Recensione a René Girard, Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia

René Girard, Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia, a cura di P. Antonello, trad. it. di A. Calvanese, Transeuropa, Ancona 2006.

Il volume, che raccoglie saggi e interventi di Girard pubblicati negli ultimi cinquant’anni e non ancora tradotti in italiano, rappresenta un contributo di rilievo alla conoscenza di aspetti e passaggi meno noti della sua opera. Il mimetismo caratterizza in senso universale l’umanità in quanto tale, e attraversa ogni cultura e ogni storia. L’indebolimento dell’ordine gerarchico e dei riferimenti simbolici che caratterizza la modernità ha accentuato la tendenza degli individui al comportamento mimetico. In assenza di un modello trascendente ed esposti all’influenza coercitiva di modelli immanenti, gli individui diventano vittime della mediazione interna — per cui il modello diventa discepolo del discepolo e questi modello del modello — instaurando una rivalità mimetica che da gemellare e parossistica sfocia infine nella violenza vittimaria. D’altra parte il desiderio mediato è il tratto antropologicamente fondamentale, che distingue l’uomo dall’animale e che definisce l’epicentro di ogni evoluzione culturale. Il solipsismo e l’individualismo spinto all’eccesso in certa letteratura dell’Ottocento e del Novecento esprime la volontà del soggetto di sottrarsi al confronto mimetico, del quale intuisce la pericolosa tendenza all’involuzione rivalitaria. Un punto fermo della ricerca del nostro autore rimane il rifiuto di accettare la possibilità di molteplici interpretazioni, infinite prospettive tutte ugualmente valide, perché questo è il modo migliore di rendere inaccessibile la verità storica e di occultare la verità riguardo la vittima, nell’interesse dei persecutori di ogni tempo. Le interpretazioni di un testo non sono infinite: di fatto esse si riducono a due soltanto, a seconda che gli stessi fatti siano presentati nella versione dei persecutori o in quella delle vittime. Si badi bene: due interpretazioni opposte, non infinite. E neppure queste due interpretazioni sono equivalenti, ma necessariamente solo una di esse è vera, quella che corrisponde al punto di vista della vittima innocente.

La mimesi è all’origine della cultura e del pensiero. Infatti ogni pensatore si pone in relazione con qualcuno che ammira e invidia al tempo stesso. Anche la ricerca della verità è dunque condizionata dal desiderio mimetico. La verità è qualcosa che deve essere conquistato strappandolo a qualcuno con cui il discepolo instaura una contesa «razionale». La distruzione delle elites ha corrotto l’aristocrazia, che ha abbandonato i grandi progetti e la passione della libertà alla borghesia e alle classi inferiori. L’aristocrazia odia la modernità e lo spirito d’uguaglianza che costringe tutti a fare i conti con le proprie responsabilità, senza alcuna possibilità di trovare riparo o esenzione in virtù di privilegi e rendite. Il tramonto dell’aristocrazia è determinato dalla sua stessa obsolescenza sociale. Nel saggio Individualismo e democrazia: Stendhal e Tocqueville Girard riporta un passo di La democrazia in America, che contiene un aspro giudizio di Tocqueville sull’aristocrazia: «Nulla è più miserevolmente corrotto di un’aristocrazia che conserva la ricchezza dopo aver perso il potere e che ancora gode del privilegio di molto tempo libero, anche se speso in passatempi volgari. Allora le passioni energiche e i grandi pensieri che un tempo l’avevano animata scompaiono, e non vi si incontra più che una moltitudine di piccoli vizi corrosivi, che vi si attaccano come i vermi a un cadavere» (p. 9). Il problema principale dell’aristocrazia è quello di giustificare i propri privilegi agli occhi della borghesia, di cui ha assunto la morale. Gli aristocratici si sforzano di dimostrare che essi meritano i privilegi di cui godono e in questo modo, perduta ogni funzione sociale, diventano un partito in contraddizione con se stesso. Per Tocqueville e Stendhal, scrive Girard, la democrazia presenta aspetti non solo negativi, ma anche positivi. La nuova mobilità sociale toglierà molte certezze e dissolverà molti privilegi, ma in compenso la vita di tutti si trasformerà in un’avventura piena di sorprese e di occasioni vantaggiose: «L’opinione pubblica potrà soffocare l’individualismo, ma incoraggerà un governo efficiente e onesto; gli uomini eccezionali saranno sempre più rari, fino a scomparire, ma il livello generale di istruzione sarà più elevato; la spinta al conformismo sarà quasi irresistibile, ma le sorti materiali dell’uomo medio miglioreranno straordinariamente; gli individui non saranno mai soddisfatti, ma questa insoddisfazione potrà essere incanalata dentro forme pacifiche di competizione; la produzione agricola aumenterà, le industrie si svilupperanno…» (pp. 10-11). In una condizione di uguaglianza generalizzata gli individui sono stretti da una competizione che rende estremamente difficile il loro cammino, poiché sono spinti a desiderare le stesse cose e a tormentarsi in nuove e mai risolte rivalità con i propri simili. L’individuo, annota Tocqueville, si sente accerchiato, ostacolato nel proprio sforzo di ascesa e di autoaffermazione. Il nuovo stato democratico gli mette a disposizione qualsiasi cosa desiderabile e gli fornisce i mezzi per conquistarla, ammesso che abbia la forza, il carattere e le qualità necessarie per far fronte alla pressione mimetica e alla competizione rivalitaria che lo attendono su tutti i fronti.

Secondo Stendhal esistono due Io, scrive Girard in Valéry e la commedia della sincerità: «Il primo, l’Io sociale, è una semplice maschera per nascondere il volto nelle relazioni con gli altri e che viene troppo facilmente confusa con l’Io naturale, unica espressione autentica di una natura che possiamo anche tentare di combattere, ma che non possiamo sopprimere» (p. 16). Valéry intuisce perfettamente che per distinguere tra l’Io naturale e l’Io sociale o convenzionale è necessario un criterio a sua volta convenzionale. A differenza che per Stendhal, per Valéry risulta del tutto impossibile identificare la parte spontanea e naturale del proprio Io, il suo vero essere, distinguendolo dalla superficie visibile e convenzionale dell’Io sociale. L’illusione di avere un Io naturale e libero da contaminazioni, del tutto originale, è destinata a naufragare non appena ci si avvede che anche l’Io naturale è in fondo gregario e che l’orgoglio di essere unico e irripetibile è del tutto privo di fondamento, nonostante possa risultare gratificante. La vanità è la presunzione di originalità, mentre ciò che si è si deve unicamente all’imitazione di un modello prestigioso o all’influenza inconscia di mediatori occulti. La pretesa di rivendicare un Io puro, oltre quello naturale e quello sociale è ancora più assurda: «Tra un Io sociale che appartiene a tutti e un Io naturale difficile da concepire libero, non sembra possibile che l’egotista possa soddisfare il suo orgoglio e la sua vanità. In modo analogo, tra il suo Io spontaneo, scioccamente gregario, ed il suo Io puro che non saprebbe tollerare, a causa della sua potenza assoluta, la limitazione imposta dalla presenza di un altro Io puro, non sappiamo proprio chi possa godere dell’orgoglio di essere unico» (p. 19). Le distinzioni di Stendhal e Valéry tra vari tipi di Io fanno naufragio contro la dura necessità dell’imitazione e devono fare i conti con il carattere inesorabilmente sociale e convenzionale, quindi mimetico, dell’Io in quanto tale. Il sogno dell’individualista, che immagina di poter affermare il proprio Io sommergendo tutti gli altri Io, si rivela ben presto inconsistente. Non esiste alcun Io solo individuale.

Nel saggio Pierre Janet: automatismo e libertà Girard esamina la teoria degli automatismi psicologici alla luce della teoria mimetica. Janet affronta il tema della suggestione partendo dalla considerazione corretta per cui tutti gli esseri umani sono esposti al potere di influenzamento dei loro simili. Janet riconosce che l’imitazione contagiosa spesso spiega le azioni più gravi, come omicidio e suicidio. Anche se l’idea dell’imitazione è presente in ogni pagina, scrive Girard, Janet tuttavia non le assegna il posto che merita, lasciando al lettore la tentazione irresistibile di andare oltre la nozione di suggestione che Janet ripropone consapevolmente. Janet avverte l’anomalia del concetto di suggestione, il suo carattere magico che consiste nell’attribuire all’ipnotizzatore il solo ruolo attivo rispetto a un destinatario della suggestione che è rappresentato come del tutto passivo. La suggestione non spiega ciò che accade realmente, poiché concepisce l’ipnotizzato come del tutto passivo, mentre se lo fosse non potrebbe neppure mettere in pratica gli ordini dell’ipnotizzatore: «L’ubbidienza è un atto d’imitazione» (p. 35). Il vantaggio di mettere in primo piano l’imitazione togliendo legittimità a quello di suggestione consiste nel fatto che gli imitatori sono attivi e si rivolgono di preferenza verso modelli prestigiosi. Il concetto di imitazione assorbe quindi e comprende anche quello di suggestionabilità. Il pensiero tradizionale ha sempre separato il desiderio dall’imitazione, concependoli come degli opposti: il primo sarebbe attivo, la seconda passiva. La teoria mimetica invece li identifica, ricordando che ciascuno desidera essere solo ciò che un modello gli propone di essere. Senza l’imitazione di un modello nessun desiderio sarebbe concepibile. Il compito del filosofo consiste nel riconoscere la potenza dell’imitazione, che è insieme benefica e malefica: è la forza che costruisce il soggetto, ma è anche all’origine della rivalità e dei conflitti umani. L’imitazione reciproca si trasforma in rivalità: Girard cerca di mostrare che negli automatismi di Janet si manifesta proprio questo aspetto. Capita così che gli isterici si imitino fino a trasformarsi in doppi mimetici e a considerarsi opposti e incompatibili pur essendo di fatto assolutamente identici (p. 38). Janet mantiene due concetti nella sua teoria, quello di suggestione e di imitazione; e non riesce ad accettare l’idea che il secondo possa diventare la nozione chiave di interpretazione di tutti i fenomeni psichici. Janet conserva un’irrazionale diffidenza per l’imitazione che lo mantiene in uno stato di compromesso e di indecisione sul piano teorico. Girard cita l’episodio dell’adultera per mostrare come nei vangeli sia stata espresso con la massima lucidità possibile il meccanismo mimetico. Che cosa accade nella sfida di Gesù alla folla dei linciatori? Ogni convergenza mimetica tra i persecutori è accompagnata dalla divergenza rispetto alla vittima che dovrà essere linciata. Ma se la convergenza è reale, la divergenza è illusoria. «È la convergenza reale, combinata con l’illusione della differenza, che costituisce ciò che Gesù sta qui tentando di decostruire, ossia il meccanismo del capro espiatorio. La folla precede l’individuo, e solo colui che abbandona la folla e sfugge all’unanimità violenta può diventare veramente individuo. Non tutti sono capaci di un’iniziativa del genere, e coloro che ci riescono sono i primi ad allontanarsi dalla folla impedendo, così facendo, la lapidazione» (p. 46). La teoria mimetica non nega la libertà individuale solo per il fatto che riconosce l’impossibilità dell’uomo di sottrarsi all’imitazione dei modelli più seguiti. I due mimetismi, quello che uccide la vittima e quello che la risparmia, non sono equivalenti e intercambiabili. Girard polemizza contro la vuota metafisica che esalta la libertà individuale e pretende di affermarne l’esistenza al di fuori del contesto concreto in cui una decisione è presa liberamente. Automatismo e libertà vanno insieme. La libertà di non imitare un modello negativo è insieme la decisione mimetica di seguirne uno che si giudica positivo. In Menzogna romantica e verità romanzesca Girard sostiene senza mezzi termini che la sola libertà possibile è quella di imitare un modello, anche se non sempre lo stesso. È possibile opporsi agli automatismi sociali, ma questo non significa che, rinunciando a un determinato condizionamento mimetico, abbandoniamo anche il principio mimetico da cui siamo governati.

Il rapporto con il modello diventa ambivalente e antinomico. «Imitami e non imitarmi» è il messaggio che riceve il discepolo. Il Super-Io freudiano è il modello del padre introiettato. Il rapporto tra l’Io e il Super-Io è antinomico, come già Freud ha mostrato esplicitamente in L’Io e l’Es (Opere, vol. IX, trad. it. di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 496). Il Super-Io ammonisce l’Io che dovrà essere come il padre, ma al tempo stesso gli vieta di essere come il padre (p. 73). Il rapporto con il modello prestigioso presenta questa contraddizione dell’ingiunzione paradossale. Il modello si rivelerà inaccessibile e il fallimento non farà che accrescerne il prestigio e rinvigorire il desiderio di essere il modello. Il modello diventa così il «miglior nemico» del discepolo, al quale mostra l’ideale che deve assolutamente raggiungere pur respingendolo ogni volta nella sconfitta, fino alla rivalità che non ammette compromessi, fino alla più serrata lotta per l’essere del modello. Nei romanzi di Sartre è possibile scorgere degli antagonismi psichici, e lo stesso accade negli argomenti logici della filosofia. In Jean-Paul Sartre: le parole dell’anti-eroe, Girard scrive: «L’esperienza della Nausea non termina con un autentico superamento, ma radicalizza e universalizza le opposizioni edipiche per «deificarle» meglio. La separazione assoluta di in-sé e per-sé, il dualismo tra essere e nulla, esprimono la struttura edipica così come l’antieroe si sforza di viverla. D’altra parte, tale separazione ha, nella nostra epoca, una realtà e una diffusione superiori a quelle di molti sistemi filosofici. L’in-sé è il padre edipico, il dio privato del proprio spirito, in teoria decaduto, ma in realtà sempre più divino, perché la mutilazione spirituale a lui inflitta rafforza gli elementi che lo caratterizzavano in quanto dio. L’in-sé è il silenzio, l’impenetrabilità e l’indifferenza definitiva dell’ostacolo assoluto. Il per-sé, al contrario, è l’antieroe che di fronte all’ostacolo edipico si riconosce la propria nullità e si sforza di divinizzare la propria impotenza chiamandola lucidità» (p. 84). Sartre adotta quindi una deviazione, per cui l’oggetto inerte della Nausea è il luogo in cui Roquentin muove la sua guerra contro gli Altri.

In Rileggendo Simone Weil Girard ricorda l’ossessione di Simone Weil per l’influenza della folla e la sua lucida comprensione della dimensione collettiva nell’esistenza individuale. Con la sua concezione del desiderio come desiderio di essere l’altro, Simone Weil è molto vicina a Sartre, ma non porta a compimento le sue intuizioni di una teoria dell’uomo. Girard riprende questa considerazione in Vedo Satana cadere come la folgore, trad. it. a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001). Tuttavia l’aver considerato, per cattivo hegelismo, il Dio dell’Antico Testamento come malvagio per eccellenza, ha recato danno al pensiero di Simone Weil, che ha radicalizzato in modo deformante l’opposizione tra ebraismo e cristianesimo (p. 94). Nella Weil domina l’idea della rassegnazione all’ordine del mondo, partendo dal presupposto tipicamente cattolico che esiste un ordine naturale voluto da Dio, che bisogna accettare perché ribellarvisi significherebbe opporsi a Dio stesso.

In Michel Serres: Dal rito alla scienza, Girard osserva che i riti assecondano il disordine e collaborano a sovvertire, avendo di mira l’introduzione di un ordine. «I riti non hanno altro obiettivo che la differenza e l’ordine, ma si svolgono sempre come se anche il principio (ri) generatore dell’ordine si trovasse nel disordine: per garantirsi un ordine migliore e più stabile, bisogna prima di tutto iper-sollecitare il disordine, spingerlo al parossismo» (p. 113). Lo stesso principio governa i riti d’iniziazione, infatti la prova alla quale sono sottoposti gli aspiranti è un disordine conflittuale e doloroso in cui i postulanti sono immersi e dal quale devono uscire completamente trasformati. Le società arcaiche mostrano il carattere religioso di ogni evento apparentemente lontano dalla religione. In origine la procedura tecnica e la ritualità di natura religiosa sono inseparabili, mentre oggi l’elemento religioso ci appare inutile e avventizio: «I rituali tecnici ci sembrano invece necessariamente motivati per il fatto stesso di essere utili e, al contempo, del tutto estranei al religioso, mentre al contrario solo il religioso può spiegare il tipo di comportamento in grado di portare alla scoperta di queste tecniche» (p. 115). La produzione di alimenti come il vino, il pane o il formaggio è stata influenzata dall’intervento di categorie quali puro e impuro. Probabilmente la decomposizione di latte e succo di frutta inizialmente è stata vista con diffidenza somma e ha generato fobie e divieti persistenti. L’origine rituale del formaggio e di altri alimenti sottoposti a fermentazione si comprende meglio considerando i riti funebri nelle due fasi principali della decomposizione/putrefazione del cadavere e del trattamento delle ossa del defunto, accuratamente ripulite e sbiancate per destinarle alla conservazione. «La morte e la decomposizione del cadavere sono viste come una crisi delle differenze, come un’invasione del disordine. L’intervento rituale ha lo stesso significato, qui come altrove. Mira a incoraggiare e a sollecitare il processo perché sbocchi il più rapidamente possibile nella «buona» stabilizzazione differenziale, e crede di riconoscere questa stabilizzazione proprio nella metamorfosi del cadavere in ossa» (p. 117). Esiste tuttavia una differenza tra queste manipolazioni del cadavere e la produzione del formaggio, infatti nel primo caso i fedeli credono di provocare una metamorfosi che in realtà si produrrebbe anche senza il loro intervento, mentre nel secondo essi sono i protagonisti del processo. Apparentemente opposti, in realtà i due processi sono identici, avverte Girard. Essi appaiono diversi solo perché «il nostro pensiero è sempre dominato dall’illusione della «rottura epistemologica» denunciata da Michel Serres, illusione che è molto difficile da sradicare in quanto svolge un ruolo essenziale, a tutti i livelli, nella costruzione di quell’immagine lusinghiera e asettica che ci facciamo della nostra storia e delle nostre origini» (p. 118). Accostare le pratiche funerarie alla lavorazione del formaggio suscita disgusto solo perché inconsciamente adottiamo la separazione di puro e impuro. La comprensione di qualsiasi attività umana è possibile solo se si adotta un unico modello, il quale tuttavia rimane sullo sfondo o è rimosso a causa della rottura epistemologica per eccellenza, l’opposizione tra razionale e irrazionale. Il meccanismo mimetico nella sua fase parossistica sposta il desiderio dall’oggetto al modello antagonista e da questo con la mimesi dell’antagonista si stabilisce una polarizzazione unanime contro una vittima casuale. Il meccanismo si rivela quindi unificante e strutturante, creatore di ordine e di differenze. Il rito deve cancellare tutte le differenze per rigenerarle. Ciò che accade nei rituali che prima destrutturano, poi ristrutturano la comunità, si ripete nella manipolazione dei cadaveri e nella lavorazione del formaggio.

Il meccanismo mimetico, che agisce universalmente, presenta il paradosso di non essere conosciuto, di non essere compreso nella sua natura profonda: «Per il fatto stesso di riconciliare la comunità, il meccanismo fa apparire la vittima — in realtà impotente e passiva — come la protagonista assoluta della metamorfosi mimetica, l’incarnazione di una potenza misteriosa di volta in volta malvagia e benevola, destrutturante e ristrutturante» (p. 121). I funerali sono un esempio di rielaborazione del processo rituale e sacrificale che presiede alla costituzione periodica della comunità. La decomposizione della comunità è parallela a quella del cadavere; entrambe hanno bisogno di un rito strutturante. «Il principio universale del disordine capace di produrre organizzazione governa sia il banale fenomeno della commozione collettiva durante i riti funerari o d’altro tipo, sia il fenomeno, in apparenza più insolito, delle manipolazioni destinate ad accelerare la putrefazione del cadavere» (pp. 122-123). L’etimo del termine perturbazione si rivela interessante perché si connette al dominio fondamentale del processo mimetico: «perturbazione» deriva infatti da turba, folla, e indica la perturbazione atmosferica così come l’agitazione delle folle. «Le manipolazioni dei cadaveri sono solo tecniche rituali che tentano di rinnovare la perturbazione fondamentale, vale a dire quella della comunità travolta dal parossismo, proiettandola su sostanze facilmente corruttibili come la carne dei cadaveri, i succhi di frutta, le farine, ecc.» (p. 123). Girard attribuisce al libro di Michel Serres su Lucrezio il merito di aver messo in luce il carattere rivelatore dell’etimo di perturbazione: «Nel modello lucreziano, la circolazione laminare degli atomi corrisponde esattamente all’indifferenziazione del gruppo sociale sottoposto all’effetto delle rivalità mimetiche. Per questo la circolazione laminare è associata alla peste, di cui conosciamo il ruolo svolto nelle rappresentazioni mitologiche della rivalità» (p. 124). Michel Serres spiega perché Lucrezio sbaglia nel contrapporre l’innocente attività scientifica alla violenza sacrificale della religione. Le tracce della vittima originaria sono ancora sepolte nel linguaggio della scienza e si possono ritrovare portando in superficie il significato antropologico della teoria atomistica. La perturbazione provoca la declinazione degli atomi; la stessa opposizione tra vuoto e atomi richiama la suddivisione dello spazio nel tempio e nella purgazione. «Atomo, scrive Serres, è l’ultimo o il primo tempio, e vuota è la prima o l’ultima purgazione. I due oggetti sono, a conti fatti, i concetti fisici di catarsi e di tempio (…) La natura è ancora un sostituto sacrificale» (p. 125). Nella natura è proiettato il sacro, cioè la violenza. Serres mostra così che la violenza non è solo nell’uso della scienza, ma è anche il tratto profondo della stessa scienza, la struttura nascosta della teoria.

Nel saggio «La bestia nera» di Régis Debray Girard recensisce polemicamente il volume Le feu sacré di Debray. Agli occhi di Debray Girard sarebbe un cristiano fanatico, un esemplare di una specie che dovrebbe essere estinta. Girard protesta che nel libro il suo pensiero è deformato per confermare la tesi dell’autore. Non avendo compreso l’originalità specifica della teoria mimetica di Girard, Debray lo accusa di ingratitudine nei confronti di Gabriel Tarde, il quale avrebbe anticipato la teoria dell’imitazione nelle sue Lois de l’imitation. Non avendo compreso nulla dell’opera di Girard, Debray si permette di ridicolizzare la teoria della domesticazione dell’autore di Delle cose nascoste. Debray non si rende conto, spiega Girard, che «per addomesticare una specie animale si è reso senz’altro indispensabile trattare una lunga catena di esemplari, generati gli uni dagli altri, come fossero stati esseri umani, e agire in questo modo di generazione in generazione, senza interruzione, non già saltuariamente e per capriccio» (p. 134). Questa lunga preparazione si giustifica solo in vista del sacrificio animale. I preliminari che tentavano di umanizzare le future vittime dovevano predisporre vittime umanizzate adatte al sacrificio. Un trattamento simile doveva essere riservato ai prigionieri di guerra destinati al sacrificio, trattenuti all’interno della comunità fino a trasformarli in suoi membri effettivi. Perciò l’umanizzazione delle specie domestiche non è un effetto conseguito per caso, ma è il frutto di un allevamento consapevole e mirato al sacrificio. La domesticazione di determinate specie è stata una conseguenza non voluta della pratica di preparazione al sacrificio. Un tratto positivo del libro di Debray, segnalato da Girard, è la sua estraneità al multiculturalismo terzomondista e politicamente corretto, la cui attività principale è la critica stereotipa dell’imperialismo: «Tutti i movimenti di sinistra minimizzano le violenze arcaiche per proteggere la «vanità culturale» delle società oggi svantaggiate, vanità che, in fin dei conti, non merita più rispetto di quella dei popoli privilegiati» (p. 137). Debray formula, senza saperlo, la teoria mimetica nella sua parte essenziale. Una comunità in crisi tende inconsapevolmente a selezionare l’individuo che può attirare maggiormente l’antipatia generale — spesso l’individuo con la pelle più scura oppure peloso. Debray usa l’espressione «bestia nera», che è sinonimo di «capro espiatorio». Il religioso nasce esattamente attorno a una vittima emissaria. Debray dunque elabora una sua teoria esplicita della vittima emissaria, ma con un vocabolario non girardiano.

Infine Girard deve rispondere all’obiezione che egli farebbe il doppio gioco, dal momento che si appella alla scienza e alla religione. Secondo Debray non si dovrebbe prendere sul serio una teoria che, come quella mimetica, giunge a conclusioni che rappresentano una formidabile apologia del cristianesimo. L’obiezione rivolta a Girard si regge sull’opposizione tra scienza e religione e ignora la loro comune origine. Ignora per di più che il processo vittimario e il disvelamento della verità dell’innocenza della vittima sono perfettamente rappresentati nei vangeli. La sequenza vittimaria descritta nei vangeli è solo in apparenza identica a quella che, nelle religioni pagane, si conclude con l’uccisione di una vittima. La differenza di fondo è che le religioni arcaiche sono del tutto prigioniere del meccanismo della vittima emissaria, mentre la Bibbia ebraica e i vangeli sono in grado di riflettere su questo meccanismo e di screditarlo. «Nei miti, i linciatori hanno sempre ragione e le vittime sempre torto. Nella Bibbia e nei vangeli, i linciatori hanno torto e la vittima ha ragione: questi testi rifiutano di accettare le folle inferocite e i volgari linciaggi» (p. 143). Nella narrazione dei linciatori il linciaggio è presentato come un atto di suprema giustizia. Ma quando si parla di capro espiatorio allora si comprende che l’espulsione vittimaria non è un atto di giustizia ma un crimine, una violenza ingiusta. Nella Bibbia la verità si fa strada lentamente e diventa luminosa nei vangeli. Nella scena della Crocifissione vediamo le due opposte prospettive, quella mitica e quella evangelica: «Da una parte la folla violenta che crede la vittima colpevole, la vecchia prospettiva mitica accettata dalla maggioranza; e dall’altra, terribilmente fragile ma sovrana, la prospettiva evangelica: un minuscolo gruppo di fedeli proclama l’innocenza di Gesù. Rivelando l’innocenza di Gesù, i Vangeli rivelano anche quella di tutte le vittime simili a lui, condannate da tutte le violenze unanimi, da tutti i linciaggi menzogneri accaduti sin dalla fondazione del mondo» (p. 145).

Il cristianesimo ha reso impossibile il raggiungimento dell’unanimità da parte del mimetismo collettivo; il meccanismo espiatorio non è più capace di riconciliare una comunità in preda alla disgregazione conflittuale. La menzogna dell’unico colpevole è definitivamente smascherata. Il meccanismo persecutorio dei miti arcaici è universale in virtù di tre elementi ricorrenti: 1) l’eroe mitico, prima di essere divinizzato, è accusato e si convince lui stesso di aver commesso un crimine per il quale merita di essere condannato a morte; 2) i crimini attribuiti alla vittima sono insieme fantastici e stereotipati e sono sempre gli stessi nei miti più diversi (parricidio, incesto, bestialità e così via), sono significativamente crimini di indifferenziazione; 3) eroi ed eroine del mito hanno sempre qualche difetto fisico, portano quindi segni di persecuzione — quei tratti che li predispongono ad attirare l’attenzione della folla fuori di sé che ha bisogno di dirigere su un solo colpevole l’opera di pulizia della sozzura diffusa. Segni di persecuzione possono essere l’eccessiva bellezza o bruttezza, il fatto di essere un profeta che annuncia la verità, ma «anche la bontà è un segno preferenziale di persecuzione».