Postmoderno fra frammentarietà e urgenza etica

1. Introduzione

Se dovessimo sinteticamente connotare il presente, a partire dalla riflessione filosofica sull’oggi, ossia dalla lettura che del presente offre la ragione postmoderna, troveremmo essenzialmente due caratteristiche distinte ma complementari:

  1. il presente è la stagione del frammento e della molteplicità dei punti di vista, della differenza, come principio fondamentale che guida l’agire nell’epoca della complessità e della tolleranza come categoria guida del vivere sociale nel rispetto delle diversità;1

  2. il presente è la stagione del dopo, del postmoderno, l’epoca che viene dopo, innanzitutto il moderno, ma anche dopo il nichilismo, oltre le ideologie e i miti che hanno caratterizzato a lungo il pensiero dell’Occidente, generando spesso totalitarismi e violenze.

Ma il presente appare anche l’epoca in cui grandi mutamenti in atto premono e pongono nuove domande, sempre più urgenti, a partire dall’etica, comprendendone il versante più intimo e privato (si pensi alla bioetica) e quello pubblico (si pensi alle tematiche economiche e sociali legate al fenomeno della globalizzazione), mentre scelte fondamentali si impongono in modo sempre più pressante.2 Oggi non ci sono più i blocchi di potere a spaventare per la mostruosità degli effetti previsti di un’eventuale guerra, ma l’imprevedibilità di ciò che può accadere dopo l’11 settembre ci pone nella condizione di chi non sa più che cosa ci si possa aspettare da un momento all’altro.3

Di fronte ad una modernità e ad una stagione nichilista che parevano avere estromesso la religione dallo sviluppo storico, dichiarandone la morte e l’estinzione progressiva, riemergono nel mondo presente conflitti epocali e di civiltà che si connotano in modo religioso. Il presente pone, ancora, domande fondamentali che riguardano la vita, la morte e la cura della sofferenza e i fatti epocali, accaduti di recente, aprono nuovi scenari in cui dietro l’angolo c’è il problema del convivere di civiltà diverse, perché non rinasca il rischio di un conflitto di religione.

A queste sfide una filosofia frammentata e disincantata stenta a trovare risposte, mentre riemerge nella solitudine delle coscienze il bisogno di essere riconosciuti, di essere chiamati per nome.

2. La frammentarietà del presente

La prima caratteristica, che pare accompagnare la percezione che la filosofia occidentale ha oggi del presente, è rinvenibile nella constatazione che ormai la frammentarietà fa a tal punto parte dell’oggi da essere divenuta qualcosa di costitutivo e insuperabile. Il pensiero di inizio millennio sembra, infatti, muoversi all’interno di un orizzonte unico in cui le categorie dominanti sono quelle di molteplicità, pluralità e differenza.

Guardando all’arcipelago di filosofie speciali, di stili e di modelli teorici, si ha l’impressione di avere a che fare con qualcosa «che ha perduto la consistenza di una trama compatta e unitaria».4 Si constata che la totalità moderna ha ceduto il posto al frammento postmoderno e che la divisione e la separazione sembrano regnare dove prima era ordine e unità: tutto è divenuto più fluido, discontinuo, interrotto.5 Concepire visioni globali e univoche sembra ormai impossibile e ancor più pare improponibile, a livello etico, riferirsi a valori incondizionati. In questo mondo a pezzi non pare più pensabile un linguaggio, o una teoria, capace di mettere insieme universi che non sembrano più riunibili. Bisogna invece riconoscere la pluralità, la caoticità del reale, l’incomunicabilità ontologica delle sue parti.

Il postmoderno significa, in questa accezione, tutto ciò che ha a che fare con l’eterogeneità, la diversità, la frammentazione, l’indeterminatezza, la sfiducia nei linguaggi universali. Si enfatizza, in un certo senso, la parte volatile, caduca, mobile, effimera, insita nella modernità, mentre quello che si è perduto è la parte di eterno, il nucleo fisso.6 Si disegna, in definitiva, una condizione d’incertezza, in cui la filosofia appare senza fondamenti metafisici, la scienza senza certezza, l’etica senza verità e la politica senza più giustificazione.7

2.1. La filosofia e il problema del fondamento

L’impossibilità di concepire visioni globali e univoche e la generalizzata dispersione e moltiplicazione dei discorsi si riconduce a quella che si definisce come crisi dei fondamenti o delle metanarrazioni.8 È accaduto, dopo Nietzsche, che il fondamento del pensiero è esploso in mille pezzi e direzioni, per cui oggi non abbiamo più una sola idea di filosofia, ma riscontriamo la moltiplicazioni dei modi di intendere e usare questa parola. Di conseguenza la frantumazione ha dato luogo ad una pluralità di linguaggi ormai difficilmente riconducibili ad unità.9 L’uomo postmetafisico si trova, perciò, a fare a meno delle categorie forti della metafisica: la nostra esperienza, piuttosto che con strutture eterne a-priori, si trova a fare i conti con la sua storicità, con la sua temporalità e con un’irrimediabile finitezza. E sono quella storicità, temporalità e finitezza che l’uomo esperisce negli orizzonti linguistici che definiscono la sua stessa esistenza.10

Le varie problematiche postmetafisiche confluiscono in un pensiero negativo, in un nichilismo estremo, che può essere ancora efficacemente riassumibile con le parole di Nietzsche: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al perché?».11 L’essere viene assunto heideggerianamente come evento, in quanto l’essere, identificandosi nichilisticamente con il tempo, differisce, sottraendosi da se stesso per dissolversi nel divenire, nel suo nulla. L’essere si dà nel tempo: l’essere è il tempo, non si dà come fondamento, come struttura stabile e in sé, ma come Ge-Stell, come differimento sempre oscillante e vacillante, precario ed evanescente, come evento nelle forme transitorie della caducità delle creature e del loro mondo storico.12 L’essere si dà come apparire nelle forme finite, caduche ed effimere del divenire, del nascere e morire. Nessuna struttura stabile ed eterna pare profilarsi all’orizzonte. L’essere e la vita sono declinati nichilisticamente. L’essere, perciò, si confonde con l’apparire e la vita si riduce ad un mobile gioco di apparenze: «Una tale concezione dell’essere, vivente-declinante (cioè mortale), è più adeguata, tra l’altro, a cogliere il significato dell’esperienza in un mondo che, come il nostro, non offre più (se mai l’ha offerto) il contrasto fra l’apparire e l’essere, ma solo il gioco delle apparenze…».13

La si è chiamata epoca delle immagini del mondo,14 e questo anche in riferimento al ruolo sempre più pervasivo che la comunicazione per immagini vi ha assunto. In questo scenario virtuale si realizza una sorta di derealizzazione, di perdita della realtà, nel senso che l’immagine tende a prendere il posto della realtà e l’essere si risolve pienamente nell’apparire. L’attrito esterno con la realtà scompare nel fascio di immagini che invade i nostri monitors. Si sta, in altri termini, perdendo la capacità di scorgere al di là della pletora d’informazione che riceviamo, volti e cose reali, messaggi e spunti per la riflessione personale. La differenza fra realtà e immagine sfuma a tal punto che colpire un bersaglio reale da un cavalcavia può essere confuso col colpire il bersaglio virtuale di un videogame. Nel mondo delle immagini virtuali il riscontro esterno con le cose reali tende a scomparire, ma scomparendo questo, tende a dissolversi anche il senso che oltre le nostre misure, oltre i nostri schemi, ci sia una realtà che ci misuri.15 Immagini e parole diventano informazione che galleggia in superficie, mentre in profondità la coscienza vive un profondo senso di solitudine.

All’interno di questo quadro di caducità estrema e di virtualità, non si dà costruzione assoluta delle cose, non si dà una verità. Di conseguenza la contestualità e la contingenza risultano principi orientativi, in cui si avverte come il legame della ragione postmoderna a orizzonti, tradizioni, e situazioni sia ormai ritenuto inaggirabile. «I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni»16 e non c’è nulla che si ponga al di là dell’orizzonte del detto, di ciò che è contestuale. Come ha scritto Derrida, «non c’è fuori testo».17 Ma se la verità è un’interpretazione, allora ci sono differenti verità, nessuna delle quali può pretendere di assolutizzare se stessa. Più in generale la verità appare rinchiusa all’interno dei diversi orizzonti linguistici che, a loro volta, non rimandano più ad un al di là del linguaggio, ma che risultano essere giochi del tutto risolti in se stessi, all’interno delle proprie regole e delle proprie logiche. Da questi orizzonti linguistici non si esce più, né per indicare un mondo che sta al di là delle parole, né per comunicare con l’altro, che a sua volta pare rinchiuso all’interno di un suo orizzonte linguistico, le cui regole e i cui significati non sono traducibili e comprensibili per noi. Accade così che nell’universo linguistico regni l’incomunicabilità. Il modello di questo sapere, secondo Eco, è significativamente il labirinto.18

È un pensiero debole, congetturale e contestuale, che deve rinunciare a stabilirsi su premesse salde ed indubitabili, su quelli che un tempo erano definiti i fondamenti del sapere. Se un sapere c’è, questo è senza fondamenti. E possiamo aggiungere senza verità. Se, infatti, per verità si intende che troviamo la verità sempre nel contesto di linguaggi e pregiudizi e prospettive, allora non si dà una verità nel senso della possibilità di un confronto esterno, in rapporto al mondo reale, o in rapporto ad altre raffigurazioni ed esperienze del mondo. «Nichilismo vero — ha scritto A. D’Agostini — è sapere che il mondo vero non esiste; nichilismo estremo è sapere che non esiste neppure mondo, e che perciò non c’è alcuna verità né falsità.»19 Questa condizione comporta, ormai, l’accettazione della perdita di senso dell’esistenza e la definitiva rinuncia al fondamento. Il pensiero rinuncia anzi anche a cercare e si alleggerisce in questa condizione di rinuncia. Come ha scritto G. Vattimo, «non vi è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba fondare».20

La possibilità di poter ricomporre la molteplicità dei linguaggi in un unico metalinguaggio complessivo, che possa avere ragione sinteticamente della pluralità contraddittoria della realtà, viene denunciata come illusione. Il pensiero resta debole e la crisi dell’ideologia pare segnare, per alcuni di questi interpreti postmoderni, un punto di non ritorno.21 La problematica del relativismo finisce per essere una sorta di premessa largamente condivisa. Da questo relativismo radicale sono investiti, dopo il fondamento, i vari saperi, a partire dalla filosofia, ma coinvolgendo anche il sapere scientifico-tecnico, e in un modo tutto particolare l’etica e la politica.

2.2. L’ambito scientifico

Un relativismo conoscitivo coinvolge, oggi a differenza di ieri, anche la cultura scientifico-tecnica, in cui la sfida della complessità mette in crisi il vecchio dogma dell’oggetto identico, della sua ripetibilità sperimentale e della sua uniformità. I fatti scientifici, i dati, l’esperienza, sono diventati dipendenti da teorie o paradigmi, schemi concettuali, modelli, linguaggi.22

Con il saggio «La struttura delle rivoluzioni scientifiche»,23 Kuhn (siamo all’inizio degli anni ’60) metteva in discussione la visione allora dominante in filosofia della scienza, individuabile nelle tesi empiristico-razionalistiche (Popper o Carnap), e dava l’avvio al dibattito sul relativismo nell’ambito della teoria della scienza e della conoscenza. Kuhn denunciava come insostenibili due aspetti di tali teorie:

  1. l’idea di un metodo unico (quello ipotetico-deduttivo) per l’analisi delle teorie, per valutarle, scartarle, confermarle;

  2. l’idea che la scienza è avalutativa, ossia la distinzione tra fatti e valori e la pretesa che la conoscenza scientifica sia mera descrizione di fatti, senza implicazione di valori, senza implicazione cioè di motivazioni diverse da quelle strettamente attinenti ai fatti.

Inoltre, nell’analizzare la storia delle scoperte scientifiche, concludeva che:

  1. ogni teoria è relativa a un certo paradigma (punto di vista, contesto, «visione del mondo»), e solo all’interno di quel paradigma vale, e non altrove: di conseguenza l’idea di un metodo unico, in base al quale produrre e valutare le teorie, è difficilmente sostenibile;

  2. i paradigmi e le teorie che vi appartengono non sono strutture neutrali, ma configurazioni alle quali concorrono motivi di tipo psicologico-sociale, ovvero configurazioni non tanto o soltanto logiche, ma anche storico-retoriche. Il passaggio da un paradigma a un altro avviene, perciò, non per una serie di ricostruibili passi razionali ma per un «salto fideistico», per una sorta di «conversione».24

Le teorie scientifiche sono, allora, «incommensurabili». Non è possibile, in altri termini, confrontare o commisurare le teorie tra di loro, e dunque sceglierle, in quanto non si dà una teoria delle teorie capace di fornire un criterio oggettivo di scelta. La molteplicità, anche in ambito scientifico, sembra non più riconducibile ad unità. Non si parla, infatti, più di un metodo unico, ma di procedimenti scientifici diversi, molteplici e sempre più incerti. Le teorie, poi, vengono giudicate come sempre più simili ad interpretazioni. Nello stesso tempo lo sviluppo di scienze come la microfisica sembra portare alla fine del canone tradizionale del fatto sperimentale e della sua visibilità, percepibilità ed esperibilità. Quando, infatti, si va nell’infinitamente piccolo della microfisica i canoni dell’oggettività dell’osservazione subiscono necessariamente una trasformazione. Ad esempio, l’illuminazione cui è sottoposta una particella osservata, la modifica nell’atto stesso di illuminarla per l’osservazione stessa, per cui non ne avremo mai un’osservazione oggettiva.25 Ma l’influenza dell’osservatore non è solo di questo genere.

Per Feyerabend l’analisi della storia della scienza dimostrerebbe qualcosa di ancor più sconvolgente: la ricerca scientifica sarebbe dominata da «miti e suggestioni emozionali». Feyerabend insinua qui un dubbio radicale circa le procedure cognitive della scienza, perché se in queste stesse procedure diventano fondamentali fattori di ordine irrazionale, viene meno la possibilità di un criterio di valutazione oggettiva di metodi e procedure. In definitiva non può darsi alcun metodo superiore ad un altro, con cui valutare i risultati della ricerca, perché tali metodi «sono soggetti alla stessa variabilità dei risultati che vengono giudicati».26

In conclusione, se le procedure cognitive della scienza non obbediscono ad alcun criterio riconoscibile come oggettivo, allora anche nell’ambito scientifico non ci sono più i fatti (né i metodi né le certezze), ma solo interpretazioni. Si verifica quella che si è definita ermeneuticizzazione della teoria della scienza e si alimenta una situazione d’incertezza più generale. Anche la scienza perde un po’ della forza che la ragione moderna le aveva assegnato e si scopre debole e incerta.

2.3. L’etica e la politica

L’incertezza coinvolge ancor più l’universo etico-politico che dovrebbe fare da sfondo alla difficile convivenza del presente. Anche qui al grande racconto (all’ideologia fondamentale) si sostituisce una pluralità di narrazioni, il cui senso e la cui logica non sono più garantiti da un’idea di fondo o da una verità in qualche modo esterna. Nella prospettiva postmoderna non c’è posto per le grandi narrazioni ideologiche dell’epoca metafisica, in quanto viene meno qualsiasi procedura di legittimazione per stabilire la loro verità. Si assiste, in particolare, all’eclissi di filosofie totalizzanti, come il marxismo, che pretendevano di offrire risposte a ogni domanda di senso a partire da una posizione dogmatica e ideologica, e si assiste al venir meno di ogni progetto di emancipazione delle masse nell’epoca della massificazione.

Sembra, anzi, largamente diffusa e condivisa la convinzione secondo cui la nostra è un epoca contraddistinta da una generalizzata caduta delle tensioni progettuali e ideali, non solo delle prospettive politico-ideologiche, ma anche etiche e religiose. In un certo senso pare oggi imprescindibile abbandonare qualsiasi idea universalistica come presupposto della nostra partecipazione e del nostro impegno in questo mondo. Ciò ha immediatamente riflessi sulla politica che, dovendo rinunciare a fondamenti ideologici, deve farsi sempre più leggera, mediatica e in un certo senso virtuale. È la politica che insegue gli indici di ascolto, che teme i sondaggi e che diventa sempre più videopolitica.27 L’immagine tende, anche qui, a sostituire la realtà, per cui si assiste ad una progressiva spettacolarizzazione della politica: la seduzione dell’immagine del candidato diviene preponderante sulla discussione dei contenuti.

La frammentarietà è percepibile socialmente nello sgretolarsi progressivo delle comunità di appartenenza, di carattere geografico, sociale, religioso, politico, un tempo punti di riferimento. Il partito, la chiesa, il paese, la cerchia di persone con le quali si condivideva la vita quotidiana, sono realtà comunitarie che si erodono ogni giorno di più di fronte all’urbanizzazione, alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, all’omologazione e, insieme, all’isolamento della vita metropolitana.28 La frammentarietà postmoderna, in ambito sociale, si connota come condizione di sradicamento dell’individuo, frammento che fatica ormai a trovare una collocazione sociale. Alla perdita della comunità fisica fa riscontro, infatti, la crisi della comunicazione e della solidarietà.

Contemporaneamente il mondo diviene sempre più piccolo e accade sempre più spesso che uomini provenienti da civiltà, religioni e culture diverse si trovino a convivere insieme e a condividere spazi culturali, professionali e di vita quotidiana. La convivenza di credenze e orientamenti diversi, che si traducono in norme e giudizi morali a volte profondamente contrastanti, determina una pluralità a prima vista insanabile di punti di vista morali, che danno luogo a conflitti profondi e spesso drammatici.

Ma la frammentarietà non è solo un dato spaziale e sociale, è anche percepibile in un senso temporale più intimo alle coscienze. L’epoca postmoderna pare incapace non solo di concepire valori ideali eterni, ma anche stabilità. L’epoca della dissoluzione della modernità coincide, infatti, con l’ingresso nell’età dell’esplosione della contingenza. Scrive Cacciari: «qualsiasi armonia possa prodursi, essa ha in sé il germe del proprio disfacimento e, insieme, la possibilità di nuove armonie…».29 Ognuno si ritrova solo di fronte a scelte difficili e complesse. Vive in un certo senso l’inferno di non essere riconosciuto e di non avere più legami saldi e affidabili. L’individuo è, anche lui, infondato, senza più basi sotto i piedi, alla ricerca di un appiglio. Il relativismo domina in campo morale e gnoseologico e anche nella semplice azione quotidiana. Comporta sempre depauperamento, perché allontana l’individuo dal concreto riferirsi alle cose nella loro realtà imprescindibile, creando immagini inconsistenti, modelli irreali e deresposabilizzanti di comportamento. In un certo senso le situazioni ci interpellano, provocano una nostra risposta consapevole e noi differiamo il confronto, lo rimandiamo o, peggio, lo eludiamo. La perdita della realtà comporta, a livello etico, una strutturale fragilità, che si manifesta nell’incapacità di affrontare le difficoltà delle situazioni, di assorbire i colpi delle inevitabili disillusioni.

Nell’epoca della frammentarietà, nell’illimitata pluralità delle autolegislazioni dei singoli, è destituito di senso tanto il proibire quanto il prescrivere. Al massimo si oppone a tutto questo un buonismo tollerante, che altro non è se non l’assunzione da parte del relativismo morale del principio della differenza e della tolleranza, ma con la perdita di ogni criterio di demarcazione e il conseguente sbriciolarsi di tutto in una pluralità contraddittoria. In altri termini tale atteggiamento morale sconfina nella deresponsabilizzazione, cioè nell’incapacità di assumere responsabilmente una posizione, di sostenere le proprie scelte morali, o forse più in generale di mantenere un’identità. Anche l’identità individuale risulta, infatti, frammentata, indefinita. Si tratta di astenerci dal contrarre impegni a lungo termine, di non giurare eterna fedeltà a nessuno e a nessuna causa, in un certo senso di avere un’identità adottatta al momento, come una veste che si può dismettere e non una pelle, che aderisca «troppo strettamente alla persona».30

Nell’epoca in cui la ragione sembra non dominare più il tutto e la frantumazione è sentimento dominante, la strategia vincente sembra essere quella di astenersi dal contrarre impegni a lungo termine e così dal professare una verità e una religione. Quando poi si dirige lo sguardo verso il cristianesimo, se ne considera quasi esclusivamente l’aspetto morale. La ricerca, la ragione non sembra aperta, in specie al trascendente e alla fede: l’una senza l’altra è impoverita e indebolita.31 Nell’interpretazione nichilista — si legge nella Fides et ratio — l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.32 A livello etico si afferma un nichilismo dolce, un «fai da te» relativistico, che «prende origine dalla metamorfosi del principio di autonomia»33 della modernità. Prende origine, dicevamo, ma ne è ormai un riflesso illanguidito.

3. L’oggi come postmodernità

La seconda caratteristica del presente ci pare individuabile nel suo autopercepirsi come epoca del post,34 e cioè del dopo, e, in un senso più negativo, del tramonto e della fine. Col termine postmodernità, che si è imposto negli anni ’80 soprattutto in Francia e in Italia, si è cercato in fondo di caratterizzare una «condizione» tipica dell’uomo contemporaneo. Oltre il termine postmodernità, si è cominciato ad usare tutta una serie definizioni accomunate dal prefisso post. Si è parlato, infatti, anche di società postindustriale e postcapitalistica, di ordine postborghese, di postcristianità.35

Più in generale, al compimento del nichilismo pare connettersi una filosofia del «dopo». Con postmoderno s’intende, allora, che siamo dopo la filosofia, dopo la virtù, dopo l’obiettività, dopo le ideologie, e che il nichilismo, il pensiero negativo, il decostruttivismo fanno da guida. Inoltre il postmodernismo si presenta come descrizione di un universo dove la fine del soggetto è un fatto compiuto, insieme alla fine della modernità e alla fine della filosofia. Allo stesso modo si è parlato di fine della storia e di declino dell’etica e dei valori, salvo poi a scoprire l’urgere di problemi etici nel campo, ad esempio, della bioetica.

In questa lettura del presente ci sembrano sintomatiche due cose. La prima è che nel connotarsi come un dopo il moderno troviamo le coordinate del postmoderno e, in un senso lato dell’oggi, e anche le relative ambiguità o contraddizioni. Il dopo può configurarsi sia come continuazione che come fine, e il postmoderno ci pare essere tutte e due le cose assieme. Più in generale il postmoderno manifesta, nella sua stessa definizione, di essere figlio della modernità. Alle spalle del postmoderno c’è, in altri termini, il moderno, di cui il postmoderno si dichiara continuatore distorcente, o se si preferisce declinante, ma verso cui necessariamente si volge per definire la propria identità e il proprio statuto. Il postmoderno viene dal moderno, di esso non può fare a meno, non solo come di un riferimento necessario, ma anche perché ne deriva profondamente, lo porta in sé molto più di quanto dichiari. Il postmoderno, in effetti, sembra differenziarsi dal moderno solo per esserne una propaggine estrema, che, seppure languidamente, ne conserva in sé il corredo genetico.

Certo vedremo che l’oggi prende abbondantemente coscienza dei limiti del moderno, dichiarandone la fine, ma nel farlo identifica il moderno con un aspetto, lo legge cioè secondo una prospettiva, che necessariamente appare parziale.36 Il moderno diventa, nell’interpretazione dei postmoderni, spesso sinonimo di ideologia, si connota come sogno emancipatorio fallito, ad esempio, con il crollo del muro di Berlino, che avrebbe segnato, per l’appunto, «il tramonto dell’ideologia«.37 Ma tutto questo non comporta la negazione o il rifiuto di convinzioni ancora più strutturali. Il postmoderno, infatti, è ancora sulla linea della modernità quando ne prosegue il cammino di allontanamento dall’essere delle cose e dal confronto concreto con il reale. La sostituzione di un’immagine pensata alla realtà corposa è tipica, ad esempio, dell’idealismo, ma è ancor più caratteristica dell’epoca dei media e delle navigazioni virtuali di Internet.

Il «dopo» che la filosofia contemporanea ha di mira (Nietzsche e Heidegger, ma anche Wittgenstein) è più simile allora ad uno «spostamento» (a una deviazione) che a un «superamento» (nel senso progressivo di Hegel). Ci si allontana così dalla dialettica hegeliana (e dall’idea di verità come movimento razionale e ascendente) e si prende congedo dai vincoli della filosofia della storia, cioè dall’idea che il corso storico sia già orientato in senso razionale e dunque anche necessario.

La seconda cosa che ci pare sintomatica è che si sia connotato l’oggi a partire da un’indicazione temporale piuttosto paradossale: l’oggi è un dopo! È sintomatico, perché in questo c’è un sentimento diffuso che sembra accompagnare il presente, un presente che pare vissuto più che come tempo che preannunzi qualcosa di nuovo, tempo aperto al futuro insomma e, quindi, alla speranza, come tempo che si pone dopo un altro, in un certo senso segnandone il tramonto o una propaggine estrema. Il postmoderno rivela in questo di essere l’oggi con i suoi ristretti ambiti, le sue angustie e le sue idiosincrasie. Ed è un oggi che sintomaticamente non trova connotazione migliore per sé che quella di definirsi un dopo, che è più simile ad un tramonto che ad un inizio. È la stagione del dopo, che connota questo suo essere dopo in un senso più negativamente finale, conclusivo, che emancipante o liberatorio. Dopo significa tramonto e fine: nessun progetto per il futuro, dunque, ma storia vecchia che si ottunde e distorce nelle continue rivisitazioni ermeneutiche.

Ha scritto F. Gogarten: «Il destino della nostra generazione è di trovarsi fra i tempi. Noi non siamo mai appartenuti al tempo che oggi volge alla fine. Forse apparterremo una volta al tempo che verrà? e anche ammesso che da parte nostra si sia in grado di appartenergli, esso verrà tanto presto? Così ci troviamo nel mezzo. In uno spazio vuoto… Noi ci troviamo fra i tempi».38 La vuotezza del presente è in questo sentimento di ambiguità che accompagna il postmoderno e in questo rapporto ambiguo che esso intrattiene con la modernità. Si denunciano i limiti della modernità, ma si è poi incapaci di dar inizio ad una stagione nuova. Si resta come sospesi fra i tempi, incapaci di prospettare una via d’uscita. Nel commentare il passo di Gogarten sopra riportato, B. Forte ha significativamente scritto: «Questa stagione sta appunto «fra i tempi», oltre la modernità ed oltre l’ideologia, e tuttavia tale da potersi solo indistintamente qualificare come «post-moderna», ancora ammaliata com’è dalla seduzione di interpretazioni totali, pur se nella forma negativa del nichilismo e della rinuncia».39

A questo sentimento di «posteriorità» del presente fanno da sfondo due tematiche:

  1. la prima è relativa alla crisi dell’idea di progresso e alla cosiddetta fine della storia,

  2. la seconda ha a che fare con il senso del tempo che si ha nella postmodernità.

3.1. La fine dell’idea di progresso e la fine della storia

Il postmoderno intende liberarsi dalla metafisica idealistica del tempo, che congiunge passato, presente e futuro mediante un’unica linea provvidenzialistica.40 I fili risultano invece molteplici: il presente è la matassa in cui siamo impigliati, ma anche il passato è fatto di innumerevoli fili, così come il futuro. Possiamo illuderci di rintracciare il capo e sublimare questa illusione con il nome di verità, dicendo che la verità è proprio il nostro essere presi nel groviglio, e cominciare a ragionare in modo disilluso tenendo ferma tale verità,41 ma resta che non c’è alcuna direzione nella condizione in cui nessuno è diretto da nessuna parte. Gli uomini sembrano muoversi come in un labirinto, in un intrico di vie da percorrere e l’esistenza consiste in questo movimento attraverso le maglie di una rete, di un reticolo di connessioni simili a quello che, con lo sviluppo della comunicazione elettronica, è poi diventato il web, la ragnatela di Internet.

«La storia contemporanea […] — ha scritto G. Vattimo — è, in termini più rigorosi, la storia di quell’epoca in cui tutto, mediante l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione, la televisione soprattutto, tende ad appiattirsi sul piano della contemporaneità e della simultaneità, producendo anche così una destoricizzazione dell’esperienza.»42 È storia nella mera dimensione temporale, un grappolo di eventi nel tempo che non costituiscono un percorso. Si pensi, ancor una volta, alla rete mediatica e a alla sua struttura che collega epoche diverse su un piano spaziale, di superficie, dove l’evento conta per l’immediata fruizione che offre al navigatore. I fatti, i personaggi del passato e del presente formano un aggregato di notizie senza spessore e senza connotazione storica, suscitanti curiosità più che interesse. La simultaneità dei processi comunicativi conferisce all’uomo tecnologico una sorta di ubiquità elettronica..43 Prevale la dimensione spaziale (la rete informatica) su quella temporale. «Ora è necessario dire che è precisamente quest’intero nuovo spazio globale originale, straordinariamente demoralizzante e deprimente, il «momento di verità» del postmoderno.»44 Il tempo storico viene ad assomigliare sempre più a una dimensione con caratteri strutturali vicini alla nozione di spazio e risulta come appiattito sui nostri video.

Gli storiografi, in effetti, hanno abbandonato l’idea di un unico tempo storico, lineare e progressivo, e hanno adottato una nozione plurale di tempo, come se esistesse una molteplicità di tempi diversi, corrispondenti alle diverse epoche e culture, che si intrecciano tra loro e si stratificano. Viene scompaginata la linearità, l’idea che il tempo sia una freccia che dal passato va verso il futuro passando attraverso il presente. Un eterno presente, intemporale e vacuo, quello dei rotocalchi e del pettegolezzo, sembra sostituirsi alla storia. Tramontano i grandi racconti che avevano per protagonisti i partiti, le masse, lo Spirito, e l’idea di progresso si trasforma in routine. L’attesa messianica di una trasformazione rivoluzionaria del mondo viene sostituita da un desiderio di novità inessenziale e superficiale.45 Osserva Marramao che il «venir meno delle grandi ideologie trasformazioniste (e del concetto enfatico di Storia a esse correlato) non dà luogo, per i postmoderni, a una istituzionalizzazione adattiva e fredda del processo innovativo, ma piuttosto a una nuova apertura del pensiero e delle pratiche alla dimensione del possibile e del contingente: a una disponibilità a contemplare la fluttuazione, la discontinuità e il coup innovativo dentro una sorta di antimodello del sistema stabile».46

Vivere nel mondo incerto della postmodernità vuol dire, allora, non sentirsi più confortati dalla legge del progresso, in quanto sembrano essere venuti meno le visioni della storia che l’avevano sostenuta. Venute mene, infatti, la prospettiva escatologico-religiosa e quella teologico-laica di matrice illuminista e storicista, il progresso si libera da ogni connotazione assiologica, sia positiva sia negativa, e viene concepito come semplice enfatizzazione del nuovo. Il pensiero postmoderno nega la provvidenzialità della storia, l’idea che la storia abbia una direzione, e cioè sia riconducibile ad una direzione unitaria, e rifiuta, di conseguenza, qualsiasi teologia-politica consolatoria.

Come ci sono differenti verità, così ci sono differenti storie. Ma se diverse e differenziate sono le storie allora non c’è propriamente una storia, e cioè una storia per cui possano ancora valere i canoni comuni, o tradizionali, di storia. Nella dissoluzione dell’idea di progresso si situa, allora, anche il senso dell’espressione, oggi di moda, «fine della storia». Se, infatti, «non c’è una storia unitaria, portante, e ci sono solo le diverse storie, i diversi livelli e modi di ricostruzione del passato nella coscienza e nell’immaginario collettivo, è difficile vedere fino a che punto la dissoluzione della storia come disseminazione delle «storie» non sia anche una vera e propria fine della storia come tale».47

Assumere l’espressione fine della storia48 significa, in definitiva, riconoscere l’improponibilità di un modello unitario d’interpretazione storiografica, che sarebbe necessariamente arbitrario nonché violento, perché configurato secondo la visione dei vincitori. Per l’uomo postmoderno, che predilige forme di esistenza sempre più evanescenti e transitorie, sempre meno stabili e definitive, assumere il monopolio della storia equivarrebbe ad assumere il monopolio della verità.49

3.2 Presente, passato e futuro nella coscienza postmoderna

La frammentarietà e il senso di posteriorità fanno sentire i loro riflessi non solo sulla storia grande (le epoche), ma anche sulla storia piccola, quella cioè che ha a che fare con la vita individuale di ciascuno, con la quotidianità, e con la percezione che ciascuno acquisisce della propria identità personale, attraverso le esperienze più o meno significative della propria vita. Nelle storie personali si riflette l’interruzione della continuità dei tempi, la crisi cioè dell’idea che il tempo della nostra esistenza sia orientato, abbia un senso in rapporto ad una missione da compiere, ad un progetto da portare avanti. Il presente disintegrato del tempo postmoderno, ormai frammentato e molteplice, è un presente che non ha più memoria storica del passato e non progetta più il futuro. È un presente che appare impossibilitato ad organizzare passato e futuro in un’esperienza coerente. Si verifica come un senso di schiacciamento sull’immediato, sulla moda, sulla novità fine a se stessa. È «un’attenzione nota per la sua incapacità di concentrarsi, di soffermarsi su un solo oggetto per un tempo superiore al fascino della novità…».50

Anche a livello politico, del resto, è proprio l’assunzione del presente come unico orizzonte storico, e dunque la scomparsa del futuro, che esclude politiche di emancipazione, di liberazione. «Il «venire dopo», sentimento dominante della vita postmoderna, attribuisce una speciale enfasi politica al presente (nonché al «passato del presente» e al «futuro del presente») che se non interviene una catastrofe nucleare, è la nostra eternità».51 Di conseguenza le categorie di tradizione e innovazione risultano inservibili, poiché l’esistenza si dilata a dismisura in un eterno presente, dove il tempo altro non è che «il passaggio dal presente al presente, dalla presenza alla presenza, dallo stesso allo stesso. Non è alienazione, né redenzione, ma transito».52 Ed è questo eterno presente che sembra aver sostituito la storia.

L’appiattimento sul presente, che si riscontra nelle coscienze sradicate e inquiete dell’oggi, è da mettersi in relazione proprio alla perdita della dimensione della memoria (passato) e della speranza, o se si preferisce del progetto orientato verso il futuro. Il futuro sembra ostacolo insormontabile per tale pensiero: il programmare, il progettare grandi mete, non si addice ad un pensiero debole. L’avvenire resta interrogativo senza tentativi di risposte per il pensiero debole timoroso di inoltrarsi nel forte.53 Al compimento del nichilismo pare connettersi, in conclusione, una filosofia del dopo, in cui è messo in questione innanzitutto il significato del futuro, non più considerato luogo utopico della realizzazione di qualcosa che sarebbe insito nella natura dell’uomo. Eticamente, perciò, il futuro non ha più la forma di una meta da raggiungere o di un criterio cui uniformare le condotte.

E la stessa importanza del passato cambia di segno: non si tratta di dimenticare il passato attraverso una specie di tabula rasa, ma di liberarsi da un’idea di passato come di un corso omogeneo e necessario che ci avrebbe sospinto fin qui e che, con lo stesso impeto ci porta necessariamente verso l’avvenire. La memoria «somiglia sempre più al nastro di una videocassetta, cancellato ogni volta che si vuole registrare un nuovo avvenimento: nastro reclamizzato dai produttori proprio per il fatto di poterlo cancellare e registrare all’infinito».54 Il passato diventa simile ad un terreno di saccheggio, ad un baule pieno di possibilità tutte ugualmente valide, in cui pescare pezzi, frammenti, spezzoni. Non si dà più un’immagine omogenea del passato, in quanto non si ha più a che fare con un intero, con un corpo di convinzioni coerenti.55

4. La domanda filosofica e il presente

Nella crisi della ragione moderna, l’uomo del dopo, l’uomo cioè della postmodernità, sembra avere perduto il privilegio della centralità. Al modello di ragione universale e forte della modernità si contrappone ormai una costellazione di razionalità parziali e di nuovi linguaggi che fanno irruzione nella vita sociale. Foucault l’ha chiamata «morte dell’uomo»,56 altri si sono limitati a parlare di fine della ragione o di fine del soggetto. L’uomo decentrato è cosciente ormai del non senso. In un mondo di immagini e di dissolvenze anche l’uomo, il soggetto, sembra travolto. È un soggetto debole, dalle ragioni deboli ed evanescenti. La novità della debolezza nasce «dalle condizioni attuali dell’uomo che nel suo disporsi storico continuamente deve rinunciare alla forza imperativa della ragione»,57 dalle sue sicurezze e delle sue incertezze. Deve fare da solo. Deve assumersi, in un certo senso, la responsabilità radicale di fronte a se stesso, sia in campo morale che in campo politico, senza più la rete di sicurezza di una dottrina. Deve portare una libertà molto pesante, perché non si lascia più irretire in un’idea già disponibile, in un ideale già presente e con il quale possiamo confrontarci.58

Ma la crisi non è contrassegnata soltanto dal negativo, dal disordine. Essa sembra indice anche di una tensione che mira a trovare nuovi equilibri, nuovi ordini. Il soggetto che si viene a trovare solo, di fronte a se stesso, se da una parte riconosce la propria condizione tragica, d’altra parte non si sofferma nella disperazione o nell’angoscia, ma ne considera le positive conseguenze in termini di libertà. Le molteplici contraddizioni non possono trovare una sintesi dialettica, rassicurante, ma reclamano una nuova trasformazione che pare offrirsi con il ricorso all’etica, alla nostra responsabilità verso gli altri, che significa anche tentativo di uscita da un paradigma egoistico di pensiero, tipico della modernità almeno fin da Cartesio. La debolezza significa anche rinuncia ai totalitarismi politici, religiosi e morali, e comporta la tolleranza come atteggiamento dominante e il rispetto delle differenze: non più, dunque, un’ideologia che tutto e tutti voglia omologare, ma l’accoglimento delle diversità e delle molteplicità.

La crisi delle generalizzazioni teoriche (e delle ideologie) spinge certamente nella direzione di una rivendicazione della concretezza dell’individuo e di un richiamo ai problemi concreti della vita, innanzitutto a quelli che concernono le scelte personali relative alla nascita, la morte, la sofferenza, la cura e le relazioni intersoggettive. Sembrano, anzi, queste le domande più urgenti che l’oggi pone. E sono domande che sembrano riproporre, nell’epoca della cosiddetta fine della filosofia, non solo l’attualità dell’etica, ma anche della filosofia in generale. «In questo trapasso epocale — ha scritto B. Forte — riemerge con forza la domanda sull’uomo: essa torna ad imporsi partendo dall’esperienza concreta dell’infinita sofferenza del mondo, nutrita dal desiderio incancellabile dei singoli protagonisti e di intere masse umane di dare senso e valore, qualità e dignità alla propria vita e alla storia comune.»59 Il problema della fondazione e giustificazione dei valori, o forse delle scelte morali, costituisce, in effetti, uno dei problemi essenziali del nostro tempo. È proprio sul piano etico, perciò, che si prospetta l’esigenza di un oltrepassamento della visione frammentaria della realtà e della razionalità. Il rispetto delle differenze da solo non basta, se significa meramente rinuncia a trovare una sintesi teorica.

L’inattualità della filosofia, infatti, come disciplina non elimina l’attualità e l’urgenza dei problemi tipicamente filosofici che si presentano in diversi settori della tecnica e della scienza, e nelle diverse pratiche sociali, come quella del magistrato o del medico o dello scienziato (etica giuridica, bioetiche, deontologie professionali): se forse la filosofia non risponde più alla richiesta umana di verità, deve e può ancora rispondere almeno problematicamente alla richiesta umana di eticità.60

L’oggi non è solo l’epoca della frammentarietà e della fine delle ideologie totalizzanti, ma è anche l’epoca in cui sempre più urgente e necessario appare il prendere decisioni, nella sfera pubblica come in quella privata avendo coscienza che le azioni e le scelte nostre, e così pure le nostre vite, sono in stretta relazione con le azioni, le scelte e le vite degli altri. Il mondo è così interdipendente che le nostre scelte, i nostri standard di vita, i nostri consumi, sono sempre più strettamente intrecciate con quelli degli altri. Ad esempio, non possiamo rimanere oggi moralmente indifferenti rispetto a quanto avviene nel Terzo e nel Quarto Mondo, anche perché questa indifferenza è sempre più percepita come una responsabilità diretta sulle sorti di quegli altri che vivono in mondi economicamente tanto diversi dal nostro, ma la cui economia è comunque condizionata dalla nostra. Insomma è colpevole non solo chi lo è direttamente, ma anche chi resta insensibile. Se inquiniamo il pianeta e ne sperperiamo le risorse dobbiamo sapere che stiamo facendo un danno non solo alla natura, ma anche agli altri, e con questo intendiamo anche a quegli altri che apparterranno alle generazioni future. L’interdipendenza che caratterizza il mondo moderno fa sì che molte azioni un tempo ritenute moralmente indifferenti siano oggi da ritenersi responsabilmente colpevoli. Perciò non si può lasciare agli automatismi spontanei, o al caso, gran parte delle scelte e delle azioni le cui conseguenze ricadono su tutti, concernendo, ad esempio, la manipolabilità delle fonti stesse della vita. Anche questo è un elemento che rende sempre più necessaria l’imposizione di regole, quanto più possibile capaci di cogliere esigenze diverse, cioè di farsi carico delle situazioni concrete, reali, sentite.

Indichiamo, a mo’ di esempio, senza la pretesa di essere esaustivi, due campi di indagine attualissimi dell’etica, quello relativo alle biotecnologie e quello relativo ai problemi legati alla cosiddetta globalizzazione.

  1. Le biotecnologie sono il nuovo campo che si è aperto alla ricerca scientifica e alla manipolazione tecnologica. «Se fino a poco tempo fa i problemi relativi alla malattia, alla sofferenza, alla vita e alla morte, agli interventi medici e chirurgici erano tali da poter essere affrontati e risolti dalla semplice deontologia professionale del medico e dal buon senso dei soggetti in causa, o dai loro parenti prossimi, oggi l’intero ambito dell’azione biologica e medica si è talmente ampliato da esigere un’approfondita riflessione che coinvolga soggetti di diverse competenze: medici, scienziati, filosofi, religiosi, sociologi, psicologi. Le nuove tecniche stanno mutando, in modo radicale e spesso sconvolgente, tutte le nozioni base, elaborate dal senso comune di generazioni e generazioni, relative alla vita, alla morte, alla nascita, alla sessualità, al corpo, all’identità della persona e al suo destino». Dietro tutto questo c’è non solo la sbalorditiva conquista di tecniche e conoscenze che sembravano fino a ieri impossibili, ma anche il rischio di inconcepibili paradossi o di banalizzazioni, magari di tipo consumistico, del senso stesso della vita, della morte, della nascita, delle relazioni fondative dell’identità stessa della persona, come la relazione madre/figlio. L’etica oggi è investita del compito delicato di chiarire, in base a una riflessione seria e razionale, quali sono i confini del lecito, che non coincidono necessariamente con quelli del possibile.61 Sono domande forti in un’epoca di debolezza che reclamano risposte significative. I nuovi problemi della bioetica, le nuove questioni morali legate alla nascita, la cura e la morte pongono, in un’epoca in cui la domanda sul fondamento sembrerebbe tramontata, domande fondamentali sulla vita, sulla persona, sulle relazioni fondanti la persona.

  2. Nell’epoca in cui la frammentarietà sembra essere imprescindibile, il mondo diventa sempre più unito e interdipendente. Certo, questo non esclude la diversità e la molteplicità, ma resta che le interconnessioni, gli intrecci e le relazioni all’interno del mondo attuale si fanno sempre più fitti. E questo per forza di cose, perché questa casa di una moltitudine crescente di uomini, è il luogo in cui si devono sapere gestire razionalmente spazi e risorse, che sono limitati e non riproducibili. Si profilano all’orizzonte nuovi problemi che travalicano i confini tradizionali degli stati per coinvolgere, direttamente o indirettamente, tutti gli abitanti del pianeta. S’impone, perciò, una riflessione che riesamini concetti come quello di cittadinanza e di sovranità. «Il primo dev’essere riformulato in modo da tener conto della dimensione planetaria di alcuni problemi: economici, tecnologici, ambientali, ma anche di diritti umani e di loro tutela, di pace e guerra ecc.; il secondo dev’essere pensato in modo da subire limitazioni, che sarebbero incompatibili o addirittura contraddittorie rispetto alla concezione classica dello stato». I processi di globalizzazione, infatti, stanno ormai realizzando un mercato mondiale dell’economia. Ma il fenomeno della globalizzazione sembra portare con sé anche pericoli e squilibri che derivano dall’azione spontanea, non guidata, dei meccanismi economici. «Oggi sembra che la globalizzazione accentui questi fenomeni e questi pericoli, approfondendo la forbice tra ricchezza e povertà che divide il mondo, tra paesi che dispongono del superfluo e paesi che combattono quotidianamente con la fame e la malattia endemica. Ma anche problemi relativi all’adozione di tecnologie che possono arrecare danno all’ambiente, o ai rapporti con le minoranze religiose, etniche, linguistiche, o problemi di diritti, di guerre ecc. si pongono oggi su scala planetaria.»62

Di fronte a queste trasformazioni in atto la scienza, che pure le ha provocate, dice di sé: «mi limito a fare scienza», ma che si debba fare scienza è qualcosa che non risulta dai dati di fatto, ma da una decisione della coscienza. Insomma che la scienza sia da fare o da non fare non lo può dire la scienza, ma l’uomo, e non l’uomo-oggetto con cui la scienza ha a che fare, ma l’uomo soggetto che deve assumersi il rischio della decisione in vista del fare.63 La razionalità pratica, in cui il richiamo della responsabilità personale nella scelta è prioritario, si sforza di offrire, relativamente agli interrogativi legati alle tematiche bioetiche e della globalizzazione, risposte che tengano conto del ruolo del soggetto morale nelle decisioni da prendere. Il nostro mondo, infatti, è un mondo piatto ed impersonale dove la cupidigia del possedere ha trovato nell’organizzazione tecnico-funzionale lo strumento adeguato per sfuggire all’inquietudine della coscienza ed eludere l’autenticità di una vita radicata nel mistero ontologico: «Avevamo pensato che l’uomo potesse semplicemente possedere la potenza ed usarne con piena sicurezza. Attraverso non si sa quale logica delle cose, le quali si sarebbero comportate, nel regno della libertà, in modo altrettanto sicuro che nel regno della natura. Ma non è così».64

La razionalità pratica riemerge allora come ragione altra rispetto alla razionalità scientifico-tecnica, in quanto richiama costantemente la concretezza e si pone sempre in relazione alle situazioni e ai contesti culturali, religiosi e sociali. Facendo questo, l’etica si rende interprete di un’esigenza sentita del presente e si rivela come rilevante non solo in quanto filosofia applicata, ma anche relativamente alla definizione generale che oggi si dà di filosofia.65 L’ambito etico è diventato come il terreno privilegiato della prassi filosofica, perché se prima la filosofia si poteva giustificare in quanto si occupava di realtà superiori ed eterne, o in quanto aveva il monopolio dei criteri del pensiero razionale e corretto, oggi deve guadagnarsi la fiducia mostrando di saper suggerire effettivamente chiarificazioni concettuali e argomentazioni adeguate, specie sulle questioni morali che interessano nascita, cura e morte.66

Nel villaggio globale il confronto con giudizi etici radicalmente diversi dai nostri richiede da parte di tutti un esercizio difficile di tolleranza. Ma «il regime democratico di per sé non produce (né tanto meno assicura) la trasformazione della tolleranza in solidarietà, ossia il considerare le sofferenze e le sfortune degli altri come oggetto della nostra responsabilità, e il mitigare o abolire tali sofferenze come un nostro compito».67 Il rispetto delle differenze e delle diversità si deve trasformare in qualcosa di più, in qualcosa di coraggioso e di accogliente, nella solidarietà. Nella postmodernità la pluralità dei linguaggi e dei paradigmi è vista come premessa di una nuova forma di riflessione morale che ponga al proprio centro le nozioni di rispetto, differenza, cura dell’altro, piuttosto che l’egualitarismo dell’universalità etica tradizionale. Ma la pluralità dei linguaggi e dei paradigmi significa anche pluralità di verità, e, quindi, caduta del senso positivo della verità. L’etica postmoderna è, anzi, per sua natura senza verità. Ma la solidarietà, che è una forma di carità, «si compiace della verità» (1 Cor 13, 4), da cui trova le risorse per osare sfidare l’indifferenza e l’egoismo.

Le nuove tematiche etiche denunciano i limiti di una morale costruita su una ragione autosufficiente e totalitaria, ferma e forte, ma incapace di vedere delle differenze e di riconoscere le ragioni degli altri. Denunciano anche i limiti di una ragione tecnico-funzionale basata sulla priorità dell’oggetto e del dato di fatto, ma incapace di riconoscere le singolarità delle coscienze e la dimensione prioritaria che in esse riveste la capacità di essere soggetto delle proprie scelte responsabilmente. Ma la solidarietà richiede una marcia in più, richiede di acquisire in positivo che è immorale costruire una morale solo su stessi, a misura di sé e delle proprie esigenze. Richiede di pensare l’antropologia come necessariamente implicante la relazione con gli altri, al punto tale che senza questa relazione la nostra stessa identità verrebbe annullata. Non solo dobbiamo rispettare gli altri e la loro differenza, ma non possiamo vivere senza gli altri.

Forse, di fronte alla crisi dei fondamenti, la realizzazione della propria essenza sarà affidata, non alle certezze ormai malferme della scienza, ma al rischio della fede.


  1. «La differenza è una delle parole d’ordine della cultura postmoderna, soprattutto in campo filosofico e politico. Se esiti del moderno sono l’omologazione dell’esperienza, la comprensione unitaria della realtà in base a un principio fondativo, e, in ambito politico, l’idea di uguaglianza, il postmoderno insiste invece sulla diversificazione, sulla molteplicità, facendone i baluardi contro i rischi della pianificazione e dell’omologazione sociale.» G. Chiurazzi, Il postmoderno, prima ed., Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 12. ↩︎

  2. Si veda E: Lecaldano, La riflessione sulla morale tra bioetica ed etica teorica, in La filosofia italiana in discussione, a cura di F.P. Firrao; prima ed., Bruno Mondatori, Milano 2001, p. 164. ↩︎

  3. Vedi Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, prima ed., Bruno Mondatori, Milano 2002, p. 27. ↩︎

  4. P.A. Rovatti, Introduzione alla filosofia contemporanea, prima ed, Bompiani, Milano 1996, p. 5. ↩︎

  5. Si vedano F. D’Agostini, Analitici e continentali, prima ed., Raffaello Cortina Editore, Milano 1997. ↩︎

  6. Si veda M. Nacci, Postmoderno, in La Filosofia, a cura di P. Rossi, prima ed., Utet, Torino 1995, p. 365. ↩︎

  7. M. Pera, Il mondo incerto, Prima ed., Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 81-83. ↩︎

  8. J.F. Lyotard l’ha definita anche come fine delle metanarrazioni, cioè dei discorsi che giustificano e fondano le varie scienze: «Semplificando al massimo, possiamo considerare «postmoderna» l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni». La condizione postmoderna, 13a ed., Feltrinelli, Milano 1981, p. 5. ↩︎

  9. P.A. Rovatti, Introduzione etc., cit. alla nota 4, pp. 3-10. ↩︎

  10. G. Cantarano, Immagini del nulla, prima ed., Bruno Mondatori, Milano 1998, pp. 195-196. ↩︎

  11. F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, 2a ed., Adelphi, Milano 1964, VIII, II, 12. ↩︎

  12. G. Vattimo, Le avventure della differenza, prima ed, Garzanti, Milano 1980, p. 91. ↩︎

  13. G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, prima ed., Feltrinelli, Milano 1981, p. 19. ↩︎

  14. M. Heidegger, L’epoca delle immagini del mondo, in Sentieri interrotti, prima ed., La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 86-87. ↩︎

  15. Vedi V. Possenti; Filosofia e Rivelazione, prima ed., Città Nuova, Roma 2000, pp. 112-122. ↩︎

  16. F. Nietzsche, Opere, cit. alla nota 11, VIII, 1, p. 299. ↩︎

  17. J: Derrida, Della Grammatologia, prima ed., Jaca Book, Milano 1989, p. 182. ↩︎

  18. U. Eco, L’Antiporfirio, in Il pensiero debole, prima ed., Feltrinelli, Milano 1983, p. 79. ↩︎

  19. A. D’Agostini, Disavventure della verità, prima ed., Einaudi, Torino 2002, p. 164. ↩︎

  20. G. Vattimo, La fine della modernità, prima ed, Garzanti, Milano 1985, p. 175. ↩︎

  21. Vedi il volume in collaborazione Il pensiero debole, cit. alla nota 18, nonché M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, prima ed., Marsilio, Venezia 1978 e G. Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1979. ↩︎

  22. M. Pera, cit. alla nota 7, p. 64. ↩︎

  23. Per l’edizione italiana, vedi T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 3a ed., Einaudi, Torino, 1995. ↩︎

  24. F. D’Agostini, Analitici etc., cit. alla nota 19, pp. 174-175. ↩︎

  25. «Nella microfisica, dove la scienza è possibile solo grazie alla perfezione degli strumenti messi a disposizione dalla tecnica, l’oggettiva posizione della particella subatomica è indeterminabile, in quanto le condizioni tecniche dell’osservabilità alterano lo star-di-contro, e quindi l’oggettività dell’osservato. La domanda: che cos’è la natura si converte nella domanda: che cos’è la conoscenza. L’oggettività non riesce a costituirsi o, se è concettualmente precostituita, si dissolve, perché il livello d’esperienza è anteriore al differenziarsi di soggetto e oggetto. Se, come dice il principio di indeterminazione di Heisenberg, per «vedere» una particella subatomica occorre illuminarla, e l’illuminazione, cozzando contro la particella, la devia, ciò che si «vede» non è la posizione della particella, ma la collisione che ne deriva e che non consente di stabilire la posizione della particella prima della collisione del raggio luminoso richiesto per osservarla. In questo modo, la posizione della particella è un inosservabile, perché osservabile è la collisione della particella con le condizioni dell’osservabilità.» U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, prima ed., Marietti, Torino 1975, p. 135. ↩︎

  26. P. Feyerabend, Contro il metodo, prima ed., Feltrinelli, Milano 1979, pp. 90-91. ↩︎

  27. Vedi G. Sartori, Videopolitica, in «Rivista italiana di scienza politica», n. 19, 1989. ↩︎

  28. M. Moneti, L’etica nel dibattito contemporaneo, in La filosofia italiana in discussione, cit. alla nota 2, pp. 137-138. ↩︎

  29. M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, prima ed. Adelphi, Milano 1994, p. 143. ↩︎

  30. Ibidem, p. 98. ↩︎

  31. Vedi Fides et ratio, Prima ed. Paoline, Milano 1998, n. 48, pp. 73-74. ↩︎

  32. Ivi n. 90, p. . ↩︎

  33. V. Possenti, cit. alla nota 15, p. 82. ↩︎

  34. Sulla questione del post si vedano: T. Maldonado, Il futuro della modernità, prima ed. Feltrinelli, Milano 1987, pp. 15-20 e M. Nacci, Postmoderno, in La Filosofia a cura di P. Rossi, prima ed. Utet, Torino 1995, vol. IV, pp. 361-363. Lo stesso termine post-moderno si rivela carico di significati diversi: cf. ad esempio J.-F. Lyotard, La condizione post-moderna, cit. alla nota 8, G. Vattimo, La fine della modernità., cit. . alla nota 20. Il termine è qui usato in riferimento a tutto ciò che segue al superamento dialettico deliro presunzioni totalizzanti della ragione moderna. ↩︎

  35. L. Sichirollo; La fine di tutte le cose, in «Belfagor», IL, fasc. III, 31-5-1994, pp. 353-370. ↩︎

  36. Per Paolo Rossi, gli ermeneutici tendono a vedere il postmoderno come la negazione del moderno e si sentono spesso soddisfatti pronunciando asserzioni definite solo per negazione: I teorici del superamento «estetico» del moderno analizzano un’immagine che non corrisponde alla effettiva. Rorty, Lyotard e Vattimo, in realtà non avrebbero letto i moderni: «I postmoderni pensano che la modernità sia caratterizzabile come l’età dell’autolegittimazione del sapere scientifico e della piena e totale coincidenza tra verità e autoemancipazione. Pensano anche al moderno come all’età del tempo lineare caratterizzata dal «superamento». Pensano anche che il moderno sia l’età di una ragione forte dominata dall’idea di uno sviluppo storico del pensiero come incessante e progressiva illuminazione. Pensando queste cose hanno pensato male. Hanno affermato cose banali che, avendo l’aria di essere epocali, appaiono profonde ai poveri di spirito. Non hanno letto i moderni, ma i manuali che parlano di essi.» P. Rossi, De progressu rerum et visa, in «Iride», VII, 12, maggio-agosto 1994, pp. 353-70. Ma asserire la fine delle grandi narrazioni e prospettare un altro racconto che narri la fine del racconto di cui s’intende mostrare il fallimento appare comunque contraddittorio. ↩︎

  37. Un quadro della condizione spirituale, dopo il crollo del comunismo, l’ha tracciato Claude Lévi-Strauss in un’intervista a Repubblica: «L’odierna difficoltà del mondo occidentale, e pertanto di gran parte del pianeta (visto che la sua ideologia si è imposta quasi ovunque) rimanda allo sprofondamento nell’ultima guerra dei valori spirituali sui quali si fondava: democrazia e laicità. Per non parlare poi del crollo dei paesi dell’Est, che pretendevano di essere gli unici veri eredi di quella tradizione, quelli che si erano spinti più avanti e che vedevano più lontano». Siamo stati posti d’improvviso di fronte alla «suprema contraddizione», che nel corso della lotta per la sopravvivenza ci eravamo sforzati di eludere: «incapaci di dare un senso all’universo ed all’uomo, dobbiamo fare come se l’umanità e il mondo esterno un senso ce lo avessero». «Ma allora è un’illusione?» chiede l’intervistatore: «Sì, ma indispensabile, e senza la quale si arriverebbe presto al suicidio o alla scelta dell’eremitaggio. È il compito più difficile di tutti, ma dobbiamo imparare a convivere con questa contraddizione. Sapendo che è insormontabile». «E lei crede davvero che la cosa sia possibile, non dico per l’uomo di pensiero, ma per la gente comune?», insiste l’intervistatore: «Probabilmente no. Ed è questa la ragione prima della rinascita religiosa». (L’intervista di Franco Marcoaldi dal titolo Dio e l’uomo della strada, 1992). ↩︎

  38. F. Gogarten, Fra i tempi, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, pp. 502-508. ↩︎

  39. B. Forte, L’Eternità nel tempo, prima ed. Paoline, Cinisello Balsamo [Milano], 1991, pp. 7-8. ↩︎

  40. Già nell’800 a Hegel, che aveva costruito un concetto di razionalità della storia come un percorso ineluttabile che comunque spinge l’umanità (dialetticamente) verso la realizzazione del regno della libertà, Nietzsche aveva contrapposto l’intuizione dell’eterno ritorno la storia è una ruota che gira e il tempo non è una freccia dotata di direzione, come ci illudiamo che sia, bensì un circolo in cui tutto torna e si ripete. Si veda Lowith, Da Hegel a Nietzsche, Torino 1959. ↩︎

  41. P.A. Rovatti, Introduzione, cit. alla nota 4, p. 69. ↩︎

  42. G. Vattimo, La fine della modernità, cit. alla nota 20, p. 18. ↩︎

  43. Vedi G. Vattimo, La società trasparente, prima ed. Garzanti, Milano 1989, p. 11. ↩︎

  44. F. Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, prima ed. Garzanti, Milano 1989, p. 92. ↩︎

  45. Vedi G. Vattimo, La fine della modernità, cit. alla nota 20, p. 110. ↩︎

  46. G. Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, prima ed. Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 156-157. ↩︎

  47. G. Vattimo, La fine della modernità, cit. alla nota 20, p. 17. ↩︎

  48. Vedi F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, prima ed. Rizzoli, Milano 1992. Per Fukuyama si ha fine della storia perché la scienza e la tecnica moderna hanno reso omogenee molte società, dove il capitalismo è l’assetto economico prevalente e la democrazia il regime politico meglio compatibile con questo assetto, e perché le democrazie liberali si sono estese negli ultimi anni. ↩︎

  49. L’assunzione di un modello storiografico unico deriverebbe anche dal fatto che la filosofia della storia prevalente in una data epoca si sarebbe sempre configurata come la visione dominante dei vincitori: «Ma i padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento». W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Saggi e frammenti, p. 78. ↩︎

  50. Z. Bauman, cit., p. 72. ↩︎

  51. A. Heller, F. Fehér, La condizione politica postmoderna, prima ed. Marietti, Genova 1992, p. 9. ↩︎

  52. M. Perniola, Transiti. Come si va dallo stesso allo stesso, prima ed. Cappelli, Bologna 1985, p. 8. ↩︎

  53. Vedi P. Orlando, Filosofia dell’essere finito, prima ed. Luciano Editore, Napoli 1995, p. 26. ↩︎

  54. Z. Bauman, cit. alla nota 3, p. 30. ↩︎

  55. Vedi M. Nacci, cit. alla nota 6, p. 362. ↩︎

  56. Si faccia riferimento in particolare a: M. Foucault, Le parole e le cose, Milano 1966, e Storia della follia nell’età classica, Milano 1976. ↩︎

  57. P. Orlando, cit. alla nota 53, p. 26. ↩︎

  58. P.A. Rovatti, Introduzione., cit. alla nota 4, pp. 68-69. ↩︎

  59. B. Forte, L’Eternità nel tempo, cit. alla nota 39, p. 8. . ↩︎

  60. Vedi A. D’Agostini, Analitici, cit. alla nota 19, pp. 187-89. ↩︎

  61. Vedi M. Moneti, cit. alla nota 28, pp. 140-41. ↩︎

  62. Ivi, pp. 138-141. ↩︎

  63. Vedi U. Galimberti, cit. alla nota 25, pp. 154-55. ↩︎

  64. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, prima ed. Morcelliana, Brescia 1954, pp. 86-88. ↩︎

  65. Vedi: F. D’Agostini, Analitici, cit. alla nota 19, pp. 10-11. Questa riabilitazione in sede etica è solo una versione contestualizzata di un più generale movimento di riabilitazione della filosofia (i moderni) con la riapertura di vie come la metafisica, l’ontologia, il soggetto, il realismo. ↩︎

  66. E. Lecaldano, cit. alla nota 2, p. 162. ↩︎

  67. Z. Bauman, cit. alla nota 3, p. 67. ↩︎