Il futuro del Cristianesimo nell’età della tecnica

1. Premessa

Il nostro è il mondo della tecnica. Da mezzo posto al servizio dei fini dell’uomo, la sua presenza ha talmente pervaso ogni aspetto della nostra esistenza da renderla imprescindibile. Questa estensione quantitativa è talmente intensa da prospettare un mutamento qualitativo del nostro orizzonte di senso: la tecnica si trasforma da mezzo a fine. Nel momento in cui diventa necessario per svolgere qualsiasi attività, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine soppiantando le aspirazioni dell’ideologia, della politica, della morale, della religione. È quanto sostiene U. Galimberti in una celebre opera:

Per il fatto che abitiamo in un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi.1

La tecnica, pertanto, sarebbe ormai divenuta l’essenza dell’uomo col rischio di condannare la sua esistenza all’insignificanza: se essa precede tutti i significati che l’uomo può porre, finisce col prevalere e col sostituirli, annullandoli. L’esito nichilistico della tecnica rischia così di diventare un vicolo cieco per l’uomo contemporaneo. Ci siamo già confrontati con Galimberti per contestare la sua condanna a morte della religione, destinata a soccombere nel mondo della tecnica.2 Egli l’ha ricavata dalle tesi di Jaspers e Severino che fanno perno sulla storia del pensiero occidentale interpretata come vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravista dal più antico pensiero dei Greci, nella quale

la storia della metafisica è il luogo ove l’alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi.3

A determinare l’essenza nichilistica della cultura occidentale, di cui la tecnica è l’estrema e più compiuta manifestazione, avrebbe contribuito anche il cristianesimo, in quanto basato sulla fede in un ente supremo (Dio) che fonda la totalità degli enti (il mondo). L’essere di questi ultimi, pertanto, non avrebbe consistenza propria in quanto non sarebbe altro che l’effetto di una causa prima che lo precede, lo pone e lo domina.

La tecnica non sarebbe altro che la prosecuzione in un orizzonte totalmente immanente di questa stessa logica:

Alla scienza e alla tecnica oggi si chiede ciò che un tempo si chiedeva a un dio: la prosperità della terra, la buona salute, la prole, il prolungamento della vita, persino la pace dell’anima mediante la disponibilità delle cose che acquietano e rasserenano. […] Preghiera e ricerca si fondano entrambe sulla manipolazione dell’essere, in vista di un rassicurante vantaggio per l’uomo. La preghiera affida l’essere alla theia techne, la ricerca scientifica alla anthropìne techne. È cambiato il soggetto, ma non l’impiego tecnico dell’essere e la finalità antropologica che l’ha promosso. In Occidente l’uomo ha curato solo se stesso e anche il Dio che ha pensato, l’ha pensato al proprio servizio.4

Le conquiste della tecnica consentirebbero oggi all’uomo di rivendicare per se l’onnipotenza, cioè la capacità di manipolazione dell’essere, che aveva attribuito a Dio nel tempo in cui non disponeva della potenza per intervenire sul mondo in prima persona. Siccome la tecnica gli consegna ora quella potenza, la religione avrebbe di conseguenza perso la propria funzione. L’argomentazione di Galimberti è riconducibile a questo sillogismo che fornisce la motivazione della morte necessaria della religione.

Nel contributo citato abbiamo avuto modo di spiegare che questa visione non regge, perché l’interpretazione nichilistica del cristianesimo è basata su una rappresentazione scorretta di questa religione. Galimberti fraintende il testo biblico e ne tra conclusioni teologiche, antropologiche e cristologiche che non coincidono con l’autentica fede cristiana. Il cristianesimo e la tecnica non condividono la stessa logica di fondo che pensa l’essere come manipolabile in vista di una particolare finalità.

Resta, comunque, il dato di fatto del successo della tecnica nel nostro tempo. Se le cose non stanno come dice Galimberti, per chi è attento al fenomeno religioso rimane aperta la questione del suo rapporto con la tecnica e degli esiti a cui può portare. Il successo della tecnica è un fenomeno negativo o positivo per la religione cristiana? Che cosa comporta? Cosa prospetta per il futuro?

In questa sede presentiamo una risposta a queste domande a nostro giudizio più attendibile di quella elaborata da Galimberti. Dal momento che non riteniamo che tecnica e cristianesimo condividano la stessa logica di fondo, intendiamo precisare la diversa concezione della realtà sottostante all’una e all’altro in termini che le rendano comparabili, per poi istituire un confronto critico.

2. L’essenza della tecnica e la violenza

Per quanto la nostra posizione sia di ferma contrarietà all’interpretazione avanzata da Galimberti del cristianesimo come momento del nichilismo che pervade il pensiero occidentale, siamo invece d’accordo con il giudizio che vede nella tecnica la realizzazione più forte del nichilismo. Questa concezione ci aiuta, inoltre, a chiarire i termini della questione della tecnica: la sua natura nichilistica ci dice che essa ha a che fare in ultima analisi con l’essere. Non a caso Heidegger, colui che ha attirato l’attenzione sulla tecnica come fatto decisivo per la filosofia, imposta il proprio discorso al riguardo ponendo la tecnica come epoca della metafisica.5 Essa, nella prospettiva heideggeriana, appartiene alla fase della storia della metafisica in cui il sottrarsi della verità dell’essere in favore della verità dell’ente si gioca, a partire da Cartesio, all’ombra della soggettività:

nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano dell’uniformità organizzata e per installarsi in essa. Questa uniformità è infatti lo strumento più sicuro del dominio completo, cioè tecnico, della Terra. La libertà moderna della soggettività si fonda completamente nella oggettività corrispondente.6

In altre parole, per mezzo della tecnica l’Io ambisce a porsi come padrone del mondo degli enti; come signore degli essenti, piuttosto che come pastore dell’essere. Alla trasformazione cartesiana dell’uomo in «soggetto» corrisponde una concezione del mondo come quintessenza di «oggetti» che possono essere padroneggiati, adoperati, consumati, rifiutati o eliminati. L’uomo non fa più esperienza di sé come inserito nel mondo, bensì questo mondo è qualcosa che gli sta di fronte.

Leibniz, Kant, Hegel, Marx si inoltrano lungo il sentiero imboccato da Cartesio, fino alla metafisica della volontà di potenza di Nietzsche in cui la volontà regna sul mondo diventato materiale dell’oggettivazione incondizionata dell’essente.

Con la metafisica di Nietzsche la filosofia è compiuta. Ciò vuol dire che essa ha percorso tutto l’arco delle possibilità che le erano assegnate. La metafisica compiuta, che costituisce il fondamento del modo di pensare planetario, fornisce uno strumento per l’ordinamento della terra destinato probabilmente a durare a lungo. Questo orientamento non ha più bisogno della filosofia, perché essa sta già alla sua base.7

Le parole di Heidegger suonano estremamente attuali nel tempo della globalizzazione che proietta l’agire umano in una dimensione planetaria, dell’onnipresenza delle tecnologie telematiche che strutturano la nostra percezione dello spazio e del tempo, della genetica che ci consente di intervenire sulla nostra stessa natura. Oggi è particolarmente evidente il potere ordinatore e manipolatore dell’uomo sugli essenti nella sua portata totalizzante. L’impulso all’agire tecnico viene, infatti, dalla volontà di potenza dell’uomo nei confronti del mondo; ne è la manifestazione coerente e conseguente.

La volontà di volontà impone a forza come forme fondamentali del proprio manifestarsi il calcolo e l’organizzazione totale e ciò, tuttavia, solo al fine di una assicurazione incondizionatamente perseguibile di se stessa. La forma fondamentale di manifestazione sotto la quale la volontà di volontà si installa e si realizza calcolando nel mondo della metafisica si può chiamare in una sola parola «la tecnica».8

Questa definizione risulta adeguata e condivisibile perché trova un riscontro evidente e verificabile nella effettività della tecnica la quale prova l’esattezza del processo di razionalizzazione tecnico-scientifico.9 La tecnica «funziona», chiunque lo può constare! Non c’è molto altro da aggiungere in proposito dal momento che l’efficacia della tecnica si mostra e si commenta da sé, senza che ci sia bisogno di molte argomentazioni. Il vero problema è piuttosto quello di spiegare in senso metafisico il suo potere. Come si giustifica? Come mai gli enti sono soggetti a questa disponibilità negli imperativi del calcolo e dell’organizzazione razionale?

La riflessione si deve concentrare, allora, sull’essenza della tecnica che Heidegger discute nella celebre conferenza La questione della tecnica con la quale interviene nel dibattito culturale tedesco degli anni ’50, dibattito condizionato, nonostante il miracolo economico e lo zelo nella ricostruzione, dal disagio nei confronti del mondo tecnicizzato.10 Egli esorta ad andare oltre i dispositivi della tecnica, oltre gli strumenti per soffermarsi sulla strumentalità in se stessa che rimanda alla dottrina aristotelica delle quattro cause. La causalità greca non consiste soltanto nel produrre dei risultati, degli effetti — assumendo così un modello che la riduce alla sola causa efficiens — ma nell’essere responsabile di qualcos’altro, nel lasciarlo avanzare, nel farlo avvenire. Heidegger lo spiega richiamando Platone (Simposio, 205b):

Ogni far avvenire di ciò che — qualunque cosa sia — dalla non-presenza passa e si avanza nella presenza è poiesis, pro-duzione.11

Il far-avvenire è un condurre fuori dal nascondimento, rendere presente nella disvelatezza. C’è pro-duzione in quanto un nascosto viene nella disvelatezza, nella aletheia. La tecnica non è fabbricazione, ma è un pro-durre ciò che è latente e che non si produce da se stesso, portandolo alla presenza. Quindi, il presupposto metafisico che giustifica l’efficacia della tecnica è il fatto che il reale è in una certa misura velato, ma ciò che è nascosto è comunque disponibile a essere reso presente.

Heidegger, però, rileva una peculiarità della tecnica moderna che si differenzia dalla pro-duzione ed è piuttosto riconducibile al concetto di pro-vocazione il quale indica un altro modo di atteggiarsi nei confronti della natura. Se la pro-duzione è un lasciar venir fuori ciò che è nascosto, la pro-vocazione consiste

nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento.12

Nella pro-vocazione la natura è resa definibile in base al calcolo e rimane disponibile come un sistema di informazioni. Essa diventa una risorsa che può essere impiegata. Mentre la pro-duzione lascia essere quel che già era, pur non presente, la pro-vocazione interviene sull’organizzazione dell’essere con l’ambizione di incorporarlo in un «impianto» in cui tutto è interconnesso alla maniera di un sistema cibernetico autoregolato con azione e reazione.

La tecnica esprime così il carattere fondamentale dell’essenza dell’uomo

che caratterizza il deinón, il violentante nel suo fondamentale e decisivo carattere giacché il far-violenza è un usare violenza contro il pre-dominante: è acquisire all’apparenza, col sapiente combattere, l’essere dianzi precluso, quale essente.13

In altre parole, il disvelamento della pro-vocazione tecnica è una violenza che si impone organizzando gli essenti in funzione non del loro essere, apparente o nascosto, ma delle finalità decise dall’uomo. Heidegger, pertanto, con riferimento al primo coro dell’Antigone di Sofocle (vv. 332-375), definisce l’uomo come to deinótaton che può voler dire «ciò che vi è di più inquietante», ma anche il violento, nel senso di colui per il quale l’uso della violenza caratterizza il suo stesso essere.

Questa interpretazione, però, non comporta un giudizio a priori di condanna assoluta della tecnica da parte di Heidegger. In primo luogo, perché la tecnica non si contrappone in via di principio alla natura. La violenza non sta nella tecnica, ma nell’uomo. Nel momento in cui si ricava energia elettrica dalla combustione del carbone o si sintetizza una nuova molecola non si fa altro che attuare una possibilità comunque già insita nella natura. In questo senso, la tecnica è disvelamento di una verità appartenente alla natura, rientra nei limiti della natura, pur costituendo una pro-vocazione di quest’ultima. In secondo luogo, Heidegger non intende fare a meno del mondo tecnico e respingerlo. Egli si rende ben conto di quanto sarebbe assurdo e controproducente pretendere di cancellare l’epoca della tecnica. Assurdo perché pensare che si possa come riportare indietro l’orologio e prescindere dalla tecnica vorrebbe dire pretendere di astrarre l’essere dal tempo. Impensabile che proprio colui il quale ha asserito l’inseparabilità della questione dell’essere da quella storica e antropologica sostenga una tale posizione, come se si potesse pervenire ad un essere incorrelato con il tempo con l’uomo! Controproducente perché non si può negare che gli antibiotici, la corrente elettrica e gli impianti idraulici (per citare alcuni esempi di progresso tecnico) abbiano dato luogo a miglioramenti sostanziali della condizione umana. Chi oserebbe sostenere che sarebbero preferibili i disagi e i rischi incombenti in loro mancanza?

Heidegger, quindi, non demonizza la tecnica, anche perché se la sua essenza è un modo del disvelamento e come tale tratto costitutivo e permanente dell’essenza umana, rinunciare alla tecnica vorrebbe dire rinunciare all’umanità. Ciò di cui sente il bisogno è un diverso rapporto con la tecnica stessa, più libero.

È in altri termini l’esigenza non di un ripudio o un rigetto dell’atteggiamento tecnico, ma di una sua «delimitazione».14

Il rischio da evitare è che il legame agli oggetti tecnici sia così forte da ritrovarci loro schiavi. Non perché sia la tecnica in sé a minacciare l’uomo, ma perché alla portata raggiunta da essa potrebbe non corrispondere un’adeguata capacità del pensiero di elaborarla in rapporto all’essere. Il problema non è ciò che la tecnica è in grado di fare, ma che ci sia un’etica all’altezza delle vette da essa raggiunte, cioè un pensiero che parta dalla domanda sulla verità dell’essere.

La motivazione di fondo dell’appello all’etica è che

se conformemente al significato fondamentale della parola ethos, il nome «etica» deve voler dire che essa pensa il soggiorno dell’uomo, allora quel pensiero che pensa la verità dell’Essere come l’elemento originario dell’uomo in quanto ek-sistente è già l’etica in senso originario.15

Viene qui messa in luce la derivazione dell’etica dal pensiero meditativo che non si arresta alla strumentalità delle cose, ma si abbandona al presentarsi dell’essere. Il pensiero che medita, quello proprio dell’artista, non utilizza l’ente come strumento, ma lascia emergere l’essere in quanto evento in cui l’uomo è coinvolto. Proprio perché lascia da parte le preoccupazioni strumentali, il pensiero meditante, invece di porsi il problema di come utilizzare al meglio gli enti per i fini dell’uomo (come avviene per il pensiero calcolante), accoglie il volto «naturale» della natura. Esso evita di risolvere la natura nelle ipotesi elaborate dalla ragione scientifica e le consente di manifestarsi nel suo esserci. Ciò non vuol dire respingere la conoscenza scientifica, ma piuttosto evitare di anteporla agli essenti.

L’autentica differenza tra il pensiero calcolante, proprio della tecnica, e il pensiero meditativo, che si esprime nell’opera d’arte, è che si tratta di atteggiamenti e sguardi diversi nel rapporto con il mondo. Da una parte, al primo posto c’è l’uomo che per i suoi scopi usa la natura; dall’altra la primo posto c’è il presentarsi dell’essere all’uomo il quale ne fa esperienza come di una terra più vasta del proprio giardino. Il punto è che il pensiero meditante coglie l’essere come più ampio di ciò che ricade nello spazio dei calcoli umani.

Se prevale un atteggiamento e l’uomo non vede che i propri fini, per conseguirli non può fare a meno di avvalersi della tecnica e ne rimane assoggettato, perché non è più in grado di pensare e di agire al di fuori di essa. Nel momento in cui l’uomo vuole realizzare un proprio fine, deve necessariamente impiegare le risorse che può ricavare dalla natura, cioè ricorrere alla tecnica, e se per lui esiste solo questa volontà (prevalenza del pensiero calcolante), la tecnica diventa allora la totalità del suo conoscere e del suo fare. Di conseguenza, l’uomo viene incorporato nell’impianto della tecnica. Non è forse quel che accade quando un programma per la navigazione in Internet struttura, con il suo funzionamento, il mio modo di rapportarmi alle informazioni?

Se, invece, prevale l’altro atteggiamento, l’uomo mantiene un distacco nei confronti della tecnica che gli consente di non esserne assoggettato.

Noi non possiamo fare a meno degli oggetti tecnici; essi esigono persino da noi un loro crescente perfezionamento. Il nostro legame agli oggetti tecnici, però, è così forte che inavvertitamente ci ritroviamo loro schiavi. Ma noi possiamo anche procedere altrimenti. Noi possiamo invero utilizzare gli oggetti tecnici e tuttavia allo stesso tempo tenerci liberi da essi, pur nella loro normale utilizzazione, in modo da distanziarcene in ogni momento. Noi possiamo fare uso degli oggetti tecnici così come essi esigono. Ma allo stesso tempo noi possiamo lasciare questi oggetti in se stessi come qualcosa che non ci impegna o concerne in ciò che abbiamo di più proprio e intimo. Noi possiamo dire «sì» all’inevitabile impiego degli oggetti tecnici, e possiamo dire allo stesso tempo «no», nel senso che impediamo loro di pretenderci esclusivamente ad essi e così di deformare, confondere e infine devastare il nostro essere. Se però noi in questo modo diciamo contemporaneamente «sì» e «no» agli oggetti tecnici, non diviene il nostro rapporto al mondo tecnico ambiguo ed incerto? Tutt’al contrario. Il nostro rapporto al mondo tecnico diviene meravigliosamente semplice e sereno. Noi ammettiamo gli oggetti tecnici nel nostro mondo di tutti i giorni e nello stesso tempo ve li teniamo fuori, cioè li lasciamo a se stessi come cose che non sono niente di assoluto, che anzi non possono fare a meno esse stesse di qualcosa di più alto. Potremmo designare con un’antica espressione questo atteggiamento contemporaneamente di sì e no riguardo al mondo tecnico come la serena, libera disposizione delle cose.16

Nella lunga citazione Heidegger espone chiaramente la propria convinzione che il pensiero meditante consente di prendere le distanze dalla tecnica, pur senza abbandonarla, in modo da non subordinare tutto ad essa, ma di disporne liberamente alla luce dell’essere.

Lo scetticismo riguardo a questa libertà è l’aspetto che distingue di Galimberti da Heidegger. Secondo il filosofo italiano, il tratto veritativo per la tecnica viene eroso dalla sua stessa prassi, nel senso che, con l’avvento della tecnica moderna, la verità non preesiste alla produzione, ma è a sua volta prodotta: la verità si fabbrica. La tecnica, pertanto, non ammette una verità dell’essere che la precede e che sostiene un’etica che la possa dirigere; la tecnica ammette solo se stessa. Dissolvendo ogni pretesa di assoluta, la tecnica dissolve anche quell’ambito che è la verità come svelamento a favore della verità come procedura efficace.

Qui la tecnica, prima di essere strumento nelle mani dell’uomo, è visione del mondo che decide la natura delle cose e la qualità dello sguardo.17

L’uomo, infatti, può impiegare le cose come mezzi e strumenti solo là dove la tecnica ha portato in evidenza la strumentalità di tutte le cose. Galimberti sostiene che l’essenza della tecnica è la disposizione del mondo, il vedere il mondo come qualcosa di cui disporre, e che questa visione è incompatibile con altre. Finisce, anzi, per prevaricarle. Una volta che si accetta la logica della tecnica, non c’è più spazio per visioni del mondo di segno diverso. La logica della disposizione del mondo è totalizzante: tutto diventa qualcosa che può prestarsi ad un uso strumentale. Vengono meno i margini di appello a Dio, all’essere, all’Io o a un qualche altro assoluto che possa dare senso al mondo, dal momento che tutto può essere costruito o decostruito a seconda dei casi.

Galimberti spiega la tendenza della tecnica alla prevaricazione ricorrendo alle argomentazioni di Severino. Questi, a differenza di Heidegger, coglie nella stessa concezione greca dell’essere che l’essere era già pensato fin dall’inizio come téchne, cioè come potenza di fare essere e non essere tutte le cose. La sua tesi è che l’Occidente si è allontanato dal precetto parmenideo secondo il quale solo l’essere è e può essere definito, commettendo così un errore capitale. Introducendo il divenire, l’Occidente avrebbe pensato l’essere degli enti come soggetto al non-essere, perché nell’orizzonte del divenire ciò che ora è nel passato non era e in futuro può non essere più. Un qualunque tavolo non era prima di passare per le mani di un falegname e non sarà più qualora venga bruciato. Dopo Parmenide, la filosofia greca ha evocato

il divenire, inteso come la dimensione visibile dove le cose provengono dal niente, dopo essersi provvisoriamente trattenute nell’essere. Per la prima volta il pensiero greco si rivolge all’opposizione infinita dell’essere e del niente e intende il divenire come un processo in cui ne va dell’essere, sia come oscillazione delle cose tra l’essere e il niente.18

La tecnica non è altro che una delle forme che ha assunto la concezione occidentale dell’essere come diveniente; l’uomo vi fa ricorso perché ne ricava l’illusione di poter controllare l’oscillazione delle cose tra l’essere e il niente. Egli crede di avere il potere di controllare il divenire secondo la propria volontà, senza avvedersi di esserne condizionato. Occupando l’intero spazio di vita dell’uomo, finisce col sostituire i fini da lui posti con gli effetti del proprio agire strumentale. L’esistenza viene ridotta ad un sistema di cause ed effetti in cui non contano i significati e di cu l’uomo non è che un componente. La tecnica diventa l’essenza dell’uomo per il dislivello tra la capacità che essa ha raggiunto e la capacità umana di anticiparne gli effetti e collocarli in un più vasto orizzonte di senso. L’uomo è assorbito dalla tecnica perché i suoi effetti superano la capacità umana di dare loro un senso; la tecnica è sempre avanti rispetto alla cultura, la plasma e non viceversa. I progressi tecnici spiazzano e precedono l’elaborazione culturale.

Ci sembra, però, che ci sia un’altra spiegazione dell’imperio della tecnica, non considerata da Galimberti.

Il dibattito sulle tesi sue e di Severino, per lo più, si concentra sull’estensione del nichilismo nel pensiero occidentale. Gli interventi in proposito si preoccupano principalmente di discutere se la filosofia sia davvero dominata dal nichilismo e in quale misura. È il nichilismo a occupare il centro dell’attenzione, ci si impegna a definirlo e delimitarlo. Si trascura così un’altra questione altrettanto importante: la genesi del nichilismo.

Galimberti e Severino ci parlano della presenza del nichilismo in Occidente. Ci si chiede se danno una valutazione corretta della vastità di tale presenza, ma in tal modo si sottovaluta un fatto sul quale non si può non essere universalmente d’accordo con loro: nel pensiero occidentale il nichilismo c’è senz’altro e si può tranquillamente affermare che ne costituisce la deriva più pericolosa il cui apice sta nella assolutizzazione della tecnica. Se questo può essere considerato un punto fermo condivisibile, il problema che ci si deve porre — prima ancora di valutare l’estensione della follia nichilista — è la ragione per cui l’uomo, in particolare l’uomo dell’Occidente, si volge al nichilismo. Quale motivo giustifica un’adesione tanto massiccia ed entusiastica a tale follia?

La risposta è stata data da Heidegger. Come abbiamo visto, egli mette in relazione la tecnica con la violenza che è propria dell’essenza dell’uomo. La genesi della tecnica è antropologica. La tecnica c’è perché l’uomo vuole poter disporre dell’essere; anche Severino lo sostiene quando attribuisce la tecnica ad una pretesa illusoria dell’uomo. E qui vale la pena di richiamare anche la rilettura heideggeriana della filosofia moderna come dispiegamento della volontà di potenza che nella tecnica viene pienamente alla luce, rilettura abbozzata nella conferenza La fondazione dell’immagine moderna del mondo del 1938, pubblicata dopo la guerra col titolo L’epoca dell’immagine del mondo nella raccolta di saggi Sentieri interrotti.

Nella prospettiva di Heidegger, è il carattere violento dell’essenza dell’uomo ad incoraggiare e alimentare il dominio della tecnica. Rispetto al tema del presente contributo, cioè il rapporto fra la tecnica e il cristianesimo, la prospettiva antropologica che suggeriamo impone di verificare se quest’ultima stia dentro l’orizzonte della violenza, oppure se segue una logica diversa. Nel primo caso avrebbe ragione Galimberti e il cristianesimo non sarebbe altro che una tappa lungo il sentiero del nichilismo verso la tecnica. Nel secondo caso, invece, il cristianesimo apparterrebbe ad un paradigma antropologico alternativo a quello della violenza e della tecnica. La domanda di fondo, allora, diventerebbe: che posto ha il paradigma cristiano nell’epoca in cui predomina il paradigma tecnico?

3. L’essenza del cristianesimo e la croce

Galimberti, sulla scia di Severino, accomuna il cristianesimo alla tecnica, perché lo considera in sostanza appartenente allo schema di pensiero greco. Invece, pur avendo assimilato in teologia alcune categorie greche, si muove su una scacchiera diversa. È vero che per alcuni tratti, anche molto lunghi, della sua storia la teologia si è ellenizzata con le conseguenze denunciate dai due filosofi, ma l’essenza del cristianesimo non appartiene alla Grecia ed il pensiero teologico coerente con essa ha prodotto una rielaborazione delle categorie greche.19 L’essenza del cristianesimo va pertanto cercata in un’altra direzione. Non si tratta di un tema che può essere preso alla leggera, perché è forte il rischio di incorrere nello stesso fraintendimento di Galimberti e Severino proiettando sul cristianesimo categorie culturali con le quali ha interagito, ma che non appartengono alla sua radice. Il presupposto necessario di queste affermazioni è l’irriducibile originalità cristiana rispetto alle altre visioni del mondo. Diventa allora indispensabile, ai fini della nostra riflessione, cercare di dimostrare tale presupposto rispetto alla tecnica che è il riferimento principale di questo contributo.

Dal momento che l’aspetto qualificante che abbiamo individuato è quello antropologico, è su questo piano che ci dobbiamo muovere per istituire un confronto effettivo. C’è differenza, sul piano antropologico, tra cristianesimo e tecnica? Se in prospettiva antropologica la tecnica è conseguenza dell’essenza violenta dell’uomo, allora il punto cruciale sul quale concentrare l’attenzione è il rapporto tra cristianesimo e violenza. Lo ha esplorato a fondo in opere importanti René Girard, le cui tesi hanno acquisito nel corso degli anni un consenso crescente. Esse si rivelano particolarmente adeguate alla nostra riflessione poiché

consentono di interpretare quanto vi è di segretamente cristiano nella cultura e nel mondo di oggi, con delle argomentazioni molto concrete che non hanno nulla di dottrinario o di astrattamente confessionale, e che possono essere condivise dai credenti come dai non credenti.20

Girard ha cominciato ad elaborare il suo pensiero nell’ambito della critica letteraria, mettendo a fuoco una situazione umana affrontata anche da scrittori molto diversi e lontani tra loro con una regolarità sorprendente: il desiderio.21 Questo dato ricorrente lo induce a credere che la letteratura evidenzi una realtà oggettiva universale.

Il desiderio umano — sostiene Girard — nasce da un comportamento che è già importante nell’apprendimento degli animali superiori, ma che diventa particolarmente intenso nell’uomo: l’imitazione o mimèsi, che è da intendersi non come un’imitazione passiva, bensì come un processo dinamico e interattivo che fa del nostro cervello una prodigiosa macchina di simulazione.22

Il modello da imitare, chiamato da Girard mediatore, indica all’imitatore che cosa desiderare e il rapporto tra tende tanto più a diventare di rivalità quanto più sono vicini. Il conflitto non si limita all’oggetto del desiderio, ma ha portata ontologica in quanto è in gioco l’essere stesso delle due parti, la rispettiva unicità e originalità.

Il processo imitativo ha anche una forte valenza sociologica; infatti, può essere impiegato come modello euristico in rapporto a questioni cruciali come la trasmissione della cultura, il conflitto e la stabilità delle forme di relazione sociale… Girard gli riconosce un valore collettivo e, passando dalla critica all’antropologia, si spinge oltre fino ad indicarlo come determinante per l’origine stessa della società.23 All’interno di una comunità, la rivalità che si scatena fra due o più persone viene imitata e la violenza connessa alla rivalità si diffonde per contagio, come avviene nelle risse nelle vendette.

I processi stessi di apprendimento, sviluppo e esistenza dell’uomo lo espongono dunque a rischi grossissimi, spesso mortali.24

La difesa elaborata dai gruppi sociali per impedire che la diffusione della violenza li conduca sulla strada dell’auto-distruzione è quella di scaricare ogni colpa su un’unica figura che si distingue dagli altri per qualche motivo. La violenza collettiva viene indirizzata su questa figura la quale diventa la vittima di un sacrificio che esorcizza la violenza dei singoli trovandole una giustificazione e a cui si attribuisce il nome di capro espiatorio.

Alla violenza nei confronti della vittima espiatoria viene attribuito un valore salvifico da cui nasce il sacro, ossia un potere superiore da cui dipende l’esistenza della comunità. I divieti e i rituali che regolano il rapporto con il sacro hanno la funzione di proibire ciò che ricorda il sacrificio primordiale e di perpetuarne l’efficacia mediante la ripetizione simbolica. Questo comportamento apparentemente contraddittorio ha una motivazione ben precisa. Affinché il meccanismo vittimario continui, con il passare del tempo, a scongiurare le spinte disgregatrici della violenza che costantemente si ripresentano e a preservare la coesione sociale, il sacrificio deve ripetersi nascondendone la vera natura.

L’occultamento della vittima nell’inconscio persecutorio della cultura impedisce di trovare le prove dirette di tutta questa evoluzione, che non è da intendersi come un’evoluzione deterministica e rispondente a un progetto a priori, ma come una modalità concreta di sopravvivenza in cui l’importante è trovare una via d’uscita dalla violenza intestina, e in cui forme più arcaiche possono coesistere con forme più evolute e recenti. […]

Si può parlare di cultura vera e propria quando il sistema è riuscito a ripetere sotto controllo le crisi nel rito sacrificale, istituendo in tal modo i divieti, ossia quando questo sistema di sopravvivenza di gruppo si qualifica come religioso. Diventa a questo punto possibile una rifondazione periodica della comunità. La vittima viene percepita come un potere superiore che, con la dinamica propria del sacro, è da espellere finché è interno al gruppo (transfert di aggressività) e da venerare quando è ritornato benefico e esterno (transfert di divinizzazione).25

Girard individua così un legame strettissimo tra religione e società che è riscontrabile nel rito. Entrambe condividono lo stesso evento originario, il sacrificio del capro espiatorio, e l’una consente l’esistenza dell’altra. Di ciò si trova documentazione nei miti alla base della costruzione religiosa i quali non sono altro che il resoconto trasfigurato di quanto accade nella persecuzione della vittima.26

L’indagine antropologica di Girard presenta la violenza, nella sua connessione con il fenomeno imitativo, come un aspetto peculiare delle relazioni umane. Il suo pensiero mostra chiaramente come e perché la violenza della tecnica, per tornare al tema del nostro contributo, nasce dall’uomo. Quella della tecnica è la violenza propria di un mondo ormai desacralizzato in cui i miti non hanno più la forza persuasiva e occultante di un tempo. Nel mondo della tecnica, pertanto, la violenza viene mascherata e giustificata dalla razionalità solo apparentemente neutra del calcolo e delle procedure, ma alla radice è la medesima violenza prodotta dai processi imitativi. L’accostamento qui operato tra violenza e tecnica a partire dalla riflessione di Girard può sembrare a prima vista arbitrario e azzardato. In realtà, è lui stesso a giustificarlo quando afferma che la volontà di potenza di Nietzsche deriva appunto dai processi imitativi.27 Una lettura unitaria della vita e dell’opera del filosofo tedesco mostra come il suo ripetuto coinvolgimento in rapporti di rivalità che lo hanno visto sistematicamente sconfitto (in testa a tutti quello con Wagner) abbia cercato compensazione in una visione del mondo che aspirava alla propria divinizzazione.

Ricordiamo che Heidegger ha riconosciuto nella volontà di potenza la concettualizzazione metafisica sottostante all’assolutizzazione della tecnica. Spostandoci dal piano metafisico a quello antropologico, dovrebbe risultare allora chiaro che il predominio della tecnica segue la stessa logica dei comportamenti violenti rivelata da Girard. Egli non sembra di questa idea, perché definisce la tecnologia come un potere frenante che aiuta ad incanalare il mimetismo e quindi a contenere il propagarsi della violenza.28 Nello stesso testo, però, si dichiara in sintonia con la tesi heideggeriana della dimenticanza dell’essere nell’età moderna che gli pare collegata al meccanismo vittimario.29 Come abbiamo constatato, tale tesi evidenzia l’essenza violenta della tecnica in prospettiva antropologica. Perciò il potere frenante della tecnica risiede appunto nel fatto che essa riproduce il funzionamento della violenza mimetica in altra forma.

Ma la valenza delle tesi girardiane rispetto alle questioni qui affrontate è anche un’altra in quanto consentono di istituire il confronto con il cristianesimo che qui ci proponiamo.

Se da un punto di vista antropologico la tecnica è coerente e conseguente con la violenza che si accompagna ai comportamenti imitativi, non altrettanto si può dire del cristianesimo. Girard è pervenuto a tale conclusione nell’analisi della componente mitica delle religioni. Il Vangelo, diversamente da tutti i racconti mitici, invece di ripetere e confermare lo schema vittimario e sacrificale, ne svela la logica e la squalifica.

Il mito racconta l’uccisione di una vittima che costituisce il capro espiatorio caricato di tutte le colpe su cui indirizzare l’odio collettivo, oppure divinizza la vittima per occultare la violenza che ha subito. La mitologia è un gioco labirintico di trasformazioni e di travestimenti; ogni dio è una vittima uccisa, o per essere più precisi una serie indeterminata di vittime uccise, ognuna delle quali alimenta e rafforza le precedenti vittime divinizzate. Anche gli uccisori possono trasformarsi in entità divine nell’elaborazione mitologica. Gli esempi addotti da Girard spaziano dai miti dei nativi americani ai miti greci, come quello di Edipo e quelli del ciclo di Dioniso nei quali rinviene la conferma più esplicita della propria interpretazione.

Il presupposto comune a tutti i miti è la colpevolezza delle vittime. Non ci sono capri espiatori innocenti nella mitologia e, di conseguenza, non ci sono persecutori colpevoli.

Sotto questo aspetto, i Vangeli presentano una differenza radicale in quanto svelano la persecuzione della vittima, invece di occultarla: la morte di Gesù in croce è il sacrificio di un innocente. I Vangeli dicono ciò che i miti tacciono descrivendo la persecuzione dell’innocente e il contagio mimetico che si propaga irresistibilmente nella comunità coinvolgendo la gente di Gerusalemme e persino Pietro. Nel Vangelo la valutazione morale delle vittime e degli uccisori si ribalta rispetto ai miti. La tesi forte di Girard è che la Bibbia non è un mito, contrariamente a quanto sostenuto dalla cultura moderna e dal programma di de-mitizzazione di Rudolf Bultmann.30

Dalla rivelazione antropologica racchiusa nei Vangeli discende la preoccupazione moderna per le vittime che, pur a fatica, si è comunque fatta strada nella cultura occidentale, anche atea. Girard, quindi, sottolinea anche la forte valenza civilizzatrice del messaggio cristiano. Non bisogna, però, cadere nell’equivoco di considerare la sua lettura soltanto umanistica: la croce spezza la morsa dei meccanismi vittimari perché in Gesù si fa presente nella storia l’amore di dio che indica una strada alternativa a quella della violenza mimetica.

Tutte le comunità umane trovano la loro unità contro o intorno alle loro vittime. La pace di una comunità è perciò inseparabile da una qualche forma di violenza «legittima», più o meno memore dall’assassinio collettivo da cui ha preso origine. […] Gesù vuole sostituire quest’unificazione violenta a vantaggio di una interamente fondata sull’amore fraterno.31

C’è una logica della croce opposta alla logica della violenza; la prima è di origine divina, ma è alla portata dell’uomo tanto quanto la seconda che Girard definisce satanica. Attraverso Gesù, Dio vuole dire all’uomo che è possibile e più desiderabile vivere relazioni di dono e di servizio, piuttosto che di rivalità e scontro.

Tutto questo era già stato intuito proprio da Nietzsche che Girard considera perciò il massimo pensatore teologico del XIX secolo.

Nietzsche è stato il primo a far notare che la difesa delle vittime è un monopolio giudaico-cristiano rispetto a tutta la mitologia mondiale.32

Egli ha compreso benissimo qual è l’unicità del cristianesimo e nello scegliere Dioniso come emblema anti-cristiano individua con precisione geniale un modello favorevole alla persecuzione delle vittime, senza preoccupazioni di sorta. La follia di Nietzsche è consistita nel prendere parte per la violenza dionisiaca respingendo brutalmente la prospettiva cristiana, anzi facendola oggetto di attacchi feroci come se fosse un male da debellare. In negativo, questo è un segnale in equivocabile del riconoscimento, da parte sua, di quanto il cristianesimo sia speciale nel prendere la parte delle vittime.

Il pensatore tedesco interpretò questa preoccupazione unica nel suo genere non come una superiorità, bensì come un marchio di infamia contro la Bibbia e soprattutto i Vangeli, attribuendo tale singolarità a una propensione verso gli oppressi, perennemente vittimizzati dalle aristocrazie al potere.33

La dicotomia tra il crocefisso e Dioniso sta a significare che c’è una diversità radicale tra la logica cristiana e la logica della tecnica dal momento che quest’ultima si situa nell’orizzonte della volontà di potenza, cioè della violenza, e non appartiene a quella dell’amore fraterno. Con buona pace di Galimberti, il cristianesimo non è un momento dell’ascesa della tecnica, ma una via che conduce in un’altra direzione. Il discorso di Girard, che ci fa da colonna portante, tocca molti versanti (psicologico, antropologico, sociologico, teologico…) ed è complesso da prendere in esame per le sue implicazioni di vasta portata in cui grandi problemi si intrecciano e si influenzano vicendevolmente. Una tale ricchezza di risvolti rende inevitabili le zone d’ombra. La critica cristiana alle tesi girardiane — che non può certo essere sospettata di mala fede e pregiudizio, di fronte ad un’apologia così marcata del cristianesimo — rileva infatti carenze da un punto di vista teologico nella concezione dell’amore e sotto il profilo morale nel modello di relazione interpersonale.34 Il rischio è quello di una corruzione della parola cristiana «Dio è amore» nei termini di intendere l’amore come Dio, di divinizzare l’amore, con la conseguenza di una sua banalizzazione che legittima qualsiasi stile di vita purché rispondente all’immediatezza dell’emozione soggettiva.

Ci sembra che quest’accusa sia da respingere, perché una lettura attenta dei testi di Girard presenta l’amore cristiano come rivolto anche a coloro che non risultano graditi alla mia soggettività. Questo in virtù non di uno sforzo volontaristico, ma dell’azione dello Spirito che non soppianta il desiderio e i sentimenti dell’uomo, bensì li libera proprio dall’arbitrio soggettivistico e pulsionale. Sono questioni che andrebbero riprese e discusse ulteriormente; riteniamo ad ogni modo innegabile che, pur con tutte le sue lacune, la prospettiva girardiana ha il merito di denunciare la religione sacrificale e di sottolineare l’incompatibilità tra il cristianesimo e la violenza che pretende di assoggettare l’altro alla mia volontà di potenza. Siccome quest’ultima non si rivolge solo alle persone ma, ci suggerisce Heidegger, coinvolge con la tecnica anche il mondo a cui tutti i soggetti co-appartengono, possiamo affermare la diversità radicale tra logica cristiana e logica della tecnica. Richiamando quanto detto in chiusura del paragrafo precedente, l’eterogeneità fra cristianesimo e tecnica ci impone di valutare l’esito del loro rapporto.

4. Prospettive future del cristianesimo

Che cosa si devono aspettare i cristiani dal confronto con la tecnica? Che cosa dovrebbero fare?

La situazione attuale li vede chiaramente soverchiati dalla potenza dell’apparato tecnico che si impone ovunque. Il primo scenario possibile è che tale esito sia definitivo e che non ci sia più niente da fare. L’alternativa sembra essere la capacità del cristianesimo di sopravanzare l’efficacia della tecnica conquistando così il favore dell’umanità.

Se la fede potesse dimostrare che ottiene degli effetti maggiori di quelli della tecnica, riguadagnerebbe il peso perduto nella società. È la posizione di chi ritiene che la scristianizzazione diffusasi negli ultimi due secoli sia da attribuire ai cristiani stessi. L’idea di fondo è che ci sia stato, da parte dei credenti e delle chiese, un cedimento su uno o più aspetti decisivi della fede cristiana e così facendo si sia dato spazio alle forze e alle idee anti-cristiane. Bisognerebbe allora ritornare al passato, recuperare l’ortodossia o l’ortoprassi che sono andate perdute con innovazioni che si sono rivelate delle corruzioni e la situazione cambierebbe. A seconda dei punti di vista, si tratta di ripristinare la retta liturgia, di riaffermare le pratiche devozionali, di intensificare la preghiera, di ritornare all’incrollabile fermezza dottrinale e morale, di attenersi all’autorità del magistero e della gerarchia…

In fin dei conti, questo conservatorismo nostalgico segue la stessa logica della tecnica: se si prega, se si crede, se si celebra, se ci si comporta nel modo giusto, allora la fede dimostrerà di essere più efficace, più potente della tecnica e riguadagnerà consensi. Tale logica contraddistingue anche la posizione utopistica di chi vede il modello a cui conformarsi non in un passato da cui ci si è allontanati, ma in un futuro nel quale realizzare un aspetto del cristianesimo finora ignorato o attuato solo parzialmente. I sostenitori di questa linea affermano che la crisi della religione cristiana dipende dal fatto che non è stata ancora vissuta e presentata in modo corretto. Ciò avverrà quando si metterà al primo posto, di volta in volta, il carisma di un movimento o di un leader, il servizio agli ultimi, una teologia più aperta alle categorie culturali del presente, la liberazione, un modello di Chiesa più pluralista, la Parola di Dio… Anche qui si tratta di aderire ad una corretta procedura di azione o di pensiero che ottiene dei risultati migliori, più desiderabili, di quelli della tecnica.

La dicotomia fra tradizione e utopia — o, se si vuole, tra istituzione e profezia, tra fedeltà e rinnovamento, a seconda degli aspetti che si sceglie di sottolineare — non evidenzia altro che due facce della stessa medaglia, due versioni della medesima logica: quella che riduce il cristianesimo ad un suo aspetto particolare e lo interpreta come una potenza che agisce là dove si opera nel modo esatto. Proprio come la tecnica, appunto.

È uno stile di pensiero che troviamo assolutamente fuorviante e quindi non ci interessa discutere analisi del genere. L’essenza del cristianesimo è la fede in Gesù Cristo crocifisso dagli uomini, resuscitato dal Padre nella potenza dello Spirito che rivela l’amore di Dio per gli uomini e il suo progetto di unione con loro nella partecipazione alla vita divina. Tutto il resto è secondario e derivato rispetto a questo nucleo. Le interpretazioni del cristianesimo che accentuano questo o quell’aspetto e condividono la logica della potenza sono inattendibili e corrono il rischio di sfociare in esiti anti-cristici. Il crocifisso si situa agli antipodi della volontà di potenza e delle sue manifestazioni violente. Lo attesta chiaramente San Paolo nell’inno cristologico di Fil 2, 6 nel quale definisce l’identità di Gesù impiegando il concetto di kénosi, intendendo con esso l’autospoliazione, lo svuotamento di sé da parte di Dio nella sua relazione con l’umanità.

Dio non si im-pone, ma si colloca sullo stesso piano dell’uomo senza avvalersi delle sue prerogative divine. L’unico suo linguaggio, l’unica sua condotta è l’amore gratuito che accoglie qualsiasi risposta, anche il rifiuto, anche la violenza. Ancora Paolo, nel primo capitolo di 1 Cor, descrive questa logica come paradossale in quanto sceglie ciò che per il mondo è debolezza, stoltezza, nullità. La potenza di Dio, agli occhi del mondo, è debolezza. Qui entriamo in contatto con un dato originario ed essenziale della fede. La potenza di Dio è la potenza debole, la non-potenza, dell’amore, su tutt’altro versante della volontà di potenza dell’uomo ed è estranea ad ogni violenza e a ogni desiderio di predominio.

Queste non sono idee stravaganti od eccentriche sostenute per avvalorare una tesi che ci sta a cuore. È, invece, il volto di Dio che si presenta a chi mette a fuoco il proprio sguardo impiegando la lente della fede cristiana: la priorità riconosciuta alla rivelazione nella determinazione di ciò che è veramente divino e di ciò che è veramente umano. Alla luce di essa possiamo affermare che l’identità di Dio non è coglibile «oltre» o «al di là» dell’umanità di Cristo, come il magistero indicava già anticamente ed è tornato a ribadire con chiarezza in tempi recenti.35 Il recupero di una teologia cristocentrica è stato sostenuto, tra gli altri, da H.U. von Balthasar, H. Mühlen, A. Gesché, J. Ratzinger e impone di sviluppare il discorso su Dio in stretta aderenza alla storia umana di Gesù. Quest’ultima, nella sua interezza dalla nascita alla croce, si pone costantemente come scelta di ciò che agli occhi del mondo è debolezza estranea alla concezione umana di Dio.

La divinità di Dio si dà nella kénosi, nell’autovincolamento della stessa essenza di Dio che arriva fino all’estremità della croce.36

L’autospoliazione non è un atto accidentale o occasionale da parte di Dio, ma è l’atteggiamento che esprime in pieno la sua identità trinitaria in cui la relazione di comunione è all’insegna del dono totale. Il fatto è che la prospettiva kenotica, per quanto ineccepibile, è stata raramente sviluppata a fondo in tutte le sue implicazioni con un discorso organico e sistematico. Ciò spiega perché sono così frequenti posizioni sull’esperienza religiosa ed ecclesiale cristiana la cui logica di fondo non rispecchia quella della croce. Ad ogni modo, ci sono pensatori che in anni recenti si sono impegnati, secondo modalità diverse, in una riflessione approfondita nell’ottica della kénosi. Anche se le loro tesi non sono universalmente condivise, esercitano comunque un effetto di salutare provocazione. Tra i filosofi, si sono impegnati lungo questa linea M. Ruggenini37 e G. Vattimo.38 Tra i teologi spiccano i nomi di S. Bréton,39 E. Jüngel,40 S. Quinzio.41

Ci sono alcuni segnali di una maggiore recezione della prospettiva kenotica e di interpretazioni degli scenari futuri del cristianesimo in base ad essa.

È il caso di Quinzio che parla esplicitamente di fallimento storico del cristianesimo come condivisione necessaria, da parte della Chiesa, della croce di Cristo. La comunità cristiana, corpo di Cristo, deve morire, essere sconfitta dal mondo. Solo passando attraverso il varco della croce si può giungere al compimento escatologico della risurrezione finale. Rispetto all’avverarsi di quest’ultimo, il credente non può fare affidamento su nient’altro che la fede, perché l’esperienza storica della fede è oggi all’insegna della sconfitta.

A. Rouet, vescovo di Poitiers, sostiene che il cristianesimo dovrebbe abbandonare le proprie presunzioni di autosufficienza ed onnipotenza, derivanti dalla plurisecolare condizione di cristianità terminata storicamente, ma non ancora psicologicamente. Il cristianesimo non dovrebbe temere, invece, di mostrarsi fragile, non per strategia, ma perché si tratta di una realtà oggettiva. Riconoscere questo vuol dire non aver paura di affidarsi unicamente ad una fede nuda e spoglia che non si regge su sicurezze mondane ed essere più aderenti all’annuncio evangelico.42

In Italia, l’accettazione della fragilità del cristianesimo è vista con simpatia da G. Canobbio in relazione all’esigenza di una riforma strutturale della Chiesa affinché meglio realizzi la sua missione di annunciare il Vangelo.43 La sensibilità di Canobbio trova risonanze anche in un altro teologo, appartenente ad una diversa generazione e ad un diverso ambito disciplinare (la morale), A. Fumagalli:

L’immancabile fragilità della testimonianza cristiana dovrebbe liberare la Chiesa dallo spirito di «performance» che pervade il mondo attuale all’insegna della triplice P: potere, prestigio, possesso. Nel mondo postmoderno la Chiesa è invitata a contemplare la kénosi di Dio in Cristo al fine di testimoniare il suo venire nel mondo spoglio di onnipotenza e rivestito di fragile carne. Ciò che traspariva luminoso nella Chiesa delle origini umile e perseguitata è andato, infatti, confondendosi con il lustro riconosciuto alla Chiesa a partire dall’epoca costantiniana. Ma già le radici ebraiche del cristianesimo insegnano che la testimonianza di Dio risplende luminosa più nell’esilio che nel tempio di Gerusalemme. […] La rinuncia della Chiesa a farsi valere, dopo secoli di rilevanza, è l’abdicazione al potere del mondo o l’unica possibilità di testimoniare gratuitamente e quindi limpidamente Cristo.44

L’onesta assunzione della fragilità e della debolezza come autentica aderenza al Vangelo comporta, in rapporto alla tecnica, di non pretendere di prevalere su di essa. Il cristianesimo non deve pretendere di mettersi in competizione con la tecnica, ponendosi sul suo terreno, perché la sua essenza è tutt’altra. Il che non vuol dire inerzia o fatalistica passività. La comunità cristiana è esortata ad impegnarsi al suo meglio nella propria missione con tutti i mezzi leciti a sua disposizione, tecnica compresa. Ma la sua preoccupazione non deve diventare idolatria né dei mezzi né tanto meno dei risultati poiché in questo consiste il predominio violento della tecnica. Il cristiano si sente un servo inutile (Lc 17, 10) che opera con la pazienza del contadino il quale semina, ma sa che la crescita del grano non dipende da lui (Mc 4, 26-29). Non calcola gli effetti del proprio agire, ma si limita ad avere fede anche in mancanza di riscontri immediati.


  1. U. Galimberti, Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 34. ↩︎

  2. C. Albini, «Croce e teche. Confronto con U. Galimberti», Dialeghestai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 3 (2001), disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/&gt;. ↩︎

  3. E. Severino, Essenza del nichilismo, II ed., Adelphi, Milano 1982, p. 19. ↩︎

  4. U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, Marietti, Torino 1975, p. 17. ↩︎

  5. Cfr. E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 1981. ↩︎

  6. M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 97 (ed. or. 1950). ↩︎

  7. M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 54 (ed. or. 1967). ↩︎

  8. Ibid., p. 52. ↩︎

  9. Cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, p. 180 (ed. or. 1969). ↩︎

  10. Le voci coinvolte in questo dibattito erano quelle di G. Anders, A. Huxley, A. Weber, M. Bense e i fratelli Jünger. Cfr. R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, Longanesi, Milano 1996, pp. 474-478 (ed. or. 1994). ↩︎

  11. M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit. in nota 7, p. 9. ↩︎

  12. Ibid., p. 11. ↩︎

  13. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 167 (ed. or. 1953). ↩︎

  14. E. Mazzarella, op. cit. in nota 5, p. 278. ↩︎

  15. M. Heidegger, La dottrina di Platone sulla verità. Lettera sull’umanismo, Sei, Torino 1975, p. 125. ↩︎

  16. M. Heidegger, Gelassenheit, Neske, Pfullingen 1959, pp. 24-25, cit. in E. Mazzarella, op. cit., pp. 284-285 (trad. it. L’abbandono, il Melangolo, Genova 1983). ↩︎

  17. U. Galimberti, op. cit. in nota 1, pp. 354-355. ↩︎

  18. In J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana? , Laterza, Bari 1986, p. 165. Cfr. E. Severino, op. cit., in particolare il capitolo La terra e l’essenza dell’uomo↩︎

  19. Richiamiamo di nuovo il nostro contributo citato e gli interventi di P. Coda in P. Coda — E. Severino, La verità e il nulla, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998. ↩︎

  20. G. Fornari, Apologia della Bibbia come apologia della vittima, Introduzione a R. Girard, La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, Santi Quaranta, Treviso 1998, pp. 10-11. ↩︎

  21. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1981 (ed. or. 1965). ↩︎

  22. G. Fornari, cit. in nota 20, p. 12. ↩︎

  23. R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 (ed. or. 1972). Girard ritorna su questo tema in Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro Rocha, Cortina, Milano 2003 (ed. or. 2002). ↩︎

  24. G. Fornari, cit. in nota 20, p. 13. ↩︎

  25. Ibid., pp. 15-16. ↩︎

  26. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983 (ed. or. 1978). ↩︎

  27. R. Girard — G. Fornari, Il caso Nietzsche. La ribellione fallita dell’Anticristo, Marietti, Genova-Milano 2002. ↩︎

  28. R. Girard, Origine della cultura, cit. in nota 23, p. 191. ↩︎

  29. Ibid., p. 202. ↩︎

  30. R. Girard, La vittima e la folla, cit. in nota 20 ↩︎

  31. Ibid., p. 123. ↩︎

  32. Ibid., p. 61. ↩︎

  33. Ibid. ↩︎

  34. G. Angelini, Apologie postmoderne dell’amore: l’esempio di Girard e Lévinas, in «Teologia» 27 (2002), pp. 94-138. ↩︎

  35. Congregazione per la Dottrina della fede, Dominus Iesus, EDB, Bologna 2000, n. 10. ↩︎

  36. P. Gamberini, «Tesi sul “divenire di Dio”», in La Scuola Cattolica 129 (2001), p. 273. Cfr. J. Ratzinger, «La nuova Alleanza. Sulla teologia dell’alleanza nel NT», in Rassegna di Teologia 36 (1995), pp. 9-22. ↩︎

  37. M. Ruggenini, «La mancanza di Dio e la rivelazione del mistero del mondo», in Filosofia e teologia 3 (1993), pp. 518-547; Il Dio assente, Bruno Mondatori, Milano 1997. ↩︎

  38. G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996. ↩︎

  39. S. Bréton, Le Verbe et la Croix, Cerf, Paris 1981. ↩︎

  40. E. Jüngel, Dio mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982 (ed. or. 1977). ↩︎

  41. S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano 1995. ↩︎

  42. A. Rouet, La chance d’un christianisme fragile, Bayard, Paris 2002. ↩︎

  43. G. Canobbio, «Esigenze della missione e immagine di Chiesa», in La rivista del clero italiano 84 (2003), pp. 166-188. ↩︎

  44. A. Fumagalli, «La Chiesa nel mondo», in La rivista del clero italiano 84 (2003), p. 211. ↩︎