La critica di Scheler all’etica formale kantiana

1. I presupposti teoretici dell’etica materiale dei valori

Il lavoro fondamentale che Scheler dedica al problema etico è Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, uscito in due tempi (1913-1916) sullo Jahrbuch für Philosophie und phaenomenologische Forschung diretto da Edmund Husserl. In quest’opera Scheler mette in atto un sistematico sradicamento degli assunti di fondo del formalismo etico kantiano, il quale è basato sul misconoscimento dell’essenza apriorica delle idealità assiologiche poiché impossibilitate, per principio, a sottostare agli schemi sintetici dell’intelletto. La pars destruens dell’opera è, dunque, caratterizzata da una costante critica all’etica formale di Kant, volta ad assolutizzare l’uso della ragione nell’ambito dell’emozionale.1

L’ostacolo precipuo che Kant ha inteso evitare con la formulazione di un’etica formale, ossia il relativismo, lo ha indotto ad ammettere «oltre che l’esistenza di fini legati alla sensibilità (e quindi empirici o «patologici»), il darsi di un fine assegnato dalla sola ragione, quale fondamento oggettivo della sua autodeterminazione».2 La ragione diviene, con ciò, la facoltà spirituale suprema, preposta a qualunque tipo di discernimento: logico-teoretico e pratico-volitivo.3 In ambito etico è la pura legge della ragione pratica che deve guidare il comportamento dell’uomo, ponendolo nella condizione di potersi svincolare dalla tentazione di dar seguito ad azioni moralmente corrotte dalle erronee convinzioni tratte dall’esperienza (che per Kant è sempre e solo empirico-induttiva).

L’errore gnoseologico, riscontrato da Scheler, alla base del formalismo rigoristico e del conseguente intellettualismo kantiani è quello di aver considerato la volontà quale suprema facoltà legislatrice in ambito etico. Tale presupposto dogmatico avrebbe impedito a Kant di cogliere l’originarietà della vita emotiva e lo avrebbe persuaso a confinare ogni vissuto emozionalmente connotato nel regno delle datità esperibili sensorialmente. Gli assunti kantiani che Scheler deve conseguentemente scalzare al fine di poter legittimamente fondare un’etica materiale dei valori sono dunque: il pregiudizio sensualistico che risolve ogni etica materiale nell’edonismo, riducendo ogni recezione di essenze assiologiche agli stati d’animo di piacere o di dispiacere sensoriale derivanti dall’incontro coi «beni» (Güter); il pregiudizio intellettualistico che, sussumendo dogmaticamente ogni apriori al concetto di formale, non permette di riconoscere il ruolo egemone che i valori hanno nella retta costituzione dell’etica.

Partiamo dalla confutazione di quest’ultimo postulato kantiano.

La riduzione operata da Kant dell’apriori col pensato deriva da un erroneo modo di considerare come vengano colte le quiddità nell’atteggiamento intenzionale. Il bersaglio polemico di Scheler è qui ogni concezione trascendentale della coscienza che sfoci indebitamente nell’intellettualismo idealistico, ossia nell’identificazione del «concetto di fenomeno con quello di psichico».4 La critica all’etica trascendentale così intesa è indirizzata non solo a Immanuel Kant, ma anche a Edmund Husserl. Il risvolto idealistico che Husserl avrebbe difatti impresso al metodo fenomenologico lo ha, secondo Scheler, indebitamente portato ad identificare l’esperienza fenomenologica con la percezione interna, «quasi che il dato immediato potesse presentarsi solo in quest’ultimo tipo di attività conoscitiva».5 Così facendo, l’intellettualismo idealistico husserliano si è ritrovato impossibilitato ad allargare l’orizzonte esperienziale della Gesinnung (intenzionalità), poiché ha ancorato ogni noema alla noesi di natura teoretica. Le essenze assiologiche, essendo alogiche, non intenzionabili, vengono così scacciate dal recinto della sua filosofia.6

Scheler, dal canto suo, sostiene invece che la persona possiede, oltre che atti di natura intellettuale, un corredo genetico di atti e funzioni di natura emozionale preposto al coglimento di tali essenze. La regione ontologica dell’emozionale porta in questo modo Scheler a reclamare un’integrazione (e per certi versi, un superamento) dell’accezione husserliana d’intenzionalità, e lo persuade del fatto che la fenomenologia debba applicare le sue indagini ad una sfera di essenze non riducibili all’ambito di applicazione dei principi logici. Il passo fondamentale che Scheler compie per giungere a formulare tali tesi è la riduzione catartica, vale a dire la messa fuori gioco dell’ego e della sensibilità:7 il retto coglimento emozionale dei valori non è opera di un ego, bensì della persona che è stata in grado di trascendere estaticamente la propria chiusura egocentrica;8 inoltre la percezione emozionale non è necessariamente legata all’intenzionalità: «Scheler afferma che la percezione-di-valore non solo precede e fonda gli atti del rappresentare e giudicare, ma la sfera intenzionale nel suo complesso […]. La percezione di valore è presente in organismi che sono privi di qualsiasi atto intenzionale: gli organismi vegetali ad es. sono capaci d’orientare le foglie verso un valore biologicamente positivo come la luce del sole».9

Diretto ispiratore di questo nuovo, nonché rivoluzionario, approccio scheleriano alla fenomenologia è Blaise Pascal. Sull’onda della speculazione pascaliana Scheler reputa che il cuore abbia ragioni proprie che la ragione non comprende, ossia «fondamenti propri»10 irriducibili al pensiero e alla sensibilità. Un’etica materiale, essendo basata sui contenuti di recezioni emozionali, è allora la sola a poter debitamente cogliere i fenomeni della vita emotiva; questa è infatti sottoposta alla logique du cœur o ordre du cœur, ossia a «leggi del sentire, dell’amare e dell’odiare»,11 assolutamente irriducibili alle leggi del pensiero puro; i valori infatti sono essenze apriorico-materiali del tutto «inaccessibili all’intelletto come lo è il colore per l’orecchio e l’udito»,12 e vengono colti grazie al «sentire di qualcosa»13 (Fühlen), ossia alla «conoscenza affettivo-emozionale»14 di natura pre-e-a-logica. Ecco perché Scheler non può non rilevare nel formalismo etico kantiano un errore gnoseologico di fondo: l’apriori assiologico non può dirsi derivato da un’attività formatrice dell’intelletto.

Per Kant la forma del fenomeno è «ciò […] per cui il molteplice del fenomeno possa essere ordinato in determinati rapporti»15 dall’attività del nostro intelletto, mediante gli atti del paragonare, ricevere o separare, ed «elaborare […] la materia greggia delle impressioni sensibili».16 I fenomeni, dunque, altro non sarebbero che gli «oggetti che colpiscono i nostri sensi»17 e che, «per un verso, danno origine da sé a rappresentazioni, per un altro, muovono l’attività»18 formatrice dell’intelletto, «la forma del pensiero in generale»,19 qualificata dalla facoltà di poter astrarre da ogni «contenuto della conoscenza, cioè da ogni rapporto di questa conoscenza con l’oggetto».20 Prescindendo da ogni materia intenzionata o emozionalmente percepita (kantianamente, empiricamente esperita), l’intelletto può pervenire all’autentico apriori di ogni nostra conoscenza.

Contrariamente a quanto afferma Kant, però, le apriorità non sono le «funzioni del pensiero puro»21: i concetti. Esiste un apriori tanto formale, quanto materiale, così come un aposteriori tanto materiale, quanto formale.22 Tramite l’ideazione è possibile pervenire a quiddità che, seppur materiali, non perciò devono essere intese nel senso di materie di un’esperienza empirico-sensoriale. I noemata, o fatti «puri» dell’esperienza fenomenologica, sono gli apriori che vengono acquisiti esperienzialmente e che, seppur non creati formalmente dall’intelletto, sono oggettivi, vale a dire non minacciati dal relativismo gnoseologico alla stregua dei fatti dell’osservazione induttiva.23

Ora, Kant postula l’identificazione dell’apriori col formale poiché per lui «non esiste un’«esperienza fenomenologica» in cui appaia come dato dell’intuizione quanto viene acquisito nell’esperienza naturale e scientifica come forma o «presupposto»»;24 e dunque, riducendo i valori ai sentimenti di piacere o di dispiacere che «il soggetto si attende dalla realtà dell’oggetto»,25 il filosofo di Konigsberg è logicamente costretto ad assimilare ogni etica materiale ad «un’etica dei beni e degli scopi»,26 ossia ad un’etica utilitaristica, edonistica e teleologica, riducendo così i «beni» (Güter) alle mere «cose che hanno valore» (Sache), alle cose preziose. In queste poche proposizioni si annida il pregiudizio sensistico kantiano, vale a dire l’opinabile riduzione delle essenze assiologiche al contenuto di vissuti sensoriali.

Se, come fa Kant, consideriamo come dato solo ciò che viene recepito sensorialmente, allora tutto ciò che trascende questa modalità percettiva non può non venir considerato un sovrappiù posto dall’intelletto agente, un’apriorità che si aggiunga al materiale sensibile grazie ad un’attività teoretica. Kant non può prendere in considerazione l’esperienza sensibile i cui fatti, essendo di natura meramente induttiva, non sono portatori di quella valenza universale ed oggettiva — richiesta dalla sua dottrina — quale dato apoditticamente certo da postularsi a fondamento di qualsivoglia speculazione. Dall’identificazione dell’apriori col pensato si passa dunque alla convinzione che ogni materia acquisita esperienzialmente conduca necessariamente all’eteronomia del volere: il comportamento pratico/volitivo che non fosse sottoposto al dominio esclusivo della ragione pura pratica non potrebbe dirsi libero, ma predeterminato da speculazioni edonistiche finalizzate ad ottenere ciò che procura piaceri di natura sensoriale. L’etica sfocerebbe nell’edonismo nonché in un eudemonismo corrotto. La felicità infatti, secondo Kant, discende solo dal compimento del proprio dovere morale contrapposto alle richieste provenienti dai propri istinti pulsionali-sensibili; farsi guidare dal coglimento dei valori vorrebbe dire rispondere alle istanze di tali istinti. Ogni etica contenutistica conterrebbe la falsa promessa di donare all’umanità la «ricetta magica» per poter assaporare la felicità tanto agognata, e il piacere diverrebbe l’ingrediente dominante dell’etica a discapito del Bene; il piacere sarebbe cioè il valore guida di ogni nostra scelta volitiva: ogni etica materiale che «fondi le proprie analisi ricorrendo a vissuti emotivi originari»27 riporterebbe necessariamente tutti i valori sotto l’egida del piacere riducendoli a meri simboli di supporti concreti, desiderati al fine di ottenere piaceri personali — e questo anche allorquando la nostra tendenza volitiva s’indirizzasse alla realizzazione del piacere altrui.28 In quest’ottica, solo un’etica formale scansa il pericolo di cadere nell’edonismo.

Seguiamo ora nel dettaglio il ragionamento cha fa invece Scheler.

L’apriori assiologico è, secondo il Nostro, colto in una funzione di stampo affettivo, la percezione affettiva (Fühlen) — accennata poco sopra —, e non può venir ridotto al contenuto della sensazione la quale, nell’ottica scheleriana, è nient’altro che la risonanza corporea del coglimento percettivo-affettivo di un valore. La sensazione è cioè uno dei tanti modi nei quali ci si dà l’apriori assiologico, e pertanto non può venir considerata la funzione ontologica precipua del coglimento di tale essenza. Essa non ci dà i valori, ma si limita a veicolare la percezione delle modificazioni del mondo esterno ed interno, esperibili grazie alla presenza del corpo vivo29: isola cioè i dati ambientali che circondano il soggetto senziente «in base a criteri autoreferenziali di rilevanza pulsionale selezionando dall’enorme massa d’informazioni ambientali solo quelle per lui biologicamente più rilevanti».30 Selezionando solo quei dati che hanno una rilevanza biologica per il corpo vivo del soggetto, è una funzione che ha voce in capitolo fino al mero livello vitale: non offre la materia da cui l’intelletto partirebbe per giungere a conoscenze teoretiche, ma si limita a veicolare i dati fenomenici necessari al corpo vivo per orientarsi con successo nell’ambiente circostante. Gli stati d’animo del piacevole e dello spiacevole sensoriale dunque non sono preposti al coglimento dei valori, per converso li presuppongono originariamente, non essendo altro che le modificazioni psico-corporali occasionate accidentalmente dall’apriorico coglimento di questi.31

Facciamo un esempio: vedo un’opera d’arte (un «bene») e ne percepisco l’immediato32 valore artistico. Mentre contemplo l’opera, il mio animo, nonché corpo vivo, vengono «mossi» piacevolmente (o spiacevolmente). Il valore del «piacevole», però, non è il «piacere sensibile» provato corporalmente. Quest’ultimo, a differenza del primo, non è mai dato direttamente, bensì mediatamente (ossia tramite il corpo vivo) e secondariamente, non essendo altro che il correlato empirico causato dal coglimento del quid assiologico. I valori non sono cioè la materia dell’esperienza empirico-induttiva veicolante le modificazioni psico-corporali che fanno capo al concetto di sensazione, bensì essenze aprioricamente colte nell’esperire introdotto da precise funzioni ed atti, propri della sfera emozionale della persona.

Riassumendo quanto abbiamo esposto sinora, possiamo allora affermare che il tallone d’Achille dell’etica kantiana è il formalismo ed il conseguente rifiuto di ogni etica di tipo contenutistico poiché ritenuta, a torto, relegata a formulazioni di principi aposteriori che sarebbero tratti da conoscenze induttive le quali, giacché veicolano un sapere contingente e solipsista, darebbero adito ad azioni edonisticamente corrotte. Il primato dato da Kant all’aspetto logico della persona, a discapito dell’aspetto alogico-apriorico, lo rende cioè cieco nei riguardi della componente emotiva dello spirito, non sottoposta alla legge della ragione,33 bensì alla logique du cœur a priori pascaliana.

Riferendosi a Husserl, invece, ha senso considerare il suo soggettivismo trascendentale direttamente implicato nelle dinamiche che sono andate a costituire la novità della filosofia fenomenologica scheleriana34 la quale, non pregiudicando l’autonomia della sfera ontica che ci trascende, evita di risolvere il noema nella coscienza noetica.

2. Etica contenutistica ed etica dei beni e degli scopi

2.1. L’irriducibilità dell’etica materiale all’etica utilitaristica

Partiamo dalla confutazione scheleriana dell’identificazione dell’etica materiale dei valori con l’etica utilitaristica, ossia dell’erroneo assunto kantiano che, ogniqualvolta tendiamo verso un «bene» (Gut) siamo determinati dal ravvisare in esso un possibile strumento possidente qualità utili al fine di soddisfare bisogni derivanti dalla nostra natura psico-fisica.

Il rifiuto kantiano di derivare la formulazione di un’etica dal «mondo di beni reale» è giustamente condiviso da Scheler35: i «beni» (Güter), in quanto «cose» (res), sono essenzialmente affetti «dalla relatività empirica»,36 ossia soggetti a mutare nel corso del tempo: «subordinare la natura morale buona o cattiva di una persona, di un atto di volontà, di un’azione ecc. al rapporto esistente fra tale natura ed un mondo di beni […], significa subordinare una volontà buona o cattiva alla particolare esistenza causale di questo mondo e, al contempo, alla sua conoscenza empirica».37 Secondo Kant «la sensazione gradevole che il soggetto si attende dalla realtà dell’oggetto determina la facoltà di desiderare»,38 quindi ogni «bene» (Gut) sarebbe voluto solo in quanto mezzo utilizzabile per poter soddisfare bisogni soggettivi correlati alla natura sensibile del soggetto volitivo. Se il motivo determinante del volere fosse di natura empirico-induttiva, allora il soggetto morale, nell’espletamento delle sue azioni, non si farebbe guidare dal Bene, ma dal giudizio concernente ciò che può tornargli utile. La morale però deve prescindere da ogni «bene» e fine, e giungere, secondo Kant, a formulare imperativi che siano il frutto della sola autodeterminazione della volontà, ossia di una ragione che disciplini l’agire dell’uomo senza che questo venga distolto, nel compimento del suo volere, dalle materie dell’intuizione empirica. I valori, essendo per Kant ontologicamente correlati alle cose reali, non fanno eccezione.

Ora, il rigetto di ogni etica materiale — che Kant deriva dalla giusta esclusione di ogni etica dei beni e degli scopi, ossia di ogni etica utilitaristica e relativistica, nonché edonistica e teleologica — si basa su un errore di fondo: la «confusione tra «valori» e «beni»».39

Il «bene» è la mera cosa reale e concreta che «veicola» valori superiori a quelli dell’utile, e che quindi non è riducibile alla cosa data nella visione naturale del mondo, cioè al «dato di fatto di cui l’uomo vitale-psichico tiene conto per il soddisfacimento dei suoi bisogni».40 I valori invece sono Urphänomen, messaggeri che precedono il fenomeno stesso, annunciandolo;41 sono «datità primarie»42 che vengono percepite emozionalmente in occasione della percezione di un «bene». La percezione emozionale del valore allora precede quella del suo supporto reale (il «bene»), in quanto è il valore che «annuncia l’essente e l’essere, orientando lo sviluppo successivo della sua manifestazione […]. Le nuance del valore sono [cioè] ciò che, di qualcosa, ci è dato per primo, e, contemporaneamente, il medium, il contesto entro cui emerge e si manifesta il Bild e il significato di questo qualcosa».43

L’intero ragionamento può essere, a mio avviso, compreso nel dettaglio seguendo il procedimento di riduzione fenomenologica44 adottato da Scheler nel Formalismo.

Il primo passo che Scheler compie per riuscire nel suo intento fondativo è quello di sganciare ontologicamente i valori (Werte) dai portatori reali nei quali giungono a manifestazione empirica: i «beni» (Güter). Per fare ciò è però prima necessario rivelare la reale natura ontologica dei «beni», distinguendoli dagli oggetti dell’esperienza rappresentativa45: le «cose come tali» (Dinge);46 e dagli «oggetti pratici»: le «res» (Sache).47

La res (Sache) è un «oggetto pratico», ossia una «cosa» (Ding) in quanto termine di una tendenza volitiva che ha ravvisato nella Sache dei valori; «primo fra tutti il valore dell’utile».48 La Sache è «la cosa che ha un pregio pratico (per il quale essa diviene oggetto di una tendenza volitiva)»;49 è quindi «solo accidentalmente supporto di valore, cioè non in virtù della sua struttura unitaria: è «cosa che ha valore» (wertvolles Ding)».50 La Ding «prescinde invece dalla relazione essenziale alla tendenza volitiva e al valore dell’utile e non è quindi, per sua natura, axiologica: la sua unità è prettamente di ordine cosale».51 I «beni» (Güter) sono allora «cose di valore» (Wertdinge), non quindi, semplicemente, «cose che hanno valore» (wertvolles Dinge), «alle quali cioè i valori si aggiungono surrettiziamente quali semplici valori inerenti alle cose (Dingwerte)».52 I valori non sono sovrastrutturati sui «beni», ma li permeano, per così dire, dall’interno: «l’unità di un unico valore orienta la fusione di tutte le altre qualità rilevabili nel bene (sia delle […] qualità assiologiche, sia di quelle non assiologiche, come forme, colori ecc., se si tratta di beni materiali)».53

Nel caso di un dipinto, ad esempio, i supporti reali che lo costituiscono si «elevano» da «cose» (Sache) a componenti di un «bene», allorquando la loro unione, ad opera del genio artistico, trasformi l’oggetto-cosa in oggetto-dell’arte. In tal caso il valore estetico veicolato dall’oggetto-dell’arte fonda, donando loro un senso artistico, tutte le qualità e caratteristiche del dipinto. Tutto ciò che lo costituisce (ad esempio la tela, i colori, l’espressione commovente del volto, la cupa tetraggine del cielo ecc.) è permeato dal valore artistico che si manifesta tramite il dipinto. Questo, dunque, da semplice congerie cosale, che nella «visione naturale» del mondo possiede un valore solo in quanto le componenti che lo costituiscono possono tornar utili, assurge al titolo di «bene», ossia di «cosa di valore».

Ora, nella «visione naturale» del mondo, come appena detto, sono gli «oggetti pratici» (Sache) ad essere dati, quindi, per poter giungere al coglimento della mera «cosa come tale» (Ding), ossia al coglimento di «una struttura unitaria di qualità come tali non axiologiche»,54 bisogna porre ad epoché i valori posseduti dagli «oggetti pratici» (Sache). Così facendo la «semplice materia dell’intuizione […] si configura come cosa indipendentemente da valori d’un determinato tipo».55 Per poter poi «ottenere le unità significative dei «beni»»56 è necessario prescindere «appositamente dalle qualità puramente «cosali» di tali res».57

Facciamo un altro esempio: ci troviamo di fronte ad una stimata scultura in oro massiccio. Ponendo ad epoché il valore economico della materia «oro», che qualifica l’opera d’arte come Sache, otteniamo la Ding; epochizzando anche quest’ultima, ossia la «cosalità» della Sache, otteniamo il «bene» scultura qualificato dal solo valore artistico. L’indipendenza del «mondo dei beni» (Güterwelt) dal «mondo delle cose naturali» consegue proprio dalla differenza ontologica che c’è tra le «cose» e i «beni»: l’eventuale modificazione radicale, o distruzione dell’opera d’arte infatti comporterebbe il venir meno della «cosa di valore» (Gut — opera d’arte), lasciando il posto ad una mera «cosa che ha valore» (Sache) .58 La presenza dei valori nei «beni» rende dunque il «mondo dei beni» diverso ed indipendente dal «mondo delle cose» della «visione naturale». Un «bene» non è riducibile ad una «cosa» che sia «utile», «beni e cose sono dati egualmente originari».59 I «beni», supportando valori superiori al valore dell’utile (quale può essere il valore artistico afferente al livello dei valori spirituali), sono oggettità diverse dagli «oggetti pratici». E dato che il valore non può essere ridotto al suo supporto reale (il «bene»), ma va considerato come il primo messaggero di questo, ne consegue che la volontà, tendendo aprioricamente ai valori colti nei «beni», non può esser considerata in prima istanza utilitaristicamente determinata.60

Ma l’etica materiale non può essere ridotta neanche ad un’etica edonistica e teleologica. Grazie alla rilevazione dell’esistenza di un particolare tipo di vissuto (lo Streben), Scheler riesce a dimostrare anche questa tesi. Le analisi che seguiranno ci permetteranno di spiegare meglio anche l’altra conclusione tratta poco sopra: quella cioè dell’apriorico tendere verso essenze assiologiche, ancorché verso fatti di natura empirico-sensibile o rappresentativa.

2.2. L’irriducibilità dell’etica materiale all’etica edonistica e teleologica

Per una debita comprensione delle analisi scheleriane che qui seguiranno dobbiamo riprendere brevemente l’esposizione di alcuni concetti kantiani già accennati poco sopra.

Secondo Kant «ogni etica materiale è necessariamente un edonismo poiché si fonda sull’esistenza di stati di piacere sensibili correlati agli oggetti»,61 quindi la volontà che non sia pura, ossia non sottoposta alla determinazione della sola legge morale, sarebbe sempre condizionata empiricamente dalla materia che costituisce il contenuto del desiderare: «il motivo determinante dell’arbitrio è, in questo caso, la rappresentazione di un oggetto, e quel suo rapporto con il soggetto per cui la facoltà di desiderare è determinata alla realizzazione di esso».62 Ogni materia del volere sarebbe funzionale alla risoluzione del problema della ricerca della propria felicità, declinantesi nella mera ricerca di un piacere direttamente correlato alla struttura pulsionale-sensibile ed ai particolari bisogni del soggetto volitivo. L’etica contenutistica non potrà dunque mai produrre principi pratici, ossia principi che siano valevoli universalmente: «un principio che si fondi solo sulla condizione soggettiva di esser sensibile a un certo piacere o dispiacere […] può bensì servire da massima per il soggetto che si trova in quella condizione»,63 ma mai da legge. Un’etica siffatta, conseguentemente, non potendo fornire «leggi pratiche», bensì solo «principi pratici soggettivi» o «massime», sconfinerebbe necessariamente nell’edonismo e avrebbe ad oggetto solo il possibile piacere che deriverebbe dall’azione che s’intende compiere. L’agire non sarebbe predeterminato dal Bene, ma dall’egoistico amor di sé.64

È ovviamente indispensabile che Scheler confuti tali tesi perché

se i valori materiali dovessero venir astratti dai contenuti di un qualche scopo o se qualcosa fosse dotato di valore solo in quanto concepibile come mezzo rapportato ad un qualche scopo, risulterebbe eo ipso infondato ogni tentativo di fondare un’etica materiale dei valori. Una simile infondatezza deriverebbe dal fatto che ad un determinato scopo (ad esempio il benessere della comunità) non potrebbe inerire alcun «valore etico» (quest’ultimo verrebbe infatti posto in atto solo in riferimento allo scopo ed avrebbe un senso solo nell’indicare un mezzo rispetto allo scopo) .65

Scheler deve dimostrare che il motore primo di ogni volere materialmente determinato non è il contenuto dello scopo, vale a dire la rappresentazione di ciò che, se ottenuto, arrecherebbe piacere, bensì il valore immediatamente dato nel vissuto della «tendenza», da lui considerato «il fondamento più universale delle esperienze vissute, distinte in primo luogo da ogni possesso di oggetti (rappresentazione, sensazione, percezione) ed in secondo luogo da ogni percezione affettiva (sentimenti ecc.)».66 Il tendere pre-e-a-logico verso i valori è cioè la precondizione di ogni agire; e i valori non sono né i mezzi degli scopi, né il suo fine (ad es. il piacere sensoriale).67 I valori infatti sono colti in primis non quale fine-scopo della volontà, ma come fine-termine di un «tendere»68 che precede, fondandolo, il fine-scopo della volontà. Nell’ottica di Scheler, noi tendiamo infatti originariamente verso un valore prima di ogni intento realizzatore finalisticamente orientato;69 senza, a volte, la concomitante coscienza d’averlo colto; e, anche una volta che tale coscienza sia eventualmente insorta, senza il necessario susseguirsi di un intento finalizzato alla realizzazione del valore, o, nella prospettiva kantiana, alla realizzazione dell’eventuale piacere «promesso» dall’ottenimento del quid assiologico. Inoltre Scheler aggiunge che in determinati casi non c’è neanche la possibilità pratica di realizzare il valore: ad esempio, «il fratello non aspira a realizzare per suo conto la modestia della sorella, che pure apprezza profondamente».70

Ora, la possibilità concreta di non volere o non poter realizzare un valore, che tuttavia è stato colto, annulla d’un colpo i pregiudizi di Kant, perché la volontà, pur essendo determinata materialmente dal fine-termine («componente assiologica» — valore) della «tendenza», non può dirsi mossa da speculazioni edonistiche.71 Ogni speculazione edonistica è infatti sempre basata sulla pregressa rappresentazione dello stato di piacere che s’intende conseguire — rappresentazione che manca nel vissuto originario del «tendere».72

Da quanto detto, possiamo allora affermare, con Scheler, che, essendo il volgersi originario («tendere») verso un valore, scevro della componente rappresentativa che fa strutturalmente parte di un scopo (edonisticamente o meno connotato), non è allora lecito identificare la volontà materialmente determinata con una volontà edonisticamente corrotta. Non è cioè plausibile sostenere che quando ci volgiamo ad un valore siamo determinati dal desiderio di ottenere il quid che lo supporta perché, potendo essere utile al soddisfacimento di bisogni derivanti dal fatto di essere degli esseri razionali finiti dotati di un corpo proprio, ci gioverebbe dal punto di vista del piacevole psico-sensoriale. L’etica materiale non è riducibile ad un’etica edonistica! Ma tantomeno è identificabile con un’etica teleologica. Scheler infatti ha ribaltato la posizione di partenza dell’etica formale kantiana: il coglimento di un valore non dipende dai fini, ma è, per converso, il fondamento di ogni fine. Solo l’assecondare la tendenza originaria introduce la rappresentazione del «contenuto del fine della tendenza» («componente assiologia») ,73 che dunque viene ora desiderato.74 Se poi a tale rappresentazione segue la volontà nonché la possibilità pratica di realizzare il contenuto rappresentato, allora abbiamo lo scopo della volontà. Affinché si possa parlare di scopi della volontà è cioè necessario che all’atto rappresentativo segua il dover-essere-reale dell’oggetto rappresentato: «il fine-scopo della volontà non è che il contenuto axiologico del fine-termine inerente alla tendenza in quanto rappresentato e destinato all’attuazione».75

In definitiva, contrariamente a quanto ritiene Kant, i valori non «vengono astratti dagli scopi intesi dalla volontà»,76 non dipendono cioè da una «rappresentazione oggettuale ed empirica, ma sono di per sé inerenti ai fini della tendenza»,77 e solo in un secondo momento confluiscono negli «scopi della volontà che a quelli rimandano».78 In questa esperienza «sterile» di volontarietà, ossia pre-teleologica, io mi vivo come originariamente orientata verso un valore.

3. I valori morali

Il discorso sul vissuto del «tendere» permette a Scheler di confutare un altro assunto kantiano, quello che afferma che quanto si dà esperienzialmente sia solo un ««caos privo di ordine», costituito talvolta da cosiddette «sensazioni» e talvolta da «istinti» o «pulsioni»»,79 al quale «solo la volontà in quanto ragione pratica […] porterebbe, in conformità ad una sua legge specifica»,80 un ordine morale intelligibile. A tale assunto Scheler controbatte avvalendosi della nozione di gerarchia assiologica.81

Scheler dice che le nostre tendenze, volgendosi ai valori, non possono essere considerate un «caos». I valori, infatti, oltre che essere degli apriori, ossia «unità-di-significato […] che si autorivelano»82 aprioricamente ad una percezione emozionale, sono essenze «ordinate reciprocamente»83 secondo un «criterio di preminenza ascendente che va dal valore infimo del piacevole al valore dell’utile, dell’economico e del vitale, per passare ai valori spirituali (conoscenza della verità, valori estetici, giuridici, culturali), e infine alla suprema modalità assiologica del sacro».84

Nella tendenza originaria Scheler ha distinto la «componente rappresentativa» («contenuti della tendenza dati nella forma dell’esperienza oggettiva, ad es. della percezione, della rappresentazione, del pensiero ecc.»),85 dalla sua «componente assiologica».86 Ora, dato che le relazioni che intercorrono tra i «contenuti rappresentativi» della tendenza (contenuti dei fini della tendenza che sono stati rappresentati)87 riflettono quelle esistenti tra i valori materiali,88 allora le nostre tendenze, volgendosi ai valori, mantengono «un senso, cioè una struttura gerarchica articolata analogamente a quella oggettiva dei valori».89 Ne consegue che la rappresentazione del contenuto della tendenza, ancorché essere derivata dall’ipotizzato «caos» delle materie dell’empiria, si fonda sulle relazioni aprioriche che disciplinano l’ordinamento dei valori: la volontà materialmente determinata fonda ogni sua scelta sulla pregressa conoscenza della posizione gerarchica occupata da un valore, vale a dire che, ancorché esser preda di caotici istinti e pulsioni, «si orienta secondo la conoscenza, acquisita nel preferire, della superiorità delle «materie» di valore date nelle inclinazioni»90 (nelle tendenze).

Il discernimento morale (la conoscenza etica), ossia l’individuazione della posizione gerarchica occupata da un valore,91 non è, ad ogni modo, acquisita nel vissuto del tendere, bensì grazie a una particolare classe di atti pre-e-a-logici che Scheler chiama preferire (Vorziehen) e posporre (Nachsetzen) .92 La moralità o immoralità dell’intenzione volitiva è cioè correlata a questi due atti, mentre la semplice realizzazione di un valore non è «mai in sé buona o cattiva»;93 ciò che la permea di valore morale è infatti il pregresso riferimento preferenziale ai valori gerarchicamente disposti. I valori morali vengono, cioè, percepiti concomitantemente agli atti conoscitivi del preferire e del posporre nel senso che un atto volitivo può dirsi eticamente buono solo allorquando realizzi il valore che, «per la materia assiologica intesa, corrisponde al valore «preferito» e si contrapponga a quello «posposto»; cattivo è [per converso] l’atto che, per la materia assiologica intesa, si contrapponga al valore preferito e corrisponda a quello posposto».94 Il manifestarsi del Bene e del Male (valori morali) dipende dall’ordine di preferenza accordato ai valori extramorali (valori gerarchizzati) dati nelle tendenze. Il Bene ed il Male non fanno dunque parte della gerarchia oggettiva poiché ne dipendono per quel che concerne la loro manifestazione: «si presentano […] nell’atto del volere che si rapporta immediatamente alla preferenza, senza compiere precedentemente una «scelta»».95 Prima di un mio intento realizzatore devo aver già colto, preferendo o posponendo, il valore morale che il mio agire concreterà. Se le cose stessero altrimenti, se cioè «il dover-essere fosse svincolato dalla relazione con il valore»,96 io potrei comunque agire bene, ma, ad esempio, solo perché spinta dal mero intento farisaico di apparire (a me stessa o ad altri) buona: agirei cioè per il Bene pur non essendo mossa originariamente dal Bene.

Contrariamente a quanto afferma Kant, dunque, il valore morale di un’azione non può essere il risultato di un’autodeterminazione della volontà, non può discendere dall’aver adempiuto ciò che la legge morale impera di fare, ma dipende «dall’ordine di preferenza in cui le tendenze penetrano nella sfera profonda della volontà».97 I valori morali, manifestandosi correlativamente agli atti di conoscenza assiologica, sono così svincolati dal potere connesso alla facoltà della ragione pura pratica: la ragione non avrà mai l’arbitrio di realizzare volontariamente il Bene:

il valore «buono» si concreta fenomenicamente nella realizzazione del valore positivo più elevato (dato nel preferire); tale concrezione è correlata all’atto di volontà. Esso non può pertanto mai costituire la materia di quest’atto di volontà: è ciò che l’atto implica necessariamente in termini eidetici (costituendo, in un certo senso, un elemento necessariamente situato «alle spalle» dell’atto) e non può mai fungere da referente intenzionale dell’atto stesso».98

Le analisi su esposte hanno permesso a Scheler di affermare l’indipendenza della coscienza assiologico-emozionale dal dominio della volontà. Bisogna ora vedere in che rapporto sta il giudizio sui valori con il voler realizzare quanto è stato colto: affronteremo cioè la critica di Scheler al cuore dell’etica imperativa kantiana, esponendo le argomentazioni che hanno permesso al Nostro di dimostrare «l’irriducibilità del giudizio di valore a un giudizio deontologico».99

4. Critica all’etica imperativa kantiana

4.1. L’obbligazione normativa e l’autentico discernimento etico

Secondo Kant il giudizio circa quale azione sia portatrice di valore deriverebbe dall’aver coscienza di ciò che si deve fare. Questa riduzione del giudizio di valore al giudizio deontologico è ciò che Scheler contesta.

Scheler distingue 1) l’obbligazione ideale, ossia «il “dover-essere ideale” (ideales Sollen), che afferma “il bene deve essere”»,100 dalla 2) obbligazione normativa, ossia «il «dover essere imperativo» (Pflichtsollen), o il dover-essere inteso come compito, che afferma “devo fare il bene”».101

  1. L’obbligazione ideale si «riferisce a contenuti esistenti e non esistenti e si fonda su un tale «passaggio»»;102 «prescinde dal riferimento a una volontà realizzatrice, esprimendosi in una formula impersonale»103 del tipo: «il bene deve essere»;104 è fondata dalla pregressa percezione emozionale di valore, «considerato in rapporto ad un essere reale possibile»;105 e si riferisce al dover-essere reale di un fatto assiologico. «Nel campo così circoscritto il dover essere morale è collegato al valore secondo due assiomi fondamentali: 1. ogni valore pienamente positivo deve essere, e 2. ogni valore pienamente negativo non deve essere. Non si dà quindi dovere che in riferimento all’esistenza di un valore».106
  2. L’obbligazione normativa si riferisce al dover-essere reale di un atto; «si fonda esclusivamente sulla non esistenza di un valore positivo da attuare mediante un tendere e un volere (o sull’esistenza di un disvalore, se si tratta di un dover-non-essere), per cui si esaurisce nel porsi come tensione»;107 è fondata dall’obbligazione ideale e, riferendosi «ad un possibile volere che ne debba realizzare il contenuto»,108 trova espressione in una locuzione del tipo «devo fare il bene».109 Il «dover-essere reale» non è dunque altro che una modalità dell’obbligazione ideale che prende la forma dell’imperativo e che comanda il dover-essere d’un atto di volontà.110 Il rapporto che lega il dover-essere al valore è perciò a senso unico: il dover-essere dipende dall’essere del valore; non il contrario.111 Se le cose stessero altrimenti, se cioè «il dover-essere fosse svincolato dalla relazione con il valore»,112 allora il nostro agire sarebbe determinato sì in origine da un’obbligazione, ma ci sarebbe preclusa la possibilità di discernere tra il Bene ed il Male; saremmo soggetti ad agire in base ad un cieco e servile adempimento di un dovere, di cui, però, non riconosceremmo il valore: «ogni etica normativa sarebbe cieca e arbitraria».113 Differentemente che nella coscienza del dovere — che impone coercitivamente la realizzazione del valore —, nell’autentico discernimento etico il valore viene colto aprioristicamente, sì da direzionare spontaneamente ogni successivo intento volitivo.114 Da un punto di vista etico dunque l’azione erompente dal retto e spontaneo discernimento assiologico è di valore superiore rispetto a quella realizzante il Bene previo coartazione.115 La virtù è, per Scheler, «il potere immediatamente vissuto di fare qualcosa che si deve fare.116 […] Il rapporto tra il potere e l’obbligazione»117 non è, allora, quello postulato da Kant.

La posizione di Kant […], espressa nella nota affermazione «Tu puoi, quindi tu devi!» […] significa che la nostra conoscenza dell’incondizionato-pratico non dipende dall’esperienza vissuta della libertà, bensì dalla coscienza della legge pratica. […] Diverremmo coscienti e consapevoli della nostra «capacità» solo nella misura in cui tenessimo presente il nostro dovere. Non ci è mai consentito chiedere preliminarmente quale sia la nostra capacità effettiva per definire poi quanto dobbiamo e non dobbiamo fare solo nei limiti delle nostre possibilità; al contrario, dovremmo anzitutto ascoltare la «voce della ragion pratica» […] per ammettere poi, unicamente sulla base di un tale postulato, di essere anche in grado di compiere ciò di cui siamo obbligati.118

La nota proposizione «puoi poiché devi» deriva dall’assunto che la coscienza della libertà di poter fare è data posteriormente rispetto alla legge morale; quest’ultima sarebbe «ciò di cui noi acquistiamo coscienza immediatamente»,119 quindi, per Kant, ciascuno «giudica […] che può fare qualcosa perché è cosciente che deve farlo, e riconosce in sé la libertà che altrimenti, senza legge morale, gli sarebbe rimasta sconosciuta».120 Contrariamente a quanto afferma Kant, però, la libertà non è, secondo Scheler, data dalla possibilità che la ragione ha di liberarsi dagli impulsi sensibili e di autodeterminarsi. La «coscienza di potere» e la «coscienza di dovere» «si fondano a un livello egualmente originario ed indipendentemente l’una dall’altra, su intuizioni ultime».121

La «coscienza del «dovere»»,122 basata sull’obbligazione ideale che richiede l’essere di un valore, è diversa dalla «coscienza di poter fare» quanto tale obbligazione ideale richiede, e non può essere ridotta a quest’ultima. Io posso cogliere un valore e comprenderne il «dover-essere ideale», pur non raggiungendo la posteriore «coscienza di dover-realizzare» il tale valore, e tantomeno quella di poterlo fare: io potrei non averne la «capacità»123! La capacità non può «essere considerata come conseguenza inferibile, per postulato, dalla coscienza dell’obbligo»,124 essendone, per converso, il presupposto: la capacità etica della persona buona, che la orienta aprioristicamente in favore della preferenza dei valori che sarebbero da preferirsi, è «anteriore ad ogni idea di dovere, costituendone la condizione di possibilità».125

Solo qualora un individuo non disponga di una capacità di discernere sufficiente a farlo agire per il Bene, può allora sì intervenire un’obbligazione che lo indirizzi ad agire in funzione di quanto è giusto che sia; ma si tratterebbe in prima istanza di un’obbligazione ideale, e mai di un’obbligazione imperativa.126 L’obbligazione imperativa presuppone sempre il pregresso discernimento morale, il pregresso coglimento del contenuto dell’obbligazione ideale, nonché l’esperienza vissuta della capacità di realizzarlo.127 La persona veramente virtuosa è, pertanto, colei che ha una naturale capacità «di volere e di attuare un dato […] vissuto in quanto termine di obbligazione ideale»;128 l’agire per il meglio è in definitiva un comportamento valutabile eticamente in termini di bontà solo se l’atto intenzionale è intriso del valore assiologico positivo superiore in modo, per così dire, genuino, spontaneo. Se agisco bene dietro obbligo, ma in cuor mio non ho attuato una naturale preferenza per il valore positivo superiore che ho realizzato, allora il fenomeno assiologico, essendo stato realizzato per dovere, ossia previo auto-coercizione ad agire contro l’indole assiologica personale, è fariseismo.

Scheler afferma così il primato, in etica, di un’interpretazione prelogica ed emozionale del Bene, e sostiene che la virtù è inversamente proporzionale all’idea di dovere.

Lo stato di moralità più perfetta lo si ha […] quando la percezione affettiva dei valori porta non tanto ad un sentimento di obbligazione, ad un dovere sentito come costrizione, ma piuttosto ad un volere spontaneo. Il valore morale dell’«anima bella», che compie il bene con naturalità, senza compiere alcuno sforzo, con gioia, è quindi più alto che quello dell’uomo del dovere, impegnato in un continuo superamento di se stesso per adeguarsi all’obbligazione morale. Il far dipendere il valore morale di un’azione dallo sforzo e dal sacrificio,129 che essa implica, non è che frutto di risentimento.130

Un altro punto importante da chiarire è che un imperativo è legittimo non soltanto se fondato su un’obbligazione ideale (comando la realizzazione di un valore da contrapporre al disvalore esistente di fatto), ma anche se è rivolto ad un individuo incline ai disvalori.131 Le norme devono cioè essere correlate, oltreché al dover-essere-reale del contenuto di una obbligazione ideale ed alla volontà di chi comanda, anche alle «controtendenze»132 che inficiano l’espletamento di comportamenti moralmente giusti. Chi comanda deve cioè aver «intuito che quanto viene prescritto o proibito implica necessariamente nell’altro una tensione tendenziale contraria a quel termine di obbligazione ideale (cioè una tensione al rifiuto emotivo — vale a dire: una tensione tendenziale verso il termine di interdizione ideale)».133 La controtendenza si configura, dunque, nei termini di «una resistenza contraria non alla prescrizione ma al contenuto del dover essere ideale che esso esprime».134

Qualora si comandi la realizzazione di un valore ad un individuo che lo avesse di per sé spontaneamente già colto, si porrebbe in atto un comportamento illegittimo che si risolverebbe, molto probabilmente, nell’ottenere l’effetto opposto a quello voluto. In casi come questi, la direzione della tendenza coincide con il contenuto dell’obbligazione ideale, quindi ogni imperativo sarebbe illegittimo anche se il suo contenuto coincidesse con quello dell’obbligazione ideale.135 Le parole di Scheler su questo punto sono encomiabili: «sono soprattutto delle prescrizioni a dischiudere, nel proibirlo, il male ad un cuore puro, presentandolo alla volontà come un progetto possibile».136 L’etica che si fondi sul concetto di obbligazione, continua Scheler, non può dunque che partire dal presupposto dell’esistenza di disvalori, che devono esser scalzati mediante la messa in atto del relativo valore positivo.137 Ne consegue che le proposizioni interdittorie comandano di non fare qualcosa, sulla base del fatto che la tal cosa negativa (l’essere del disvalore) sia in atto, pertanto, «quanto costituisce, in sé, il termine di obbligazione non è mai originariamente l’essere del bene, ma solo il non-essere del male».138 Le obbligazioni non possono in alcun modo definire positivamente «che cosa siano i valori positivi, potendoli solo e sempre definire per opposizione ai valori negativi».139 L’etica imperativistica parte necessariamente dalla posizione di valori negativi che devono venir scalzati mediante l’impegno a realizzare valori positivi; ma già l’idea di doversi impegnare presuppone l’assunto che gli uomini non possano essere orientati verso il Bene in modo spontaneo ed originario.

Le considerazioni mosse da Kant paiono — a Scheler — frutto di un arbitrario pessimismo etico che esclude, a priori, la possibilità di ogni virtù, poiché postulano l’esistenza di una congenita indole viziosa, primeggiante in ogni essere umano.140 Per Kant ha valore morale solo ciò che può essere eseguito per dovere. Un’intenzione assiologica incline spontaneamente al Bene non è, a suo dire, supportata da alcun valore etico, poiché espressione di mera liceità.141 Il coglimento del Bene è invece per Scheler indipendente da qualunque legge formale, e, come su detto,142 ontologicamente scisso dalla sfera esistenziale. Solo muovendo da questo assioma, ossia «dall’idea di un valore indifferente rispetto alla sfera esistenziale ed alla sfera dell’obbligazione e inteso come fondamento di ogni obbligazione, si è in grado di evitare il naufragio radicale di un negativismo critico e destinato a distruggere ogni valore esistente».143 Per Scheler dunque

non rimane […] che una sola retta configurazione dell’etica e una sola via per riscattare l’autentica dimensione del bene: l’etica axiologica, fondata sulla natura axiologica del bene e sul discernimento «immediato» e «pieno» di ciò che è positivamente buono. Con essa il dover-essere perde la sua ragione d’essere, in quanto la percezione affettiva del bene determina da sé il volere.144

4.2. L’Amore agapico secondo Scheler

Resta un ultimo punto da chiarire: quale sia il propulsore primigenio di un retto discernimento etico, ossia del tendere spontaneamente verso la realizzazione dei valori che riconosciamo «debbano essere». Per Scheler non ci sono dubbi: è l’amore.

A fondamento della nostra vita emotiva, quale grado più elevato di essa, Scheler pone gli atti intenzionali-emozionali dell’amore e dell’odio,145 qualificati come atti che muovono spontaneamente il soggetto verso il coglimento emozionale di un’essenza assiologica.146 Questi due moti del sentimento sono da tenere distinti dagli atti conoscitivi del preferire/posporre147 poiché, ancorché essere atti di natura cognitiva,148 sono atti spontanei che preludono alla conoscenza della posizione gerarchica dei valori, precedendo e fondando «il momento precettivo-affettivo e quello preferenziale dei valori»,149 «come loro pioniere e guida».150 Le entità fenomeniche si danno dunque in primis negli atti d’amore e d’odio in quanto pregne di contenuti assiologici. Il primo, direzionando ogni futuro preferire; il secondo, all’opposto, negando emozionalmente l’essere del valore,151 pertanto «amore è sempre diretto all’esistenza di un oggetto di valore più alto (o alla non esistenza di un oggetto di valore inferiore), odio alla non esistenza di un oggetto di valore superiore (o all’esistenza di uno inferiore), e in questo senso acceca la vista dei valori, ne diminuisce il campo di visibilità».152

Ecco perché, con Scheler, possiamo affermare che l’atto d’amore è l’atto fondativo di ogni sapere (teoretico od emozionale), e l’atto d’odio, per converso, il principale artefice di ogni velamento e nascondimento del valore positivo del quid verso il quale è direzionato. Nell’odio, infatti, si assiste ad un movimento involutivo dello spirito: non si dà alcun disvelamento, alcun trasporto emotivo verso i valori, bensì un adombramento del cuore che non consente di relazionarsi in modo esaustivo coi «beni» e/o con le persone, poiché inficia il coglimento delle loro peculiarità assiologiche positive, a vantaggio dell’essere inferiore e negativo della loro essenza assiologica. Il protendersi amoroso è dunque il presupposto necessario affinché ci si possa accostare positivamente all’ente fenomenico in veste di puri conoscitori speculativi e/o di agenti volitivi. L’amore primeggia sugli atti della conoscenza e sugli atti del volere (fondati su quelli del conoscere), nel senso che, affinché sia possibile cimentarsi in pratiche teoretico/volitive è necessario che vi sia stato un pregresso «interessamento» fondativo di tali pratiche; ed essendo l’«interessamento» l’appendice di ogni autentico amare, ne deriva che, prima di conoscere una cosa, la si debba aver colta in un atto d’amore. L’amore è, insomma, il presupposto originario di nostro ogni «avere il mondo» (nonché il fondamento di ogni atto d’odio).153

L’interessamento — mosso dall’amore — preludendo a qualsivoglia attività teoretico-volitiva, porta Scheler a formulare la famosa asserzione che così recita: «prima ancora di essere ens cogitans o un ens volens, l’uomo è un ens amans».154 L’etica di Kant, invece, riconduce anche amore ed odio alla sfera delle passioni (del tutto irrazionali ed impulsivamente sgorganti dall’animo umano)^[155] che non possono «costituire un termine di «prescrizione»».155 Ragionevolmente Kant esclude amore ed odio dall’ambito delle attività umane sottoponibili alle prescrizioni della ragione. Erroneamente, però, li esclude, insieme a tutti i sentimenti, tranne il «rispetto», anche dall’ambito dell’etica, poiché eticamente importante è solo ciò che può esser disciplinato dalla volontà156: l’amore, non essendo prescrivibile, non solo non ha valenza etica, ma anzi si configura come «un modo di essere egoistico ed edonistico».157 Non potendo prescrivere l’amore, Kant lo pensa allora fondato «su un atto del «rispetto» verso la legge»158 «che comanda l’amore»,159 verso «la legge, il cui mero contenuto sarebbe l’«amore»: l’atto del rispetto si pone pertanto come più profondo e più valido dell’atto d’amore».160 Questo espediente filosofico gli fa sussumere «amore» sotto il concetto di «amore pratico»161: l’amore si dà solo se si rispetta la legge morale, solo se si «esegue volentieri il dovere».

L’amore, di conseguenza, può rivestire un significato morale se si risolve in «fare il bene per dovere», se viene convertito in «dovere di agire in modo da considerare se stessi e gli altri come fine».162

L’amore viene in questo modo «spogliato» della sua «naturale inclinazione verso» il possibile valore colto immediatamente come superiore;163 ed il dovere di amare, non potendo per principio esser posto, viene tradotto nel «far volentieri», vale a dire nel rispettare la legge morale.

Il rispetto, però, è secondo Scheler un’inclinazione naturale che non può per principio generare un impulso amoroso: «il «rispetto» presuppone la percezione affettiva d’un dato valore e la conseguente valutazione del suo oggetto»,164 laddove nel moto dell’amore «la superiorità (qualificata) d’un valore»165 «viene immediatamente percepita a livello affettivo».166 Il rapporto che intercorre tra rispetto ed amore non è dunque quello postulato da Kant: il rispetto non può generare l’amore, essendo questo il moto fondativo di ogni percepire di valori. Dunque: 1) il «dovere di fare» non si basa sul rispetto, bensì sull’amore per la persona che comanda. Solo nel cogliere, amando, l’esser superiore del valore della persona che mi comanda qualcosa o verso la quale ho dei doveri sarò spontaneamente portata a far volentieri quanto debbo; cogliendo immediatamente l’esser superiore del suo valore personale, agirò spontaneamente per il Bene; 2) anche se ci si riferisce al rispetto della sola norma — e non della persona che comanda —, questo sentimento, affinché sia dato, deve esser stato introdotto dalla percezione affettiva che, introdotta dall’amore, ha concesso di discernere la positività del contenuto dell’obbligazione.

Ora, il ruolo che l’amore ricopre in Scheler è quello di disvelare ciò che di già esiste dischiudendoci l’intero plesso assiologico del quid amato; esso è l’«autentico scopritore nel nostro apprendimento dei valori»167 poiché dona valori nuovi che incrementano, allargandolo, il regno di valori in nostro possesso.168 È quel movimento naturale dell’animo umano verso valori non ancora conosciuti, ma che, ciononostante, «un essere può, di volta in volta, percepire affettivamente e preferire».169

L’amore dunque si può dire che crea, ma nel senso che amplia positivamente il mondo di valori proprio di colui che ama, e fa sì che l’amato,170 di rimando, permetta all’amante di scoprire l’intima essenza assiologica che gli pertiene. L’oggetto amato, difatti, «risponde» all’amore dell’amante, schiudendo, in favore di questo, la sua essenza individuale. Le «reazioni di risposta»171 si configurano come «un «darsi», un «dischiudersi» e «aprirsi», ovvero un autentico rivelarsi da parte dell’oggetto. V’è per così dire un «domandare» dell’»amore» a cui il mondo «risponde», «schiudendo» se stesso e giungendo solamente in tal modo alla sua piena esistenza e al suo pieno valore».172

Grazie all’amore noi possiamo sistematicamente trascendere i nostri limiti morali, in direzione di quei valori che, seppur non ancora datici, sono da noi potenzialmente conoscibili: «nell’esperienze vissute dell’unità psicofisica «uomo» rinveniamo dunque l’idea di uno spirito che non contiene in sé nulla delle limitazioni dell’organizzazione umana».173 «L’uomo […] è un elemento in sé mutevole nel processo evolutivo della vita universale»,174 e può mutare in favore di una superiore moralità grazie all’amore che gli consente di trascendere i propri limiti percettivo-affettivi, in direzione di valori che ancora non era riuscito a carpire: tale rinnovamento riguarda l’ordo amoris175 di ogni individuo, ossia l’ordine dei «moti del […] [suo] amore e del […] [suo] odio, della […] [sua] propensione e avversione, del […] [suo] interesse multiforme per le cose di questo mondo».176 Il nostro ordo amoris, cioè, influisce direttamente sul nostro ethos, determinando ogni nostra intenzionalità, dischiudendoci la sfera degli oggetti che possiamo amare:

il […] [nostro] ethos effettivo, e cioè le regole del […] [nostro] preferire e posporre certi valori ad altri, determina anche la struttura e il contenuto della […] [nostra] visione del mondo, della […] [nostra] conoscenza del mondo, del […] [nostro] pensare il mondo e, inoltre, della […] [nostra] volontà di abnegazione o di dominio. […] [Ne consegue che] sono le cose che […] [noi possiamo] conoscere e le loro qualità a determinare ed a delimitare il […] [nostro] mondo-dei-valori, ma è il […] [nostro] mondo-di-essenza-di-valori a delimitare l’ente che […] [noi possiamo] conoscere […]. Per […] [noi] il «nucleo» della cosiddetta «essenza» delle cose si trova, di volta in volta, là dove il […] [nostro] animo si sente legato.177

In poche parole: il mio ordo amoris determina il termine di ogni mio prendere in considerazione attuale e possibile178: sono ad esempio «congenitamente» portata ad amare oggetti che veicolano determinate essenze di valore? Preferirò, conseguentemente, queste modalità assiologiche poiché corrispondono all’ordine gerarchico del mio personale ordo amoris. «L’ordo amoris è una specie di microcosmo del cuore, in cui una scala assoluta di valori è riflessa o non riflessa, rettamente sentita o sentita in maniera distorta e falsa (nel caso dell’odio)».179 In base al mio ordo amoris volgerò la mia preferenza alle essenze assiologiche più elevate od a quelle inferiori; a quelle positive o negative: «la visione dei valori è più o meno ampia secondo la potenza d’amore di una persona e, poiché da questa visione dipendono le aspirazioni, la gerarchia delle persone dipende in ultimo dai loro atti d’amore».180 Ecco perché allora Scheler può affermare che «chi ha l’ordo amoris di un uomo, ha l’uomo»181: se so cosa ami, so chi sei.

Ma se l’amore si configura quale movimento naturale e spontaneo verso il coglimento del «valore più alto di un oggetto»,182 allora è coimplicato nelle dinamiche della nostra vita morale poiché, nell’insorgere di un atto d’amore, che ci fa volgere preferenzialmente verso l’essere superiore del valore dell’amato, si dà il valore del Bene; altrimenti detto: «il valore morale […] è […] immanente all’atto d’amore»,183 al movimento amoroso verso l’esser superiore del valore dell’oggetto amato.

Affinché una persona possa agire moralmente per il meglio, deve dunque essere guidata dall’amore poiché esso solo dischiude l’ambito degli oggetti degni d’esser amati, ossia di quelli che veicolano valori obiettivamente superiori. L’istanza di realizzazione del valore che deve-essere è così in definitiva adempiuta grazie al moto amoroso che ci induce spontaneamente a compiere il nostro dovere. Questo movimento «verso il possibile valore superiore dell’oggetto amato»184 concede: in primo luogo di vedere oltre le apparenze e di cogliere valori che, allo sguardo furtivo e distaccato di colui che non ama, sfuggono;185 in secondo luogo di scoprire, in un moto che non ha fine, il potenziale assiologico dell’amato, poiché si volge immediatamente a valori che, ancorché non dati positivamente, vengono «concepiti come «base» possibile d’un edificio, d’una formazione d’insieme»,186 pertanto «l’agapismo non si limita ad intenzionare qualcosa che c’è già, ma intercetta, a partire da questa intenzionalità verso il dato fattuale, la controintenzionalità di ciò che ancora non è, creando la spazio per la sua emersione».187

Nell’affermare che l’amore concede, ad es. nel caso di amore antropico, di vedere il possibile valore superiore di una persona, non s’intende dire che l’amante tenda a reclamare la realizzazione di tale valore. L’immagine ideale del valore dell’amato non è il fine verso il quale tenderebbe l’amore, a detrimento dei difetti congeniti dell’amato. Il senso delle affermazioni scheleriane è che l’amore spontaneamente fa sì che l’essere superiore del valore dell’amato si manifesti immediatamente e primeggi sui possibili valori inferiori.188 Il valore che appare grazie all’amore è vissuto come superiore nello stesso momento in cui si mette in moto l’amore. Un’eventuale antecedente ricerca, mirata a scovare il valore superiore proprio dell’oggetto, risulta fallimentare fino a quando non si ami l’oggetto di tale ricerca.189 Solo nel momento in cui l’animo si volge con amore verso una persona o un oggetto ne coglie il valore più alto, vale a dire quello che si staglia come valore positivo superiore all’interno della gerarchia di valori propria di quella persona o di quell’oggetto.

Concludendo: l’uomo, contrariamente a quanto asserisce Kant, non è per natura un assoluto egoista ed edonista che, se prescinde da un’autodeterminazione coercitiva, non può agire moralmente bene. La naturale capacità d’amare lo può portare ad una retta e spontanea riflessione morale erompente dal discernimento, la quale, essendo fondata sull’obiettivismo dei valori, lo può indurre naturalmente a compiere azioni oggettivamente buone, senza che sia necessario ricorrere ad un imperativo etico.

Ma, ora, dato che è pressoché palese che non tutti riescano a discernere spontaneamente quanto è giusto fare, è allora compito di un’etica basata su un’adeguata concettualità filosofica mostrare in quale ordine stanno le essenze assiologiche, al fine di indirizzare le preferenze di coloro che sono affetti dal désordre du cœur, di coloro cioè che sentono in modo distorto una scala di valori, verso quei valori che sono obiettivamente da preferire: «l’ordinamento dell’amore e dell’odio costituisce il nocciolo fondamentale dell’ethos di un individuo, di una famiglia, di un popolo, di un’epoca»,190 quindi «Scheler si premura di schivare ogni interpretazione soggettivistica e relativistica, relazionando l’ordo amoris proprio del soggetto a un ordinamento oggettivo e assoluto dell’amore, rispondente a sua volta a un ordinamento oggettivo e assoluto dell’universo axiologico».191

La dottrina dei valori ha dunque il compito di dischiudere ai cuori l’ordine di preferenza in cui debbono esser colti i valori, vale a dire l’«ordinamento intrinseco di amabilità dei valori»192 e, di conseguenza, di amabilità delle «degnità d’amore»,193 delle cose che sono degne di essere da noi amate poiché meritevoli «dell’attenzione amorosa».194 Laddove si desse un ethos corrotto, poiché inficiato dal désordre du cœur,195 l’etica filosofica deve cercare di rimettere «ordine» nei cuori delle persone, aiutandole a riconquistare l’«ordo amoris che costituisce la […] [loro] dimensione profonda e che pur attraverso deviamenti ed errori non viene mai meno».196 Tale compito però non può ridursi ad uno sterile elenco di norme etiche, a una mera trasmissione concettuale di informazioni fornite da qualcuno che si ponga nel ruolo dell’istruttore e che si ritenga il detentore unico di un sapere etico che varrebbe universalmente per chiunque. L’etica di Scheler è insolitamente sensibile alle differenze che caratterizzano gli individui e che fan sì che non ogni cosa vada bene per chiunque in ogni tempo — e nemmeno per la stessa persona in tempi diversi! È dunque necessario, in secondo luogo, che l’etica dimostri quanto sia importante accostarsi ad una persona dal retto ordo amoris, il cui esemplare virtuosismo venga riconosciuto come portatore di una retta scala di valori — un maestro:

la filosofia va intesa come terapia dell’ordo amoris mirante allo sviluppo degli strati affettivi che permettono una radicalizzazione dell’apertura. La riattivazione di questi strati affettivi permette di vagliare criticamente i modelli di comportamento proposti a livello della realtà preminente (tabula rasa, messa in dubbio, ecc.) attraverso un’intenzionalità controfattuale tesa a produrre eccellenze esemplari.197

È solo l’«eccellenza esemplare» incarnata nella figura del maestro che può concorrere al riordinamento dell’ethos di coloro che sono affetti dal désordre du cœur;198 e ciò grazie alla bidirezionalità insita in ogni atto d’amore agapico, vale a dire grazie all’amore che il maestro nutre per il «discepolo» e, per converso, all’amore che il «discepolo» nutre a sua volta per il maestro. L’esemplarità che il maestro porta con sé, ancorché uniformare l’altro al se medesimo, è la sola che può adeguatamente risvegliare nel discepolo la coscienza della cura sui199 e far sì che egli/ella la promuova. Il maestro funge cioè da sponda per evitare che il «discepolo» incorra in deviazioni che lo potrebbero pericolosamente allontanare dal cammino adeguato alla piena realizzazione della propria originale ed individuale essenza personale, vale a dire alla realizzazione di quei valori superiori che, ancorché passibili d’esser da lui realizzati, gli sono ancora celati. È allora solo in una vita compartecipativa pregna d’amore che possiamo prendere piena consapevolezza delle infinite potenzialità morali celate dalla nostra chiusura egocentrica.200 È solo accostandoci a persone esemplari che possiamo occasionare la nostra evoluzione personale in direzione di una piena, positiva e matura realizzazione delle belle potenzialità spirituali che ci caratterizzano in quanto esseri umani.201


  1. Seppur collaterale all’intento positivo primario dell’opera — quello fondativo —, la critica all’etica kantiana, data l’enorme importanza da questa detenuta nel panorama filosofico contemporaneo a Scheler, era dunque necessaria. Tuttavia, anche se Scheler «fu un acceso critico di […] Kant [,] [non può essere misconosciuto il fatto che quest’ultimo] rimane […] il suo ineludibile punto di riferimento» (Guido Cusinato, Katharsis: la morte dell’ego e il divino come apertura al mondo nella prospettiva di Max Scheler, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999, p. 19. Di qui in avanti Katharsis). Scheler stesso riconosce quanto appena detto nella prefazione alla prima edizione del Formalismo, quando afferma: «la critica delle dottrine etiche di Kant è semplicemente un fine secondario del lavoro. Essa è particolarmente avvertibile solo all’inizio della ricerca ed in alcuni punti delle parti successive. L’autore ha inteso criticare quanto ritiene sia erroneo nelle posizioni kantiane ponendo ovunque positivamente in risalto i fatti nella loro verità. Egli non ha inteso pervenire alla verità dei fatti solo grazie ad un’esplicita critica della dottrina kantiana. […] L’assoluto rispetto dell’autore verso l’opera di Kant […] non viene ovviamente meno anche qualora le critiche mosse risultino taglienti» (Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Neuer Versuch der Grundlegung eines ethischen Personalismus, in Gesammelte Werke, Band 2, Francke Verlag, Bern-München, 1954 (1966; 1980), tr. it., introd. e cura di Giancarlo Caronello, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori: nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, San Paolo, Milano, 1996, prefazione alla prima edizione, pp. 1-2. Di qui in avanti ci avvarremo della traduzione italiana rendendola con Formalismo). Il Formalismo si configura, dunque, come una sistematica confutazione dei presupposti teoretici che animano le ricerche kantiane. Scheler, nell’introduzione del Formalismo, p. 25, ci dà l’elenco delle premesse fondamentali dell’etica kantiana che verranno criticate nei vari capitoli dell’opera. ↩︎

  2. Antonio Lambertino, «Kant ovvero il valore assoluto della legge morale e della razionalità», in Id., Valore e piacere: itinerari teoretici, Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 81. Di qui in avanti «Kant ovvero il valore assoluto della legge morale e della razionalità». ↩︎

  3. Secondo Kant «la ragione, mentre nella sua funzione conoscitiva o teoretica determina o costituisce l’oggetto mediante l’applicazione di categorie a un dato fornito originariamente dall’intuizione sensibile, e quindi da una fonte diversa dalla stessa ragione, nella funzione pratica, che verte sulla scelta morale, è essa stessa la fonte dei propri oggetti, producendoli o rendendoli reali. È la stessa ragione che diviene la fonte dell’elemento apriorico nel giudizio morale» (ivi, p. 78). ↩︎

  4. Antonio Lambertino, Max Scheler. Fondazione fenomenologica dell’etica dei valori, La Nuova Italia, Firenze, 1977, p. 66. Di qui in avanti Max Scheler↩︎

  5. Giovanni Ferretti, Fenomenologia e antropologia personalistica, Vita e Pensiero, Milano, 1972, p. 40. La piena legittimità della critica mossa qui da Scheler a Husserl ha una valenza solo se strettamente riferita allo Husserl di Ideen I. Se è vero infatti che Husserl in Ideen I pare aver attuato una svolta idealistica, tuttavia sarebbe opportuno porre un freno ad interpretazioni in senso creazionista dell’accezione husserliana di coscienza. Dall’elaborazione del concetto di «sintesi passive» che Husserl fa in opere successive si apprende infatti che le datità si predeterminano da sé «nella sintesi temporale e associativa delle passività» (Guido Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 191. Di qui in avanti La totalità incompiuta) e quindi, nonostante emergano «nello spazio offerto dalla coscienza» (ibidem), non possono dirsi necessariamente costituite da questa (cfr. ibidem). Per una recezione del percorso critico che ha portato Scheler a confutare l’assunto dell’apoditticità della percezione interna, rimandiamo invece a Die Idole der Selbsterkenntnis (1911), in Gesammelte Werke, Band 3: Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, Francke Verlag, Bern-München, 1955, pp. 213-292, tr. it., introd. e cura di Laura Boella, Gli idoli della conoscenza di sé, in Il valore della vita emotiva, Guerini e Associati, Milano, 2003, pp. 47-154. ↩︎

  6. «Husserl ritiene che la riduzione sia conseguente alla conquista di una visione (Einsicht) razionale, senza indagare ulteriormente quale precisa spinta emozionale è in essa sottesa» (G. Cusinato, Katharsis, cit., p. 53). ↩︎

  7. Vedi G. Cusinato, Katharsis, cit. ↩︎

  8. «La trascendenza estatica implica inoltre un concetto d’intenzionalità diverso, un concetto di contro-intenzionalità: se mi pongo in un atteggiamento d’umiltà, di ascolto, significa che non sono solo io ad agire, ma che qualcosa proviene anche dall’altra parte; se bisogna porsi in un atteggiamento d’umiltà per poter cogliere l’essere al di là della visione naturale e scientifica, se questo è il senso ultimo della riduzione catartica, allora non basta il rivolgimento intenzionale verso l’essere per cogliere l’essere, bisogna accettare le condizioni che l’essere impone per apparire. L’intenzionalità non riguarda univocamente il soggetto conoscente, ma ancor di più la Selbstgegebenheit: l’essere deve aver intenzione di farsi scoprire per apparire ed essere colto. Per questo in Scheler l’atto intenzionale stesso risulta parzialmente trascendente la coscienza. La Demut mette in evidenza l’esistenza d’una «contro-intenzionalità» che parte da ciò che si manifesta: è questa «intenzionalità noematica» che neutralizza definitivamente e in modo esplicito l’ipotesi d’una immanenza dell’atto intenzionale alla coscienza» (ivi, p. 265). ↩︎

  9. Ivi, p. 170, nota 7. ↩︎

  10. Giuseppe Riconda, «Analisi della vita emozionale ed etica materiale dei valori», in Id., L’etica di Max Scheler, Giappichelli, Torino, 1971-1972, p. 4. Di qui in avanti L’etica di Max Scheler II. ↩︎

  11. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 315. ↩︎

  12. Ivi, p. 316. ↩︎

  13. Ivi, p. 301. ↩︎

  14. G. Ferretti, op. cit., p. 252. ↩︎

  15. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, introd. e cura di Vittorio Mathieu, Laterza, Bari 2007, p. 54. Di qui in avanti Critica della ragion pura↩︎

  16. Ivi, p. 33. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. Ibidem↩︎

  19. Ivi, p. 80. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. Ivi, p. 81. ↩︎

  22. L’apriori non si identifica col formale: la distinzione tra formale e materiale dipende solo dal grado di universalità che le proposizioni ed i concetti hanno. Una «proposizione universale» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 131), ad esempio «2 x 2 = 4», è formale perché valevole «in riferimento sia a prugne che a pere» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 80). Una proposizione è tanto più formale quanto più è valevole universalmente; mentre tutte le proposizioni che, seppur aprioriche, non possano vantare un grado di universalità, poiché valgono «in un ambito di dati più specifico» (ivi, p. 81), sono materiali. Per converso, «in ogni proposizione che valga solo a posteriori, definibile cioè unicamente in rapporto a fatti dell’osservazione, vanno distinti la «forma logica» ed il «contenuto materiale» (ad esempio: da un lato la struttura di una proposizione — soggetto, predicato e copula —, dall’altro il quid che viene strutturato in questa forma)» (ivi, p. 81). Anche in una proposizione di matrice inferenziale, «che ha valore solo a posteriori, ossia che non può fondarsi se non su fatti d’osservazione» (Giuseppe Riconda, «Scheler e la fenomenologia», in Id., L’etica di Max Scheler, Giappichelli, Torino, 1971-1972, p. 36. Di qui in avanti L’etica di Max Scheler I), abbiamo una forma logica — oltre all’evidente contenuto materiale —. Ciò significa che «l’opposizione «formale/materiale» intrinseca l’opposizione «a priori/a posteriori» e non vi coincide in alcun modo» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 81). ↩︎

  23. Scheler dice: «tutto ciò che è dato a priori si fonda sull’«esperienza» in generale esattamente come tutto ciò che si manifesta nell’«esperienza» intesa quale osservazione e induzione […]. I fatti e solo i fatti, e non le costruzioni di un «intelletto» arbitrario, ne sono i fondamenti. Ogni giudizio deve adeguarsi ai fatti […]. Anche il dato a priori è un contenuto intuitivo, non un quid «proiettato» o «costruito» sui fatti tramite il pensiero» (ivi, p. 78). ↩︎

  24. Ivi, p. 73. ↩︎

  25. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, tr. it., introd. e cura di Vittorio Mathieu, Bompiani, Milano, 2004, p. 39. Di qui in avanti Critica della ragion pratica↩︎

  26. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 27. ↩︎

  27. Ivi, p. 299. ↩︎

  28. Cfr. ivi, p. 297. ↩︎

  29. Cfr. ivi, p. 86. ↩︎

  30. G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 86. ↩︎

  31. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., pp. 86-87. ↩︎

  32. È importante specificare il senso in cui deve essere inteso questo «coglimento immediato di un’essenza assiologia»: «affermare che tale coglimento è «immediato» rischia di essere inesatto: è immediato, ma solo nel senso che non è mediato dalla sensibilità e dall’intelletto, rimane invece mediato da una complessa funzionalizzazione emozionale antepredicativa che ha come centro motrice l’ordo amoris.» (Guido Cusinato, «Strati affettivi e vocazione terapeutica della filosofia», in Max Scheler. Esistenza della persona e radicalizzazione della fenomenologia, a cura di Guido Cusinato, saggi di Guido Cusinato et al., Franco Angeli, Milano, 2007, p. 54. Da qui in avanti «Strati affettivi e vocazione terapeutica della filosofia»). ↩︎

  33. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., pp. 92-93. ↩︎

  34. Nella prefazione alla prima edizione del Formalismo Scheler dice: «dobbiamo agli importanti lavori di Edmund Husserl la coscienza metodologica dell’unità e del senso dell’atteggiamento fenomenologico che unisce i collaboratorati dello «Jahrbuch» al di là delle diverse visioni del mondo o delle singole posizioni filosofiche concrete. Anche le presenti ricerche riflettono pertanto in alcuni tratti essenziali l’orientamento dei lavori del direttore dello «Jahrbuch». Ma per quanto concerne il modo di concepire, comprendere e realizzare quest’atteggiamento nonché e, a fortiori, per quanto riguarda la sua applicazione agli insiemi dei problemi qui tratti, l’autore si sente in obbligo di reclamare, per ogni singolo punto, una responsabilità esclusiva ed una esclusiva paternità» (Id., prefazione alla prima edizione del Formalismo, cit., pp. 3-4). ↩︎

  35. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 29. ↩︎

  36. Franco Bosio, Invito al pensiero di Max Scheler, Mursia, Milano, 1995, p. 79. ↩︎

  37. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 29. ↩︎

  38. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 39. ↩︎

  39. F. Bosio, op. cit., p. 29. ↩︎

  40. Cfr. ibidem↩︎

  41. Cfr. G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 237. ↩︎

  42. Ivi, p. 171. ↩︎

  43. Ivi, p. 238. Il ruolo dato da Scheler ai valori comporta quel nuovo modo d’intendere l’intenzionalità, di cui abbiamo detto poco sopra: «occorre tener presente che è il valore che precede l’oggetto: il valore determina il modo di manifestarsi d’un oggetto, non l’oggetto il modo di manifestarsi del valore. Questo è possibile perché il valore implica una noesi noematica, materiale e non soggettiva, qualcosa di ben diverso dall’intenzionalità husserlianamente relativa alla coscienza» (Id., Katharsis, cit., p. 239). ↩︎

  44. Per un approfondimento del tema della «tecnica di riduzione» in Scheler e del diverso intendimento che Scheler ha di essa rispetto a Husserl vedi G. Cusinato, Katharsis, cit. ↩︎

  45. Cfr. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 116. ↩︎

  46. «Il termine Ding indica la pura coseità» (ivi, p. 117). ↩︎

  47. «Scheler designa la Sache anche col termine «oggetto pratico», nella misura in cui tale termine è allusivo della relazione vissuta col potere di realizzazione per mezzo di un atto volitivo» (ivi, pp. 116-117). ↩︎

  48. G. Ferretti, op. cit., p. 248. ↩︎

  49. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 117. ↩︎

  50. Ivi, p. 116. ↩︎

  51. Ivi, p. 117. ↩︎

  52. Ibidem↩︎

  53. Ivi, p. 43. ↩︎

  54. G. Ferretti, op. cit., p. 248. ↩︎

  55. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 43. ↩︎

  56. G. Ferretti, op. cit., p. 248. ↩︎

  57. Ibidem↩︎

  58. Il «bene», essendo un’entità empirica, andrebbe in tal caso incontro a mutamenti talmente importanti da pregiudicarne l’entità assiologica — anche se lo statuto dell’essenza assiologica «valore estetico» da esso supportata non verrebbe ovviamente compromesso. ↩︎

  59. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 42. ↩︎

  60. Purtuttavia, da quanto detto, non si può non concludere per la relatività dei «beni», i quali, essendo passibili di subire modificazioni empiriche, sono soggetti, al pari delle Dinge e delle Sache, al mutevole decorso storico-evolutivo al quale vanno incontro tutte le oggettità. I valori, però, non incorrono nel pericolo del relativismo. La riduzione fenomenologica ci permette di cogliere le pure essenzialità assiologiche veicolate dai «beni», presentandocele come irriducibili a questi, e quindi non soggette agli eventuali ed accidentali cambiamenti ai quali va necessariamente incontro il portatore reale «bene». L’esperienza fenomenica ci fa cogliere i valori nei «beni», ma l’epochizzazione fenomenologica, purificando tale esperienza dai suoi elementi di natura empirico-particolare, ci dà le pure essenze assiologiche. ↩︎

  61. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 27. ↩︎

  62. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., pp. 37-39. ↩︎

  63. Ibidem. Le «leggi pratiche» sono principi pratici oggettivi che valgono per la volontà di ogni essere razionale. Si può ammettere la loro esistenza solo se «la ragione pura […] [contiene] in sé un fondamento pratico, cioè un fondamento sufficiente a determinare la volontà» (ivi, p. 33). I «principi pratici soggettivi» o «massime» sono, per converso, tutti i principi pratici la cui condizione è «considerata dal soggetto come valida solo per la propria volontà» (ibidem). ↩︎

  64. «Questa tendenza a fare di sé il motivo determinante oggettivo della volontà in genere, sul fondamento di motivi determinanti soggettivi del proprio arbitrio, può esser chiamata amor di sé» (ivi, pp. 157-158). ↩︎

  65. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 52. ↩︎

  66. Ivi, p. 52, nota 22. La percezione affettiva (Fühlen) è sempre posposta al «tendere» ai valori. ↩︎

  67. Anche qualora il piacere fosse il fine-termine di un tendere, lo sarebbe sempre «in virtù del valore che esso ha per l’individuo» (G. Ferretti, op. cit., p. 271). Il sentimento non è né il fondamento, né il fine della tendenza: «se […] una tendenza ha come fine un sentimento, ad esempio il piacere di un cibo, allora anche questo sentimento specifico può costituirsi come fine solo grazie al valore che rappresenta per l’individuo (o grazie al suo disvalore, ad esempio la «peccaminosità»). Il contenuto immediato del fine non è cioè il piacere ma il suo valore» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 59). Qualora, dunque, il piacere si costituisse come fine di un tendere, lo sarebbe in quanto appreso anch’esso in termini assiologici come valore o disvalore: «persino i nostri vissuti di piacere e di dispiacere sono dotati in quanto tali di un valore specifico. Non vi sono soltanto un senso di gioia per quanto è nobile ed un senso di dispiacere per quanto è volgare, vi sono anche una gioia volgare ed una nobile tristezza ecc. I nostri vissuti emotivi sono in quanto tali portatori di valori di un determinato tipo» (ivi, p. 311). L’errore dunque non consiste nel fatto di considerare il piacere sensoriale quale supporto di valore, ma nell’avergli assegnato un ruolo egemonico all’interno della gerarchia dei valori. ↩︎

  68. I valori non possono essere il contenuto di uno scopo poiché non sono soggetti a rappresentazione. «Per lo scopo è comunque essenziale che il contenuto appartenga, di volta in volta, alla sfera dei contenuti rappresentativi (sotto forma di idee o di intuizione)» (ivi, p 53). ↩︎

  69. Cfr. ivi, p. 52 e sgg. ↩︎

  70. Giulio Alliney, introduzione a: Max Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (passi scelti), tr. it. e introd. di Giulio Alliney, Bocca, Milano, 1944, p. 16. ↩︎

  71. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 153. ↩︎

  72. «Le «componenti abiologiche»» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., pp. 296-297) date nelle tendenze «godono di […] perfetta chiarezza» (ibidem) senza bisogno che intervengano componenti «immaginative» (ibidem) — le quali possono addirittura essere «prive di chiarezza (la disposizione ad amare gli altri [ad es.] non comporta la chiarezza del contenuto o del termine dell’amore)» (ibidem). Riguardo alla chiarezza della componente assiologica e alla possibile incertezza invece di quella rappresentativa — riferite entrambe ad un medesimo vissuto attuale —, Scheler scrive: «la tendenza può essere già stata «assecondata», per i suoi contenuti assiologici, dal nostro io profondo, mentre il contenuto rappresentativo è ancora piuttosto indistinto oppure i contenuti rappresentativi appaiono mutevoli. Abbiamo in tal caso un’esperienza vissuta della «disponibilità», ad esempio, ad «offrire un sacrificio» oppure ad «essere benevoli» nei confronti del prossimo, senza peraltro avere presenti gli oggetti cui si riferisca tale nostra volontà di azione e senza disporre in termini cognitivi dei contenuti del sacrificio o delle azioni benevole. In tal caso la decisione di realizzare il valore inerente al termine della tendenza si differenzia chiaramente rispetto all’indecisione relativa al suo oggetto [Was] e al suo termine [Woran] (in senso figurativo)» (M. Scheler, Formalismo, cit., pp. 57-58). ↩︎

  73. È necessario precisare cosa siano i «contenuti rappresentativi della tendenza», per fugare la possibilità di considerare la «rappresentazione» qui in oggetto come «immanente» alla tendenza. Il «contenuto del fine della tendenza» è un valore (ad esempio la bellezza in sé) o una «struttura assiologica materiale» (ad esempio l’«esser bello di qualcosa»). Tra i valori e le strutture assiologiche intercorrono relazioni di vario genere: ad esempio, il valore spirituale «bellezza» è più elevato rispetto al valore «piacere sensibile» (relazione di superiorità od inferiorità). Le relazioni che intercorrono tra i valori e le strutture assiologiche materiali sono aprioriche, «si definiscono già quali componenti dei fini concretamente inerenti agli atti della tendenza» (ivi, p. 65); è, allora, «a tali componenti, e non solo alla «pura legge» della loro attuazione, che può e deve «orientarsi» la volontà che persegua come scopo il contenuto d’un fine. Essa è pertanto condizionata «materialmente», nonostante non venga condizionata dallo scopo» (ivi, p. 65). ↩︎

  74. Il «contenuto rappresentativo», essendo sovraformato sulla componente assiologica, non prende parte «attivamente» alla costituzione dell’essenza della tendenza, non concorre ad identificare il tipo di tendenza eventualmente esperita. Con ciò rimarchiamo il fatto che non è necessario un atto rappresentativo affinché si sia orientati verso un valore («componente assiologica» della tendenza): «l’impulso, ad es. quello di «andare a passeggio» oppure «di lavorare», non presuppone una «rappresentazione» della passeggiata ecc. Proviamo continuamente desiderio o ripulsa nei confronti di cose che non abbiamo mai «esperite» come oggetti» (ivi, p. 63). È la «componente assiologica» a costituire il «fine immanente» (fine-termine) di una tendenza originaria; la presenza della «componente rappresentativa» (fine-scopo della volontà) non è necessaria affinché si inclini a quiddità assiologiche: «nel bel mezzo di un’azione che ci occupi particolarmente ci sentiamo «attratti» verso una certa direzione del mondo circostante (magari dal volto di una persona) senza peraltro assecondarla; di riflesso il termine della tendenza non si traduce in un contenuto rappresentativo» (ivi, p. 57). ↩︎

  75. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 299. Diviene ora impellente una precisazione al fine di fugare un possibile fraintendimento concernente il ruolo che la tendenza ricopre nelle dinamiche gnoseologiche preposte al coglimento dei valori. I valori non si colgono necessariamente in stretta dipendenza dalle tendenze. Possiamo percepire affettivamente i valori anche senza tendere ad essi, «anche quelli etici, ad es. nella comprensione morale degli altri» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 60). In casi come questi comprendiamo il valore personale di un individuo, ma a tale comprensione non segue un tendere amoroso, amichevole, disprezzante ecc. nei suoi confronti. Inoltre il termine di una tendenza non è per forza di cose un valore positivo, così come il termine di una ripulsa non è necessariamente un disvalore: «anche una ripulsa può essere […] originariamente «buona» come una tendenza può essere «cattiva», a seconda che sia positivo o negativo il valore che costituisce il termine della ripulsa o della tendenza» (ivi, p. 60, nota). Il tendere verso un valore non può, perciò, esser considerato il parametro gnoseologico al quale affidare i giudizi di valore. Il risentimento che potremmo provare a causa dell’impotenza che abbiamo nel tendere verso un valore positivo percepito affettivamente potrebbe erroneamente indurci a ritenere il valore in questione come negativo: dato che noi non siamo «capaci di indirizzare» la nostra tendenza verso tale valore, sopravvalutiamo il valore — seppur inferiore — a noi accessibile (date le nostre capacità etiche), a discapito del valore — seppur superiore — che percepiamo, «ma verso cui ci sappiamo incapaci di indirizzare la nostra tendenza» (ivi, p. 61). Ci è sempre possibile essere affetti, nel bel mezzo di una valutazione assiologica di noi medesimi, da quelle che Scheler definisce «illusioni per risentimento relative a beni e a valori» (Vedi Id., Das Ressentiment im Aufbau der Moralen (1912), in Gesammelte Werke, Band 3: Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, Francke Verlag, Bern-München, 1955, tr. it., introd. e cura di Angelo Pupi, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano, 1975). ↩︎

  76. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 300. ↩︎

  77. Ibidem↩︎

  78. Ibidem. «La volontà, nel proporsi come scopo il fine della tendenza, «può e deve orientarsi verso i valori», cioè, senza ricorrere a una legge puramente formale, viene determinata «materialmente» (material) non dallo scopo, ma dai valori» (ibidem). ↩︎

  79. M. Scheler, Formalismo, cit., pp. 95, passim↩︎

  80. Ivi, p. 66. ↩︎

  81. La gerarchia oggettiva presentata da Scheler non intende essere esaustiva dell’intero panorama assiologico. Questo è ben più vasto di quello che Scheler ci propone. Con la sua gerarchia oggettiva di valori Scheler non ha inteso affermare che tutti i valori conosciuti e conoscibili siano quelli da lui elencati: «i valori sono infiniti — Scheler definisce una tavola di valori, ma non intende certo esaurire i valori in questa tavola. […] Lo stesso relativismo socio-culturale, lungi dallo scalfire l’assolutezza del valore, mostra solo che culture diverse hanno scoperto valori diversi» (Gianfranco Morra, Max Scheler. Una introduzione, Armando, Roma, 1987, p. 65. Di qui in avanti Max Scheler). È Scheler stesso ad affermare esplicitamente quanto appena detto quando, nell’introdurre le modalità di valore, afferma: «rileviamo i punti seguenti, non tanto per analizzare e fondare questi sistemi di qualità e le relative leggi di preferenza, bensì per addurli come esempio del tipo di gerarchia a priori esistente tra i valori» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 142). ↩︎

  82. G. Morra, Max Scheler, cit., p. 63. ↩︎

  83. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 38. ↩︎

  84. A. Lambertino, «Il valore sussistente della persona-amore secondo Max Scheler», cit., p. 162. L’ordine gerarchico dei valori proposto da Scheler è basato su correlazioni aprioriche che valgono formalmente e che dipendono dall’essenza dei valori in sé. Tali correlazioni sono «reali e originarie, […] «aprioriche» poiché [fondate] sulle essenze e non […] perché […] «prodotte» dall’«intelletto» e dalla «ragione»» (M. Scheler, Formalismo, cit., pp. 95, passim). ↩︎

  85. Ivi, p. 62. ↩︎

  86. Cfr. ivi, p. 57. ↩︎

  87. Cfr. ivi, p. 63. ↩︎

  88. Cfr. ivi, p. 62 e sgg. ↩︎

  89. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 68. ↩︎

  90. Ivi, p. 66. ↩︎

  91. Cfr. ivi, p. 98. ↩︎

  92. Relativamente alla distinzione tra l’atto del «preferire» e quello del «posporre» Scheler scrive: «questi due modi di conoscere il medesimo rapporto gerarchico sono tuttavia profondamente diversi» (ivi, p. 122). Facciamo un esempio: ho due valori «a» e «b» dei quali il secondo è posto ad un livello superiore rispetto al primo; la superiorità del valore «b» mi si dà o nel preferire «b» rispetto ad «a», oppure nel posporre «a» rispetto a «b»; in quest’ultimo caso la posizione di superiorità di «b» è da me conosciuta in modo negativo: colgo il deficit valoriale di «a» rispetto al plus appartenente a «b». «La diversità persiste, benché entrambe le modalità d’atti possano riferirsi per una contestualità data a priori al medesimo ordinamento gerarchico. Essa è rigorosamente documentata anche a livello caratteriologico! Vi sono caratteri morali specificamente «critici» che, nella loro forma estrema, divengono «ascetici» e che, per principio, realizzano la posizione di superiorità dei valori mediante l’atto del «posporre»; ad essi si oppongono i caratteri positivi che, per principio, «preferiscono» ed ai quali il singolo valore «inferiore» si manifesta solo dalla «posizione di controllo» a cui, per così dire, assurgono nel preferire. Mentre gli uni perseguono la «virtù» nella lotta contro i «vizi», gli altri sono soliti, in un certo senso, seppellire e sotterrare i vizi con virtù nuovamente acquisite» (ibidem). In riferimento, invece, alla realizzazione di tali atti: «un atto di preferenza può avvenire in modo quasi istintivo, ma può anche richiedere approfondito e meditato esame. Esso non è però mai — secondo Scheler — il frutto di una deduzione da criteri esterni all’evidenza intuitiva dell’atto stesso del preferire e del posporre» (G. Ferretti, op. cit., p. 258). «L’atto preferenziale «deciso» di un valore si differenzia da quello «esitante» […] nella misura in cui la superiorità di un valore appare in modo evidente, mentre gli altri valori della serie affiorano appena nella loro datità» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 222). ↩︎

  93. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 47. ↩︎

  94. Ibidem↩︎

  95. Ivi, p. 49. «Quando dico: «io preferisco la rosa al giglio», io non faccio una scelta. Farò una scelta, fondata su tale preferenza, quando mi decido a cogliere rose o gigli» (G. Ferretti, op. cit., p. 257). E ancora: «io posso scegliere solo fra azioni, mentre posso preferire un bene ad un altro (= preferire empirico) o addirittura un valore ad un altro (= preferire apriori)» (ibidem). Alla scelta è correlata dunque, diversamente che al preferire, la realizzazione fenomenica del valore, mediante l’azione. ↩︎

  96. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 322. ↩︎

  97. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 67. Ricordiamo che «la discriminazione del valore morale delle tendenze […] [viene] affidata non ai contenuti teleologici dell’atto volitivo […], ma ai contenuti axiologici (Wertmaterien) e alle loro relazioni strutturali (Aufbauverhältnisse) inerenti alle tendenze» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., pp. 300-301). ↩︎

  98. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 49. ↩︎

  99. Ivi, p. 232. ↩︎

  100. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 322. ↩︎

  101. Ibidem↩︎

  102. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 234. ↩︎

  103. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 322. ↩︎

  104. Ibidem↩︎

  105. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 233. ↩︎

  106. G. Ferretti, op. cit., p. 273. ↩︎

  107. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 323. ↩︎

  108. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 233. ↩︎

  109. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 322. Inoltre il coglimento prelogico del valore abbiamo visto che precede, introducendolo, il voler fare qualcosa, quindi anche l’obbligo di agire moralmente, essendo diretto alla sfera dal fare, è posposto rispetto al discernimento assiologico. ↩︎

  110. «Il Pflichtsollen [«dover-essere imperativo»], pur non essendo un ideales Sollen [«dover-essere ideale»], ne è conseguenza, in quanto ogni Pflicht [dovere] è un contenuto del dover-essere ideale riferito a una tendenza sotto forma di esigenza (Forderung) e di imperativo e presuppone in ogni caso l’esperienza vissuta del dover-essere ideale» (ivi, p. 323). ↩︎

  111. Il valore non è deducibile dal dover-essere anche perché, «in virtù della sua indeducibilità dal contenuto empirico e in virtù della sua consistenza fenomenologica autonoma» (ivi, p. 322), è ontologicamente indifferente alla sfera dell’esistenza. «I valori non sono […] concetti desunti da cose empiriche e concrete […], ma sono fenomeni autonomi che vengono appresi a prescindere […] dalla natura specifica del contenuto, nonché dall’essere (reale o ideale) o dal non essere (reale o ideale) dei loro portatori» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 233). Mentre, per converso, il dover-essere non può prescindere dall’essere di un valore in quanto «il dover-essere (Sollen) […] presuppone l’apprensione del valore dell’azione da dover compiere e considera tale valore in relazione a un possibile essere reale» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 322). L’indipendenza dell’essere dei valori dall’esistenza di fatto è facilmente comprensibile in virtù della possibilità di «attribuire un effettivo valore [anche] ad un contenuto ineffettivo» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 233). Se di dover-essere di un valore bisogna parlare, lo si può allora fare solo in riferimento al non essere del valore od all’essere del disvalore: «che questo uomo capace — e non invece questo incapace — sia ministro è un fatto che avrebbe valore anche qualora la persona capace non fosse oggettivamente ministro. Ed è solo perché ha valore che questo fatto «dovrebbe» anche verificarsi» (ibidem). ↩︎

  112. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 322. ↩︎

  113. Ibidem↩︎

  114. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., pp. 243-244. ↩︎

  115. D’altro canto, però, le azioni volte al Bene sono tanto più rilevanti, da un punto di vista etico, quanto più devono superare le «resistenze» che si oppongono alla loro realizzazione (cfr. ivi, p. 287). ↩︎

  116. «In tal senso [Scheler] può riprendere il detto socratico che sapere è virtù […]. Ciò che è sbagliato in questo detto è la sua concezione razionalistica. Un sapere morale puramente concettuale non porta infatti con sé il volere morale. Il detto vale però per il sapere in virtù di percezione affettiva» (G. Ferretti, op. cit., p. 275). ↩︎

  117. C. Bernardi, Il fondamento dell’obbligazione morale secondo Scheler, in «Rassegna di scienze filosofiche», 13 (1961), p. 203. ↩︎

  118. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 294. ↩︎

  119. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 59. ↩︎

  120. Ivi, p. 61. ↩︎

  121. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 295. ↩︎

  122. Ibidem↩︎

  123. La «coscienza del dovere» è basata sull’«esperienza-vissuta dell’obbligazione ideale» (ibidem), ma non è «identificabile con la consapevolezza d’una capacità superiore» (ibidem). ↩︎

  124. Ibidem↩︎

  125. Ivi, p. 50. ↩︎

  126. Cfr. ibidem↩︎

  127. «Se l’esperienza-vissuta dell’obbligazione ideale d’un contenuto e l’esperienza-vissuta della capacità di attuarla sono fatti essenziali, egualmente originari ed egualmente esperibili per intuizione, allora ogni «dovere» ed ogni «norma», cioè tutti i contenuti che si impongono alla persona in termini di imperativi, presuppongono una possibile esperienza-vissuta della capacità di attuare il contenuto inerente alla forma imperativa» (ivi, p. 296). ↩︎

  128. Ibidem. Se la «coscienza di potere» e quella di dovere non fossero esperite altrettanto originariamente ed indipendentemente l’una dall’altra, allora non si avrebbe alcuna virtù quale «immediata coscienza di poter attuare quanto viviamo come termine d’obbligazione ideale» (ivi, p. 295): se fosse solo la coscienza dell’obbligazione ad essere immediatamente esperita, si avrebbe solo «una disposizione a fare il proprio dovere, non quindi un’autonoma categoria etica» (ivi, p. 296); se, d’altro canto, non ci fosse «un immediato vissuto dell’obbligazione e se un’esperienza di questo tipo riproducesse semplicemente il vissuto della capacità […], allora la virtù si identificherebbe inevitabilmente con la mera abilità» (ibidem). Il «potere», inteso in tali termini, dipenderebbe dalla pregressa esperienza circa azioni che si è già riusciti ad effettuare. Dal ricordo della capacità operativa circa precedenti esperienze di vita, dipenderebbe la «coscienza del potere». Il «potere» si identificherebbe con l’aspettativa di «esser capace di riprodurre in una determinata occasione quanto precedentemente fatto» (ivi, p. 289). Per Scheler, «questa dissoluzione intellettualistica del «potere» in una sequenza poggia […] su un errore manifesto. Proprio perché abbiamo un’immediata coscienza «di potere qualcosa» ci aspettiamo di poter ripetere questo qualcosa qualora se ne presenti l’occasione» (ibidem). ↩︎

  129. Per Kant, quanto maggiore è lo sforzo fatto nel seguire ciò che la legge morale comanda, tanto maggiore sarà la virtù dell’individuo. Per converso, quanto più è spontaneo fare il Bene, tanto minore sarà il valore morale della persona. La virtù è dunque, in Kant, direttamente proporzionale allo sforzo fatto per adempiere al proprio dovere. Più si patisce nell’accondiscendere alla legge della ragion pratica, più si può star certi di star compiendo il proprio dovere. ↩︎

  130. G. Ferretti, op. cit., p. 276. ↩︎

  131. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 267. ↩︎

  132. Ivi, p. 265. ↩︎

  133. Ivi, p. 267. ↩︎

  134. Ivi, p. 287. ↩︎

  135. Cfr. ivi, pp. 267-268. ↩︎

  136. Ivi, p. 268. ↩︎

  137. Cfr. ivi, p. 263. ↩︎

  138. Ivi, p. 262. Nel caso in cui ci trovassimo, ad es., alle prese con un valore già realizzato, sarebbe insensato asserire che esso «debba essere»: la proposizione «non deve esserci ingiustizia», infatti, si basa sul fatto che il disvalore ingiustizia esista e che debba essere scalzato dall’essere del valore giustizia (Cfr. ivi, p. 261). ↩︎

  139. Ivi, p. 262. «Ciò vale per ogni etica che intenda assumere l’avvio dall’idea del dover-essere, quindi anche per l’etica del dover-essere ideale» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 325). ↩︎

  140. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 283. Scheler, per converso, escludendo ogni obbligazione che si aggiunga ad un naturale discernimento etico volto spontaneamente al Bene, «per un verso […] [rivendica] l’autonomia dell’etica axiologica da ogni riferimento a esigenze di carattere deontologico, e ripone in essa il prototipo di ogni etica; per un altro verso, tende a fondare, ricuperandola, ogni etica deontologica, asserendo che essa si sottrae all’arbitrarietà soltanto se si radica nel discernimento dell’essere autonomo dei valori» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 332). ↩︎

  141. «L’essenziale di ogni valore etico sta in ciò: che la legge morale determini immediatamente la volontà. Se la determinazione della volontà avviene, bensì, conformemente alla legge morale, ma solo attraverso la mediazione del sentimento, di qualunque specie esso sia, e tale sentimento va presupposto affinché la legge divenga motivo determinante sufficiente della volontà; se, quindi, la determinazione non avviene per la legge, l’azione conterrà bensì legalità, ma non moralità» (I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 153). ↩︎

  142. Vedi p. 19, nota 112. ↩︎

  143. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 263. La coscienza del dovere può avere sì un ruolo importante in etica, «come puro ascolto dell’autorità e della tradizione, anche qualora non vi sia la percezione del valore di ciò che è comandato. Tali casi sono però solo delle forme di «economizzazione» di intuizioni etiche antecedenti, e possono come tali entrare nel campo della dimensione etica dell’uomo solo se a loro volta sono colte come oggetto di valutazione morale per la funzione che svolgono. Dato infatti che è il dover-essere che deve fondarsi sul valore, non è possibile in nessun modo derivare un valore morale da un puro dover-essere» (G. Ferretti, op. cit., p. 273). ↩︎

  144. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 331. ↩︎

  145. Il principale ispiratore delle tesi sostenute da Scheler, riguardo a questi due originari modi di relazionarsi all’essente, è Agostino. Esuliamo nel presente contesto dai risvolti teologici della speculazione filosofica di questo — e di riflesso scheleriana. ↩︎

  146. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 98. ↩︎

  147. Nel preferire è necessario che i valori siano dati in toto perlomeno in una coscienza di orientamento: affinché io possa «preferire», devo poter dare la preferenza a questo piuttosto che a quest’altro. Nel caso dell’amore, invece, io posso amare una persona senza che ci sia il bisogno di operare un paragone assiologico con un’altra persona: «mentre l’anteporre e il posporre intendono una pluralità di valori, l’amore e l’odio possono vertere su un unico valore» (A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 223). ↩︎

  148. «Il preferire e il posporre appartengono alla sfera della conoscenza dei valori (e precisamente della conoscenza del livello del valore), mentre l’amore e l’odio non fanno parte degli atti cognitivi. Essi rappresentano un comportamento singolare nei confronti degli oggetti dotati di valore, e questo comportamento non è sicuramente una mera funzione della conoscenza» (M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie (1923), Gesammelte Werke, Band 7, hrsg. von M. S. Frings, Francke Verlag, Bern-München, 1973, tr. it. di Lucio Pusci, Essenza e forme della simpatia, introd. e cura di Gianfranco Morra, Città Nuova, Roma, 1980, p. 227. Di qui in avanti ci avvarremo della traduzione italiana rendendola con Essenza e forme della simpatia). ↩︎

  149. A. Lambertino, «Il valore sussistente della persona-amore secondo Max Scheler», cit., p. 171. ↩︎

  150. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 324. ↩︎

  151. Cfr. Id., Max Scheler, Ordo amoris (1914-1916), in Id., Schriften aus dem Nachlass, vol. 1, Zur Ethik und Erkenntnislehre, Gesammelte Werke, Band 10, hrsg. von M. S. Frings, Bouvier, Bonn, 2000, 1957, tr. it. di F. Bosinelli e V. D’Anna, Ordo amoris, in Scritti sulla fenomenologia e l’amore, introd. e cura di Vittorio d’Anna, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 130. Di qui in avanti ci avvarremo della traduzione italiana rendendola con «Ordo amoris». ↩︎

  152. Guido Pedroli, Scheler e l’intenzionalità della vita emozionale, in «Filosofia», 2 (1951), p. 265. ↩︎

  153. L’odio non è il semplice venir meno dell’amore. Ogni disvalore non è la mera negazione di un valore positivo, ma è l’«esistenza positiva» di un valore negativo, quindi si può odiare solo se si ama, solo se vi è stato un pregresso interessamento per qualcosa, il cui venir meno o non essere stato raggiunto ha poi fatto insorgere il sentimento d’odio. Non che l’odio sia direzionato verso qualcosa che sia stato precedentemente amato, o che «si ami e si odi una stessa cosa secondo uno [sic] stessa prospettiva di valore in uno stesso atto» (M. Scheler, «Ordo amoris», cit., p. 131); «l’odio dipende sempre da una delusione sul verificarsi o sul non verificarsi uno stato di valore che si portava nello spirito intenzionalmente (perciò non ancora nella forma dell’atto di coltivare un’aspettativa)» (ivi, p. 130), perciò: «odio la malattia solo perché amo la salute» (ibidem). ↩︎

  154. Ivi, p. 119. ↩︎

  155. Ivi, p. 268. ↩︎

  156. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 346. ↩︎

  157. Id., «Kant ovvero il valore assoluto della legge morale e della razionalità», cit., p. 93. Contrariamente a quanto asserisce Kant, però, amore ed odio sono atti prelogici-alogici di natura particolare non riducibili a stati d’animo funzionali all’autoconservazione egoistica tendente al piacere sensibile (Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 96). L’amore è stato sovente in filosofia ricondotto ai «sentimenti di reazione» legati agli stimoli sensoriali recepiti, ossia ai «sentimenti di simpatia». I sentimenti di simpatia o stati affettivi non sono l’amare e l’odiare ma piuttosto segni di un amare e di un odiare. Questi stati indicano lo stato di armonia o disarmonia — rispettivamente se si è in una condizione di amore o di odio — del soggetto. Pertanto gli atti d’amore e d’odio sono gli atti fondativi, originari ed irrelati, di ogni eventuale sentimento (stato affettivo, pura simpatia, passioni etc.). La differenza precipua tra l’amore ed i «sentimenti di simpatia» è inoltre caratterizzata dall’intenzionalità che pertiene al primo e che manca nei secondi. L’amore va incontro al valore, si caratterizza difatti come atto, ossia come «un moto del sentimento e un atto spirituale» (Id., Essenza e forme della simpatia, op. cit., p. 221); «l’amore è […] il moto intenzionale in cui, a partire da un valore dato A di un oggetto, si realizza il fenomeno del suo valore superiore che sta in relazione essenziale con l’amore. Esso, dunque, nella sua intima essenza, non è né una mera «reazione» ad un valore precedentemente avvertito, come ad es. «esser lieto» o «esser afflitto», né è una funzione moralmente determinata come il «godere», né è un comportamento nei confronti di due valori antecedentemente dati, come il «preferire»» (ivi, p. 233). ↩︎

  158. Id., Formalismo, cit., p. 276. ↩︎

  159. Ibidem↩︎

  160. Ibidem↩︎

  161. Scheler si distanzia dall’affermazione kantiana circa l’esistenza di un presunto «amore pratico» inteso quale «speciale qualità dell’amore» (ivi, p. 280), asserendo che in realtà «vi è soltanto un amore che induce a forme di comportamento pratiche» (ibidem). ↩︎

  162. A. Lambertino, «Kant ovvero il valore assoluto della legge morale e della razionalità», cit., p. 91. ↩︎

  163. Cfr. M. Scheler, Formalismo, cit., p. 274 e sgg. ↩︎

  164. Ivi, p. 278, nota 46. ↩︎

  165. Ibidem↩︎

  166. Ibidem↩︎

  167. Ivi, p. 323. ↩︎

  168. L’assunto che riguarda l’«allargamento» (ad opera dell’amore) o «restringimento» (ad opera dell’odio) del regno dei valori, non dev’esser frainteso in senso creazionistico: «il fine supremo a cui può condurre ogni attività spirituale — compreso l’amore nella sua forma più pura —, ovvero la «visione delle idee» del filosofo, è in massimo grado distante dal «creare e generare». Tale visione è solo un prendere parte e un congiungersi all’essenza» (Id., Liebe und Erkenntnis (1915), in Id., Schriften zur Soziologie und Weltanschauungslehre, Gesammelte Werke, Band 6, hrsg. von M. S. Frings, Bouvier, Bonn, 1986, tr. it., introd. e cura di Edoardo Simonotti, Amore e conoscenza, Morcelliana, Brescia, 2009, p. 51. Di qui in avanti ci avvarremo della traduzione italiana rendendola con Amore e conoscenza). Amore ed odio rispettivamente dischiudono o velano l’esser superiore dei valori veicolati dagli oggetti, direzionandosi verso l’universo assiologico oggettivo che viene così penetrato emotivamente in modo adeguato o meno, ma mai determinato: «i valori non possono essere creati e distrutti. Essi sussistono indipendentemente da ogni struttura organica di questo o quell’essere spirituale» (Id., Formalismo, cit., p. 323). ↩︎

  169. Ivi, p. 324. ↩︎

  170. È bene precisare che amore ed odio vertono non ai valori in sé, bensì ai loro portatori fenomenici in quanto dotati di valore (oggetti-beni/uomini): «io non «amo» un valore, ma amo sempre un qualcosa che è dotato di valore» (Id., M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 227). ↩︎

  171. Id., Amore e conoscenza, cit., p. 78. ↩︎

  172. Ivi, pp. 78-79. ↩︎

  173. Id., «Ordo amoris», cit., p. 129. Scheler asserisce che «tanto per l’uomo storico quanto per l’individuo la capacità di sviluppo della sensibilità assiologica è illimitata» (M. Scheler, Formalismo, cit., p. 331). ↩︎

  174. Ivi, p. 331. ↩︎

  175. «L’ordo amoris è un apriori emozionale individuale — inteso come una struttura dinamica e retroattiva di preferenze e avversioni assolutamente inconfondibile come l’espressione e la fisionomia di un volto — teso a funzionalizzare la posizione esistenziale nel mondo di una determinata persona, cioè a «predeterminare dinamicamente» i confini di possibilità della sua esperienza. Tale struttura non opera come in Kant sinteticamente, ma preordinando un’apertura sulla datità attraverso un fascio di rilevanza capace di selezionare i contenuti d’esperienza essenziali per quella determinata persona; tali esperienze essenziali entrano a far parte dell’ordo amoris, diventando esse stesse matrici di nuove possibilità d’esperienza, ma in tal modo ne modificano il timbro e l’espressione» (Guido Cusinato, «Rettificazione e Bildung», in Max Scheler, Formare l’uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, tr. it. e cura di G. Mancuso, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 11. Da qui in avanti «Rettificazione e Bildung»). ↩︎

  176. M. Scheler, «Ordo amoris», cit., p. 109. ↩︎

  177. Ivi, p. 119. ↩︎

  178. Cfr. ivi, p. 111. ↩︎

  179. G. Riconda, L’etica di Max Scheler I, cit., p. 47. ↩︎

  180. G. Alliney, op. cit., p. 25. ↩︎

  181. M. Scheler, «Ordo amoris», cit., p. 110. ↩︎

  182. G. Ferretti, op. cit., p. 282. ↩︎

  183. G. Pedroli, op. cit., p. 266. ↩︎

  184. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 238. ↩︎

  185. «L’amore genuino apre gli occhi dello spirito perché possano vedere valori sempre più alti nell’oggetto amato; l’amore li fa vedere, questi valori, e non rende affatto «ciechi» (come dice un proverbio assai assurdo, che evidentemente considera nell’amore soltanto la passionalità istintiva dei sensi)» (ivi, p. 239). ↩︎

  186. G. Riconda, L’etica di Max Scheler II, cit., p. 44. ↩︎

  187. G. Cusinato, «Strati affettivi e vocazione terapeutica della filosofia», cit., p. 61. ↩︎

  188. «Non si ha una tendenza alla posizione di un obiettivo o la volontà di porre un fine, avente di mira il valore superiore e la sua realizzazione. È l’amore stesso, invece, che fa affiorare nell’oggetto il valore di volta in volta superiore, e lo fa in modo continuo e precisamente nel corso del suo movimento — proprio come se tale valore scaturisse «da se stesso» dall’oggetto amato, senza alcuna attività tendenziale dell’amante (sia pure il solo «desiderio» da parte sua)» (M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 239). ↩︎

  189. Cfr. ivi, p. 240. ↩︎

  190. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 227. ↩︎

  191. Ibidem↩︎

  192. Ivi, p. 228. ↩︎

  193. M. Scheler, «Ordo amoris», cit., p. 119. ↩︎

  194. A. Lambertino, Max Scheler, cit., p. 229. ↩︎

  195. «Il désordre du cœur non è un caos, un non-ordine, ma l’ordine di un centro personale che si isola in se stesso e pretende di costituirsi autonomamente, cioè non compartecipativamente» (G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 298). ↩︎

  196. G. Riconda, L’etica di Max Scheler I, cit., p. 105. ↩︎

  197. G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 217. ↩︎

  198. Un maestro è «colui che trasmette il sapere non in virtù di una qualche autorità precostituita, ma grazie alla capacità carismatica di essere Vorbild. […] [È la sua esemplarità che] apre la mente consentendo di scorgere le differenze qualitative richieste dalla realizzazione della propria vocazione individuale» (Id., «Rettificazione e Bildung», cit., pp. 8, passim). ↩︎

  199. Vedi Id., La totalità incompiuta, cit.; Id., «Rettificazione e Bildung», cit. ↩︎

  200. «Il désordre du cœur è […] il punto di partenza, mentre l’ordo amoris è il risultato di un lavoro compartecipativo consistente in una continua rettificazione: solo nella misura in cui intensifico la mia esistenza nello spazio compartecipativo rettifico il mio désordre du cœur. Nella correttezza dell’amore agisce la rettificazione compartecipativa, e questa agisce a sua volta con una funzione riequilibrante» (Id., La totalità incompiuta, cit., p. 298). ↩︎

  201. Vedi Id., La totalità incompiuta, cit.; Id., «Rettificazione e Bildung», cit. ↩︎