Il pensiero di Aldo Capitini tra filosofia della nonviolenza e omnicrazia

1. Introduzione

La figura di Aldo Capitini ha segnato con vigore uno degli sviluppi teoretici, etici e sociali più originali della filosofia pacifista; una filosofia che si pone come sintesi originale di diverse correnti di pensiero filosofico e religioso, come si evince dai percorsi tematici presenti in tutte le principali opere del pensatore umbro; nell’alone religioso e morale che muove la riflessione filosofica di Capitini si trovano motivi vari, frutto di una sintesi originale: l’ideale della pace presente nella tradizione dell’umanesimo italiano ed europeo; il progetto politico di una pace perpetua teorizzata da Kant; il pensiero e l’esperienza religiosa di San Francesco d’Assisi e di Gandhi ed, infine, alcuni elementi dell’idealismo italiano di Croce e Gentile, con i quali Capitini ebbe un rapporto diretto; un rapporto di confronto, ma anche di contrapposizione politica ed etica, testimoniato dall’estrema coerenza individuale e dalla risoluta fermezza morale del pensatore perugino.1 La figura filosofica e politica di Capitini è rimasta ingiustamente ai margini del dibattito politico italiano e, spesso, purtroppo strumentalizzata.2 Lo scopo di questo saggio è quello di tracciare i fondamenti teoretici, religiosi e morali che sono alla base dell’originale rielaborazione della filosofia «nonviolenta», come ampliamento della filosofia «non violenta», secondo una sottile e acuta distinzione tra i due termini che Capitini stesso stabilì in modo chiaro ed inequivocabile:

In questi ultimi tempi si è fatto qualche progresso in Italia nel campo che esamineremo, oltre che per il numero delle persone interessate, anche perché si è cominciato a scrivere nonviolenza in una sola parola, sicché si è attenuato il significato negativo che c’era nello scrivere non staccato da violenza, per cui qualcuno poteva domandare: va bene, togliamo la violenza, ma non c’è altro? Se si scrive in una sola parola, si prepara l’interpretazione della non-violenza come di qualche cosa di organico e dunque, come vedremo, di positivo.3

Occorre, anzitutto, far notare che la filosofia della nonviolenza di Capitini non è una filosofia pacifista utopica e astratta, ma una filosofia dell’impegno concreto e della prassi pacifista incentrata sull’altra colonna portante della sua elaborazione teorica: la teoria della omnicrazia. Prima di addentrarmi nella ricostruzione delle tappe fondamentali del sentiero speculativo di Capitini, desidero soffermarmi brevemente sulla definizione che Capitini ci offre del termine omnicrazia al fine di evitare fraintendimenti o errate interpretazioni. Criticando la concezione dello Stato etico di Hegel e la Classe onnipotente di Marx, Capitini scrive:

La soluzione della omnicrazia è diversa dall’una e dall’altra. Pone come superiore al mondo degli interessi particolari la compresenza, che è la realtà di tutti e dei valori in un infinito accrescimento, e promuove non i modi della guerra e della permanente valorizzazione dal basso come assemblea e dell’autoritarismo dall’alto, ma i modi della nonviolenza e produzione dei valori.4

L’elemento della compresenza è l’arco che unisce le due colonne portanti dell’edificio filosofico capitiniano; la compresenza va, pertanto, studiata come fondamento universale e individuale dell’umanità, come dimensione filosofica e politica, che però, prima di tutto, è esperienza religiosa. La prima tappa speculativa originale di Capitini fu quella di una meditazione filosofico-religiosa molto originale, considerando il contesto filosofico dell’Italia degli anni trenta, permeato da forti tensioni tra la filosofia religiosa cattolica tradizionale, lo spiritualismo storicista del Croce e l’attualismo immanente del Gentile; in questo quadro si colloca la prima fondamentale base innovativa dell’atteggiamento filosofico di Capitini. Nota acutamente Eugenio Garin:

Qui è da collocare l’opera di Capitini (gli Elementi di un’esperienza religiosa furono pubblicati nel ’37 dal Laterza) e in questa atmosfera è da porre una più urgente riflessione, in quegli anni, su temi etico-religiosi, e su quei punti su cui più insoddisfacenti sembrano i «filosofi»: il male, la personalità, una umana società. Qui si accentuò, contro la violenza degli Stati, contro tirannidi, guerre e persecuzioni, un’aspirazione a un vincolo diverso, a comunità altrimenti fondate.5

Partendo da questo contesto, sarebbe ermeneuticamente sbagliato analizzare il concetto di «nonviolenza» di Capitini, così come quello di «omnicrazia», sganciandoli dalla loro componente religiosa e, in parte anche mistica, dalla quale Capitini intraprende il suo interessante e originale percorso filosofico e politico; vedremo in modo approfondito come la «rivelazione» della «compresenza» di tutti divenga poi prassi della «compartecipazione» spirituale, culturale, politica e sociale.

Cosa intende egli con il termine «religione»? Quale valenza strutturale assume tale visione religiosa sul piano teoretico e metodologico della «nonviolenza» e della teoria politica basata sul cosiddetto»potere di tutti»? Nel successivo paragrafo propongo una mia risposta a tali due quesiti, cercando di inquadrare questa tematica nel contesto storico in cui visse Capitini; nel secondo paragrafo mi soffermerò sulla tematica fondamentale della «compresenza» nella sua varietà di spunti filosofici, etici e politici; nel terzo paragrafo ricostruisco sinteticamente quella che io definisco la filosofia della «prassi nonviolenta» di Capitini; poi, nel quarto ed ultimo paragrafo, mi soffermo sulla teoria della «omnicrazia» (dalla compresenza alla compartecipazione all’esercizio del potere di tutti con tutti).

2. L’esperienza religiosa come fondamento originario della «nonviolenza» e dell’omnicrazia

Capitini è spirito profondamente religioso e lo dimostrano già i suoi primi scritti, che colpirono molto Benedetto Croce, il quale ne promosse la pubblicazione, intercedendo presso il suo amico editore Laterza nel 1937; Capitini esprimeva, in questa raccolta di pensieri ricchi ed originali incentrati su una revisione e riscoperta della religiosità profondamente umana, la sua anima e sensibilità perfettamente in sintonia con la tradizione mistica della sua regione natale: l’Umbria.

Già nei primi capitoli di Elementi di una esperienza religiosa si parte dalla constatazione del fallimento della filosofia della violenza, del pensiero e della prassi politica violenta, poiché essa è foriera di disumanizzazione storica e morale, in quanto non tiene conto degli effetti stessi della medesima. Capitini scrive su tale argomento parole di estrema attualità:

La violenza è dilagata perché si è visto che avere pochi strumenti per difendersi o imporsi, è come non averne nessuno. Si sostiene che la migliore difesa è l’offesa preventiva, e il deprimere via via tutti quelli che domani o più tardi ci potrebbero nuocere. E si resta tutti assorbiti da questa cura; e piuttosto che migliorare se stessi, si cerca di spiantare gli altri, dedicando tutte le energie alla preparazione di una mentalità offensiva. E allora? Continuare sino al massimo su questa via? Che cosa diverrà la vita? E se invece di moltiplicare i congegni micidiali, di estendere su larghissima scala la pena di morte, si cercasse e si diffondesse una persuasione religiosa elementare, atta a vivere energicamente nell’animo, non si darebbe un altro impulso alla civiltà?6

In questa riflessione appare profondamente chiaro che ogni azione o proposito violento, anche se giustificato dal principio di una «guerra preventiva» non realizza la vera pace come completa dimensione politica ed etica, la quale si fonda sulla vera religione, quella che rispetta la sacralità della vita e dell’amore per essa. Occorre a questo punto specificare che l’esperienza religiosa per Capitini non è assolutamente improntata in una ferrea adesione ad un dogmatismo astratto; al contrario, è basata sulla valutazione del sentimento di sacralità e di amore verso gli uomini e verso gli animali; la posizione di Capitini è, per un certo verso, sincretista, in quanto egli riunisce in sé il messaggio agapico cristiano e paolino e gli insegnamenti buddhisti (come quello concernente il vegetarianesimo). Non è un caso, a mio avviso, che uno dei capitoli più originali di Elementi di un’esperienza religiosa sia intitolato La crisi delle religioni tradizionali. In tale capitolo, fondamentale per comprendere il senso di religione «riformato» dal pensiero di Capitini, il pensatore umbro individua delle lacune, degli stalli epocali della religione tradizionale all’interno del modo di sentirsi dell’uomo contemporaneo e possono essere sintetizzabili in quattro punti:

  1. La confutabilità di taluni presunti fatti storici che sarebbero al fondamento delle religioni.
  2. I dogmi della trascendenza vanno rielaborati e tradotti nell’immanenza della sfera umana.
  3. Il ritenere che gli atti rituali e di culto di per sé siano l’essenza della religione.
  4. Le religioni tradizionali si sono spesso arroccate in difesa dei potenti.7

Questi punti critici richiamano alla memoria alcune pagine critiche di ascendenza protestante o, per un certo afflato critico, il pensiero di Rosmini o del Mazzini, ispirato dal motivo di una religione spirituale immanente e politica, da un misticismo del concreto e non della fuga dal mondo.

Sono stati messi in luce i punti deboli delle religioni tradizionali, divenute spesso sistemi di dogmi distanti dalla realtà concreta della sete di religiosità piena, che è al contrario rappresentata dalla prassi da due elementi fondamentali: «l’intimità e l’amore infinito».8

L’intimità è la dimensione di umanità profonda, di riconoscimento reciproco in una dimensione di scoperta e di conoscenza concreta del bene che è raggiungibile solo attraverso la consapevolezza di un amore che non sia limitato, ma che sia dinamicamente proteso all’infinità della religiosità.

Nella seconda sezione si trovano i lineamenti della riflessione religiosa di Capitini che è il fondamento del suo pensiero successivo, incentrato sulla «nonviolenza» e sulla teoria politica incentrata sulla «omnicrazia». C’è un passo di Capitini che sintetizza perfettamente la teoria di una religione aperta all’esperienza della vicinanza concreta e della condivisione umana universale di un Dio che si offre in ogni atto d’amore autentico individuale ed universale:

Vivere un infinito tutto infinito, un bene tutto bene, una perfezione, un eterno tutto eterno, non è desiderabile; e forse è dei sensi e non di tutta la persona: un infinito che viva costantemente oggetti, un bene operoso che aggiunga bene a bene, un amore per le singole concrete individualità, mi sembra veramente di più, mi sembra che Dio raddoppi così e moltiplichi il suo valore. Tutti i sommi attributi di Dio vanno avvicinati alle finitezze, attributi che spendono se stessi; c’è tutta una vita religiosa, piena di elementi che nella tradizione teologica più accademica venivano respinti o tenuti a margine come accusati di terrenità in confronto di quegli attributi immobili. Intimità e vicinanza sono cose ben più importanti di quanto si in tende comunemente, una cosa vicino ad un’altra cosa, uno sfiorare, una tangenza di finito ad altro finito, e le cose restano due: intimità e vicinanza è Dio infinitamente aperto, Dio che si dà.9

Si tratta del Dio personale, di una dimensione sacra che si scopre nella dinamica dell’uscita dall’individualismo astratto, ricongiungendolo alla dimensione di un’infinità che è la totalità vera; non è la totalità concettuale di stampo hegeliano, bensì la totalità personale infinita dell’umanità che si trasfigura in una compresenza eterna e attiva nella quale ogni «io» è in relazione ad un «tu» personale, che si apre all’esperienza del «tutti»; a partire da questa compresenza e dalla dignità di ogni essere animato che partecipa dell’universale intriso di amore divino, e da questo senso di sacralità immanente, a tratti «panteista» del pensiero religioso di Capitini, si struttura la teoria e la prassi della «nonviolenza», la quale, come vedremo, non si limita a sconvolgere il primato della forza nella storia, ma vuole strutturare un nuovo modello di società, nella quale ogni vincolo coercitivo violento viene annullato o limitato al massimo.

3. Teoria e tecniche della «nonviolenza»

La realtà di tutti, intesa nel senso di Capitini, è una realtà viva e consapevole dei limiti individuali dei singoli, ma anche delle possibilità infinite dei loro atti di condivisione affettivi, sociali e spirituali. Per comprendere bene la teoria della «nonviolenza» di Capitini, si deve tener presente la profonda riflessione contenuta in La realtà di tutti10 pubblicato nel 1948; tale testo è praticamente coevo a Italia nonviolenta che esce un anno dopo; ciò sta a testimoniare che tali tematiche sono strettamente collegate tra di loro: l’esperienza religiosa e sociale è testimoniata peraltro dall’azione politica di Capitini di quegli anni.11 Nella Realtà di tutti Capitini riprende dei temi presenti nell’attualismo gentiliano come l’immanenza assoluta dell’atto universale, sebbene Capitini non condivida l’idea che conoscere sia «identificare» nel senso idealistico; al contrario, Capitini ritiene, seguendo ben altri percorsi etico-politici rispetto a quelli di Gentile, che il conoscere pratico sia basato sull’esperienza dell’aprirsi dell’«io» al «tu-tutti» e nel riconoscersi compartecipanti con gli altri si scopre il valore supremo della «nonviolenza» come criterio fondamentale di convivenza e di crescita personale comune; non è un caso che l’idea propulsiva, sul piano politico, di tale visione sia il liberalsocialismo che Capitini condivide insieme al suo grande amico e filosofo Guido Calogero.

La «nonviolenza» è allora teoria che si fa prassi e prassi che si fa teoria; essa non è un dogma fisso e immutabile, ma una ricerca umana aperta, solidale e tollerante che si prefigge lo scopo non solo di eliminare sofferenze inutili per la moltitudine (come le guerre), ma anche di sublimare e trasmutare l’aggressività sociale cristalizzata, la violenza che ribolle sotto alla parvenza di normalità quotidiana di un individualismo spesso opportunistico e miope davanti alla società attuale.

Egli si collega anche ad elementi direttamente legati al misticismo medievale (San Francesco) e agli insegnamenti di Gandhi e del buddhismo.12

La nonviolenza non è una semplice dichiarazione di principi o di intenti, ma un’apertura dialogica reale che esclude la violenza come prassi di imposizione. Capitini, descrivendo il suo metodo argomentativo, mette in luce l’importanza che ha, per il pacifista, di persuadere e di non forzare mai gli altri: non si tratta di convertire, ma di persuadere gli animi mediante il dialogo e l’esempio di coerenza etica con i principi della nonviolenza. Capitini sottolinea il valore della nonviolenza come un ideale regolativo che assume in sé la possibilità di agire anche in modo contrario a sistemi sociali che impediscono la libera convivenza pacifica tra gli esseri umani o che ne negano il valore morale e spirituale. Nel testo Tecniche della nonviolenza il pensatore perugino propone una guida sintetica e chiara di varie modalità e varie tipologie di prassi nonviolenta al fine di mostrare che colui che sceglie la strada della nonviolenza non è una persona remissiva, ma che agisce con un telos morale rispetto al violento, poiché spezza la catena di azione / reazione puramente istintiva per aprire un mondo di valori spirituali più nobili.13

È evidente tuttavia che la posizione di Capitini assume dei toni molto radicali e quasi ascetici, i quali implicano una forte autodisciplina pratica, che può essere sintetizzata in alcuni comportamenti e azioni nonviolente, che ovviamente possono variare in base alle circostanze storiche, sociali ed esistenziali. Tali tecniche sono distinguibili in due tipologie: le tecniche individuali e quelle collettive.14

Le tecniche di nonviolenza individuali sono basate, prima di tutto, sul riconoscimento del tu come fondamento basilare del principio nonviolento, ma anche del principio omnicratico, come vedremo nel paragrafo successivo. Capitini, con dei toni che ricordano alcune pagine di Buber,15 afferma:

Realmente l’atto del tu va concretato con costanza ed esattezza, va ripreso e rinnovato tutte le singole volte, con la volontà di far quello e non altro. Inoltre bisogna osservare che se la nonviolenza sta nell’attuazione del singolo tu, nella interiorizzazione viva di un individuo, l’orizzonte generale della nonviolenza si intravede quando il tu resta non singolare, ma è la disposizione a rivolgerlo anche ad altri, a molti, possibilmente e progressivamente a tutti. È un tu non di scelta e di preferenza, ma un tu-tutti. La non violenza si presenta molte volte alla coscienza come una legge, un dovere o un orientamento di massima, che trae la sua forza non dalla considerazione delle conseguente che derivano dall’atto di nonviolenza, quanto invece da un preliminare sentimento della realtà di tutti gli esseri.16

Seguendo le orme del pensiero indiano, ma anche l’insegnamento di San Francesco d’Assisi riguardando l’amore per tutte le creature, Capitini si ispira alle tecniche della zoofilia e del vegetarianesimo, coaudivate poi dal superamento della vendetta e del risentimento, sostenendo che la resistenza nonviolenta spiazza l’aggressivo, lo rende muto, gli pone davanti l’assurdità della violenza e la verità spirituale e morale della nonviolenza come principio di riconoscimento interpersonale, come principio di sublimazione dell’odio in amore, della violenza aggressiva in nonviolenza costruttiva; il superamento della vendetta e del risentimento è, però, un atto di illuminazione religiosa che permette di trasmutare i rapporti sociali concreti, se vissuto con passione, coerenza e forza d’animo. L’assenza di risentimento è importante, ma non basta se non vi si aggiungono altre pratiche quali la preghiera, intesa come slancio d’amore rituale e spirituale; il dialogo, inteso come capacità di parlare e di ascoltare nel rispetto reciproco dell’evento dialogico. Il dialogo non è inteso da Capitini come un semplice «parlare», ma come un «comunicare» autentico e genuino basato sul riconoscimento comune della ricerca di una verità costruttiva:

Il dialogo, l’autentico dialogo che presuppone la propria disposizione a lasciarsi convincere dall’interlocutore se egli ci riesce, è, dunque, una delle tecniche della nonviolenza; e lo è il discorso persuasivo quanto più è un’onesta e chiara presentazione degli elementi oggettivi di una questione, nessuno escluso per astuzia o sotterfugio. Il discorso è legittimamente inaccusabile di violenza, quanto più si presenta come un semplice contributo e chiarimento, quanto più lascia libero l’ascoltatore di decidere per suo conto, e anche per questo il discorso nonviolento deve essere sobrio e non pesante.17

Il dialogo deve essere orientato alla «nonmenzogna», come Capitini la scrive: la non menzogna è reale sincerità di intenti spirituali aperti all’incontro con gli altri in quanto persone autonome; si tratta di non mentire per amore della verità costruttiva comune e dell’amore per la realtà di tutti: chi mente per manipolare gli altri o per imporre loro una verità che costoro non accettano realmente, ma che assimilano per paura di eventuali minacce o di ritorsioni, è un vero e proprio violento. Occorre, allora, notare che la violenza non è solo fisica, ma anche verbale e mentale; la menzogna è la negazione del dialogo vero; un esempio lampante può essere la propaganda nazi-fascista durante la dittatura. Una politica nonviolenta, al contrario, non mira a creare un consenso violento e imposto, ma cerca di costruire una persuasione libera e costruttiva che sia critica e autocritica, incentrandosi sulla dignità di tutti i partecipanti al dialogo vero.

Vi sono anche altre pratiche quali l’esemplarità del singolo, il digiuno di protesta che vengono da Capitini elogiate come tecniche attive e dirette tese al mettere in luce il senso del messaggio nonviolento nel concreto del legame con la società intera; le tecniche individuali sono in realtà collegate alle tecniche di protesta nonviolenta collettive, incentrate sul rifiuto di collaborare con ogni forma di violenza istituzionalizzata, sul rifiuto di utilizzare le armi, sull’obiezione di coscienza e sul sabotaggio, tecnica che i nonviolenti possono utilizzare come forma di resistenza durante una dittatura o una guerra; il sabotaggio è un distruggere i mezzi di comunicazione o le armi di un esercito occupante e può essere utilizzato e giustificato a patto che non si abbia l’intento di ferire o uccidere i nemici: si tratta di sabotare gli strumenti di un potere iniquo e non di perseguitare coloro che sono avversari, resi tali dal fatto che essi stessi sono stati manipolati dalla spirale del potere violento istituito.18 Tutto ciò mostra, in ultima istanza, che Capitini non parla di un pacifismo astratto, ma di una «nonviolenza» attiva che, in un certo senso, è chiamata a trasmutare l’energia distruttiva della violenza nella grazia spirituale della nonviolenza.

La nonviolenza non è, secondo Capitini, un’utopia astratta, ma un dinamismo individuale e collettivo, una presa di coscienza che è impegno per servizi sociali utili e non distruttivi. È in questo quadro tematico che va compreso il senso dell’obiettore di coscienza o di colui che boicotta o protesta pacificamente tramite attività e gesti collettivi (scioperi, cortei, sit-in, marce), con i quali si raggiungono risultati molti ampi se essi sono frutto di una condivisione vera di valori comuni: Gandhi ne è l’esempio più grande. Da questo discorso relativo alle tecniche collettive e all’organizzazione di strutture di collaborazione libere da costrizioni e da autorità «imposte dall’alto» Capitini è giunto ad una teoria più ampia della realtà di tutti, che è incentrata sulla compresenza di tutti e sul diritto di accedere completamente al diritto di partecipazione alla politica tramite dei centri di orientamento sociali e culturali.19 In questo quadro dinamico si situa la successiva tematica politica, che indica il fine politico vero e proprio della democrazia: la omnicrazia e la tematizazione del «potere di tutti».

4. Il potere di tutti: definizione, prospettive e problematiche sociali e politiche

Capitini, pur avendo stretto amicizia con personaggi antifascisti durante il perdo dei CLN (tra i quali si annoverano altri grandi filosofi politici come Guido Calogero e Norberto Bobbio), non condivise la piega che molti antifascisti presero dopo la seconda guerra mondiale, entrando nelle lotte strategiche e machiavelliche dei partiti politici, dimenticando che l’essenza della rivoluzione non è la conquista del potere, ma la redistribuzione equa del medesimo in senso orizzontale, nel senso di «apertura» rivoluzionaria nonviolenta.20

È interessante osservare che Capitini è mosso dallo stesso spirito di liberazione radicale che è presente nel pensiero marxista, pur non condividendo i mezzi di imposizione dittatoriali con i quali si è imposto il «socialismo reale»; Capitini si esprime in termini molto chiari:

La soluzione marxista, pur essendo più vicina alla realtà di tutti, per la finalità universale — oltre ogni istituzione — di liberazione di tutti, aveva il difetto di non fornire mezzi adeguati ad una parte della società civile, quella proletaria, per realizzarsi nel modo richiesto dalla compresenza. La violenza, la dittatura, l’eliminazione degli avversari, concepiti come mezzi dal marxismo, non sono gli strumenti adeguati per trasformare gli elementi di naturalità e violenza viventi nella società civile.21

Negli anni sessanta Capitini si concentrò sul problema della gestione del potere nella società e dell’impegno morale e sociale a costruire una società nella quale il valore religioso della «compresenza» diventi «compartecipazione» in un anelito di slancio universale che sia non solo sociale, ma anche politico; in questo quadro di riferimento appare evidente che Capitini, tenace avversario del fascismo e della violenza totalitaria (anche di stampo marxista o comunista), assume un atteggiamento di autonomia rispetto a tutti i partiti istituzionalizzati per un motivo centrale: Capitini nota che i partiti politici tendono a chiudersi nelle loro logiche «di potere» e cercano il consenso, invece di aprirsi e cercare il dialogo concreto; Capitini è molto vicino, in un certo senso, a Foucault, pur perseguendo intenti filosofici ben diversi da quest’ultimo, quando mette in luce come la relazione tra «potere» e sfera sociale sia basata su un «ordine del discorso» e sull’esercizio di figure retoriche che si ripetono; in fondo il «comizio» che Capitini critica22 è una forma di assoggettamento dall’alto, un considerare gli individui partecipanti come una massa indefinita che deve ascoltare, non permettendo loro di prendere la parola attivamente; una vera partecipazione costruttiva è quella del dialogo libero tra più persone che si ascoltano e si rispettano reciprocamente, in tale contesto si costituisce una comunità realmente comunicante che può scegliere e organizzare eventi, attività sul territorio, dialogando con le istituzioni democratiche in un rispetto reciproco. La omnicrazia non è una dimensione astratta e ideale, ma è il perfezionamento ulteriore della democrazia parlamentare, la quale non è ancora esente dall’elogio della prassi violenta, che per Capitini va superata totalmente. Il filosofo perugino scrive:

Lo sviluppo della democrazia, in quanto cerca di allargare il potere al maggior numero possibile di individui, superando le difficoltà conseguenti alle diversità di razza, di classe sociale, di ricchezza, di cultura, tende al potere di tutti, ma non lo raggiunge effettivamente. La democrazia attuale attribuisce alla maggioranza un potere che qualche volta è eccessivo rispetto ai diritti delle minoranze; fa guerre di Stato contro Stato; conferisce alle polizie il potere di torturare (come avviene in tutti i Paesi) e molte volte un soverchio intervento nell’ordine pubblico; non è sufficientemente aperta a ciò che potranno dare o vorranno essere i giovanissimi e i posteri; preferisce strumenti coercitivi e repressivi a strumenti persuasivi ed educativi; si lascia sopraffare dalle burocrazie trascurando il servizio al pubblico anonimo; concentra il potere preferendo l’efficienza al controllo, e finisce col non considerare sufficientemente i mezzi e le loro conseguenze, pur di raggiungere un fine.23

Queste parole, osservando l’attualità geopolitica europea, sembrano essere di una sconvolgente attualità: Negli ultimi venti anni abbiamo assistito a molte «guerre preventive» in difesa di ideali quali la democrazia e la libertà, ma si è rimasti ingabbiati nel gioco della violenza, giustificando come «violenza legittima» una «violenza illegittima» in base ad un sistema assiologico che viene proiettato come il migliore, il più umano e il più libero: è il caso della violazione dei diritti umani da parte dei soldati americani nella prigione di Guantanamo mediante l’impiego di efferate torture contro dei militari iracheni. Giustificare tale pratica inumana è sbagliato in sé indipendentemente dalla colorazione ideologica che le si vuole sovrapporre; occorrerebbe chiedersi quali mezzi debbano essere impiegati per raggiungere la migliore finalità politica e morale per tutti gli uomini intesi come tanti tu, come tante persone degne di rispetto e di amore. La teoria della omnicrazia capitiniana, in quanto proseguimento e miglioramento ideale della democrazia rappresentativa, cerca di attuare tutte le condizioni possibili non solo per rinunciare alla violenza aggressiva, ma per rinunciare al potere mediante la violenza. Ma come si pone il rapporto tra potere e omnicrazia? In che senso si può parlare di potere di tutti? Non vi è il rischio di una astratta generalizzazione in questa definizione? Per cercare di rispondere a tali domande è opportuno, a mio avviso, partire da due riflessioni pragmatiche di Capitini che tendono a chiarire la definizione di «omnicrazia» in quanto «potere di tutti».

5. L’«omnicrazia» e il superamento della democrazia parlamentare

In primo luogo, le tecniche della nonviolenza non solo permettono, ma esigono la partecipazione di tutti alla lotta, al di sopra delle differenze intellettuali, culturali, economiche, sociali, fisiche, di collocazione geografica, di razza, di religione. Le tecniche di non violenza sono incentrate sul dialogo come incontro e valorizzazione del rapporto tra individualità libere che, mediante la valorizzazione del pluralismo attivo, realizzano la vera tolleranza che non è semplice convivenza comune, ma è compresenza e condivisione progressiva del potere sociale.

In secondo luogo, tenendo conto dei risultati nella storia, compresi quelli del socialismo reale, la «conquista nonviolenta» del potere, proprio per aver cercato, trovato e utilizzato una larga base di consenso e per aver rifiutato la distruzione o l’umiliazione degli avversari, dà maggiori garanzie di stabilità e di consenso duraturo:

La scelta della rivoluzione nonviolenta al posto di quella violenta dipende dalla fiducia che i mezzi della nonviolenza assicurano, a lungo andare, una maggiore stabilità alle conquiste.24

La nonviolenza edifica nuovi orizzonti di senso umano e rende possibile la «omnicrazia», la rimessa in discussione dei poteri costituiti per come essi lo sono stati finora: per far ciò in modo costruttivo è necessario, secondo il pensiero capitiniano, creare movimenti «dal basso», con assemblee aperte sul territorio e in vari ambiti sociali, culturali, politici e sanitari, per far prendere coscienza della «partecipazione» attiva alla dibattito in modo da essere consapevole di «compartecipare» con chiunque prenda la parola o con chiunque sia lì presente. Capitini scrive a tal proposito:

L’affermazione che facciamo da anni è che “il potere è di tutti”, e la prima concretizzazione di questo principio è il valore dell’assemblea permanente, o periodica (che è lo stesso). Noi sostenevamo e sosteniamo che l’assemblea va costituita dappertutto. Nelle scuole, nelle fabbriche, nella aziende agrarie, nelle parrocchie, negli ospedali, negli enti previdenziali e assistenziali, … perfino nelle carceri, nei limiti — ben s’intende — dell’ordine generale. Le assemblee hanno il compito di controllare le varie e onnipotenti burocrazie, di conoscere le entrate e le spese, di proporre mutamenti.25

L’affermazione di un primato dell’assemblea su altre forme tradizionali di comunicazione politica (comizio, riunione dei vertici di partito, riunioni segrete…) consiste nel fatto che essa garantisce una piena dinamica comunicativa paritaria tra le persone comunicanti, a condizione che sia svolta secondo i principi della «nonviolenza» di cui si è detto in precedenza; oltre a ciò l’assemblea si occupa di porre all’ordine del giorno delle questioni concrete di interesse comune e di proporre dei progetti pragmatici tesi a risolvere determinati problemi. Capitini non parla qui di assemblee ideali, ma di assemblee reali, le quali ovviamente devono essere preparate e gestite da persone che possano educare alla nonviolenza. Sarebbe, tuttavia, un errore enorme quello di ritenere le altre strutture politiche o parlamentari come degli ostacoli; al contrario, Capitini afferma in modo inequivocabile e perentorio:

È chiaro che la costruzione nonviolenta non è riformismo; per noi le libertà costituzionali, la democrazia parlamentare e consiliare locale, la legge per l’obiezione di coscienza, le commissioni interne e le mutue, il referendum, sono strumenti da non spregiare, ma da non idolatrare. Quelli che li spregiano finiscono per affidarsi al pugno forte dei gerarchi e dei militari; noi che li utilizziamo sappiamo che sono semplici strumenti, perché la nostra finalità è la presenza costante e il potere di tutti, perciò vorremmo, oltre il Parlamento, decine di migliaia di “centri sociali” in tutti i villaggi e rioni, e decine di migliaia di “commissioni di controllo” in tutti gli enti. “I rivoluzionari” ci restano talvolta indietro col fiato grosso, e finiscono per accontentarsi di qualche pezzo di potere, mentre noi lo vogliamo tutto e per tutti.26

L’omnicrazia non si pone come distruzione della democrazia parlamentare, al contrario ne è l’ampliamento ulteriore, ne è il miglioramento, se viene intesa nel modo corretto. Il discorso è molto ampio e andrebbe approfondito in tutte le sue dinamiche reali, osservandone la fattibilità politica o meno; si può essere d’accordo o meno sul senso specifico di tali affermazioni, ma di sicuro tale idea rappresenta, a mio avviso, un ottimo equilibrio tra le istanze socialiste e quelle liberali, un tentativo di uscire fuori dai vecchi schemi ideologici o post-ideologici che ancora imperversano nella dialettica della prassi politica contemporanea.

6. Conclusioni

Il pensiero religioso, filosofico e politico di Capitini è un’esempio di grande sintesi concettuale e di coerenza morale e come tale dovrebbe essere studiato e rivalutato nel modo giusto. La nonviolenza è sicuramente l’ambito centrale del suo pensiero, ma essa deve essere integrata da una rielaborazione del potere che tenda a rivoluzionare i rapporti di forza con le istituzioni inique e violente della nostra società. Il pacifista capitiniano, perciò, non è un sognatore remissivo e intimidito, ma un coraggioso combattente, spinto anche al sacrificio, pur di promuovere la pace in ogni possibile angolo del pianeta e della società; il pacifismo omnicratico di Capitini può essere condiviso o meno, accettato in parte o in toto, ma non si può ignorarne la forza propulsiva e morale che ancora oggi, a mio avviso, offre un sistema di valori da riscoprire in modo nuovo e autonomo. Capitini non voleva fare proseliti, ma voleva persuadere liberamente; intendeva, quasi socraticamente, sviluppare una maieutica universale tesa a mostrare la brutale assurdità della violenza, proponendo una forma rivoluzionaria nonviolenta che ancora oggi offre molti spunti critici, politici e storici estremamente attuali e plausibili.


  1. Aldo Capitini scrisse una lunga lettera a Gentile, del quale fu segretario presso la Scuola Normale di Pisa, specificando i motivi della sua opposizione al fascismo: «Ho preso in esame dal punto di vista religioso il problema della violenza e l’insegnamento ad avere fiducia in essa, e mi è sembrato che quell’insegnamento sia un errore e riveli mancanza di profonda fede nello spirito perché l’amore è veramente spirituale solo quando è infinita possibilità di amare — e perciò la religione è educazione all’amore — mentre l’amore deliberatamente limitato è idolatria o superstite egoismo» (citato in S. Romano, «Aldo Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale di Pisa», Corriere della sera, 4 luglio 2006, p. 37). ↩︎

  2. Da alcuni anni, però, si sta riaffermando un interesse autentico per il suo pensiero, grazie ad una cospicua serie di pubblicazioni sul pensiero filosofico e politico di Capitini. ↩︎

  3. Tecniche della nonviolenza, Roma, Edizioni dell’asino, 2009, p. 11. ↩︎

  4. Il potere di tutti, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 104. ↩︎

  5. Cronache di filosofia italiana, Vol. II, Bari, Laterza, p. 419. ↩︎

  6. Elementi di una esperienza religiosa, Bari, Laterza 1937, p. 22. ↩︎

  7. Elementi di un’esperienza religiosa, op. cit., pp. 28-29. ↩︎

  8. Ibidem, p. 30. ↩︎

  9. Ibidem, p. 38. ↩︎

  10. La realtà di tutti, Pisa, Arti Grafiche Tornar, 1948. ↩︎

  11. Mi riferisco ad un’esperienza organizzativa estremamente innovativa nel panorama politico italiano del primo dopoguerra: i Centri di Orientamento Religioso che poi furono susseguiti dai Centri di Orientamento Sociale. Capitini fu l’ideatore e il promotore di centri di incontro «sul territorio» che dovevano far compartecipare in una sorta di «democrazia diretta», incentrata sui valori del dialogo e della prassi «nonviolenta». Tali centri vennero profondamente osteggiati da alcuni ambienti cattolici tradizionalisti, così come da diversi partiti di centro e di sinistra. ↩︎

  12. Tecniche della nonviolenza, op. cit., pp. 71-75. ↩︎

  13. Il principio è molto simile alla dottrina buddhista che afferma l’importanza del superamento del meccanismo azione / reazione in termini morali. ↩︎

  14. Tecniche della nonviolenza, op. cit., p. 50. ↩︎

  15. Ich und Du, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1995. ↩︎

  16. Tecniche della nonviolenza, op. cit., p. 51. ↩︎

  17. Ibidem, p. 67. ↩︎

  18. In altri termini: il sabotatore nonviolento combatte un sistema violento o una dittatura, ma lo fa utilizzando strumenti che non abbiano come fine ultimo quello di uccidere altre vite umane. ↩︎

  19. Capitini organizzò molti COS (centri di orientamento sociale) per organizzare una vera vita democratica nell’Italia del dopoguerra; egli si pose in un atteggiamento critico nei confronti dei partiti tradizionali, strutturando tali centri in modo orizzontale, non escludendo nessuno dalla conversazione e dal dialogo. ↩︎

  20. Il termine «apertura» è fondamentale nel pensiero di Capitini ed è legato all’atteggiamento fondamentale della compresenza, del dialogo e dell’ascolto. L’apertura è un’azione continua di formazione morale, religiosa e filosofica che tende a superare le «chiusure» ideologiche, di qualsiasi nature esse siano. ↩︎

  21. Il potere di tutti, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 104. ↩︎

  22. Ibidem, p. 168. ↩︎

  23. Il potere di tutti, op. cit., p. 64. ↩︎

  24. Ibidem, p. 86. ↩︎

  25. Ibidem, p. 108. ↩︎

  26. Scritti sulla nonviolenza, Perugia, Protagon, pp. 433-434. ↩︎