodologico valido per avvicinare il fenomeno religioso. Al fine di mostrare perché debba essere rifiutato l’approccio sostantivo, e perché, al contrario, dovrebbe essere assunto l’approccio esperienziale, possono essere avanzati due differenti argomenti. Denomino il primo argomento dalla natura diacronica delle confessioni di fede, il secondo argomento dal disaccordo ermeneutico.

Formulo il primo argomento nella forma seguente. Si conceda al teorico dell’approccio sostantivo di poter individuare, per una religione positiva R, una collezione ristretta di credenze fondamentali condivise dagli aderenti a R nella forma di una confessione di fede. Sia F una tale collezione. Siano x e y due individui che aderiscono a R, tali che x aderisca a R al tempo tk, e y aderisca a R al tempo tj, dove tj è di molto successivo a tk secondo la misura temporale della durata della vita umana.

Si ha che:

1) Se al tempo tkF contiene le credenze Cb1, Cb2, …, Cbn, al tempo tj le credenze Cb1, Cb2, …, Cbn, avranno cambiato la propria formulazione in Cb’1, Cb’2, …, Cb’n;

2) R è un fatto storico (i.e., R ha una storia);

La prima proposizione è una evidenza fattuale. Essa è corroborata dalla ricerca empirica condotta dalla storia delle religioni e dalla storia sui testi sacri. Ciò che emerge da tale campo disciplinare è, infatti, che le confessioni di fede delle varie religioni positive, così come i testi materiali che raccolgono le rivelazioni sacre, vanno incontro a una storia redazionale comunitaria che integra e corregge i testi (e, all’occorrenza, ne espunge alcuni o ne inserisce di nuovi), perché le religioni sono fenomeni di ordine processuale, estese su periodi millenari, contestualizzate in una interconnessione storicamente determinata fra differenti sistemi di credenze, pratiche e simbologie.6

La seconda proposizione è una conseguenza della prima, e non necessita, pertanto, di alcuna altra giustificazione.

L’assunzione di (1) e (2) non dovrebbe costituire un problema per l’opzione non puramente funzionale (A). Il teorico dell’approccio sostantivo può affermare che ridurre il corpo dottrinale di R a F non significa affermare che nel corso della storia permanga una medesima confessione di fede, così che F mantenga sempre la medesima forma (contenendo in ogni determinato tempo le medesime credenze fondamentali), ma che, qualora una credenza di base in F sia rimpiazzata da un’altra credenza, la nuova credenza sarà una traduzione semanticamente equivalente della credenza da essa sostituita. Sia F’ la collezione di credenze di base assunte da y al tempo tj.Sia ΔT(tj- tk) l’intervallo di tempo nel quale ogni credenza contenuta in F viene tradotta in una credenza contenuta in F’. Ne risulta che:

3) x assume F;

4) y assume F’;

5) al trascorrere di ΔT(tj- tk), F’ traduce F.

Credo sia chiaro che il punto del contendere fra l’approccio (A) e l’approccio (B) consista nel diverso modo di leggere (5). Mentre per il teorico dell’orientamento sostantivo la traduzione F’ è semanticamente equivalente a F, per il teorico dell’orientamento esperienziale tale traduzione non lo è (quasi mai). Al fine di delineare quale sia il modo corretto di assumere (5) si consideri come avvenga il processo di elaborazione credenziale che determina la traduzione di F in F’. Sembra lecito accettare come evidenza che lo sviluppo storico (della dimensione credenziale) delle religioni consista nella adeguazione espressiva del corpo dottrinale all’occorrere di circostanze contestuali che non siano esprimibili in funzione di esso. Per comprendere come ciò avvenga veicolo dall’epistemologia genetica le nozioni di assimilazione e accomodamento. Sia data la seguente definizione:

Schema cognitivo=def rete di concetti e di credenze finalizzata all’espressione proposizionale di una esperienza.

Sia C uno schema cognitivo: assimilazione è il processo per mezzo del quale una esperienza E, esterna all’estensione di C, è espressa da C (E entra a far parte dell’estensione di C). Al contrario, accomodamento è il processo per mezzo del quale C è trasformato in C’ a causa della resistenza posta da E all’espressione proposizionale nei termini di C (l’estensione di C non può comprendere E).7

Credo importante sottolineare che, nell’introdurre queste due nozioni, non intendo assumere la teoria di Piaget circa la natura dei processi di sviluppo psicologico. In particolare, rifiuto tanto l’idea che l’esperienza sia strutturata a priori dall’impiego di reti di concetti e di credenze, quanto che le tappe dello sviluppo cognitivo siano fasi di una successione predeterminata rispetto allo sviluppo stesso. Quello che, al contrario, mi sembra davvero vitale nell’epistemologia genetica è l’intuizione (fortemente radicata in un orizzonte empirista) che i processi cognitivi muovano dalla impossibilità di sussumere sotto concetti noti qualcosa di referenzialmente opaco rispetto a essi. La cognizione appare, cioè, l’accettazione di una perdita di equilibrio nell’impiego di concetti: l’evidenza fattuale resiste in modo sistematico al processo generale di assimilazione e promuove accomodamento (producendo così un nuovo stato di equilibrio epistemologicamente precario).

Torno quindi all’argomento. Quale relazione si dà fra uno schema cognitivo C e la collezione di credenze di base F? Evidentemente una relazione d’identità: F è lo schema cognitivo che gli aderenti a R impiegano al fine di esprimere la propria esperienza religiosa. Di conseguenza si avrà che:

6) Se x aderisce a R, x impiega F come schema cognitivo per l’espressione della propria esperienza religiosa.

A questo punto, si ipotizzi che si realizzi un certo stato di fatti SdF nel contesto d’esistenza di x. Per ipotesi SdF cade fuori dall’estensione di F. Ci sono due possibilità qui:

7) x esprime soddisfacentemente la propria esperienza di SdF per mezzo di F oppure x non la esprime;

Se vale il primo disgiunto, SdF è assimilato da F e le credenze in esso contenute non sono tradotte in una nuova formulazione. Ne concludo che, al fine di cogliere la modalità della traduzione di F in F’, sia necessario assumere che valga il secondo disgiunto, e che (7) sia una disgiunzione esclusiva. Quindi:

8) x non esprime soddisfacentemente la propria esperienza di SdF per mezzo di F.

Ma cosa significa che x non riesca a esprimere soddisfacentemente la propria esperienza di SdF per mezzo di F? Evidentemente che nessuna credenza CbiF è in grado di esprimere un aspetto di SdF rilevante per x. Di conseguenza:

9) F assimila solo una parte di SdF;

10) la parte non assimilata da F di SdF resiste a F.

Ora, l’ipotesi del teorico dell’approccio sostantivo è che F’ sia una traduzione semanticamente equivalente di F. Ma:

11) F è accomodato al fine di esprimere la parte di SdF che non può esprimere.

In virtù dei processi di accomodamento che hanno tradotto F in F’, F’ può assimilare stati di fatto che F non può assimilare. Infatti, l’esperienza di SdF da parte di x è espressa da F in modo insoddisfacente (l’esperienza resiste alla sua espressione proposizionale), mentre l’esperienza di SdF da parte di y è espressa da F’ in modo soddisfacente (l’esperienza non resiste alla sua espressione proposizionale). Segue la conclusione:

13) F e F’ non sono semanticamente equivalenti.

Sembra evidente che se la confessione di fede di un aderente a una religione non risulta semanticamente equivalente alla confessione di fede di un altro aderente alla medesima religione, si dovrebbe ammettere che il corpo doxastico di essa non possa essere ridotto a una collezione ristretta di credenze fondamentali la cui accettazione sia unanimemente condivisa. Se così stanno le cose, l’espressione di (A) per mezzo del modello sostantivo vI si mostra inadatta a cogliere i caratteri fondamentali della dimensione doxastica delle religioni positive. Infatti, dall’impossibilità di identificare insiemi semanticamente equivalenti a F nel corso dello sviluppo storico di R segue che non sia possibile identificare un insieme di proposizioni condivise da tutti gli aderenti a R nel corso del suo sviluppo storico. Di conseguenza, non si danno insiemi di proposizioni che siano congiuntamente espressive della dimensione credenziale di R (come di qualsiasi altro -ismo). Ma se non è univocamente assegnato cosa creda chi aderisce a R e cosa creda chi aderisce a uno degli altri -ismi, non è neppure univocamente determinabile cosa esprima il corpo dottrinale di R e dell’altro -ismo. Ne segue che non sia possibile assumere che R e l’altro -ismo, congiuntamente considerate, affermino una contraddizione (rifiuto di (vI1)).

Ma le cose vanno anche peggio relativamente alla presunta razionalità nell’assunzione del sistema dottrinale di una religione da parte dagli aderenti a essa (vI3): se due -ismi non stanno fra loro nella relazione di inconsistenza logica perché nè l’uno nè l’altro possono essere espressi nei termini di una confessione di fede condivisa fra tutti i propri aderenti, vengono a cadere anche le tesi che ogni sistema doxastico accettato da un individuo che aderisca a una religione, se tale sistema risulta compatibile con essa, non sia una religione (vI2); e che chiunque si trovi nella situazione epistemica di un aderente a una determinata religione dovrebbe assumere F((vI4) & ((vI5)). Se non vale (vI2) — cioé: se l’adesione a una religione non è esclusiva dell’adesione a tutte le altre-, credo sia evidente che la razionalità (epistemicamente prescrittiva) di tale adesione appaia fortemente indebolita. E ancora: se non è possibile determinare univocamente cosa creda chi aderisce a una determinata religione, si dovrà accettare che, se vale che si dia una relazione di sostegno (epistemicamente prescrittiva) fra situazione epistemica di un -ismista e assunzione di F ((vI4) & ((vI5)), allora non si dà alcuna situazione epistemica tipica di un -ismista.

Ne segue che le condizioni epistemiche di assunzione di F non sono storicamente transcontestuali; ossia: non è possibile individuare un insieme di ragioni condivise fra tutti gli aderenti a R alla luce delle quali l’adesione a R sia universalmente giustificata. Infatti, se x aderisce a R confessando F e y aderisce a R confessando F’, dato che F e F’ non sono semanticamente equivalenti, x potrebbe accettare F alla luce di ragioni immanenti nella propria situazione epistemica, y potrebbe accettare F’ alla luce di ragioni immanenti nella propria situazione epistemica, e le ragioni che sostengono l’assunzione di F essere incompatibili con quelle che sostengono l’assunzione di F’.

Esempi paradigmatici di situazioni del genere sono offerti da R. Bultmann e A. Soroush. Il primo nota come «Non ci si possa servire della luce elettrica e della radio, o fare ricorso in casi di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostoci dal Nuovo Testamento».8

Ossia, ciò che era razionale credere per l’uomo della tarda antichità non può essere più tale per l’uomo che vive la contemporaneità: le ragioni dell’uno e dell’altro non sono consistenti perché danno origine a contraddizioni irresolubili conseguenti alle incompatibilità fra due visioni del mondo mutualmente esclusive. E anche il secondo batte la stessa pista quando si richiama alla storia delle interpretazioni del Corano: tale storia è un campo dialettico nel quale si susseguono posizioni che si presentano come ermenuticamente alternative (scilicet, incompatibili) perché espressive nei termini dei riferimenti condivisi all’interno di contesti socioculturali che cambiano con il procedere del percorso storico.9

La difesa del modello sostantivo vI potrebbe, comunque, essere pronta ad ammettere la tesi (triviale) che la storicità delle religioni positive le espone a un pluralismo doxastico da un punto di vista diacronico. Ma, allo stesso tempo, potrebbe argomentare che le cose prendono un’altra piega quando si passa a considerare la dimensione doxastica delle religioni positive sincronicamente: per ogni dato momento storico, infatti, è possibile identificare una collezione ristretta di credenze fondamentali la cui confessione qualifichi l’adesione dei fedeli alla propria religione. Potrebbe essere una ragione a sostegno dell’assunzione di una versione raffinata di (A) il notare che ogni religione è suddivisa in orientamenti confessionali che esprimono differentemente il contenuto della medesima Rivelazione: stabilito che al tempo tn una religione presenta un numero finito (e relativamente basso) di interpretazioni della Rivelazione, al tempo tn ogni aderente a R assume l’una o l’altra collezione ristretta di credenze fondamentali espressiva di una delle interpretazioni disponibili della Rivelazione. Se così stessero le cose, per ogni dato momento storico una religione positiva sarebbe individuata non da ciò che è creduto in modo condiviso da tutti i suoi aderenti, ma dalle tipologie finite di ciò che è possibile credere relativamente alla medesima Rivelazione. Sarebbe cioè sufficiente riformulare la clausola (vI2)e aggiungere una nuova clausola al modello sostantivo vI. Siano date le collezioni di credenze F1, F2, …, Fn che analizzano semanticamente F (dove n è un numero naturale relativamente basso). Sia x un aderente a R.

vI’2) ogni sistema di credenze o di pensiero (eccetto -ismo stesso) che sia normativamente espressivo della Rivelazione affermata da -ismo non è una religione, ma una sua confessione;

vI6) per ogni x aderente a R, x assume F1 oppure F2 oppure … oppure Fn.

L’argomento dal disaccordo ermeneutico blocca una simile strategia difensiva per il teorico di (A). Esso è composto di due parti. La prima afferma la tesi che il disaccordo sull’analisi semantica delle collezioni ristrette di credenze di base espressive della dimensione credenziale di una religione è la normale relazione fra gli aderenti a una religione positiva. La seconda che il disaccordo intrareligioso non è un disaccordo interconfessionale.

Siano x, y, z individui che aderiscono a una religione positiva R. Sia U l’insieme complessivo delle credenze di base affermate da R. Siano date una serie di collezioni di credenze F1, F2, …, Fn (stabili da un punto di vista storico) che analizzano semanticamente il contenuto della Rivelazione di R.

La prima parte dell’argomento va nel modo seguente:

1) Se x aderisce a R, x accede a U a partire dalla propria peculiare esperienza;

2) x accede a U in modo parziale.

La prima proposizione è una evidenza empirica. Dal momento della propria nascita, ogni individuo fa esperienza del proprio peculiare contesto d’esistenza. La nostra famiglia e gli individui ad essa legati sono il primo medium culturale da cui si apprende un determinato modo di leggere e affrontare gli eventi che ci capitano. Poi gli individui incontrati lungo il percorso scolastico e durante le attività extrascolastiche offrono nuovi stimoli per la nostra formazione. Quindi avviene il confronto con la moltitudine degli altri con i quali entriamo in relazione nel compiere le nostre esperienze della vita adulta. In ogni fase di questo processo non abbiamo mai di fronte l’interezza della affermazione della religione positiva cui aderiamo (se aderiamo a qualche religione) o della negazione delle religioni a cui non aderiamo. Piuttosto, l’esperienza che compiamo nel condurre avanti la nostra esistenza limita il nostro accesso a tale affermazione o negazione al punto di vista costituito da ciò che ci è capitato di incontrare. La seconda proposizione è conseguenza della prima.

Ora, credo sia evidente che le credenze religiose fondamentali (ossia espressive della Rivelazione rilevante per una determinata religione) non abbiano natura eminentemente fattuale: quando una di esse afferma che un certo stato di fatti sia così e così, tale credenza non intende descrivere stati del mondo attuali o possibili (come per esempio fanno proposizioni del tipo la neve è bianca o l’attuale re di Francia è calvo). Una credenza religiosa di base consiste, piuttosto, in una valutazione assiologica della natura di una dimensione oltre-empirica del reale, dalla quale dimensione oltre-empirica il reale empirico è attestato esperienzialmente dipendente. Per questa ragione, le credenze religiose di base non sembrano per loro natura capaci di esprimere contenuti proposizionali nello stesso modo nel quale lo sono le credenze che descrivono stati del mondo: mentre queste ultime, indipendentemente dalla teoria semantica che si assume, esprimono contenuti proposizionali nei termini di quadri di referenze largamente condivisi da coloro che appartengono ai medesimi contesti d’esistenza (così che la vaghezza referenziale di termini come neve, bianco, re di Francia, calvo sia ampiamente ridotta), le prime necessitano di essere semanticamente analizzate al fine di essere pienamente significative.

L’evidenza empirica attesta che per gli individui che aderiscono a una religione siano disponibili una pluralità di collezioni di credenze fondamentali, analizzanti semanticamente la Rivelazione rilevante, che si mostrano storicamente stabili. Alcune religioni associano alla stabilità di tali collezioni di credenze una organizzazione pubblica che le costituisce in confessioni, altre consentono, invece, l’assunzione dell’una o dell’altra, fra le differenti espressioni del contenuto proposizionale della Rivelazione, in forme più private, eterogenee e libere.

Si avrà allora che:

3) F1, F2, …, Fn esprimono differentemente U.

Chiedo: quali conseguenze ha, per gli aderenti a una religione, la peculiare parzialità dell’accesso a U sullo sfondo delle differenti analisi semantiche delle credenze di base di R?

Risposta: se individui diversi hanno un accesso parziale a differenti collezioni di credenze fondamentali semanticamente analizzanti U, individui diversi potrebbero assumere differenti congiunzioni di credenze di base. Infatti, se (1) è vera, ne segue che gli individui che aderiscono a R accedano in modo peculiare e parziale anche alla unione delle varie collezioni di credenze di base che analizzano semanticamente U.

Di conseguenza:

4) per ogni x, y, z che aderiscano a R, si ha che x, y, z siano esposti a un disaccordo sull’analisi semantica di U;

Se ne conclude allora che:

5) per ogni x, y, z che aderiscano a R, x, y, z sono esposti a un disaccordo sulle credenze espressive della Rivelazione rilevante per U.

Questa conclusione termina la prima parte dell’argomento dal disaccordo ermeneutico. Essa è sufficiente a rigettare il modello sostantivo vI: la necessità di analizzare semanticamente le credenze religiose di base al fine di assumerle, congiuntamente alla parzialità dell’accesso ad U (implicante la parzialità dell’accesso alle analisi semantiche di U), hanno per conseguenza l’inefficacia espressiva di (vI’2) nel cogliere la natura della dimensione doxastica delle religioni positive. Pertanto, la tesi che gli aderenti a una religione non assumano esclusivamente la totalità dell’una o dell’altra delle collezioni di credenze di base analizzanti semanticamente U (negazione di (vI6)) appare un corollario del rifiuto di (vI’2). La conferma empirica che le cose stiano in questi termini è costituita da due fenomeni fondamentali e complementari che caratterizzano l’esperienza religiosa contemporanea: a) la proliferazione di differenti denominazioni della medesima religione; b) la diffusività sociale dei valori religiosi.

Quanto ad (a). A partire dal classico lavoro di S.R. Warner dal titolo “Work in Progress Toward a New Paradigm for the Sociological Study of Religion in the USA”, la ricerca scientifica ha contrapposto due modelli interpretativi della costituzione sociale di una religione: il modello confessionale (church model) e il modello congregazionista (denominational model).10 Il primo è caratteristico della religiosità europea, il secondo di quella americana. Secondo Warner le proprietà ontologiche dell’uno e dell’altro dipendono massicciamente dalla situazione storico-culturale dei contesti sociali d’appartenenza.

4. Conclusione

A grandi linee i due modelli possono essere delineati nel modo seguente. Tradizionalmente in Europa la religione è un fatto pubblico. Essa partecipa in modo diretto ai processi normativi secondo strutture gerarchiche che sono istituzionalizzate in vista dell’esercizio della sovranità. Di conseguenza, la religione (positiva) è incarnata, sotto forma di una chiesa, nella struttura politico-culturale della società in cui essa fiorisce, così da guadagnare un primato egemonico e sulbalternizzante: la religione rilevante ha un proprio monopolio territoriale e l’esperienza di fede dell’aderente a essa è passivamente fruita. Alla luce di questo modo di analizzare l’occorrere sociale della religiosità, il disaccordo fra aderenti alla medesima religione è governato incardinandolo alla nozione di disaccordo fra confessioni, dove una confessione è una parte della chiesa che replica al proprio livello tutti i caratteri dell’intero: chi aderisce a una confessione aderisce a essa secondo le modalità d’adesione che regolano l’appartenenza a una chiesa (i.e., l’adesione a una chiesa è veicolata dall’adesione a una confessione).

Negli Stati Uniti, al contrario, la religione è un fatto privato. Sono le proprietà del contesto sociale a spiegare il perché: a causa delle vicende che portano alla Rivoluzione Americana, alla promulgazione della Costituzione del 1787 e al Primo Emendamento, e della storia che da questi fatti si è originata, la società statunitense è essenzialmente pro-religiosa ma confessionalmente neutrale: tutti i culti sono incoraggiati indipendentemente dal loro contenuto. Questa vocazione alla declinazione pluralista della religiosità intitola le differenti congregazioni religiose a una competizione per la conquista di fette del mercato spirituale. Di conseguenza, dal punto di vista normativo, tutti i culti stanno esattamente sullo stesso piano al di fuori di gerarchie storicamente ereditate dal passato: l’esercizio del potere non ha legami privilegiati con alcuna congregazione, e le differenti congregazioni prolifereranno esclusivamente in funzione della propria capacità di soddisfare le esigenze religiose dei potenziali “clienti”. In questo senso, l’esperienza di fede è attivamente fruita, ed è pienamente espressiva delle peculiarità individuali di ogni fedele aderente a una qualche congregazione.

Il lavoro di ricerca seguito alla contrapposizione del modello confessionale (CONF) e del modello congregazionista(CONGR) ha portato a un approfondito affinamento e revisione delle intuizioni di Warner, la cui conseguenza principale è l’emergere effettivo di un nuovo paradigma di ricerca, il paradigma relazionale.11 In controtendenza rispetto alla tesi principale avanzata dallo studioso americano, secondo la quale il modello congregazionista non è una interpretazione generale della nozione di religione, ma una interpretazione dell’esperienza di fede come si configura negli Stati Uniti, la Woodhead sostiene (appoggiandosi a evidenze empiriche che provengono tanto da lavori quantitativi che qualitativi dagli ambiti disciplinari della sociologia della religione, dell’antropologia, della geografia) che il fenomeno della globalizzazione opera una dissociazione fra società e radicamento territoriale di essa entro i confini nazionali. Di conseguenza, l’opposizione di CONF e CONGR, lungi dal caratterizzare le differenze contestuali fra culture immanenti in territori diversi, potrebbe riflettere il superamento di un modello egemonicamente universalista rispetto al proprio contesto d’esistenza verso un modello pluralisticamente universalista rispetto alla diversità dei propri molteplici contesti d’esistenza (così che una religione si mostri differentemente declinata in diversi contesti territoriali, mediando fra istanze di universalità e peculiarità dei particolari luoghi e delle particolari persone che si incontrano nei diversi contesti territoriali). La Woodhead sottolinea come la consapevolezza scientifica relativa al significato epocale della globalizzazione abbia orientato i ricercatori a produrre lavori di ricerca che non mettono più a fuoco l’occorrere a livello nazionale di un determinato fenomeno sociale, ma piuttosto il suo realizzare un’interazione relazionale fra globale, nazionale e locale.12 Alla luce di tale strategia metodologica un nuovo orientamento interpretativo generale dei risultati empirici è emerso.

Il paradigma relazionale sintetizza quanto c’è di valido nel modello confessionale e nel modello congregazionista risolvendo le opposizioni categoriali fra i due con la determinazione di un punto medio dell’analisi. In particolare, esso caratterizza l’esperienza religiosa contemporanea nel modo seguente:13 da un punto di vista dell’oggetto sociologico: interazione fra struttura (CONF), azione (CONGR), e simboli religiosi materiali; da un punto di vista della collocazione sociale: sia pubblica (CONF) che privata (CONGR) perché presente ai vari livelli del campo sociale; da un punto di vista geopolitico: nazionale (CONF), locale (CONGR), globale; da un punto di vista dell’economia religiosa: né in regime di monopolio culturale (CONF), né in quello di competizione su un mercato libero (CONGR), perché negoziante vincoli economico-politico e opportunità strutturali in funzione delle proprietà dei propri contesti d’esistenza; da un punto di vista dell’efficacia dell’azione (sociale): interazione fra una sovranità diffusiva dall’alto verso il basso (CONF) ed esercizio capillare di essa per mezzo del rivolgimento esclusivo al basso (CONGR); da un punto di vista della natura ontologica di una religione: superamento del modello confessionale, salvaguardando la natura attiva dell’adesione congregazionista, perché risposta efficace alle peculiari esigenze degli individui collettivamente costituiti in comunità di fede.

L’evidenza cumulativa prodotta dalla ricerca sociale a sostegno del paradigma relazionale presenta dunque un’esperienza religiosa informata dalla interazione fra le istanze universaliste e monopoliste di CONF e quelle particolariste e diffusivamente peculiari di CONGR. Tanto negli Stati Uniti (per le ragioni su cui ha soffermato l’attenzione scientifica il lavoro di Warner) quanto in Europa (così come in ogni contesto sociale multiculturale che si dimostri capace di sopportare la sfida pluralista all’egemonia culturale di una religione confessionalmente modellata), gli individui che conformano attivamente la propria esistenza all’esperienza religiosa traducono la propria adesione a una religione positiva (oppure socializzano la propria esperienza spirituale) con la costituzione di gruppi sociali che rispondono alle logiche particolari delle proprietà territoriali dei differenti contesti storico-culturali. La dimensione confessionale di tale traduzione è manifestata con l’autocollocazione individuale entro i confini di una tradizione religiosa per mezzo di segni esteriori di immediata lettura sociale (il velo islamico, il turbante indù e sikh, il crocifisso cristiano, eccetera). La dimensione congregazionista è l’occorrere della traduzione stessa: è la fruizione dell’esperienza religiosa nei termini delle peculiarità effettive delle mediazioni territoriali (in primo luogo la mediazione fra le differenti esigenze spirituali dei fedeli concreti che si incontrano l’un l’altro nella vita della comunità di fede alla quale essi appartengono).

Di conseguenza, l’occorrere sociale dell’esperienza di fede contemporanea è determinato da un moltiplicarsi indefinito di collettivi religiosi che realizzano differentemente la medesima religione perché la declinano in modo particolare: ogni religione positiva si mostra oggi priva di un fondamento sostantivo perché l’adesione a essa, marcata dall’esibizione individuale dei suoi simboli materiali caratteristici, va dal basso all’alto (contrariamente a quanto avviene tradizionalmente con CONF) in virtù di una collezione di ragioni e motivi individuali.

Questa proliferazione di denominazioni della medesima religione non può essere letta in modo consistente al modello sostantivo vI. La moltiplicazione indefinita dei differenti collettivi non è, infatti, compatibile con (vI6): l’esperienza attesta come nessuna religione oggi sia in grado di mantenere basso il numero delle analisi semantiche delle proprie credenze fondamentali espressive della Rivelazione per essa rilevante. È vero, tuttavia, che alcune delle proprietà di CONGR che le istituzioni degli Stati Uniti attribuiscono ai collettivi religiosi potrebbero essere considerate le tipiche proprietà che l’approccio sostantivo attribuisce alle religioni positive. In un lavoro recente Warner menziona i requisiti costitutivi delle congregazioni per l’agenzia governativa americana di raccolta delle tasse (Internal Revenue Service): avere una confessione di fede, avere una forma di autogoverno chiaramente istituita, erogare servizi di culto regolari, realizzare programmi educativi religiosi, avere ministri di culto professionalmente formati.14

Perché non eliminare dal modello sostantivo vI la clausola che il numero delle analisi semantiche interne a una religione debba essere basso, e leggere così tale modello come una analisi dei fenomeni che danno origine a CONGR? La risposta mi sembra banale: la moltiplicazione indefinita delle denominazioni della medesima religione non è una moltiplicazione indefinita di religioni la cui confessione di fede si dimostri logicamente inconsistente con quella della totalità delle altre. Piuttosto, è una polverizzazione della sostanzialità dottrinale di una religione alla luce di un conflitto ermeneutico a tutto campo fra gli aderenti a essa. Vale a dire che la proliferazione di interpretazioni alternative del medesimo sposta il luogo del disaccordo religioso dall’incontro fra le diverse religioni positive al dissenso interno a una medesima religione. Tale spostamento è così radicalmente determinato dalle istanze particolaristiche che costituiscono i collettivi che essere aderenti alla religione R, oppure a una determinata confessione della religione R, non implica la condivisione fra gli aderenti a R dell’assunzione di una collezione ristretta di credenze fondamentali per R. Cioè: proprio perché l’esperienza religiosa è determinata dalla traduzione particolare dell’universale per mezzo di un processo di moltiplicazione indefinita della diversità, l’intuizione fondamentale dell’approccio sostantivo esplode in una produzione esponenziale di pluralità infra-religiosa.

Quanto a (b). L’affermarsi del modello congregazionista appare la risposta alla crisi dei tradizionali modelli confessionali da parte di quegli aderenti a una religione positiva che esprimono la propria esperienza spirituale con la formale partecipazione attiva alla vita della propria comunità di fede. Tale crisi può essere definita come l’attestazione sociale dell’incapacità, da parte dei modelli confessionali, di appagare le esigenze religiose individuali. Sembra un tratto caratteristico dei nostri tempi il fatto che l’esperienza religiosa non sia progressivamente resa più debole e periferica nella società post-moderna e secolarizzata (come ordinariamente ripetuto per ogni dove da parte della propaganda laicista e neoilluminista), ma che essa sia alla ricerca di una autenticità radicale che i modelli confessionali tradizionali non sono più ritenuti in grado di soddisfare.

Ora, l’indagine quantitativa mostra che, almeno per quei contesti sociali che sono caratterizzati dalla centralità (storicamente stabile) di una specifica confessione religiosa, la crisi dei modelli confessionali può ricevere una risposta molto diversa da quella posta in essere dall’emergere della religiosità congregazionista: l’allontanamento dall’appartenenza formale a una religione positiva fruita con la pratica rituale, infatti, coincide per lo più con l’adesione a una forma diffusa di religiosità valoriale.15

La nozione di religione diffusa può essere così formulata: ogni religione positiva in regime di monopolio culturale (strutturazione dell’esperienza religiosa secondo CONF) produce una socializzazione del proprio capitale valoriale per mezzo della sua diffusione capillare nelle abitudini degli individui, nel loro coinvolgimento familiare e comunitario, nella loro appartenenza a una tradizione educativa, nella loro esposizione (anche indiretta) all’attività pastorale. Questa socializzazione dei valori religiosi costituisce due ambiti di esperienza che possono essere fruiti in continuità, sebbene appaiano chiaramente distinti: l’appartenenza formale alla religione egemonica e la condivisione sociale dei valori di essa. Il primo ambito presuppone partecipazione attiva alla dimensione rituale, confessione di una certa collezione di credenze di base, accettazione delle opzioni di fondo. Il secondo ambito, al contrario, presuppone esclusivamente la condivisione esplicita del sistema valoriale e un vago riferimento alla natura assiologica della determinazione specifica della dimensione oltre-empirica del reale che è operata dalla religione rilevante.

Questi due ambiti di esperienza si costituiscono socialmente come due forme diverse di religiosità nel momento in cui CONF entra in crisi. Se questo è il caso quello che la ricerca quantitativa testimonia non è la fuoriuscita individuale dalla struttura ecclesiale della religione positiva rilevante in ragione di uno stemperarsi dell’adesione a una visione religiosa della vita e dell’acquisizione di un punto di vista estraneo a quello religioso, ma la rinuncia all’appartenenza formale a essa in ragione di una relazione alla trascendenza che si mostra libera da imposizioni dottrinali, teologicamente eterogenea e aperta alla diversità delle opzioni di fondo.16

Di conseguenza, con il superamento dei modelli tradizionali di adesione religiosa l’appartenenza alla religione ufficiale e l’appartenenza alla religione diffusa divengono due opzioni alternative, per quanto, a causa della propria continuità ontologica (la religione diffusa è genealogicamente dipendente dalla religione ufficiale in quanto socializzazione del suo capitale valoriale), si mostrino due modi relazionali all’oggetto della fede non mutualmente esclusivi (l’aderente alla religione diffusa può non aderire formalmente alla religione ufficiale, ma rivendicare una adesione sostanziale - per esempio un cattolico può non partecipare alla messa e non fare la comunione, e tuttavia ritenersi spiritualmente membro della chiesa cattolica, dichiarandosi pubblicamente tale).

In particolare, l’esperienza dell’aderente alla religione diffusa può essere caratterizzata nel modo seguente:17

  • non è autocratica;
  • non è rituale;
  • è in relazione diretta con la trascendenza per mezzo della pratica dell’orazione;
  • è aperta alla diversità;
  • è disinteressata ai confini teologico-dottrinali delle confessioni;
  • afferma valori sociali condivisi.

Questi caratteri della religiosità diffusa la collocano in una posizione intermedia fra la dimensione prettamente pubblica e istituzionale di CONF e quella privata e auto-organizzata di CONGR. La religione diffusa è, infatti, espressione della interazione sociale fra valori intersoggettivamente condivisi ed esigenze individuali di autenticità religiosa. In quanto tale si mostra aggredibile da un punto di vista teorico nei termini del paradigma relazionale.

Sembra naturale, quindi, che anche l’allontanamento pervasivo dalle forme di religiosità ufficiale verso forme di religiosità diffusa manifesti l’incapacità del modello sostantivo vI di cogliere la natura della religione: l’appartenenza a una religione positiva non è funzione di confessioni di fede né espressiva di condizioni epistemiche tipiche. Al contrario, dirsi aderenti a una qualche religione positiva sembrerebbe consistere nel fare un vago riferimento a una fra le altre espressioni della Rivelazione rilevante, a partire dalle peculiarità della propria esperienza individuale. Tale peculiarità disinnesca l’uniformità esperienziale che i modelli confessionali tradizionali garantiscono, ed espone gli individui alla fruizione dell’esperienza religiosa in forme fra loro eterogenee e scarsamente vincolate a un modello di riferimento istituzionale.

A questo punto il teorico dell’approccio sostantivo potrebbe essere tentato di avanzare un’obiezione all’argomento dal disaccordo ermeneutico. Essa afferma che l’autorità religiosa rilevante per R compie una analisi semantica di U la cui accettazione risulta normativa per l’adesione a R. Credo sia banale osservare come una tale obiezione urti contro il muro dell’evidenza appena prodotta con l’analisi dei fenomeni (a) e (b): l’osservazione empirica attesta l’universalità dell’erosione progressiva della fiducia nei confronti della normatività delle prescrizioni emanate dall’autorità religiosa. Tuttavia, l’obiezione può essere disinnescata anche per ragioni di principio. La seconda parte dell’argomento dal disaccordo ermeneutico compie una tale operazione. Si conceda che:

6) l’autorità religiosa stabilisce come risolvere i disaccordi fra F1, F2, …, Fn.

Ne segue che:

7) l’autorità religiosa prescrive che, al fine di giudicare la correttezza di F1, F2, …, Fn, deve essere assunta la collezione di credenze Fi.

Ora, i pronunciamenti dell’autorità religiosa relativi a quale analisi semantica (fra quelle disponibili nel contesto di esistenza di un gruppo di individui x, y, z aderenti a R) debba essere assunta al fine di esprimere correttamente U non è, a sua volta, una semplice analisi semantica di U fra le altre. Tali pronunciamenti sono, solitamente, norme che entrano a far parte delle collezioni di credenze religiose fondamentali per R. Per convincersene si consideri come la capacità di erogare funzioni sacerdotali sia tradizionalmente ritenute connessa con il possesso di una eccezionale ricettività all’incontro diretto con la dimensione oltre-empirica del reale: tale ricettività garantisce l’autorevolezza del sacerdote nel farsi veicolo espressivo dell’intenzionalità oltre-empirica (o, laddove tale dimensione sia intuita impersonalmente, dell’efficacia causale sovrannaturale). Di conseguenza, al sacerdote è normalmente riconosciuto l’effettivo fruire una esperienza religiosa privilegiata ed esclusiva, che lo intitola a comunicare normativamente l’oggetto della fede per gli aderenti alla propria religione.

Segue allora che:

8) i pronunciamenti dell’autorità religiosa su F1, F2, …, Fn sono credenze religiose fondamentali per R.

Ma se vale (8), dato che ogni credenza religiosa fondamentale deve essere semanticamente analizzata per essere assunta, si ha che:

9) i pronunciamenti dell’autorità religiosa su F1, F2, …, Fn devono essere semanticamente analizzati.

Ora, sembra evidente che quello che occorre relativamente all’accesso a U da parte degli individui che aderiscono a R, occorre anche relativamente all’accesso ai pronunciamenti dell’autorità religiosa relativamente a F1, F2, …, Fn. Infatti, tali pronunciamenti costituiscono una collezione di credenze religiose di base analizzanti semanticamente U. Allora si ha che:

10) ogni individuo che aderisce a R analizza semanticamente i pronunciamenti dell’autorità religiosa nei termini del proprio parziale accesso alle analisi semantiche di U.

Segue la conclusione:

11) ogni individuo dà o nega il proprio assenso ai pronunciamenti dell’autorità religiosa su F1, F2, …, Fn nei termini del proprio accesso alle analisi semantiche di U.

Questa conclusione esprime la sostanziale irrilevanza della nozione di autorità religiosa al fine di difendere il modello sostantivo vI. Se gli individui intitolati a svolgere la funzione di autorità religiosa esercitano effettivamente il proprio ruolo, tali individui pronunciano credenze fondamentali espressive della Rivelazione rilevante che entrano a far parte a tutti gli effetti del corpo credenziale della religione per la quale essi sono intitolati a svolgere la propria funzione; così che tali pronunciamenti vengono a trovarsi esattamente nella stessa posizione delle altre credenze religiose di base. In caso contrario si avrà che tali individui si limitano ad emettere analisi semantiche delle credenze religiose di base che stanno in una relazione di confronto dialettico con le altre analisi semantiche disponibili. Altrimenti detto: i pronunciamenti dell’autorità religiosa non hanno valore prescrittivo in quanto analisi semantiche ma in quanto produttrici di credenze religiose fondamentali.

Credo, dunque, che al sostenitore del modello sostantivo vI non restino frecce da scagliare. L’argomento dalla natura diacronica delle confessioni di fede e l’argomento dal disaccordo ermeneutico costituiscono, infatti, ragioni in sostegno dell’approccio esperienziale alla religione. Essi consentono l’assunzione della seconda premessa del seguente sillogismo disgiuntivo:

1) Le religioni hanno natura sostantiva oppure le religioni hanno natura esperienziale;

2) Le religioni non hanno natura sostantiva;

3) Le religioni hanno natura esperienziale.

Di conseguenza, la dimensione credenziale delle religioni positive risulta irriducibile all’assunzione di una collezione ristretta di credenze fondamentali (sotto forma di una confessione di fede). In particolare, l’argomento dalla diacronia e l’argomento dal disaccordo gettano luce sul perché le cose stiano in questi termini. Da un lato le religioni sono fatti assiologici i cui contenuti non appaiono esprimibili per mezzo di proposizioni fattuali. Da questo risulta che, da un punto di vista credenziale, l’assunzione di una collezione di credenze di base espressive della Rivelazione rilevante necessiti di una analisi semantica. Ma, data la natura esperienziale dell’esistenza umana, la produzione di analisi semantiche espressive di una Rivelazione per una determinata religione risulterà indefinitamente plurale per ogni determinato contesto d’esistenza. Dall’altro lato, le religioni sono fatti storici che, in ragione della dipendenza contestuale delle esperienze dai contesti di esistenza degli esseri umani, producono molteplici collezioni di credenze analizzanti in modi semanticamente non equivalenti le credenze espressive della Rivelazione rilevante.

Se così stanno le cose, sembra lecito assumere la tesi che ciascun aderente a una medesima religione accetti o rifiuti una congiunzione di credenze religiose che risultano peculiari, perché contenutisticamente espressive solo nei termini di analisi semantiche esperienzialmente dipendenti da un accesso parziale (per ogni mondo possibile) al corpo dottrinale della propria religione.

Ma cosa significa allora essere correligionari (dal punto di vista della dimensione credenziale delle religioni positive)? Molto banalmente: fare un vago riferimento a una Rivelazione comune, tuttavia differentemente espressa già alla fonte da una pluralità di collezioni di credenze fondamentali e comunque peculiarmente assunta a partire dalla natura esperienziale dell’accesso individuale a essa.

A grandi linee, una religione può essere tratteggiata dal punto di vista doxastico nel modo seguente:

  • si hanno varie collezioni di credenze religiose fondamentali esprimenti valutazioni assiologiche sulla natura di una dimensione oltre-empirica del reale empirico, dalla quale dimensione il reale empirico si afferma dipendere;
  • ogni credenza religiosa fondamentale appartenente a tali collezioni necessita di una analisi semantica al fine di essere assunta;
  • si ha una indefinita pluralità di collezioni di credenze ordinarie analizzanti semanticamente le credenze religiose di base;
  • ogni collezione di credenze religiose fondamentali verte sul contesto discorsivo informale della Rivelazione rilevante;
  • Rivelazione è un family resemblance concept;
  • collezioni di credenze ordinarie analizzanti semanticamente le credenze religiose fondamentali sono pacchetti di credenze;
  • gli individui che aderiscono a una religione sono immersi in una pluralità di pacchetti di credenze religiose analizzanti semanticamente l’espressione del contesto discorsivo informale della Rivelazione rilevante, generanti irregolarità semiotica, e producenti una indefinita pluralità di collezioni di credenze ordinarie;
  • gli individui che aderiscono a una religione sono esposti a un disaccordo costitutivo circa le collezioni di credenze religiose fondamentali da assumere e le analisi semantiche di esse;
  • il disaccordo religioso è un fenomeno interno a ogni religione.

Se ne conclude, pertanto, che le religioni siano costitutivamente pluraliste.


  1. Cipriani (1997); Furseth & Repstad (2006). ↩︎

  2. Beyer (2003). ↩︎

  3. Wilson (1998). ↩︎

  4. Berger (1974). ↩︎

  5. van Inwagen (2010). ↩︎

  6. Cfr. Bianchi (1975). ↩︎

  7. Cfr. Piaget (1964). ↩︎

  8. Bultmann (1941); tr.it., p. 110. ↩︎

  9. Soroush (1998), pp. 246 e seguenti. ↩︎

  10. Warner (1993). ↩︎

  11. Woodhead (2009). ↩︎

  12. Woodhead (2009). ↩︎

  13. Woodhead (2009). ↩︎

  14. Warner (2008). ↩︎

  15. Cipriani (2009). ↩︎

  16. Cipriani (2009). ↩︎

  17. Cipriani (2009). ↩︎