Felicità e responsabilità morale. Nota in margine a Zygmunt Bauman, The Art of Life

Zygmunt Bauman, The Art of Life, 2008, trad. it., L’arte della vita, di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari 2010.

Se la felicità sia possibile in questa società di consumatori e se essa sia legata al tenore di vita, è una domanda legittima. La felicità è una condizione che consiste essenzialmente nella consapevolezza di essere felici. Non esistono indicatori di felicità, con cui misurarne il grado oggettivo, allo stesso modo in cui misuriamo la febbre o il PIL. Bisogna quindi immaginare che la felicità sia una qualità soggettiva: solo noi siamo autorizzati a stabilire se siamo felici oppure no. Inoltre è difficile essere felici e contemporaneamente esserne consapevoli. Quando sono consapevole della mia felicità, essa appartiene già al passato. Del resto, non avrei motivo di riflettere sulla mia felicità se non ne fossi in qualche modo già uscito, se quella condizione particolarmente positiva non fosse già incrinata, non fosse già da rimpiangere. Si dovrebbe dire allora non che siamo felici, ma che lo siamo stati. La felicità è una condizione che non è possibile vivere e insieme sapere. Nel momento in cui ne parliamo appartiene in ogni caso a un passato più o meno remoto.

Bauman è consapevole di questa caratteristica di indecidibilità relativamente all’essere felici. Qualunque cosa sia la felicità, possiamo parlarne solo partendo da una domanda rivolta agli interessati. Altrimenti dovremmo concludere che la felicità, intesa come perfetta armonia e assenza di ogni elemento negativo, non esiste affatto e dunque si tratta di un termine privo di significato, come “unicorno”. La dichiarazione di felicità ha un significato che si può paragonare all’essere stato vivo di un morto: i connotati anagrafici di un defunto sono autentici, senonché fanno riferimento a una persona che ora non è più. Che la felicità non si possa misurare con criteri quantitativi è dimostrato dai rapporti di indagine che attestano come la crescita dell’agiatezza individuale non sia correlata a un parallelo aumento della felicità o soddisfazione personale. Il miglioramento dei livelli di vita non comporta un miglioramento del benessere soggettivo.

La società moderna è caratterizzata da un’accelerazione progressiva verso mete ulteriori. L’automazione e in generale la trasformazione del lavoro in attività di supporto a macchine che di fatto hanno sostituito l’uomo, toglie agli esseri umani la gratificazione della loro operosità, «quella condizione vitale dell’autostima tanto difficile da sostituire, e con essa svanisce la felicità data dal rispetto di sé» (p. 10). Ecco il punto: la felicità dipende dal grado di soddisfazione personale e autostima, conseguito in virtù di un lavoro ben fatto, non dipende dall’abbondanza dei beni materiali a disposizione.

I mercati vengono incontro anche all’esigenza dei consumatori di trarre soddisfazione dall’altruismo. Ecco quindi un proliferare di inviti a donare, per compiacere la diffusa convinzione che la felicità sia in rapporto con la quantità e la qualità del consumo. Ma in tal modo la ricerca della felicità è destinata a rimanere sempre inconclusa. Infatti «spostando abilmente il sogno di felicità dalla prospettiva di una vita piena e pienamente gratificante alla ricerca dei mezzi ritenuti necessari per conquistarla, i mercati fanno in modo che la ricerca prosegua all’infinito» (p. 13). Se la felicità consiste nella ricerca dei mezzi per soddisfarla, allora la fine della ricerca segnerebbe la fine della felicità. Ogni prodotto viene consumato con la certezza che esso perde attrattiva immediatamente e rinnova l’impulso a cercarne altri capaci di sedurre, destinati ad essere abbandonati e sostituiti a loro volta, e così via. L’apertura di nuovi centri commerciali soddisfa questa esigenza di rimanere insoddisfatti.

Marchi e loghi hanno una funzione importante, quella di permettere il riconoscimento che si spera di ottenere, e che di solito si ottiene, in termini di identità o appartenenza. In passato, nelle società tradizionali caratterizzate da una rigida stratificazione in classi o ceti, gli individui nascevano all’interno di un’identità già costituita; oggi, nella società liquida, l’identità non è data in partenza, ma deve essere cercata e conquistata, è un compito. Ciascuno così diventa responsabile della propria identità (p. 17). La felicità è a portata di mano, ma raggiungerla e rimanervi implica sforzo, perseveranza. La ricerca della felicità diventa così la ricerca del proprio io, dell’io autentico. Lo shopping è il tapis roulant sul quale tutti corrono per realizzare se stessi e insieme conquistare la felicità. Si può essere indotti a tentare l’impossibile se l’obiettivo che si intende raggiungere possiede valore ai nostri occhi.

La società dei consumi si adopera a fornire costantemente mezzi idonei a consentire agli individui di collocarsi sempre un gradino sopra gli altri, di risultare vincenti a tutti i costi. La competizione diventa un metodo e un’abitudine, persino nei rapporti umani che escludono l’obbligo o il bisogno di prevalere e imporsi. La società dei consumi non è compatibile con l’insegnamento di Epitteto, il quale prometteva una felicità degna degli dei a quanti avessero ispirato la propria condotta alla rinuncia a ogni possesso. L’insegnamento di Epitteto è diventato particolarmente impopolare e di difficile applicazione nella società dei consumi, ma, osserva Bauman, la facoltà di scegliere rimane comunque un attributo degli esseri umani (p. 35).

Già Kant aveva osservato che tutti desiderano raggiungere la felicità, ma nessuno sa esattamente che cosa desidera e che cosa vuole desiderando la felicità. Tutti la vogliono, ma al tempo stesso non sanno che cosa vogliono. Aristotele la definiva in vari modi, ma indicava anche una serie di condizioni che, oltre alla virtù, alla buona condotta, alla salute del corpo, alla statura elevata e alle capacità atletiche, dovevano accompagnare una vita felice: origini nobili, molti buoni amici, ricchezza, figli buoni e numerosi, ecc. (p. 37). Seneca offre una terapia dell’infelicità che mira all’indipendenza e alla padronanza di se stessi, in un’ottica individualistica. Scheler si richiama all’ordo amoris e al valore. Nell’amare si guarda al di là dell’oggetto che si ha tra le mani. Il destino personale va ricondotto al carattere e distinto dal fato impersonale. «Tendiamo ad attribuire il nostro destino personale, commenta Bauman, al fato impersonale non perché le nostre scelte non abbiano un effetto sul percorso della nostra vita, ma perché nel momento in cui produciamo quell’effetto non siamo consapevoli (non possiamo mai esserlo completamente) del tipo di effetto che abbiamo prodotto o ci accingiamo a produrre (… .) Qualsiasi cosa facciamo, o evitiamo di fare, farà una differenza: non possiamo evitarlo. Possiamo soltanto desiderare, e tentare di sapere in anticipo che tipo di differenza probabilmente faremo» (pp. 51-52).

Come Fromm già rilevava, l’amore è soprattutto dare, donare, non ricevere. Non è facile però amare rimanendo disponibili a sacrificarsi unilateralmente, indefinitamente, senza avvertire il disagio di rinunciare alla felicità nella sua massima ampiezza possibile. «Se l’amore è, per sua stessa natura, una tendenza a unirsi agli oggetti d’amore (una persona, un gruppo di persone, una causa) nella loro lotta per la realizzazione, e a sostenerli in tale lotta, a promuovere tale lotta e benedire i contendenti, allora “amare” significa essere disposti ad abbandonare la cura di sé in favore dell’oggetto d’amore, a fare della propria felicità un riflesso, un effetto collaterale della felicità di quell’oggetto — e per lo stesso motivo (facendo eco, duemila anni dopo, a Luciano) un darsi “in ostaggio al fato”. Amando cerchiamo di trasformare il fato in destino; ma seguendo le esigenze dell’amore — la logica dell’ordo amoris — rendiamo il nostro destino ostaggio di quel fato» (p. 52). Nella società liquida di oggi dove trionfa l’individualismo estremo e tutta l’attenzione è rivolta a se stessi, alla propria sopravvivenza, successo, affermazione personale, la dedizione a qualcosa che non sia se stessi e il sacrificio di sé per qualcuno o qualcosa sono divenuti impopolari e anacronistici. Il fine ultimo dell’esistenza appare sempre più la realizzazione intima, secondo questa nuova forma di individualismo edonista, appiattito sul presente e rinchiuso nel perimetro del proprio ego. Non c’è più alcuna preoccupazione per il pianeta, l’umanità o il prossimo vicino a noi, la sola cosa che suscita interesse e su cui ci si concentra è se stessi. Ma l’esigenza di essere riconosciuti è insopprimibile, di qui la grande quantità di richieste di riconoscimento che caratterizza l’intera società? riconoscimento in ogni caso labile, incerto, mai definitivo, facile a smentirsi in individui che guardano e approvano senza approfondire. Individui che sono indotti dal mercato vorticoso a mutare parere e orientamento, ritirando domani il riconoscimento che ieri hanno offerto alla stessa persona.

Le persone tendono a ripetere il proprio passato per inerzia o abitudine. Le infelicità tanto detestate tendono quindi a presentarsi come esperienze degne di essere ripetute. Chi è stato infelice tenderà a cercare di esserlo ancora, mettendo in azione gli stessi meccanismi che lo hanno reso infelice in passato. Per cercare di essere felici bisogna sapere che cosa si vuole e che cosa significa per noi “felicità”. Certamente tra gli ingredienti essenziali della felicità dobbiamo mettere la realizzazione di obiettivi importanti, l’autostima e il riconoscimento sociale.

Bauman esorta a richiamarsi in ogni caso alla volontà personale e alla scelta. Chi aspira alla felicità mette in gioco deliberatamente se stesso, decide, sceglie. Il risultato è l’attiva costruzione della propria vita, sottraendola all’inerzia delle abitudini e alla ciclica ripetizione di vecchi cliché. La vita è un’opera d’arte in se stessa, non nel senso che si debba farla essere tale. Ogni vita umana, se è vita di un essere che vuole e sceglie liberamente, non potrà essere altro che un’opera d’arte. «Volontà e scelta lasciano la propria impronta sulla forma di vita, per quanto si tenti di negarne la presenza e/o di nasconderne il potere attribuendo il ruolo di causa alla presunta pressione schiacciante di forze esterne che impongono l’“io devo” dove avrebbe dovuto esserci l’“io voglio” e restringendo in tal modo il ventaglio delle scelte possibili» (p. 69). La vita è sempre in difficile equilibrio tra le condizioni esterne, che fanno resistenza, percepite come materia che si oppone alla volontà del soggetto, e il progetto che l’individuo mira a realizzare. Ma quel che si percepisce come ostacolo è per lo più una condizione necessaria affinché la volontà possa applicarsi, possa fare leva e permettere il raggiungimento degli obiettivi voluti.

La difficoltà nel raggiungere la felicità è la stessa che impedisce la stabile realizzazione di uno status di riconoscimento e, in definitiva, quella che sollecita una sempre più precisa e mai compiuta messa a punto della nostra identità. La domanda sull’identità può ottenere risposta solo se si è disposti a creare la propria vita come se fosse un’opera d’arte. Bisogna diventare gli artisti della propria vita. Le osservazioni che Bauman propone al lettore oscillano tra l’analisi antropologica in senso universale e astorico, e l’indagine sociologica dei fatti umani: il confine tra ciò che vale per la contemporaneità liquida e ciò che invece riguarda l’uomo in quanto tale, prescindendo dalle culture e dalle epoche storiche, è spesso indeciso, sfumato, non dichiarato.

Oggi secondo Bauman non si può sfuggire all’obbligo di essere artisti della propria vita. «A ogni artista della vita si chiede di accettare (proprio come gli artisti) tutta la responsabilità del risultato della sua opera, raccogliendone i meriti o le colpe» (p. 73). Avere un progetto di vita diventa inevitabile, quindi anche il non agire sarà considerato un atto di creatività artistica. In ogni caso oggi esercitare l’arte della vita significa trovarsi in uno stato di trasformazione permanente, per cambiare continuamente se stessi, rigettando la propria vecchia forma. L’arte della vita è una sfida di mutarsi adeguandosi al flusso incessante di nuove opportunità. Questo stile esistenziale risulta facile e piacevole ai giovanissimi, che non hanno ancora segni profondi e numerosi da cancellare. In questa nuova modalità di esistenza non ci sono arresti definitivi o sconfitte irrevocabili, perché sempre è data una nuova possibilità che permette di ripartire. In base alla vecchia concezione, invece, l’unicità del progetto esistenziale e l’irripetibilità della sua realizzazione facevano sì che nulla si potesse ripetere e che lo scacco fosse irrimediabile. Se un tempo il progetto di vita era affrontato in un’aura tragica, oggi la vita è vissuta come una commedia che si protrae indefinitamente, che si può ribaltare in qualsiasi momento e rifare da capo. Si può sempre buttare giù tutto e ricostruire partendo di nuovo da zero o agendo come se si partisse da zero (infatti è impossibile comunque partire da zero in senso assoluto). Le identità cancellate però non lo sono mai completamente e le nuove identità non possono essere in totale discontinuità con le precedenti. Per conferire alla propria analisi un’efficacia retorica supplementare, Bauman contrappone nettamente il vecchio modo di intendere il progetto di vita e la nuova modalità esistenziale, laddove invece la differenza non può essere concepita in termini assoluti: si assiste oggi a un’accelerazione del mutamento e del moltiplicarsi delle identità individuali, secondo uno stile che si è imposto universalmente. Da una vita che promette tante possibilità di riscatto e tante opportunità di ripresa e realizzazione, gli individui si aspettano una grande felicità. Una fatica supplementare consiste nella necessità di farsi carico della propria identificazione, per compensare la «volatilità, vulnerabilità e fragilità di qualsiasi identità» (p. 100). Il fascino di Socrate attraverso i secoli, l’attrazione per un uomo che ha taciuto su se stesso, che non ha lasciato alcuno scritto sulle proprie idee, e che ancora suscita numerosi interrogativi e curiosità, si devono alla sua modernità in quanto «maestro di autocreazione e autoaffermazione, che tuttavia non presentò mai il modo di essere da lui scelto come modello unico di uno stile di vita meritevole di essere emulato da tutti gli altri» (p. 101). Imitare Socrate significa infatti per Bauman rifiutare di imitarlo, evitare di copiare il suo stile di vita specifico. Socrate con il suo messaggio non invita a una pedissequa imitazione del suo stile di vita, ma a prestare ascolto alla propria ragione, ad avvalersi della propria autonomia e responsabilità.

A Bauman tuttavia si può obiettare che l’arte di essere se stessi, andando contro corrente e rifiutando le definizioni di identità imposte o insinuate da altri, non è compatibile con il caleidoscopio di identità mutevoli in perenne trasformazione al quale, secondo lo stesso Bauman, è condannato l’individuo della società liquida globale. Non sembra possibile essere se stessi, rimanere fedeli a se stessi se non in una logica di continuità nel tempo: deve esistere quindi un livello profondo in cui l’io è ancorato a qualcosa di immutabile ed unico, che orienta ogni passo e gesto della persona. In quale altro modo si potrà stabilire che un certo individuo coltiva l’arte di essere stesso? L’autocreazione e autorealizzazione che oggi sono il denominatore comune dell’esistenza presuppongono un nucleo iniziale e permanente, un progetto di vita cui dare esecuzione. Potrà mai realizzare coerentemente se stesso l’individuo che cambia rotta continuamente e ricomincia da zero ogni volta che gli si prospetta una nuova opportunità? È vero che l’identità si costruisce giorno per giorno, ieri come oggi, ma è anche vero che la contrapposizione competitiva delle diverse identità che si propongono all’individuo sarebbe insanabile e letale se mancasse un elemento di continuità, una bussola sottostante, un principio che non si trova sugli scaffali del supermarket delle opportunità. L’io deve potersi disintegrare e integrare rimanendo se stesso e insieme cambiando. L’io è come una nave che visita porti diversi in successione, percorre un mare sempre diverso e diversamente rischioso, ma conservando dall’inizio alla fine del viaggio, se non fa naufragio, la stessa riconoscibile identità di base. Sempre per rimanere in metafora, la nave giungerà a destinazione con materiali diversi nella stiva, con qualche sua parte danneggiata o fuori uso, persino con un diverso equipaggio, ma quando diciamo che è la stessa nave che è partita un giorno dal porto X e che ora approda al porto Y, non abbiamo dubbi sul significato di questa espressione e sull’elemento identitario profondo ed essenziale che essa presuppone. L’identità non è solo il risultato di un processo di ricostruzione incessante, di rifacimento e ripartenza da zero. Ogni mutamento, per logica necessità, presuppone un idem immutabile, qualcosa che, pur cambiando, rimane uguale a se stesso. Si potrebbe persino concepire la costruzione dell’identità come un processo che coinvolge più di due livelli. La metafora del viaggio in treno può illustrare abbastanza bene che cosa intendo. Il viaggiatore che sul treno guarda fuori dal finestrino osserva che gli oggetti vicini alla linea ferroviaria escono dal suo campo visivo con una velocità che è inversamente proporzionale alla distanza dai binari. A seconda della distanza, diversa è la velocità di uscita dal campo visivo degli oggetti del paesaggio, finché le cose più lontane appaiono praticamente immobili. Ora, l’immobilità dello sfondo è relativa, ma rende molto bene l’idea che il treno non si muoverebbe se qualcosa del contesto non rimanesse immobile e il movimento del treno non sarebbe percepito, se insieme non fosse percepito anche un estremo lembo sottratto al movimento. Continuità e discontinuità si intrecciano nel viaggio in treno, così come nella costruzione dell’identità. Le diverse appartenenze permettono l’identificazione dei soggetti, ma da sole non possono realizzare l’identità effettiva, bensì solo consentire un’autorealizzazione spuria e fallace, se non è sostenuta da un costrutto egologico di lunga durata e di persistente radicamento.

Ciò non toglie che, come osserva Bauman, oggi l’identità sia plurima e mutevole, sempre in corso d’opera e determinata più dalla necessità di essere riconosciuti, che dall’esigenza della fedeltà. Inevitabilmente quindi l’individuo di oggi mantiene una fedeltà parziale e provvisoria, e rimane aperto alla compromissione, all’ibridazione culturale e alla variazione dei propri connotati identitari. Combinare caratteristiche di ambienti disparati e di specie diverse non è divenuto solo necessario, ma risulta essere anche un imperativo categorico e un contrassegno di eccellenza. Autentici o sedicenti che siano, gli ibridi socioculturali riscuotono grande consenso in quanto veicoli di ascesa culturale e precondizione del prestigio sociale. Rispetto alla sempre più richiesta mobilità verso l’alto che implica ibridismo e trasformazione incessante, una sorta di bricolage interculturale aperto e ascendente, «confinarsi o essere condannati a un solo sistema chiuso di valori e schemi comportamentali viene visto sempre più come segno di inferiorità o povertà socioculturale» (p. 111).

Le comunità chiuse, con codici statici e comportamenti refrattari al mutamento, caratterizzate dall’ossessione per un’identità permanente e uguale a se stessa, appaiono oggi, se considerate dall’osservatorio globale, come confinate ai livelli più bassi della scala sociale e culturale. L’identità concepita come preservazione di una condizione specifica, ereditata dal passato e come mantenimento di pretesi caratteri essenziali, appare sempre più non solo come praticamente improponibile e logicamente impossibile, ma anche come disdicevole, chiaro segno di arretratezza e povertà culturale. Mancano semmai punti di riferimento affidabili e guide sicure. La crescita identitaria afferma implicitamente il proprio carattere di bricolage orientato a realizzare se stessa: non importa tanto la meta raggiunta, conta solo l’ascesa e l’adeguatezza del sé alla rete mutevole di identità parziali che l’io è in grado di sostenere, rafforzare, espandere. Nessun valore appare indiscutibile nel processo di ibridazione incessante in cui l’io è impegnato, mentre il solo valore che rimane indenne è proprio questa erranza dell’io e questo impegno a moltiplicare le identità reali e virtuali, attuali e possibili. L’io che tende a espandersi e a mutare indefinitamente si riconosce e si identifica proprio in questa mobilità senza tregua; l’autoaffermazione che promuove e a cui mira è molto lontana dal titanismo pantagruelico o dall’esibizione di una forza sovrumana volta al dominio. Infatti questo nuovo io errabondo non accumula per sovrastare e conservare, ma sguscia via sempre diverso e scintillante di nuovi emblemi di cui si adorna al posto dei precedenti. L’io è divenuto un caleidoscopio che sa di esserlo, capace di dissolversi e risolversi in nuove forme, che fa di necessità virtù quando respinge la putrefazione della mummia imbellettata, accelerando la metamorfosi e la moltiplicazione delle identità da acquisire e combinare sulla piattaforma del sé.

Trionfa una specie di ideologia privatizzata, a uso di individui che, ciascuno per proprio conto, senza fare riferimento ad alcuna appartenenza forte e decisiva, devono puntare ad affermarsi con tutti i mezzi a disposizione. Non ci sono più cause comuni alle quali subordinare la propria azione, nessuna solidarietà può essere predicata senza provocare una scettica indifferenza. La fedeltà a un gruppo è sempre temporanea e sub conditione, in attesa di prendere il largo verso nuove appartenenze se le nuove opportunità dell’ambiente fluido lo richiederanno. La lotta per la sopravvivenza obbliga ad approfittare delle occasioni che si presenteranno volta per volta, in base al presupposto che qualcuno sarà comunque escluso, si tratta solo di sapere chi subirà l’allontanamento. Non per nulla il Grande Fratello obbliga a escludere qualcuno ad ogni puntata, per regola fissa. In tal modo si trasmette un’ideologia individualistica basata sul presupposto che l’esclusione è un dato di fatto comunque e una legge di natura, su cui non vale la pena riflettere. Non ha senso opporsi a questa legge, dato che la sola cosa giusta da fare è quella di cercare di evitare di essere esclusi al turno successivo (pp. 114-115). O si fa parte del gruppo e lo si domina come leader oppure si è umiliati dall’esclusione. Ma anche qui nessun dramma vero, perché l’escluso di oggi potrà rifarsi domani trionfando su qualcun altro in lizza con lui per l’accettazione da parte di un club prestigioso. Certamente l’esclusione ha oggi un significato diverso rispetto a qualche secolo fa, quando la gerarchia preordinata della società metteva in conto un’esclusione programmata per ciascun individuo. Oggi la mobilità e la fluidità degli status sono così dinamiche che l’appartenenza è indispensabile all’identificazione, così come l’esclusione è provvisoriamente, ma seriamente letale. Nell’alternarsi vorticoso di adesioni ed esclusioni dal gruppo di turno, è inevitabile che gli individui vivano con l’angoscia di dover subire l’ennesima esclusione e soffrire la conseguente umiliazione della propria identità. Il meccanismo della vittimizzazione e dell’esclusione diventa così un marchingegno fisiologico, imposto dalla labilità della consistenza identitaria che ciascuno può vantare. Ciò che siamo dipende dal posto che occupiamo in quel momento più che dalla memoria di ciò che siamo stati, dei riconoscimenti trascorsi, e quindi abbiamo ottimi motivi di chiederci quali sono le minacce che rendono insicuro il nostro posto e, una volta individuate, come intervenire per neutralizzare quelle stesse minacce, senza che possiamo aspettarci alcuna solidarietà da parte di altri, i quali per definizione competono con noi e non hanno alcun interesse a sostenerci nella lotta per la nostra causa. Disumanità, cinica superficialità e smemoratezza dell’homo consumens sono i tratti della società liquida che Bauman può mostrare in tutta la loro diffusa evidenza solo nella misura in cui illustra la fenomenologia corrispondente quale devianza da una norma di giustizia e dignità universalmente riconosciuta.

Nella società globalizzata riscuote sempre più credito una visione della vita utilitaristica, in cui quel che conta è il proprio benessere, non quello degli altri, data la fluida condizione di individui insicuri e mobili, protesi al perfezionamento del proprio egoismo necessario. Bauman tuttavia suggerisce che, sotto un certo aspetto, egoismo e altruismo appaiono convergenti: basta tener conto del fatto che inaridiscono tristemente le persone incapaci di conseguire l’impareggiabile benessere soggettivo che proviene dal prendersi cura degli altri. C’è sempre la possibilità di trovare un nesso tra il perseguimento dell’interesse individuale e l’altruistica dedizione al prossimo. L’argomento più frequente — a metà tra fatto empirico e principio teorico — proposto dai filosofi della morale è la cosiddetta regola d’oro, per cui ciò che facciamo agli altri, essi lo faranno nei nostri confronti. Di qui l’interesse ad agire in modo altruistico, e il suggerimento che i costi implicati da un comportamento morale saranno ampiamente ricompensati dal profitto conseguito (p. 120). Tuttavia Bauman osserva con scetticismo che, nonostante la lodevole teoresi dei filosofi morali i quali indirizzano i loro sforzi nella direzione di un’armonizzazione effettiva di egoismo e altruismo, di fatto i maggiori vantaggi li consegue chi presta attenzione esclusivamente a se stesso, mentre agli altruisti non rimane altro che fare l’inventario dei danni. Citando Lawrence Grossberg, Bauman lamenta come oggi sia diventato particolarmente difficile dedicarsi fino in fondo a una causa per la quale si nutre una fiducia illimitata e della cui importanza non si ha alcun dubbio.

Bauman constata inoltre che le analisi sociologiche non esauriscono l’essenza della moralità, non riescono a rispondere all’interrogativo fondamentale sui fattori che determinano le persone al bene attivo, anziché all’indifferenza o al male. Come spiegare il fatto che i polacchi che aiutarono gli ebrei nella fase più buia della loro storia non erano diversi dal resto della popolazione in alcuna caratteristica osservabile o rilevabile con indagini quantitative? La sociologia, ammette Bauman, non è in grado di dirci che cosa siano effettivamente il bene o il male. Bisogna quindi fare appello a una coscienza morale preteoretica, a un’intuizione originaria, a un sapere fondamentale che si possiede da sempre, una specie di istinto che ci permette di riconoscere il male inequivocabilmente: quando sappiamo di recare dolore a qualcuno con una nostra azione, sappiamo perfettamente che la nostra azione è malvagia. Alla domanda su che cosa abbia spinto chi aiutava gli ebrei a non chiudere la porta a chiave e a non serrare i battenti per non guardare in faccia i sofferenti destinati al mattatoio, possiamo dare una sola risposta, secondo Bauman: non avevano scelta. «Non sarebbero riusciti a continuare a vivere, se non avessero difeso la vita altrui. Il desiderio di proteggere la propria incolumità fisica e i propri agi era meno forte dell’angoscia spirituale provocata dalla vista della sofferenza di altri uomini» (p. 124). Sul piano morale nessuno può accampare pretesti validi per aver omesso il bene o commesso il male. Non ci sono alibi per l’indifferente o il malvagio. Non ci sono spiegazioni che tengano, di ordine psicologico, sociologico, o altro: sul piano morale chi non si oppone al male con tutte le sue forze è comunque meritevole di condanna.

Bauman si richiama a Knud Løgstrup e a Emmanuel Lévinas, per i quali la morale ha un fondamento preriflessivo. La necessità della morale, la sua giustificazione non può essere espressa e dichiarata sul piano discorsivo, né dimostrata. Nessuna azione morale in quanto tale è preceduta da considerazioni riguardanti l’interesse personale, le conseguenze, ecc. Il dovere di prendersi cura del fratello si presenta immediatamente come interrogativo posto dal volto dell’altro, del prossimo, e non ammette intervalli di riflessione, esige una risposta. La moralità consiste nel fidarsi degli altri aiutando spontaneamente chi ha bisogno, senza calcolare i retroscena, le motivazioni, i tornaconto, ecc. La moralità della condotta presuppone il disinteresse. Un atto morale non serve a scopo alcuno, non si regge su alcuna attesa di vantaggio e non è messo in pratica in obbedienza a un imperativo categorico, perché allora sarebbe moralistico e non morale in senso proprio. L’atto morale in senso proprio si rivolge alla persona, si prende cura della persona e solo secondariamente si preoccupa di rispettare una certa legge morale astratta. Ciò che facciamo per gli altri, per essere morale, deve scaturire dalla spontanea originaria preriflessiva vicinanza al volto dell’altro. Nella sua spontaneità, l’azione morale non serve, né sa di servire ad alcuno scopo. Essere morali non significa corrispondere al potere coercitivo della massima o imperativo, ma lasciarsi guidare solo dal bene di chi ci sta dinanzi. Non c’è alcun potere superiore che ci ordina e ci costringe. L’Altro, secondo Lévinas, impone di prendersi cura di lui in base solo alla sua debolezza, non in virtù della propria forza, in virtù del fatto che non può o non vuole darci ordini (pp. 134-135). In antitesi al disprezzo per i deboli e i falliti predicato dalla filosofia di Nietzsche e alla sua negazione dell’esistenza di un Dio? dinanzi al quale siamo tutti uguali, con la conseguente impossibilità dell’Oltreuomo? Lévinas inaugura la categoria della responsabilità, che connette l’essere con l’essere per altri. Se si assume la responsabilità della propria responsabilità non si ha dalla propria parte se non la voce della coscienza. E la vera felicità, ieri come oggi, l’autentica arte della vita, consiste nel prendersi cura dell’Altro, dando la precedenza alla sua felicità.