L’esperienza del cogito nell’universo cartesiano. La fondazione della soggettività e il modello meccanicistico

1. La Mathesis Universalis e il problema del metodo

Nell’ambito della riflessione filosofica di Cartesio, il tema del cogito acquista una posizione di assoluto rilievo, nelle sue molteplici valenze concettuali e, soprattutto, nelle sue connessioni dinamiche e funzionali con il problema altrettanto nodale e ineludibile del metodo.

La fondazione della soggettività moderna viene realizzata da Cartesio attraverso un percorso graduale ed estremamente articolato di cui cercheremo qui di delineare, quantomeno, le linee generalissime e fondamentali, i momenti essenziali di un pensiero che, pur essendo complesso e policentrico, appare fortemente unitario nelle sue motivazioni ultime e nella straordinaria densità strutturale delle sue stratificazioni interne e dei suoi rimandi alla tradizione.

Lo sviluppo del pensiero cartesiano trae la sua specificità e la sua energia da un confronto attivo e dinamico con il passato, attraverso un processo di distanziamento effettivo, che presuppone una strenua volontà di rielaborazione originale e di trasvalutazione critica. Il patrimonio filosofico tradizionale, assorbito durante la formazione giovanile, subisce una rilettura integrale che si risolve nella sua drastica e irreversibile messa in discussione.

Appare innanzitutto decisiva la volontà di oltrepassare l’assetto ormai cristallizzato e asfittico delle discipline classiche, il puro esercizio dottrinario dell’erudizione, la mera assimilazione pedantesca, mnemonica e passiva dei contenuti retorici, orientati opportunamente in senso apologetico, secondo il progetto pedagogico gesuitico.1 Il primo bersaglio della polemica cartesiana non può che essere, dunque, accanto alla mnemotecnica ermetica di Raimondo Lullo,2 il modello logico di derivazione peripatetica e scolastica, in cui il procedimento inferenziale sillogistico, inespugnabile sotto il profilo della coerenza formale, risulta, in realtà, del tutto inutile e vuoto, essendo incapace di determinare e di produrre un sapere nuovo.3

L’eccessiva frammentazione della conoscenza anche matematica, la sua esasperata frantumazione in settori disciplinari privi di comunicazione reciproca, determinano una mortificazione della sua funzione cognitiva e ne vanificano, agli occhi di Cartesio, la reale fecondità euristica.

Il progetto filosofico cartesiano si costituisce, così, già nella sua fase iniziale e, per così dire, in nuce, come tentativo di rinnovamento sostanziale dell’epistemologia, attraverso l’instaurazione di un ordine metodologico assolutamente originale che possa garantire la ricerca dei fondamenti primi del conoscere, focalizzando l’attenzione e l’interesse dell’humana ratio sul tema della bona mens, della universalis sapientia.

Il riconoscimento della universale congiunzione e interdipendenza dei livelli scientifici si pone, allora, come premessa indispensabile per l’aumento e l’intensificazione del lumen naturale rationis, affinché l’intelletto, precisa Cartesio, «possa chiarire alla volontà che cosa convenga scegliere nella vita4» (ut… praemonstret quid sit eligendum).

La scoperta di tali principi irriducibili e indistruttibili consente, poi, attraverso il rifiuto netto delle cognizioni probabilistiche e congetturali, la costruzione rigorosa di un edificio metafisico, di una mathesis universalis compatta e unitaria, che si ponga come autentica condizione di possibilità della fisica meccanicistica moderna.5

Come afferma ripetutamente Cassirer, il vero centro nevralgico della ricerca cartesiana rimane costantemente la richiesta di una logica generale delle relazioni e delle proporzioni, che sia anteriore e precedente rispetto alla valutazione del singolo oggetto particolare, nella sua datità.

La definizione di una grammatica della scienza, assegnando un simbolo per così dire «stenografico» alle quantità note e alle incognite di una certa equazione, denuncia la fede cartesiana nel ruolo propedeutico delle matematiche rispetto alla filosofia, lo stesso ruolo che, precisa Shea, era affidato dai gesuiti e dagli umanisti alla sintassi latina e greca, strumento per padroneggiare la sottostante struttura razionale del discorso.

I problemi teorici, in questa visione matematizzante e riduzionistica, vengono espressi e, poi, risolti mediante una rete formale, che illustra, in modo perspicuo, la dipendenza reciproca dei termini, ma anche l’equivalenza delle grandezze ignote introdotte nell’equazione.

Il rifiuto dell’antropocentrismo tolemaico, come l’opera di Cartesio fedelmente rispecchia, si connette in modo inscindibile al processo di distruzione del cosmo aristotelico, che porta con sé l’apertura dello spazio infinito, la sua espansione illimitata.6

William Shea, tra l’altro, richiama l’attenzione sul rapporto tra la formazione cartesiana e l’Illuminismo dei Rosacroce, che traeva la sua linfa vitale da una concezione di tipo millenaristico ed escatologico.7

La necessità di evitare l’errore dei malinconici, che assumono arbitrariamente i propri turbata phantasmata come res verae, conduce ad un ritorno alle cose stesse, alle res ipsae, che possono essere penetrate razionalmente, nella loro piena trasparenza, solo eliminando le fonti di distorsione e di offuscamento, ovvero le meditationes obscurae e le vaghe disquisitiones, sorrette per lo più dall’ausilio della fortuna.

Secondo un’espressione di Gilson, la filosofia cartesiana sancisce il passaggio della scienza dalla memoria alla ragione, proprio perché riassorbe nell’ acutezza dell’acies mentis, l’orizzonte esperenziale e corporeo della memoria, in sé debole e fallibile.

In effetti, sin dalle prime opere, l’interesse speculativo di Cartesio sta nell’attuazione lucida e precisa di un processo regressivo, che dall’esperienza involuta e oscura, riesca a risalire, gradatim e diligenter, fino alle prime strutture formali che ne costituiscono, in qualche modo, i minimi termini, l’essenza, la natura simplex.8

I livelli conoscitivi che, in virtù di questo rigoroso procedimento, Cartesio riesce a visualizzare, pur mantenendo la loro piena autonomia funzionale, vengono ricompresi in una complessa articolazione gerarchica e stratigrafica.

La conoscenza del conoscere, la capacità, cioé, di sentirne la pienezza, precede, infatti, la conoscenza del conosciuto e, potenziando l’acutezza dello sguardo intellettuale, l’autore arriva a definire i limiti e le eccedenze dell’ingenium, per affinamento progressivo dei praecepta incondita,9 disattivando, a beneficio di un’ottica «ontologica», ogni arbitrio tassonomico e vanamente classificatorio.

In tutto l’impianto metafisico cartesiano, non a caso, la questione del quid sit, rimane assolutamente prioritaria e preliminare rispetto al problema dell’an sit.

L’intelletto, operando una adeguata messa a fuoco via via più ampia, isola l’oggetto considerato dalla globalità del suo contesto, dal groviglio delle sue relazioni esterne, designandolo con una sola parola.

Nel Discorso sul metodo (1635-37), Cartesio, realizzando una struttura a mosaico in sei parti, riprende e sistema materiali precedenti, reinterpretandoli in modo omogeneo.

L’opera può essere considerata come una sorta di autobiografia spirituale, ma anche come prefazione, rispetto alla codificazione del nuovo metodo euristico.

Sull’opera cartesiana, dice Koyré, «si staglia la potente ombra di Montaigne», maestro e, insieme, avversario di Cartesio.

I Saggi di Montaigne sono l’espressione di una rinuncia, di una disperazione che promana dalla rappresentazione di un essere ondeggiante e diverso.

Ebbene, il Discorso di Cartesio può essere letto in filigrana anche come reazione anti-baconiana alla scepsi di Montaigne, che viene, per così dire, prolungata e portata fino in fondo, attraverso un ripiegamento sull’io, che evoca, nel suo radicalismo, l’inversione socratica.10

Per apprezzare la portata della svolta cartesiana, è indispensabile mettere in risalto la stretta correlazione esistente tra quella che potremmo definire la rivoluzione spirituale e la rivoluzione scientifica, in senso proprio. In entrambi i casi quello che Cartesio esalta e rivendica è l’autocrazia assoluta della ragione.

Nel Discorso, assume un’importanza centrale l’esigenza di una liberazione completa dall’errore e dal pregiudizio che hanno ottenebrato la ragione naturale, mediante l’accumulazione di esperienze e la conquista personale di una scienza solida e inattaccabile. L’autore presenta se stesso come un uomo che, tentando di sconfiggere l’incertezza e lo smarrimento, procede solo nelle tenebre, e che, cercando in se stesso la guida, ricostruisce, con circospezione, un quadro metodologico accurato, secondo quattro precetti basilari,11 per evitare una rovinosa caduta.

L’articolazione organica della scienza «penitus nova» potrà scaturire esclusivamente dal rispetto di alcune regole. Prioritaria appare la regola dell’evidenza, che stabilisce il coglimento compiuto ed esaustivo dell’idea da parte della mente, in modo chiaro e distinto, attraverso, cioè, una corretta delimitazione e separazione degli ambiti in gioco.

La regola della scomposizione prevede la suddivisione analitica del problema nelle sue parti elementari, con una semplificazione progressiva che, poi, implica il procedimento inverso, ovvero, la ricomposizione sintetica.

L’ultimo precetto consiste nella regola dell’enumerazione completa, intesa come peculiare modalità di ricognizione dei passaggi effettuabili, tesa a valutarne l’efficacia e la sensatezza, eliminando le soluzioni fuorvianti e svolgendo, così, un’imprescindibile funzione di controllo e di verifica. L’enumerazione sembra, quindi, soccorrere artificialmente la naturale infermità della memoria, che risulta, infatti, costitutivamente limitata e fallace.

2. La ricerca del fondamento nelle Meditazioni metafisiche e la dilatazione del dubbio

All’origine del pensiero cartesiano possiamo individuare, come nota Gouhier, la constatazione del carattere fallibile di un’intera cultura, quella delle litterae humaniores, che sono incapaci di plasmare l’identità soggettiva e che, pertanto, tradiscono se stesse.

Per imparare a distinguere il vero dal falso, occorre volgere lo sguardo non tanto alle biblioteche, quanto al grande libro del mondo, l’unica strada che consenta di procedere con disinvoltura in questa vita (marcher avec assurance en cette vie, cfr. Gouhier, op. cit.).12

Il Discorso sul metodo rimane, in tal senso, l’opera di un uomo integralmente soddisfatto della sua vita consacrata alla ricerca filosofica.

L’impresa cartesiana, peraltro, non accoglie affatto la tentazione scettica, in senso classico, come dubbio fine a se stesso («per il gusto di dubitare» dice Cartesio, cfr. Discorso III, AT VI 29), ma tende ad una acquisizione di sicurezza, eliminando la terra mobile e la sabbia, per trovare la roccia o l’argilla (cfr. ibidem).13

Ma l’esposizione più organica e sistematica del tema del cogito, inteso come determinazione ontologica indubitabile della soggettività, all’interno di una concezione sostanzialmente meccanicistica del mondo, è contenuta nelle Meditazioni metafisiche (avviate tra il ’28 e il ’29 e concluse nell’aprile del ’40).14

Il tema in questione non può essere compreso se non in una stretta correlazione con la prospettiva più generale e globale del progetto cartesiano di fondazione e di giustificazione metafisica della fisica,15 laddove, secondo la celebre metafora dell’albero, la fisica rappresenta il tronco e la metafisica, significativamente, le radici.16

È interessante mettere in luce, sin da ora, la parziale concordanza tra la tesi cartesiana e quella galileiana, quale affiora, soprattutto dal Dialogo sui massimi sistemi, in cui alla demolizione del paradigma antropocentrico e finalistico, si associa l’elaborazione di un metodo ipotetico-deduttivo ma anche sperimentale che, matematizzando la natura, la interroga attivamente.17 Ebbene Cartesio, pur condividendo l’approccio meramente quantitativo di Galileo, ne contesta la tendenza a costruire una fisica senza fondamento che si limiterebbe, cioè, alla ricerca di alcuni effetti naturali, senza mostrare, invece, come la totalità dei fenomeni sia spiegabile alla luce di poche nozioni semplici.18

Per Galileo, insomma, la fisica è in grado di sostenersi autonomamente, mentre per Cartesio presuppone un radicamento metafisico e un ancoraggio concettuale ben preciso.

Del resto, il concetto di res cogitans, quale affiorerà dal discorso di Cartesio, non può in alcun modo essere dissociato da quello di res extensa, seppure all’interno di un pensiero radicalmente dualistico che mantiene viva la scissione tra livelli eterogenei.

La costruzione testuale delle Meditazioni, come abbiamo visto, si immette all’interno di un contesto culturale fortemente connotato e rivela a più riprese la molteplicità degli influssi e dei condizionamenti che agiscono più o meno direttamente su Cartesio e che egli, abilmente, filtra e seleziona attraverso la sua sensibilità. Tra questi, di particolare rilievo, resta, indubbiamente, quello esercitato dal cosiddetto Ordine dell’Oratorio, fondato dal cardinale De Bérulle con il fermo proposito, tipicamente controriformistico, di combattere il libertinismo e lo scetticismo dilaganti, ripristinando la purezza della tradizione e della fede.

L’Oratorio, rispetto all’interesse più spiccatamente scientifico dei Gesuiti, esprime un atteggiamento teocentrico e quasi mistico in cui si rivaluta l’appello al cuore e all’interiorità. Si tratta, evidentemente, di una posizione di matrice molinista, in perfetta sintonia con la linea agostiniana e nettamente antitetica, ad esempio, rispetto al determinismo teologico domenicano.19

La scelta del termine «meditazione» acquista una duplice valenza semantica e denota non solo una rottura programmatica con la tradizione, ma anche una strategia di tipo retorico. Cartesio intende, cioé, favorire l’assimilazione del suo pensiero, attraverso un percorso di identificazione e di immedesimazione intellettuale con il fruitore. Il vocabolo, poi, è desunto dalla letteratura devozionale rinascimentale e indica un processo di autoriflessione, di concentrazione pianificata e di sprofondamento in se stessi, mediante un esercizio spirituale ripetuto e sistematico.

Cartesio, nell’intento di costituire la sua scientia mirabilis, si orienta verso il metodo analitico e poietico, particolarmente congeniale alla scoperta personale della verità.

Il lettore viene indotto, a poco a poco, a partecipare attivamente all’itinerarium mentis di conquista della certezza, accettando consapevolmente di lottare contro l’assuefazione e contro quelle abitudini che sono state contratte aderendo alle illusioni (ludificationes) e all’opacità della percezione sensibile.20

Il soggetto non viene mai neutralizzato, ma subisce, in quanto meditante, un processo di automodificazione nella sua stessa intenzionalità, nella prospettiva, quindi, di un rovesciamento del senso comune.

Il metodo analitico garantisce una centratura sull’io dell’indagine compiuta, dove l’io coincide con il protagonista del sistema metafisico.

Quest’ultimo si definisce, nelle sue linee guida, innanzitutto, come superamento dell’ipotesi convenzionalistica, fatta propria, ad esempio, da Hobbes, e, sul fronte opposto, della posizione galileiana. La prima, infatti, postula l’impossibilità, per l’intelletto finito dell’uomo, di accedere gnoseologicamente all’intima configurazione del reale, prodotto non dall’uomo, ma da Dio (per Hobbes, si possiede conoscenza solo di quanto si conosca esattamente l’origine).

La seconda via, ugualmente respinta da Cartesio, prevede, invece, una descrivibilità dei fenomeni naturali «creati», che poggia sulla partecipazione dell’intelletto umano alla ragione divina increata.

Il tema topico e centrale del dubbio compare già con la I Meditazione e si articola secondo una pluralità di livelli che scandiscono e, per così dire, ritmano una progressiva radicalizzazione e dilatazione, assumendo, via via, una vasta gamma di significati semantici (dal piano psicologico a quello propedeutico a quello sistematico), fino all’iperbole.21

Il dubbio critico, come osserva acutamente Cassirer, si configura come annullamento dell’armonia tra conoscenza e realtà, che ne permette la ricomposizione per altra via,22 rivedendo e trapiantando in un terreno nuovo il rapporto complesso e eternamente problematico tra unità e molteplicità.

L’indubitabile si qualifica come elemento permanente, oltre il cangiamento, oltre la mutevolezza effimera del mondo sensibile, del divenire.

In questo modo, l’autore intende operare lo smantellamento e la demolizione della concezione aristotelico-tomistica della conoscenza, incentrata sul processo di generalizzazione del dato empirico e sulla sistematizzazione delle credenze spontanee e delle attese ingenue, offerte, induttivamente, dal senso comune.

Cartesio prende le mosse, nella sua puntuale riflessione, dalla sospensione del giudizio (epoché) sui dati sensoriali, per poi arrestarla e, per così dire, bloccarla di fronte al fatto prossimo e macroscopico che ora si è qui, che si siede accanto al fuoco, che si indossa un certo abito, che si sta toccando qualcosa.

L’argomentazione cartesiana, come si vede, realizza il passaggio da una persuasione iniziale al suo annullamento, ed è così che assistiamo al naufragio e al collasso della certezza sensibile, saldamente ancorata al meccanismo stimolo-risposta.

Nel secondo livello, il dubbio rinnova il suo attacco e, dopo l’evocazione della follia, genera l’ipotesi che anche la veglia sia, in realtà, sonno e che, quindi, si stia dormendo senza saperlo. L’io, in altre parole, non sembra disporre affatto di un criterio sicuro per tracciare la linea di separazione tra i due momenti.

La ricezione dei dati esperenziali risulta impotente a neutralizzare l’argomento del sogno e questo ci consente di cogliere ciò che sarà quantomai esplicito nella III Meditazione, e cioé il compimento di un distacco irreversibile tra contenuto mentale e referente esterno, e, dunque, la dissoluzione del paradigma realistico tradizionale.23

L’abbandono dell’edificio epistemologico classico, sembra ormai palese, porta con sé una sorta di rovesciamento, che mette in questione, svuotandolo dall’interno, il tema epocale dell’adaequatio intellectus et rei, vista, innanzitutto, come compresenza indissolubile e paritetica dei due livelli in gioco.

Ma riprendiamo l’analisi del ragionamento cartesiano.

Quand’anche le cose particolari (particularia ista) fossero solo immagini evanescenti di un sogno, i loro componenti (generalia), tuttavia dovranno, in qualche modo, essere veri.

Cartesio sta effettuando, quindi, una transizione significativa dal realismo immediato ad una versione più raffinata e sofisticata di empirismo, che, comunque, non lo soddisfa affatto.

Istruttivo è il confronto con l’attività poietica del pittore che disegna «Sirene e Satiri», ovvero immagini fittizie, raccogliendo insieme elementi attinti dalla realtà, riducibili alla coppia semplice-composto. Nell’analisi cartesiana si è quindi consumato un avanzamento decisivo di cui occorre tener conto. La libertà operativa del pittore, infatti, trova una limitazione nella datità dei colori utilizzati.

La struttura residuale così ottenuta corrisponde, allora, alla classe dei simplicia et universalia, i simplicissima et maxime generalia, secondo un procedimento concettualizzante peraltro noto alla tradizione.

L’estremizzazione dello scetticismo, a questo punto, comporta lo sradicamento e la messa tra parentesi delle verità matematiche stesse, che sembravano resistere anche allo scambio tra sonno e veglia, in quanto indipendenti dall’attività della mente.24

Tale esito coinvolge la figura di Dio, al quale, ora, si attribuisce l’eventualità dell’inganno totale, in virtù della sua onnipotenza incommensurabile.

Tale Dio potrebbe «truccare» l’esperienza quotidiana, inducendo a credere in oggetti privi di esistenza, e, quindi, provocando l’assenso ad una proposizione inesorabilmente falsa.

Dall’idea del Dio ingannatore Cartesio passa alla personificazione del genio maligno, che materializza e incarna, a livello immaginario e laico, la totalità delle obiezioni scettiche.25

Si è ormai prodotto un vuoto assoluto, dal quale il processo catartico di purificazione intellettuale escogitato da Cartesio procederà verso il fundamentum inconcussum incontrovertibile e incondizionato.

La II Meditazione esordisce con l’immagine del gorgo profondo, che turba l’io meditante e dal quale è necessario risalire, così come Archimede cercava solo un punto, che fosse firmum et immobile, da cui fosse possibile spostare il mondo intero.

Suppono igitur omnia quae video falsa esse. Ecco il punto più basso del gorgo in cui il soggetto è caduto26 e da cui bisogna ora risollevarsi.

Il progetto fondazionale cartesiano, in questo coerente e solidale con l’assunto baconiano, mira all’esercizio di un controllo e di un dominio sulla natura, che deve essere non solo compresa nella sua intrinseca tramatura razionale, ma anche e soprattutto trasformata e padroneggiata dall’uomo. Diventare maître et possesseur de la nature, ricorda Gouhier,27 equivale al conseguimento della autentica generosità, che, sola, permette all’uomo moderno la proiezione dell’intelligenza verso l’intelligibile. Non si tratta, continua Gouhier, di avere ragione, quanto di essere ragione.

Appare ora evidente come l’itinerarium mentis raffigurato dall’autore sia traducibile in termini di ascesi, proprio perchè il senso di smarrimento e di inquietudine, che questa trascina con sé, ricorda fortemente il movimento spirituale che contraddistingue l’anima fervente.

Di fronte all’urgenza epistemologica del fondamento inconcusso, il dubbio perde, però, la sua funzione privilegiata.

3. La certezza solitaria del cogito e la questione dell’Alterità

La tematizzazione del cogito ergo sum28 è il perno e il pilastro sottratto ad ogni possibilità di smentita, in quanto esprime la certezza dell’esistere per colui che abbia sperimentato, universalizzando l’epoché, l’esperienza iperbolica del dubbio.

Secondo Gouhier, il «donc» (l’ergo) non possiede alcun significato causale, ma indica il rapporto che si stabilisce tra l’io realizzato e ciò attraverso cui l’io si rivela realizzato. Insomma il pensiero si costituisce come vera essenza dell’io.

La proposizione cui si è arrivati indica la coincidenza del livello psicologico e del livello normativo, che tendono a convergere nella certezza autoconvalidante del cogito ergo sum.29

Tale proposizione, ribadisce l’autore, non può essere identificata affatto con la conclusione di un ragionamento sillogistico, in cui l’ego cogito fosse la premessa minore e il principio «tutto ciò che pensa esiste» la premessa maggiore.

Questa impalcatura sillogistica risulterebbe, infatti, fuorviante perchè nasconderebbe, anzichè esaltare, la peculiarità irriducibile del principio cartesiano, che consiste nella messa a fuoco della maggiore certezza di una determinata esistenza, quella dell’io, rispetto a qualunque altro ente.

Se il cogito ergo sum fosse dedotto dalla premessa «per pensare è necessario esistere», la specificità e l’originalità del punto archimedeo colto da Cartesio non verrebbero adeguatamente esibite, ma oscurate indebitamente.

Inoltre l’interpretazione sillogistica, nel formulare la premessa universale, deve presupporre tacitamente e implicitamente il contenuto informativo della conclusione.

Non a caso il cogito è assimilato ad un assioma di tipo particolare in cui non è tanto la proposizione «ego existo» ad essere intuita come vera, ma la proposizione nella sua interezza.30

La certezza del fondamento diventa, così, il fondamento in-fondato della certezza che, secondo Marion, brilla sullo sfondo di un sole nero. Il cogito, infatti, è caratterizzato da una inquietudine filosofica (Unruhe) che si apre sull’abisso dell’infinito e che rimanda ad una ulteriorità eccedente e inattingibile.

Ma, più esattamente, che cos’è l’io? Il confronto con la tradizione aristotelico-tomistica e con l’idea dell’uomo come essere composto, è serrato e incalzante.

Certo, per l’autore, l’io non è riducibile ad una compagine di membra e nemmeno ad una certa aria sottile penetrata nel corpo, né ad un vento, o ad una fiamma, secondo suggestioni di tipo stoico o epicureo, né tantomeno ad un vapore. Eppure, asserisce Cartesio, al fondo di questa ricognizione ontologica, «ego aliquid sum»».

L’io è, dunque, ancora una volta, in termini residuali, una cosa vera, una cosa pensante, una res cogitans, che, così facendo, amplia il proprio orizzonte di certezza, essendo non solo una cosa che esiste e che pensa, ma anche una sorta di conglomerato, una res indefinite aspirans, senziente e immaginante, una cosa, cioè, che dubita, intende, afferma, nega, vuole o non vuole, essendo tutto ciò nient’altro che una modalità diversificata del pensare.

L’ego sum identifica, precisamente, questo principio di permanenza che si impone, oltre la discontinuità degli eventi, come garanzia di identità e di equilibrio, come ubi consistam.

Il cogito assume, così, un forte significato performativo, poiché la sua enunciazione e l’atto stesso della sua pronuncia sono, al di là di ogni verifica o smentita, garanzia perfetta di indubitabilità.

Jean-Luc Marion, muovendo da una impostazione di matrice heideggeriana, coglie lo statuto aporetico del cogito, che rinvia necessariamente ad un fondamento ulteriore e radicale, ad un orizzonte ontico infinito (il rinvio alla trascendenza imponderabile di Dio).

La certezza del cogito appare caratterizzata da una irrequietezza di fondo, da un senso di inquietudine che apre l’interrogativo sull’infinito che nascondendosi si rivela e che si offre solo ritraendosi in una dissimulazione ineffabile, in un «accecamento» sottratto alla comprensione. Di estremo interesse è l’abolizione, nel pensiero onto-teologico cartesiano, di ogni forma di mediazione analogico-partecipativa, di ogni possibilità, cioè, di collegamento univoco tra finito e infinito e, quindi, di qualunque soluzione ingenuamente gradualistica o emanazionistica.

Il rapporto tra finito e infinito, inoltre, esclude, in Cartesio, l’instaurazione di un «risultato calmo», la mediazione dialettica e processuale capace di riassorbire gli opposti in un tertium sintetico.

La residualità performativa del cogito rimane, per così dire, in-fondata, ma tuttavia, in qualche modo, sufficiente a se stessa e suscettibile di «intuizione».

L’eccedenza della volontà ha investito nell’epoché la stessa presunta trasparenza intellettuale, l’inattaccabile certezza delle verità matematiche, operando uno svuotamento irreversibile che mette tra parentesi ogni funzione ideativa e significante. Il processo di de-realizzazione ontologica del mondo compiuto da Cartesio porta con sé l’erosione della trasparenza logico-matematica e la riduzione delle verità a priori della matematica alla pura ossatura razionale del mondo, priva di qualunque aderenza metafisica alla realtà.

La volontà, caratterizzata da una struttura flessibile e duttile, produce una negazione iperbolica e si limita a questo, facendosi puro dubbio, assoluta potenza di negazione incapace, tuttavia, di auto-negazione.

Il genio maligno svolge proprio questa funzione radicalizzante che conduce alla vertigine del nichilismo.

La mens, tagliandosi tutti i ponti alle spalle, non ha più vie d’uscita né può ripararsi dietro lo schermo rassicurante del probabilismo e della congettura. Ma, come abbiamo visto, al fondo del dubbio, si fa luce una resistenza che si contrappone alla vertigine nichilistica e alla sua tendenza onnipervasiva.

È il cogito che pone in essere la catena del dubbio, fondandola.

Ma la certezza del cogito ergo sum presuppone la natura ambigua e duplice della volontà, la sua strutturale eccedenza, ma anche la sua incapacità di negare se stessa, che la circoscrive e la riconsegna ad un destino di parzialità e di finitezza ineludibile.

La positività dell’Io sono nasce dalla sua innegabilità e la sua innegabilità è il risultato della configurazione anfibia e ancipite della volontà che non può togliere se stessa. Il nucleo residuale cui Cartesio perviene è il punto d’arresto in cui precipita la fuga delle negazioni iperboliche.

Nelle terze obiezioni alle Meditazioni, è bene ricordarlo, Thomas Hobbes contesta aspramente l’operazione di reificazione e di ipostatizzazione, a suo avviso illegittima, perpetrata da Cartesio. Del resto, rileva Hobbes, dalla proposizione «io sono passeggiante» non si può inferire in alcun modo la proposizione «io sono passeggiata».

Al dualismo cartesiano, Hobbes oppone una visione orientata in senso decisamente monistico e materialistico, facendo del pensiero l’epifenomeno dell’organo cerebrale.31

L’esempio del pezzo di cera, inserito nella parte conclusiva della II Meditazione, è illuminante per molti aspetti e viene utilizzato per impedire al lettore di tornare nel tranquillo rifugio dei suoi pregiudizi e delle sue convinzioni illusorie.

L’osservazione di un pezzo di cera appena estratto dall’alveare, ci offre un insieme di caratteristiche percettive che comprendono il colore, il profumo, il grado di durezza della materia e così via.

Tuttavia l’avvicinamento dello stesso pezzo di cera ad una fonte di calore ne determina la liquefazione, con la consequenziale perdita di quei tratti peculiari precedentemente focalizzati. Eppure, malgrado il mutamento avvenuto, il soggetto osservante continua a vedere in quella materia sciolta lo stesso pezzo di cera.32 Ne deriva che la formulazione del giudizio non dipende affatto dalla percezione sensibile implicita nell’atto osservativo, ma appare riconducibile ad un puro atto di coglimento intellettuale (solius mentis inspectio), ad una ricognizione panoramica e sintetica, capace di ricomporre la dispersione casuale e accidentale.

Infatti, quand’anche si facesse ricorso, per designare l’oggetto, ad aggettivi di tipo, per così dire, «disposizionale», evocando, ad esempio, i concetti di flessibilità o di mutevolezza, la facoltà così coinvolta, ovvero l’immaginazione, non sarebbe, comunque, capace di esaurire l’infinità dei cambiamenti di cui quell’oggetto è suscettibile.

Nè i sensi né tantomeno l’immaginazione, quindi, possono produrre quel giudizio e, con esso, l’asserzione di identità riferita ad un certo oggetto. Solo l’intelletto può farlo, nella misura in cui sappia porsi come coscienza spettatrice, come primum fenomenologico e come facoltà sagace e, dice Cartesio, capax scientiae.33

L’intelletto ci consente di vedere ciò che non vediamo, superando il dato empirico, così come, allorquando ci affacciamo alla finestra e guardiamo i passanti sulla strada, li definiamo uomini, pur vedendo, in realtà, solo mantelli e cappelli che si muovono.

Dal dipanarsi della riflessione cartesiana, affiorano, in modo sempre più nitido, il ribaltamento della dòxa34 e la conseguente decostruzione dell’empirismo aristotelico-scolastico, che permettono a Cartesio di mostrare l’irriducibilità dell’esperienza ad un assemblaggio magmatico e caleidoscopico di sensazioni, prive di qualunque organizzazione strutturale. Ciò che dà origine a tale organizzazione è, appunto, la conoscenza intellettuale, che presiede all’atto del giudizio e che rivela il carattere eminentemente aprioristico, assiomatico e deduttivistico della gnoseologia cartesiana.

Il procedimento cartesiano, tanto nell’esempio della cera, quanto in quello dei passanti, è il medesimo e si impernia su una sorta di smontaggio dell’immediata apparenza, che conduce al riconoscimento della funzione costitutiva e costruttiva dell’intelletto e, dunque, alla esclusione delle interferenze sensoriali, portatrici quantomai insidiose di dispersione.

Nella III Meditazione, l’obiettivo principale di Cartesio è un tentativo di riappropriazione, di riconquista del mondo, ma anche di superamento della barriera minacciosa posta dal solipsismo, in cui il pensiero sembrerebbe essere confinato dalla certezza indubitabile, ma esclusiva, del cogito. Quello che si impone, a questo punto, è la ricerca dell’alterità, che riesca a provare che io non sono solo al mondo, e che porterà alla messa a fuoco di una causalità extra-mentale.

La mens delineata da Cartesio è contraddistinta dalla complementarità anfibia e paradossale di istanze sproporzionate e irriducibili.

L’esame attento e dettagliato delle idee, nelle loro modalità di genesi e di esplicazione, diventa, così, la condizione per affermare l’esistenza di una realtà transubiettiva, assolutamente trascendente rispetto all’io pensante, ovvero l’esistenza di Dio.

La differenziazione delle idee in avventizie, innate e fattizie scaturisce da una loro diversificazione, sotto il profilo dell’origine, delle modalità di acquisizione e del contenuto.

L’idea innata si configura come disposizione connaturata ad acquisire contenuti determinati e costituisce, infatti, una sistema aperto, immodificabile, eterno e universalmente comunicabile. Un sistema indipendente da ogni possibilità esemplificativa e, dunque, non manipolabile. Le idee avventizie, invece, provengono, passivamente, dal mondo esterno e quelle fattizie sono l’esito di un processo inventivo, che ha nell’io il suo centro propulsore.35

Ma il vero criterio per tentare di dimostrare l’esistenza di altri enti, al di fuori del soggetto pensante, inerisce non tanto alla origine delle idee, quanto alla loro natura, e, quindi, alla loro realtà oggettiva in quanto stati rappresentativi.

Il ragionamento sfocia in una equazione tra le idee vere, le idee chiare e distinte e le idee che rappresentano qualcosa che possiede una realtà effettiva e che, pertanto, rimandano verticalmente a Dio, dal quale direttamente dipendono e che è chiamato a garantirne la sussistenza e la validità.36

Nella mente, tuttavia, si dà anche l’idea di Dio che gioca un ruolo ineludibile nell’uscita dal rischio del solipsismo, giacché la quantità infinita di realtà oggettiva che esibisce non può essere spiegata dalla realtà formale dell’ego. Paradossalmente, è proprio l’idea più lontana e distante dall’orizzonte fenomenico e sensibile a testimoniare l’esistenza di una realtà extra-mentale, oltrepassando i limiti e le chiusure del realismo tradizionale.

Il rimando verticale a Dio si inserisce all’interno del tentativo cartesiano di ricostruire il nesso vitale tra soggetto e mondo, tra realtà interna e realtà esterna. Il mondo sfugge e deve essere, in qualche modo, recuperato e compreso.

4. L’esistenza di Dio e l’eccedenza dell’Infinito

La potestas exuperans di Dio, pur essendo incomprensibile e a-logica, va mantenuta in tutta la paradossalità dirompente della sua forza che non obbedisce al principio di non-contraddizione.

La caratterizzazione di Dio quale substantia infinita, independens, summe intelligens, summe potens ricalca quella della tradizione classica e con essa mantiene un dialogo costante.

L’idea di Dio è impressa nella stessa configurazione del nostro Esser-ci e, pur essendo confusa e priva di distinzione, rimane innegabile e indubitabile.

La III Meditazione ci offre le prime due prove a posteriori e ab effectibus per la dimostrazione dell’esistenza di tale sostanza infinita,37 tentando di cogliere dapprima la causa infinita dell’io e, successivamente, la causa del finito in quanto, nella sua imperfezione, possiede in sé l’idea dell’infinito. La causa che viene ricercata deve, quindi, ri-creare l’ente esistente in ogni istante in cui questo ente dura.

L’idea di Dio, il marchio che l’artefice ha impresso nella sua opera, non ha bisogno di nient’altro per sussistere ed è, perciò, contraddistinta da un maggiore grado di realtà oggettiva rispetto alla finitudine e alla limitatezza della sostanza, che ad essa rimanda.

L’intelligibilità del finito viene, così, agganciata direttamente alla sussistenza dell’infinito: é dal paragone con la perfezione divina che l’io può conoscersi in quanto tale, senza che questa consapevolezza si risolva affatto nel consueto risalimento teologico dal finito all’infinito, o in un processo di ampliatio. La finitudine, per Cartesio, è intesa in virtù della conoscenza dell’infinito in essa inscritta.

La teodicea cartesiana, insomma, sembra respingere ogni forma di contatto diretto con il divino e, soprattutto, ogni possibilità di illuminazione sovrannaturale. La separazione archetipica di pensiero ed essere, la netta divisione della logica dall’ontologia, inoltre, rimangono un elemento irrinunciabile e decisivo della riflessione cartesiana, il tratto peculiare che ne accompagna lo svolgimento teorico e argomentativo.

Il contenuto rappresentativo dell’idea di Dio possiede una quantità di realtà oggettiva maggiore rispetto ad ogni altra idea chiara e distinta ed è una dimensione primitiva e positiva, malgrado la forma linguistica possa indurre in errore (in-finito, infatti, è il non-finito).

La pretesa di una conoscenza positiva di tale idea è quantomai audace e segna un avanzamento rispetto alla tesi tomistica che ne stabilisce una conoscenza solo negativa e imperfetta.

Dio, in altre parole, può essere dall’uomo inteso, ma non com-preso, essendo preclusa all’io la possibilità di racchiuderne e di abbracciarne l’infinita perfezione e l’incommensurabile amplitudo.

Nella seconda prova a posteriori, come si accennava poco fa, si tenta di identificare la causa che pone e conserva il finito, in quanto possiede in sé l’idea dell’infinito.

Questa causa viene rintracciata, appunto, nell’idea di Dio, in quanto causa sui, con un riferimento al tempo presente che consente di evitare, così, il rischio di quel regressus in infinitum, che era radicalmente escluso nella prova tomistica e che, invece, è ammesso e poi inibito da Cartesio.38

Cartesio, riproducendo e riproponendo lo schema argomentativo tomistico, vi introduce, tuttavia, un insieme considerevole di correttivi e di violazioni (Tommaso nega sia l’autocausalità di Dio, sia la possibilità del regresso all’infinito).

La terza prova, quella a priori,39 completa, nella V Meditazione, l’iter dimostrativo cartesiano e contribuisce, in modo decisivo, alla definitiva chiarificazione e all’inquadramento ontologico e teologico del tema della soggettività, fornendogli un ancoraggio robusto e irrinunciabile e neutralizzando, una volta per tutte, il dubbio.

Questa prova prende le mosse dalla definizione dell’idea di Dio, la cui negazione produrrebbe esiti contraddittori e inaccettabili, così come, nel teorema geometrico, dalla premessa seguono necessariamente le conseguenze e dalla definizione della figura, l’enunciazione delle sue proprietà. Come l’essenza del triangolo, ad esempio, di per sé implica l’equivalenza dei suoi tre angoli interni rispetto ad un angolo piatto, così l’essenza di Dio impone la pensabilità della sua esistenza, annullando, così, la critica tomistica all’argomento di Anselmo,40 per il quale Dio è l’ente di cui non si può pensare il maggiore.

Cartesio, in riferimento all’idea di Dio, riconoscendo la compatibilità e la coesistenza della verità per sé nota e della verità dimostrabile, trasforma la causa efficiente in causa formale, la causa sui in ratio sui.

Realizzando questa operazione, l’autore porta a compimento il processo audacemente innescato da Suarez,41 che, escludendo l’eventualità di una infusione sovrannaturale, aveva mostrato il netto primato della quidditas di Dio sulla conoscenza del suo esse.

Nel rispondere alle quinte obiezioni mosse da Pierre Gassendi42 alla V meditazione, Cartesio, riducendo al minimo ogni connotazione antropomorfica del divino, insiste soprattutto sulla nozione di amplitudo, che indica la pienezza assoluta di Dio, come mistero insondabile in cui confidare e come aseitas ontologica del tutto positiva. La negazione di tale positività, infatti, proclamerebbe l’autosufficienza del finito e non consentirebbe di trascendere l’assunto cosmologico classico, con il suo tipico concetto di materia increata. Il fondamento così scoperto da Cartesio segna una svolta straordinaria nella storia del pensiero occidentale e mostra con forza l’inadeguatezza del linguaggio aristotelico, imperniato sulla dottrina delle quattro cause.

Dio, pur essendo un cogitatum, si configura come orizzonte inglobante posto, per così dire, al di là della teoria e sottratto, per questo motivo, a qualunque possibilità di integrale oggettivazione.

L’idea innata di Dio, contraddistinta da una implicazione logica di essenza ed esistenza, perturba, in qualche modo, e mette in discussione la coscienza comune, assurgendo a vera chiave di volta dell’edificio epistemologico eretto sapientemente da Cartesio.

Egli, in questo modo, rovescia la tesi tomistica che concede all’uomo una conoscenza solo umbratile e analogica dell’immensità divina, accessibile sempre sub quadam confusione e, unicamente, per speculum et in aenigmate, in senso biblico-scritturale.

Il Deus verax, garante ultimo del poderoso sistema assiomatico cartesiano, come ci ricorda Koyré, si differenzia profondamente dal fisicismo di Aristotele e dal suo Dio multiforme e qualitativo, né si troveranno mai, in questo mondo, vestigia o imagines che lo possano simboleggiare, anche se l’anima sembra, nella sua intima fisionomia, costituire un’eccezione, essendo puro spirito capace di afferrare Dio.

Così facendo, Cartesio può assicurarsi una vittoria schiacciante sulla temibile ipotesi materialistico-libertina, senza scivolare mai nella deriva agnostica.

Tuttavia, la dimostrazione dell’esistenza di Dio rivela la presenza, nel testo cartesiano, di un doppio percorso, di una tensione ineliminabile, in cui la linea di sutura che unisce i due livelli non appare affatto di lega eccellente. Il riconoscimento della aseitas divina, infatti, sembra riabilitare la soluzione ontologico-partecipativa che era stata rigorosamente condannata dall’autore. Ed è proprio il rifiuto di tale modello che aveva consentito a Cartesio l’apertura della domanda sul fondamento ontologico e teoretico del conoscere e l’intera articolazione del processo meditativo.

5. Il tema della volontà e la finitudine della mens

L’esperienza dell’errore e della fallibilità deve, a questo punto, essere affrontata in quanto cifra della nostra finitezza ontologica e della radicale contingenza del nostro esistere.

L’errore viene così indagato nella sua intrinseca motivazione extra-teoretica e spiegato alla luce dello squilibrio e della sproporzione registrati tra intelletto e volontà.

Il soggetto sbaglia non tanto perché sia stato provvisto dalla divinità di uno strumento difettoso, quanto perché una istanza pratico-volitiva si infiltra e, per così dire, insorge nella sfera neutrale del conoscere puro, affermando, in modo cieco, la propria decisionalità e la propria eccedenza.

L’errore, analogamente al male morale, è considerato da Cartesio come privazione e si qualifica come positiva affermazione del non-essere, come assenso dato a ciò che non è chiaro e distinto.

Il ragionamento cartesiano assicura, così, la completa responsabilizzazione del soggetto, e, con essa, la piena imputabilità e punibilità dei suoi errori, visti come violazione di un comando morale impresso direttamente da Dio.

La costruzione unitaria della scienza è resa, così, possibile dalla capacità del soggetto cartesiano di armarsi efficacemente e prudentemente contro la precipitazione e l’approssimazione nel giudizio quotidiano.

Alla luce di questa complessa esplorazione della soggettività, ci pare interessante prendere brevemente in esame un altro tema altamente significativo, che Cartesio introduce nella sua trattazione, ovvero il concetto di libertà.

Secondo l’autore, si dà, innanzitutto, una sostanziale equivalenza di voluntas e libertas.

Cartesio si inserisce attivamente all’interno di un dibattito epocale che divide deterministi e indeterministi.

I primi sostengono che la libertà coincide perfettamente con la necessità e che le azioni, pur essendo univocamente determinate, sono, in realtà, libere. La libertà, secondo la tesi determinista, risulta, così, assimilata al concetto di volontarietà.

Al contrario, per gli indeterministi, la libertà costituisce un sottoinsieme degli atti volontari e viene identificata con la libera scelta, che esclude, in sede teorica, l’univocità della determinazione.

Cartesio, aderendo all’ipotesi indeterminista, ne accetta anche lo slittamento tendenziale dal piano psicologico al significato morale.

Infatti, tanto per gli indeterministi «classici» quanto per Cartesio, l’assenso volontario ma necessario dato, per esempio, all’idea del sommo bene, denota un’azione non solo libera, ma anche più libera rispetto ad un’altra in cui, invece, la scelta avrebbe potuto orientarsi diversamente.

L’indifferenza è, in Dio, prova grandissima della sua onnipotenza, ma questo non vale per l’uomo, legato da sempre ad una dimensione creaturale e contingente.

In Cartesio, lo scivolamento sul piano morale e l’impossibilità di identificare l’essenza della libertà con il concetto di indifferenza, rivelano una volontà strenua di difendere la meritorietà dell’azione e dell’assenso al vero.

In definitiva, per Cartesio, l’uomo è libero quando non si sente costretto da nessuna forza esteriore e questa convinzione permette all’autore di ribadire una compatibilità perfetta tra libertà e predestinazione.

Cartesio, proiettandosi verso una riconquista dell’alterità sensibile, conclude lo straordinario iter intrapreso nelle Meditazioni, interrogandosi sul rapporto bilaterale che intercorre tra anima e corpo e respingendo, subito, almeno sotto un certo profilo, l’ipotesi platonica esemplificata dalla metafora del nocchiero e della nave.

Le due dimensioni, pur essendo radicalmente distinte e differenziate in sede ontologica, danno luogo ad un’intima mescolanza, ad una sorta di unità sostanziale aristotelica,43 che, al di là di una mera coabitazione, ne permette il collegamento, l’interazione funzionale e il coordinamento.

Citando ancora l’importante interpretazione storico-scientifica di Shea, possiamo concludere che la fisica trova fondamento in Dio stesso.

6. Il paradigma meccanicistico, l’analogia infranta e la «teologia bianca»: un dibattito aperto

Il progetto di reintegrazione delle certezze matematiche, dopo l’operazione di smontaggio e di catarsi effettuata dal dubbio, si svolge all’insegna di una tensione irrisolta tra l’assoluta libertà creatrice di Dio e l’immutabilità delle verità eterne, riconsegnate da quella stessa libertà ad una radicale contingenza. Se i principi della geometria e dell’algebra sono validi, è la volontà di Dio che lo consente.

L’apertura al divino sfocia in un atto di adorazione ec-statica, in un admirari che è, poi, un intueri.

Al cospetto dell’Assoluto inattingibile e indicibile, lo spirito resta abbagliato e annebbiato, giacché l’immensità dello splendore divino oscura l’ingenium, costringendolo a sospendere la cogitatio e a trasformarsi in una facoltà intuitiva che ha perduto ogni contatto con l’evidenza.

L’eccedenza di Dio, la sua radicale alterità sconvolge l’io che cerca di uscire dal solipsismo della sua certezza irrequieta.

Appare, allora, in modo sempre più chiaro come la vittoria sul dubbio sia stata ottenuta ad un prezzo troppo alto, rinunciando, cioé, all’Esser-ci del mondo. Dopo il compimento della prova apriori, affiora un senso di profonda delusione che nasce dallo scarto tra i risultati effettivamente conseguiti e le aspettative maturate nel corso del processo dimostrativo.

Dio rimane in-dicibile, fino in fondo.

L’urgenza della domanda sull’infinito è costantemente riproposta e si mostra incoercibile.

Lo «scandalo» della domanda sta nel fatto che il suo darsi è ineluttabile e che non può rimanere in alcun modo nascosto.

Dio è l’Altro che spezza la solitudine paralizzante del cogito restituendolo al mondo, immettendo la sua azione in un orizzonte dato.

Tuttavia, l’infinito permane come «oltre», come dimensione sfumata e oscura, non «decidibile» razionalmente. La trascendenza assoluta di Dio riconsegna il cogito alla sua finitudine e si configura come presenza-assenza. L’infinito si dona in modo enigmatico e paradossale, attraverso una rivelazione che implica, da sempre, una dissimulazione e un nascondimento.

Eppure, husserlianamente, la coscienza esige il mondo, il mondo variegato e complesso del linguaggio, innanzitutto. Il cogito deve necessariamente essere incluso in un orizzonte di rimandi, in una tessitura stratificata di «forme di vita», all’interno delle quali è possibile pensare e operare.

Ma torniamo alla questione del dualismo, come esito inevitabile della argomentazione cartesiana.

La res extensa, così come emerge dal saggio Il Mondo, si risolve nella pura corporeità materiale, caratterizzata da proprietà geometrico-matematiche e quantitative, da una dislocazione tridimensionale, dall’assenza del vuoto e da un assetto indefinito, omogeneo, impenetrabile e inerziale, secondo il celebre principio di conservazione della quantità di moto (ΔQ = mΔV).44

Il concetto di estensione corporea, codificato dall’autore, nella sua mobilità e continuità, è suscettibile, inoltre, di una divisibilità che si può spingere all’infinito.

Tra una pietra e un uguale volume di spazio vuoto, ad esempio, si sviluppa ormai solo una differenza di densità e non più di genere, essendo accettata da Cartesio la teoria del plenum.

La materia, dunque, non può subire alcuna compressione, giacché ciò che si sviluppa è, in realtà, uno spostamento di particelle, e l’unica tipologia di movimento accolta da Cartesio è quella schematica, sottratta, quindi, a qualunque connotazione cinematica o dinamica.45 Il moto, nel sistema fisico cartesiano, è qualcosa di completamente attuale e non va confuso, aristotelicamente, con una virtualità o con una fluente continuità dinamica: ogni istante è valutato in sé, in modo autosufficiente.

È importante notare come il concetto di movimento tematizzato da Cartesio sia svincolato dalla nozione aristotelica di potenza, e sia del tutto intellegibile anche prima della sua attualizzazione.

Secondo questa concezione discontinuista, il movimento consiste in una sequenza di atti indivisibili, in una serie ripetuta di libere creazioni divine.

La filosofia meccanicistica di Cartesio, energicamente ancorata ad un’idea forte e nuova di soggettività, dischiude all’uomo i misteri dell’universo.

Un esempio ci pare istruttivo per sondare, di tale disvelamento, la profondità e la portata.46

L’universo immaginato da Cartesio nella sua esposizione è, come abbiamo appena detto, regolato da leggi uniformi, pieno e privo di spazi vuoti. Tuttavia, la materia che lo costituisce e lo riempie presenta una struttura, per così dire, parcellizzata e, in essa, gli unici movimenti continuativi possibili si estrinsecano in forma di correnti circolatorie e di flussi rotatori, in cui ogni particella spinge in avanti quella che la precede, fino ad un ricongiungimento, in modo pressoché circolare, con il punto di partenza.

La complessa teoria dei vortici contigui nasce proprio da queste riflessioni cosmologiche, del tutto coerenti con il programma fondazionale cartesiano.

Nel vortice si assiste ad un perfetto equilibrio tra la molteplicità degli urti corpuscolari e la forza centrifuga prodotta inerzialmente da ogni singolo componente del vortice stesso.

Questo equilibrio evita l’allontanamento e la deviazione delle particelle, in senso tangenziale. Nel vortice, poi, la costante trasmissione ondulatoria di una vibrazione, dal centro alla periferia, risulta generata dalla luce che promana dai soli e dalle stelle, collocati in posizione centrale.

Per usare una espressione di Koyré, che ci sembra felice, è necessario constatare come l’universo ritrovato di Cartesio presupponga un cosmo scomparso. Ciò che viene smantellato è, come si diceva prima, il cosmo aristotelico e medioevale. Questa rivoluzione non riguarda solo l’ambito prettamente scientifico e astronomico, ma investe un orizzonte antropologico, culturale e ideologico ben più esteso.

L’immagine cosmologica proposta da Cartesio supera, trasvaluta e abbatte il modello classico e geocentrico, penetrato di bellezza estetica, fondato sulla rigida distinzione tra fisica terrestre e fisica celeste, ma anche su una perfetta architettura ontologica. Un’architettura rigorosamente gerarchizzata e gradualistica, vale a dire: piramidale e teleologica. Orientata, dunque, in vista di Dio.47 Per questo, l’idea cartesiana della equivalenza ontologica di moto e quiete sancisce, inequivocabilmente, l’avvenuta transizione e la rottura con il passato.48

La realizzazione del paradigma meccanicistico si esaurisce, così, nella consapevole riduzione della totalità dei fenomeni a processi di pressione e di urto, in via puramente concettuale, quindi, e senza alcuna analogia con l’agire sensibile.49 La natura viene pensata e studiata da Cartesio esclusivamente in termini di collisioni anelastiche, calcolando opportunamente la distribuzione e il pareggio delle molteplici quantità di moto e togliendo, così, credibilità a quelle letture di stampo vitalistico o animistico, tanto frequenti in età rinascimentale.

Tuttavia, nel pensiero cartesiano, alla decifrazione del crittogramma naturale si congiunge sempre un senso di stupore e di meraviglia, di fronte all’insondabilità della Provvidenza, in cui il filosofo ripone la sua fiducia.

L’esame di questi passaggi concettuali ci conduce, così, alla brillante conclusione del già citato William Shea, avendo ormai posto in risalto l’intima unità cartesiana di scienza, metafisica e teologia.

In Cartesio, infatti, è possibile verificare, ad ogni livello di indagine, il profondo radicamento della magia dei numeri e del moto nella assoluta razionalità trascendente di Dio, garanzia ultima e vertice del sistema fisico e metafisico cartesiano.

L’universo meccanicistico cartesiano è, in sostanza, una dimensione crepuscolare in cui pensiero ed essere restano scissi, una costruzione teorico-geometrica che scaturisce da una sorta di sdoppiamento «schizocosmico». La fisica cartesiana sembra, infatti, nascere da una alienazione interpretativa che istituisce un codice arbitrario e uno scarto: una de-figurazione del sensibile e un processo irreversibile di astrazione e di concettualizzazione della realtà.

La ricerca del fondamento ultimo produce oscillazioni e trasferimenti, tra l’«ego» e Dio e, dunque, un processo di dissociazione che rende ambivalente e paradossale lo stesso fondamento.

Come ci ricorda Marion, quest’ultimo risulta segnato dalla fragilità e dunque, da un nesso inscindibile che si instaura tra l’univocità, sotto il profilo formale della causa sui, e la radicale equivocità di Dio, dal punto di vista ontico.

Il fondamento resta recherché, poiché è l’infinito che, in ultima analisi, fonda e istituisce la razionalità finita del codice scientifico moderno, della Mathesis Universalis che abbiamo esaminato all’inizio.

Ma la costruzione teologica cartesiana (la teologia bianca), sostiene ancora Marion, presuppone un’ontologia grigia. Il che significa, poi: una istanza indeterminata — fondamentalmente anonima — e, proprio per questo, paragonabile ad un assegno in bianco, che non precisa l’ammontare del credito o il beneficiario.

La ricerca del fondamento, nella sua transitività, passa dal metodo, alla mens humana e, superata la finitezza della «mathesis», si proietta verso l’orizzonte incommensurabile della trascendenza. Verso il creatore delle verità eterne, ovvero: Dio. Questa pluralizzazione del fondamento lacera l’unità del cogito e ne radicalizza il limite, vale a dire: l’insuperabile contingenza. L’esito ultimo della riflessione cartesiana sembra, allora, l’ assoluta indecisione, se è vero che l’edificio metafisico — faticosamente edificato — poggia su una base indefinibile e sfumata, sullo sfondo di un orizzonte inglobante e, tuttavia, irraggiungibile. Quello che emerge, in definitiva, è un’equivocità radicale, che diventa il problema di fondo. Ovvero: la questione ultima della Filosofia in quanto tale. Una questione decisiva che assume i tratti indeterminati del paradosso e che rivela, nella intrascendibile opacità di cui la «mathesis» è, per così dire, carica, l’incolmabile distanza che divide finito e infinito, eternità e tempo, libertà e necessità. La distanza — tragica e incolmabile — che il pensiero cartesiano riconosce e assume, nella pienezza aporetica delle sue implicazioni concettuali e teoretiche. Fondamentale è il riconoscimento dell’abisso ontologico: la differenza radicale che separa la certezza residuale e performativa del cogito e l’assolutezza di una domanda sempre rinnovata. Una domanda di senso che rimane irrisolta: l’interrogativo ultimo che, evangelicamente, oportet ut eveniat.

La figura di Cartesio, nella suggestiva analisi proposta da Marion, acquista, sotto questo profilo, un significato esemplare e, per così dire, paradigmatico. Cartesio è una sorta di «sentinella»: una figura accerchiata e, tuttavia, capace di restare in piedi, sempre e di nuovo, radicata nella contraddittorietà del Finito. Una figura liminare e oscillante, sospesa tra senso e paradosso, nei sentieri interrotti della metafisica. Vale a dire: sulla soglia della distanza.

7. Nota bibliografica

  • Paolo Casini, Introduzione all’Illuminismo. Da Newton a Rousseau, Laterza, Bari 1973
  • Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna, I tomo, Einaudi, Torino 1952
  • Ernst Cassirer, Cartesio e Leibniz, Laterza, Bari 1986
  • John Cottingham, Descartes, Il Mulino, Bologna 1991
  • Giovanni Crapulli, Introduzione a Descartes, Laterza, Bari 988
  • Stefano Di Bella, Meditazioni metafisiche. Introduzione alla lettura, Nuova Italia Scientifica, Roma 1997
  • Eugenio Garin, Cartesio. Vita e opere, Laterza, Bari 1967
  • Henri Gouhier, Essais sur Descartes, Paris, Vrin 1937 (III ed., Descartes essais sur le *Discours de la méthode, la métaphysique et la morale*, 1973)
  • Margaret C. Jacob, Il significato culturale della Rivoluzione scientifica, Einaudi, Torino 1992
  • Alexandre Koyré, Lezioni su Cartesio, Tranchida, Milano 1990
  • Alexandre Koyré, Studi newtoniani, Einaudi, Torino 1983
  • Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1984
  • Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino 1967
  • Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi, Torino 1957
  • Jean-Luc Marion, Sur la théologie blanche de Descartes, Presses Univérsitaires de France, Paris 1981
  • Paola Rodano, L’irrequieta certezza. Saggio su Cartesio, Bibliopolis, Napoli 1995
  • Paolo Rossi, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, Loescher, Torino 1973
  • Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Bari 1997
  • Paolo Rossi, Clavis universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Il Mulino, Bologna, II ed. 1982
  • Emanuela Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche, Laterza, Bari 1997
  • Emanuela Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Laterza, Roma-Bari 1994
  • William R. Shea, La magia dei numeri e del moto. René Descartes e la scienza del Seicento, Bollati Boringhieri, Torino 1994
  • Lucia Urbani Ulivi, Saggio introduttivo a Cartesio, Meditazioni metafisiche, Rusconi, MIlano 1998
  • Lucia Urbani Ulivi, Saggio introduttivo a Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, Bompiani, Milano 2000

  1. L’iter educativo intrapreso dal giovane René Descartes è contrassegnato dalla permanenza presso il collegio gesuitico di La Flèche, in perenne oscillazione tra umanesimo e scolastica. Successivamente, come ricordano Garin e Gouhier (cfr. op. cit.) l’impegno cartesiano sta tutto nella liberazione della scientia mirabilis dalle sciences curieuses magico-alchemiche ed ermetico-cabalistiche, anche attraverso un richiamo ai cosiddetti e tanto disprezzati novatores, tra cui Cardano e Della Porta. Per P. Rossi, il fatto che Cartesio pervenga, nella fase matura del suo pensiero, ad un rifiuto del simbolismo non può farci dimenticare le origini «più torbide» della sua filosofia, l’interesse per l’ordo locorum, l’insistenza sulla vis activa che pervade l’armonia del reale e a questa tesi si accosta anche Garin. Cfr. P. Rossi e E. Garin, op. cit. e Crapulli, Introduzione a Descartes, Ed. Laterza, 1988. ↩︎

  2. Ce lo ricorda lo stesso Cartesio nella lettera a Beeckman del 29 marzo 1619. ↩︎

  3. A questo proposito, ci pare interessante osservare come, per Cartesio, le definizioni filosofiche fornite dalla Scolastica, immerse in un groviglio inestricabile di dispute infinite, siano prive di pertinenza o, addirittura, non dicano nulla (vel aliud explicant, vel nihil omnino), rendendo occulte cose che sarebbero altrimenti chiare. La liberazione dall’impianto dimostrativo e classificatorio sillogistico di matrice aristotelica è un momento ineludibile del processo di rinnovamento e di demistificazione che conduce Cartesio a quella che lui stesso designa come la scoperta mirabile↩︎

  4. Cfr, AT, X, p. 361 (dove AT = Œuvres de Descartes par Ch. Adam et P. Tannery- Paris 1887-1913), 1964-74, 12 voll. ↩︎

  5. Già nelle Regulae ad directionem ingenii, opera pedagogica incompiuta, che risale molto probabilmente all’inverno 1627-28, l’impostazione metodologica cartesiana traspare in modo palese e l’autore, sentendosi ormai sciolto da ogni obbligo verso i maestri, mette in evidenza l’esigenza insopprimibile di enunciare regole certe e facili attraverso le quali si possa evitare la confusione del vero e del falso, fino a pervenire alla vera conoscenza, secondo una disposizione conveniente e ordinata delle parti. Cartesio, nella stessa opera, individua nella vis cognoscens la mente, l’ingenium, l’ intellectus come unico soggetto del processo conoscitivo, radicalmente differenziato dalla percezione sensibile e dalla sfera della ricettività, intesa, invece, come fluttuazione legata al corpus. L’idea di una mathesis universalis postula la convergenza di teoria e prassi, nel concetto di saggezza, e implica un fondamento unitario e quantitativo comune non solo all’aritmetica e alla geometria, ma anche all’astronomia, alla musica, all’ottica e alla meccanica. E Garin (cfr. op. cit.) rileva come «la ricchezza delle Regulae, su cui non si insisterà mai abbastanza, è in questa molteplicità di problemi aperti, di soluzioni avviate, di vie diverse tra cui non è ancora intervenuta una scelta».

    L’opera, è bene notarlo, risente molto dell’influsso esercitato da padre Mersenne, uno dei massimi difensori della cultura cattolica, un personaggio vicino a Cartesio e ostile da sempre all’avanzata delle suggestioni neoplatoniche e rinascimentali. ↩︎

  6. Cfr. per questa linea esegetica, A. Koyré. Dal mondo chiuso all’universo infinito (Feltrinelli, 1984), ma anche Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (Einaudi, 1967) e Lezioni su Cartesio (Tranchida discipline, 1990). ↩︎

  7. Shea (cfr. op. cit.) evidenzia acutamente l’esistenza di sentimenti analoghi che accomunano alcuni trattati rosacrociani, come la Confessio (1615) o la Fama fraternitatis (1614) e le Cogitationes privatae dove Cartesio promuove uno smascheramento delle scienze che ne sveli la concatenazione. Ricorrente in Cartesio è, poi, la dichiarazione di fiducia nel valore dell’ispirazione e nell’esistenza di una voce interiore, altro importante segnale di affinità con le posizioni rosacrociane. ↩︎

  8. Cfr. la VI e la XII Regula, soprattutto. In una lettera a Elisabetta, si parla di notions primitives indipendenti da altro e autoevidenti. Il rafforzamento della capacità di indagare le nature semplici è da Cartesio paragonato alla situazione dell’orefice che acuisce la sua vista concentrandola su oggetti minuti. Da notare come le nozioni semplici cartesiane non siano affatto generi che contengano le nature composte, come vorrebbe la secolare tradizione aristotelica, paralizzata nel principio dictum de omni et nullo↩︎

  9. Cfr. Regulae ad directionem ingenii (op. cit., A.T. 397 e sg.), dove Cartesio utilizza l’efficace esempio del fabbro che, prima di foggiare spade o elmi, si costruisce gli strumenti di lavoro, secondo la necessità, raccogliendo il materiale disponibile. I «precetti rozzi», ai quali si alludeva, svolgono la stessa funzione. Dopo aver introdotto questa similitudine, l’autore precisa di non volere in alcun modo indagare gli arcana naturae, come la predizione del futuro, ma si chiede, più semplicemente, se la ragione umana sia sufficiente a scoprire tali cose (utrum ad illa invenienda humana ratio sufficiat). ↩︎

  10. Mi pare suggestiva l’espressione scelta da Koyré: «Alla storia di una disfatta — sott. Cartesio — oppone il racconto di una vittoria». ↩︎

  11. Koyré (cfr. op. cit.) ci ricorda come l’estrinsecazione del dubbio cartesiano possa essere compresa convenientemente solo se inserita nella sua epoca, nello spirito del suo tempo, caratterizzato dallo scuotimento delle certezze, dalla fine dell’unità politica e religiosa in Europa, dalla crisi delle istituzioni canoniche e universali. Koyré parla addirittura di un cumulo di ricchezze e di macerie, in un mondo dove tutto è possibile e dove l’uomo si sente perduto, come del resto il bilancio pessimistico e scettico di Montaigne sembra confermare in pieno (cfr. Montaigne, Essais, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1966, 2 voll.). ↩︎

  12. Gouhier evoca la figura di Montaigne, per il quale questo grande mondo dovrebbe diventare il libro del suo scolaro↩︎

  13. Lo scettico e Montaigne, ci dice Koyré, subiscono il dubbio, mentre Cartesio lo esercita attivamente. All’interno di questo progetto speculativo ambizioso e poliedrico, troviamo delineata in modo breve ma incisivo la cosiddetta morale provvisoria, a cui accenneremo soltanto e che rivela, nel complesso, una visione prudentemente conservatrice e per molti versi conformistica. La morale cartesiana impone, innanzitutto, l’obbedienza alle leggi e alle consuetudini del proprio paese, l’adesione, insomma, ad un moderatismo cauto ma risoluto. La III regola, in particolare, invitando, stoicamente, l’uomo all’autodominio e ad una responsabilizzazione integrale, suggerisce di vincere piuttosto noi stessi che la fortuna, essendo sempre disposti a mutare i propri desideri, anziché l’ordine del mondo↩︎

  14. Qui si terranno presenti le edizioni Rusconi, 1998 e Laterza, 1997, con traduzione e saggio introduttivo di Sergio Landucci. ↩︎

  15. Garin sottolinea, tra l’altro, l’importanza eccezionale della lettera a Mersenne del 15 aprile 1630, in cui Cartesio dichiara di non voler affrontare in alcun modo questioni di tipo teologico, inerenti alla verità rivelata, concentrando il suo interesse su problematiche di tipo metafisico e ponendo in evidenza la dipendenza completa delle verità eterne da Dio, che stabilisce le leggi di natura come un re stabilisce le sue nel suo reame↩︎

  16. Cfr. lettera a Picot, A. T., IX, p. 14. ↩︎

  17. L’interazione e la sinergia tra le sensate esperienze e le dimostrazioni necessarie, si collegano, in Galileo, alla confutazione del principio di autorità e alla dimostrazione della non-incompatibilità tra Natura, osservatissima esecutrice de gli ordini di Dio e la Scrittura, concepita come dettatura dello Spirito Santo, cfr. Galileo, Opere a cura di F. Brunetti, 2 voll., Torino, U.T. E. T., 1965. ↩︎

  18. Cartesio, in una lettera a Mersenne, rimprovera a Galileo di non aver esaminato le questioni sistematicamente e di non aver preso in esame le cause prime della natura↩︎

  19. Particolarmente degna di nota è, in questo ambito, la corrispondenza epistolare con padre Gibieuf del quale, tuttavia, ricorda Garin, Cartesio non ha letto l’opera principale, il De libertate Dei et creaturae, pur avendola ricevuta e di cui, però, condivide le tesi di fondo, cfr. lettera a Mersenne del 27 maggio 1630. ↩︎

  20. Cassirer (cfr. op. cit.) parla di ripudio della percezione come fattore di accertamento del reale effettuale. L’impressione sensoriale viene, in altri termini, esclusa dalla costituzione del nesso oggettivo della natura. Valutando questo aspetto, Cassirer prende atto della corrispondenza tematica tutt’altro che esteriore o fortuita tra l’elaborazione del meccanicismo cartesiano e l’atomismo classico di Democrito. In entrambi i casi, infatti, il concetto di materia non indica affatto l’ipostatizzazione del dato sensibile e percettivo, ma un concetto puro della matematica↩︎

  21. Iperbole che consiste, precisamente, nella trasformazione del dubbio in giudizio di falsità. ↩︎

  22. Cfr. Cassirer, Storia della filosofia moderna, vol. I tomo III, Einaudi 1952. ↩︎

  23. L’attacco ultimo e definitivo al realismo adeguazionistico, vale la pena ricordarlo, verrà sferrato da Kant, che, istituendo il metodo critico-trascendentale, negherà il carattere scientifico della metafisica dogmatica, inaugurando una stagione nuova della filosofia moderna. ↩︎

  24. Afferma Cartesio: «Sia che io vegli o che dorma, due e tre uniti assieme formeranno sempre il numero cinque, e il quadrato non avrà mai più di quattro lati». ↩︎

  25. Cartesio parla di un genio non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannare↩︎

  26. Cfr. Med. Met. II ed. cit. p. 159 e sg., «… sed tamquam in profundum gurgitem ex improviso delapsus». ↩︎

  27. Cfr. Gouhier, op. cit., p. 116 e ss. ↩︎

  28. Notevoli le affinità e i punti di contatto tra la teorizzazione cartesiana del cogito e la riflessione agostiniana quale traspare, ad esempio, dal trattato Sul libero arbitrio. Il parallelismo fu sottolineato già da Antoine Arnauld, l’autore delle quarte obiezioni alle Meditazioni. Tuttavia occorre precisare che, mentre Agostino si serve del cogito, in ultima analisi, per testimoniare la presenza in noi di una immagine della Trinità, Cartesio, invece, se ne serve per enucleare la distinzione tra le due sostanze. Cartesio, in ogni caso, è fortemente influenzato da ambienti culturali permeati di agostinismo. ↩︎

  29. Gassendi, nella sua obiezione all’argomento cartesiano, sosterrà la possibilità di derivare la certezza dell’esistenza da qualunque altra attività (per esempio: «je me promène donc je suis»), della quale, tuttavia, risponderà Cartesio, non possiamo essere infallibilmente certi come dell’attività del pensare. ↩︎

  30. Significativa la chiosa di Spinoza: «Penso dunque sono è una proposizione unica che equivale a questa: io sono pensante» cfr. Spinoza, Principi della filosofia di Cartesio, Roma-Bari 1990. ↩︎

  31. Cfr. soprattutto Hobbes, Elementi di filosofia. Il corpo. L’uomo, parte IV, cap. 25, a cura di A. Negri, U.T. E.T. 1972. ↩︎

  32. Cartesio introduce l’efficace metafora dello «spogliare dalle vesti» per poter, così, pervenire alla determinazione residuale ultima. È come se il pezzo di cera fosse considerato «nudo», per essere distinto dalle sue forme esterne. ↩︎

  33. Cfr. Regulae ad directionem ingenii, A.T. X, 397 e 398. ↩︎

  34. Intesa proprio nella valenza semantica che le ha attribuito il pensiero filosofico classico, da Parmenide a Platone. ↩︎

  35. La teorizzazione del carattere innatistico delle scienze matematiche rinvia implicitamente al paradigma epistemologico platonico e lo stesso Cartesio allude al tema della reminiscenza (l’anàmnesi), già introdotto da Platone nel Menone↩︎

  36. Il concetto di idea materialmente falsa viene introdotto da Cartesio per designare le qualità sensibili, così come le privazioni e le negazioni. ↩︎

  37. L’argomento ontologico viene formulato per la prima volta da sant’Anselmo di Canterbury, nel XII sec. d. C. ↩︎

  38. Seguendo pedissequamente il criterio tomista e, quindi, risalendo via via verso le cause passate, non si verrebbe a capo di nulla e non si troverebbe alcuna causa prima. ↩︎

  39. Ricorderemo brevemente che tale prova viene condotta secondo una analogia con le verità geometriche, con i teoremi matematici rispetto ai quali l’esistenza di Dio è più certa. Secondo la Scribano (cfr. op. cit.), «l’idea di Dio è il perno su cui ruota la credibilità dell’impresa cartesiana»↩︎

  40. La vulnerabilità della prova di Anselmo sta nell’assenza di uno specifico impianto innatistico che la sostenga e le assicuri robustezza. Tommaso, infatti, rimprovera ad Anselmo l’inferenza arbitraria e nominalistica di un’esistenza esterna al pensiero, a partire da un’esistenza solo pensata. In Cartesio, infatti, non si passa dal piano del pensiero a quello delle cose, ma sono le cose che si impongono inequivocabilmente al pensiero. ↩︎

  41. L’opera teologica di Suarez matura nell’orizzonte gesuitico e tenta di rileggere la secolare tradizione scolastica, adeguandola al nuovo clima controriformistico. Suarez, inoltre, sotto il profilo della riflessione etica, aderisce alla posizione molinista, che propone una originale mediazione tra la grazia divina e la libertà umana. ↩︎

  42. Gassendi vede nel confronto tra la deduzione dell’esistenza di Dio e la validità degli enti geometrici, una illecita ipostatizzazione dei concetti matematici. ↩︎

  43. La «scoperta» della ghiandola pineale (conarion), all’interno del trattato L’uomo svolge un ruolo fondamentale in questa visione dualistica apparentemente insolubile e irrimediabilmente antinomica. La ghiandola, infatti, corrispondente per lo più all’ipofisi, risulta essere «molto piccola, situata in mezzo al cervello e sospesa sopra il condotto attraverso cui gli spiriti delle cavità anteriori comunicano con quelli delle cavità posteriori, in modo tale che i suoi più lievi movimenti possono mutare molto il corso degli spiriti, mentre, inversamente, i minimi mutamenti nel corso degli spiriti possono portare grandi cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola» (cfr. Cartesio, L’uomo, in Opere filosofiche, I, B.U. L. 1986). ↩︎

  44. Il principio che stabilisce l’invariabilità complessiva della quantità di movimento (dove la variazione di tale quantità è una grandezza vettoriale), viene rifiutato nella sua versione cartesiana da Leibniz che gli contrappone il principio di conservazione della quantità di forza viva (l’energia in senso moderno), con l’introduzione, nell’espressione algebrica, del quadrato della velocità. ↩︎

  45. Da segnalare, indubbiamente, l’incapacità cartesiana di cogliere il significato vettoriale della direzione come fattore integrante della quantità di moto e il rifiuto dell’idea di elasticità nei fenomeni di rimbalzo, cfr. W. Shea, op. cit. p. 302 e segg. ↩︎

  46. La questione è affrontata, tra gli altri, da William Shea nella sua opera magistrale La magia dei numeri e del moto (cfr. op. cit.) e da Thomas Kuhn nella sua celebre opera La Rivoluzione copernicana (Einaudi, 1972). ↩︎

  47. Koyré (cfr. op. cit.) asserisce che il nuovo universo non è più a misura umana↩︎

  48. A questo proposito, Paolo Rossi (cfr. op. cit.) vede nell’universo cartesiano, libero da ogni occultismo, la geometria realizzata↩︎

  49. Cartesio perviene a questa consapevolezza dimostrando, già nelle Regulae, in riferimento all’interpretazione della natura, l’insufficienza del realismo fisiologico e del modello macroscopico e bidimensionale ad esso congiunto. Cartesio, infatti, supera l’idea secondo cui sarebbe possibile cogliere la natura dell’oggetto materiale attraverso l’intuizione degli schemi corporei impressi dallo stesso oggetto sullo schermo esteso dell’immaginazione. Di particolare importanza sono, a questo proposito, gli studi cartesiani sull’estrazione di radici quadrate, sui fenomeni acustici e su quelli magnetici. ↩︎