’Avram ha-\`ivrî o della migrazione del tempo

Come echi dagli abissi della Scrittura affiorano forme di linguaggio, allusioni ed enigmi che l’orecchio non finirebbe mai di ascoltare

— A.J. Heschel

Poi Terah prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Haran, figlio cioè del suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan. Arrivarono fino a Harran e vi si stabilirono.1

Non ci è data alcuna spiegazione dell’esodo scelto da Terah né alcuna motivazione che lo spinga a Canaan. Qualunque ne sia stata la causa, essa sembra essere estranea o indipendente dalla chiamata divina, che in realtà raggiungerà Abram solo dopo che la famiglia interrompe il viaggio e si stabilisce a Harran.

Il verso ci informa di un percorso a tre tappe che da Ur dei Caldei arriva fino al paese di Canaan. Ur, città della bassa Mesopotamia, è anacronisticamente ribattezzata nel testo biblico, dei Caldei;2 importante centro già all’inizio del II millennio a.C., ci viene descritta come «la più grande capitale commerciale che il mondo avesse mai visto».3 È attestato che avesse legami religiosi e commerciali con Harran, con la quale condivideva il culto notturno del dio Sin.4 Quattro volte è menzionata dalle fonti bibliche; prima, per riferire che Haran, fratello di Abramo, vi muore mentre la famiglia vive ancora nella città; un’altra volta è menzionata, quando Dio — rassicurando Abramo con la promessa di un erede diretto — la indica come il luogo da cui «ti ho fatto uscire»; luogo originario quindi da cui parte una migrazione, che è inizio della trasfigurazione di Abramo in una nuova discendenza.5 Così la ricorderà anche Giosuè alla grande assemblea del popolo, raccolto in Sichem, aggiungendo che lì dove «i vostri padri abitarono da tempi antichi», anche «vi servirono altri dèi». Molti secoli più tardi, saranno le comunità di ebrei tornati dall’esilio babilonese a richiamarne la memoria, in una preghiera che benedice Dio per aver tratto Abramo fuori da quei luoghi.6 E come allora un uomo si mise in cammino, senza altra ragione apparente che seguire il flusso migratorio del suo gruppo familiare, allo stesso modo ora il suo popolo lascia quella terra d’esilio, già asservita ai ritmi siderali del tempo, e ritrova nell’alveo del fiume che Abramo ha tracciato nei deserti di Canaan, il ritmo e la libertà di un tempo scandito dalla storia, la loro. Tempo di Dio e tempo dell’uomo, loro unica storia possibile.

Le migrazioni e le conquiste trascinavano, popoli e gruppi etnici, in spostamenti i cui ritmi «si contavano allo stesso titolo dei periodi della natura», nel computo del tempo.7 Una solida cornice storica, quindi, lega l’intenzione di Terah di abbandonare Ur a quegli ampi movimenti di popoli, attestati nel Vicino Oriente del II millennio. Forse questo stesso «fenomeno naturale» coinvolge Terah mosso ad allontanarsi dall’ostilità della sua terra natale, ché — ci dice Gen 11,28 — invece di essere grembo fertile per la sopravvivenza, si trasforma in sepolcro inaridito della sua discendenza: luogo di sepoltura del più piccolo dei suoi figli.8 Qualunque movente si possa cercare, ciò che viene trasmesso di questa migrazione è che essa si impiglia nella ierofania di un progetto divino, che la trasfigura, e con essa anche la memoria e la storia dei suoi protagonisti. Una storia questa che non distrae e occupa, con le indagini filosofiche o con la retorica, lo spirito di chi l’ha tramandata, né quello di chi ne fa menzione; al contrario, una storia che interessa le «relazioni di destino»9 di quanti la vivono; è storia di Dio e degli uomini. Eticamente fondati nella religazione10 del rapporto col divino, i comportamenti umani assumono risonanza metafisica e agiscono sul mondo per «creare della storia».11

Cronologia — quella che inizia con Abramo — che ricrea innanzitutto la relazione tra l’uomo e la natura, un nuovo patto che offre la speranza di una pacificazione. Non più una relazione, come tra i popoli antichi, ossessionata dalle ostilità delle stagioni, dalle avversità degli astri, dalla precarietà delle rivoluzioni e delle catastrofi provocate dai fiumi insicuri della Mesopotamia; ma neppure, la relazione dettata dal più prevedibile ritmo del Nilo, che determina per l’Egitto la fissità del suo tempo e l’immobilità incontestata dei suoi confini. Cronologia quella di Abramo invece che si fa durata, in un viaggio in cui insieme all’uomo migra anche il tempo: che esce così dal computo siderale e si fa storico. E se i ritmi dell’uomo e quelli della natura si svolgono nella mobilità e nel dinamismo della migrazione,12 i ritmi di Abramo incontrano quelli di Dio nello spazio nuovo del tempo e nel silenzio dei deserti di Canaan. «Vattene dal tuo paese, […] verso il paese che io ti indicherò»(Gen 12,1) sembra dire innanzitutto: vattene dallo spazio sordo di una natura ostile e va’ incontro al nuovo spazio silenzioso del tempo che io ti darò, da qui all’eternità; esci dal computo siderale finito di un tempo voluto da «altri dèi» ed entra nella storia non-finita di un Altro, il cui tempo anche ti appartiene. La parola di Dio rivolta ad Abramo, converte un’ordinaria migrazione in un movimento decisivo — per un uomo e la sua discendenza — che inaugura l’inizio di una nuova storia: proprio quella in cui l’uomo e Dio vivono insieme.

Leggere questa storia significa seguire le sue metamorfosi e cogliere le novità e le sorprese che si rivelano, pure nella minima contrazione o espansione del loro respiro. Dal tessuto narrativo, come dagli spazi bianchi che circondano le lettere nere della Torah,13 emerge il percorso di un viaggio estraneo al pensiero e alla tradizione filosofica occidentali, ma che giunge fino a noi col suo carico di destino per l’uomo. Il viaggio di Abramo nella Mezzaluna fertile del mondo, tra popoli e luoghi in cui è fissata l’origine della civiltà, non è l’odissea del naufrago in balia del mare; eppure la terra ferma sarà per lui tanto insidiosa quanto l’acqua per Ulisse; il suo deserto tanto minaccioso quanto per l’altro le omeriche isole del Mediterraneo. Certo il racconto biblico della peregrinazione di Abramo non soddisfa la curiosità del lettore avvezzo alla scrupolosa narrativa omerica; lì il tempo e lo spazio sono perfettamente ben articolati, in descrizioni chiare e uniformi che illuminano costantemente tutti gli oggetti, i pensieri e le azioni, anche nei momenti più drammatici delle vicende umane. La rappresentazione dei fenomeni, nello stile omerico, non conosce frammentazione, né lacuna, né sguardi fugaci verso un fondo inesplorato. Il ritmo continuo degli eventi ha luogo sempre in primo piano e accompagna il lettore in un succedersi temporale o spaziale, sempre oggettivo, presente e pieno.14 Tutt’altra tessitura quella della trama biblica in cui si sviluppa la storia di Abramo. Qui lo stile narrativo si genera proprio a partire da ciò che nel procedimento omerico non c’è, perché scartato o semplicemente non contemplato. La frammentazione, la lacuna, le gap di cui il testo scritturale è costellato, sono tutte le porte di accesso a significati vari e inattesi, la cui forza creatrice dischiude orizzonti sonori di senso altrimenti muti, se spalmati nell’indistinto procedere del tempo cronologico. È necessario perciò disporsi a cogliere nella Bibbia, attraverso le idee, gli idiomi e i medium letterari in cui essa si esprime, l’evento che è posto dentro la cornice retorica della cronologia, per la sua capacità di produrre significative conseguenze e importanti punti di svolta per l’umanità intera. Ricchezza di una lettura questa del testo scritturale che definiremo «storiosofica»,15 poiché ci restituisce la sapienza di una storia piuttosto che una storia della sapienza; dal momento che essa propone, nella differenza non solo stilistica o contenutistica ma sostanziale, un altro modo di stare nella storia. L’esegesi della parola che Dio rivolge ad Abramo: «Vattene […]», è l’esegesi quindi di questo modo altro di creare storia.

Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò.16

Dove ci porta il viaggio di Abramo, dunque? E in quale modo la Bibbia vuole che Abramo sia compreso? Virtute e canoscenza sono certo le prerogative di uomini sì aguti […] al folle volo,17 che nel loro rapporto con lo spazio, conquistano una dottrina etica e procreano una gnoseologia delle virtù. L’uomo, sulla cui pelle il concilio de li dèi falsi e bugiardi18 decide l’esilio, trova in se stesso le ragioni del suo destino, individuando nella ricerca della virtù e della conoscenza il senso ultimo del suo peregrinare: un imperativo etico di fronte al quale nessun legame parentale né l’amore per la propria casa «vincer potero dentro a me l’ardore ch’i ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore».19 Abramo recupera invece la sua distanza dalle cose dello spazio ed entra, con la migrazione, in un altro tempo, che «da mero strumento cronologico-quantitativo diventa il luogo entro cui eternamente dimoriamo».20 Così sembra soggiornare Abramo in questo nuovo spazio che il divino gli propone: il tempo è il mezzo principale della rivoluzione gnoseologica e non le navi attrezzate dell’impavido eroe che — senza tempo vaga — non migra, per colmare la sete di un destino che altri dèi gli hanno imposto. Un tempo «per la conoscenza», in cui la dottrina, l’etica semmai, si dà come storia dell’uomo e di Dio; la cui teologia è narrazione, omogenea però non dal principio ma solo nel continuum ininterrotto del suo tempo;21 il che non è indice di carenza di indizi o vuoti della registrazione cronicistica; al contrario è coscienza di un tempo in cui la storia dell’uomo e la storia di Dio si svolgono contemplando l’attesa, l’assenza, la mancanza, la diacronia e la dissimetria dell’uno per l’altro; un tempo che non «procrea» altro tempo, che non prevarica quello dell’uomo con quello di Dio, o costringe l’uno ad ingannare l’altro per sfuggire alla sua custodia. Quello di Abramo è tempo di incontro in cui l’uomo e Dio «creano» insieme la storia.

Esegesi di un esilio dicevamo; il terzo dopo quelli di Adamo e di Noè. Tuttavia l’esilio di Abramo non è la cacciata che costringe l’uomo ad abbandonare il luogo della ricchezza e della sovrabbondanza verso uno in cui, fatica e sudore varranno il nutrimento. Non è la fuga predisposta per uscire dall’asciutto lembo di terra quotidiano, sicuro e stabile, la cui aridità tuttavia è divenuta tale, che tutta l’acqua necessaria per estinguerla non può che inondarlo e distruggerlo. In effetti Gen 12,1 è l’inizio della terza parashà nel ciclo liturgico sinagogale; dopo quelle di Bereshit e Noach che segnano, secondo la tradizione ebraica, l’era della desolazione, Lekh Lekhà è l’inizio dell’era della Torah, mediante la quale Dio crea il mondo, e nell’osservanza della quale l’uomo diventa «socio di Dio nell’opera della creazione».22 L’era di Abramo diventa quindi terminus ante quem per la creazione del mondo, di una progenie che sta in cooperazione col divino.

Un midrash spiega così le ragioni dell’ordine stabilito da Dio che crea, prima della generazione virtuosa di Abramo, quella dei peccatori desolati, per popolare la terra:

Abramo ha meritato d’essere creato prima di Adamo ma il Santo, sia Egli benedetto, disse: «snaturerebbe le cose che Io faccio per loro, allora non ci sarà nessuno che le rettifichi: ecco dunque Io creerò Adamo prima, e se egli dovesse far diventare le cose tortuose, allora Abramo dopo di lui le farà tornare di nuovo rette.23

Così si esprime su Abramo anche la tradizione dell’aggadah:

Dieci generazioni da Adamo fino a Noè per annunciare quanta pazienza aveva davanti a se, mentre tutte le generazioni provocavano la sua ira, fino a che ha mandato l’acqua del diluvio. Dieci generazioni da Noè fino ad Abramo per annunciare quanta pazienza aveva davanti a se, mentre tutte le generazioni provocavano la sua ira, fino a che è giunto Abramo nostro padre e ricevette il merito di tutti quanti.24

La chiave d’apertura per accedere a questo novum sembra essere tutta racchiusa nell’appello di Dio ad Abramo — lekh lekhà — che rimanda la sua eco fino all’altro luogo biblico in cui Abramo è appellato, stavolta dall’uomo, con un altro nome, ha-`ivrî (Gen 14,13). Lekh lekhà e ha-`ivrî sono il nome di Abramo, quello con cui sia il divino che l’umano appellano in lui la nuova umanità e la trasformano. Nella doppia connotazione dei due termini giace una domanda, anch’essa duplice; quella che Dio rivolge all’uomo e quella che l’uomo indirizza a Dio.

Il primo lemma, lekh, tradotto con l’imperativo di un verbo di movimento, deriva dal verbo halakh andare, e regge tutte le azioni di Abramo: va’, allontanati, esci, rècati. Ora però i luoghi da cui Abramo deve partire sono introdotti dalla preposizione min: dalla tua terra me`artzekha, dalla terra dove sei nato mimmôladtekha, dalla casa di tuo padre mibbêt-’avîkha; mentre ’el: ’el-ha`aretz indica il luogo verso il quale si muove: verso il paese [che io ti indicherò]. Ma se il primo dei due lemmi dice l’azione richiesta ad Abramo, il secondo traduce altro:25 non è luogo, non è direzione, ma lekhà li include entrambi: letteralmente «per te, a te, verso te, in direzione di te», nella tua direzione potremmo aggiungere; lekhà indica cioè che il luogo e il modo dell’azione per raggiungere il «luogo» e il «modo» di Dio — se così si può dire — non è lontano dal cuore stesso di Abramo. La conquista di un nuovo «spazio», per un nuovo popolo, o meglio per un uomo nuovo, corre lungo il tempo di marcia che Abramo impiega per raggiungere attraverso se stesso la promessa di Jhwh. Un «conosci te stesso» nel cuore degli ebrei? Una massima della ricerca personale di Dio nelle medullae animi mei?26 Lungi da entrambi le disposizioni, lekh lekhà segna un movimento che non si rinchiude in una sorta di autofagìa dell’anima o nel mistico scavo interiore, ma si traduce nella azione feconda e reciproca di stare nel mondo e in tutto ciò che accade. Un transire dell’uomo, che non è transcendere;27 modifica di uno status quo che è già rivoluzione: «guarda di rivoluzionare te stesso!» dirà secoli più tardi un figlio di questo popolo al suo interlocutore che vuole trasformare il mondo.28 E il Dio di Abramo si è già messo in gioco, nell’atto stesso della sua ierofania: l’azione che qui si innesta non è solitaria né autoritaria; il tempo imperativo della domanda si dilata al futuro della promessa e diventa esso stesso luogo dell’incontro, il luogo «che io ti indicherò».

A questa stessa connotazione sembra alludere anche l’altro appellativo di Abramo, quello col quale un fuggiasco, scampato alla battaglia che imperversa tra i re di quelle terre, viene ad avvertirlo e lo chiama l’ebreo (Gen 14,13). La parola ha-`ivrî racchiude anche qui molteplici sensi; la si può riconnettere all’unica radice `br che, vocalizzata in `ever, significa «sponda, lato di un fiume»; chiaro rimando alle sponde dei fiumi della Mesopotamia da cui Abramo è partito. Così infatti si legge:

Ad «Abramo l’Ebreo» (Gen 14,13) — rabbi Jehudah disse: tutto il mondo sta da un lato mentre egli dall’altro.29

Altro riferimento è quello che collega Abramo ad Ever, quel progenitore di cui si ha notizia in Gen 11,14-17, che testimonia come il legame genealogico, e quindi l’identità stessa di Abramo, fosse già conosciuta dagli abitanti dei luoghi in cui egli soggiorna come straniero; preludio forse di quel «grande nome» promesso da Jhwh nel tempo della prima rivelazione. Ma la stessa radice `br, vocalizzata in `avar, restituisce un senso più profondo all’identità di Abramo e la riconnette immediatamente a quel movimento, insieme oggettivo e soggettivo, attivo e passivo, a cui il nomade è soggetto nel suo lekh lekhà. Infatti `avar traduce il verbo, «passare, oltrepassare, attraversare, andare oltre», con l’esplicita connotazione di un movimento fisico in cui qualcosa o qualcuno si sposta da un posto all’altro; ma `avar traduce anche «convertire, provocare un passaggio, passare attraverso, trasferire, trasmettere», con una chiara allusione stavolta a quel movimento che decide il cambiamento dell’uomo nella sua dimensione più interiore e personale.

Abramo è dunque l’uomo dell’oltre, il cui tempo è tempo perpetuo e sempre nuovo che lo abilita ad abitare la storia con gli occhi rivolti al passaggio di là dalle sponde; oltre l’umana solitudine di un tempo riciclato senza storia verso uno, di attraversamento, in cui la propria stessa integrità e stabilità si apre continuamente al nuovo. Un oltre ben diverso quindi da quello claustrofobico che certe ontologie contemporanee hanno saputo produrre sulla scorta di quel solitario oltre-uomo30 che brucia tutto nell’enfasi impaziente del suo fagocitare il mondo. Un movimento, quello inaugurato da Abramo, in cui il divino non è il paravento per le burrasche del mondo, o il fondamento di pensieri aporetici in cui il razionale cede — suo malgrado — il passo all’irrazionale. Abramo cammina davanti a Dio perché converte il suo terrore di morte imposto dagli «altri dèi» in quella compassione per il destino del mondo che questo Dio Altro gli svela lungo il viaggio: «cammina davanti a me e sii integro» chiede compassionevole in Gen 17,7 il Dio di Abramo; e gli fa eco una tradizione secondo cui, l’amore di Dio e dell’uomo per il mondo, concorrono alla sua rigenerazione:

Cammina davanti a me e sii integro (Gen 17,7) — a chi è simile Abramo? A colui che ama il suo re e, vedendolo camminare per le strade buie, comincia ad illuminare la strada dalla finestra. Allora il re lo vide e gli disse: «tu che mi illumini dalla finestra vieni e illumina davanti a me.» così disse il Santo — sia Egli benedetto — ad Abramo nostro padre: «tu che mi illumini dalla Mesopotamia e dai paesi vicini vieni e illumina davanti a me nella terra di Israele».31

Dio conosce il bisogno di Abramo e questi il bisogno di Dio; ma ciò che nell’uno è mancanza, nell’Altro è dono: «farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione». Così infatti Rashi spiega la promessa di Dio:

Dal momento che viaggiare è causa di tre cose — diminuisce la fecondità familiare, il possesso di beni e la propria fama — egli (Abramo) necessita queste tre benedizioni: che Dio prometta a lui figli, beni e un grande nome.32

Dio dona ad Abramo futuro nel mondo e questi riconosce il suo Dio come partner del suo stesso bisogno di amore, in un rilancio continuo che si trasforma nel tempo. Sette volte Dio si rivela ad Abramo e ogni volta l’uno impara il bisogno dell’altro. Dall’inizio della sua prova, quando gli viene chiesto di separarsi dal suo passato, fino all’ultima inumana esperienza in cui Abramo deve separarsi anche dal suo futuro, «sacrificando» il figlio della stessa promessa, l’uomo e Dio si guardano: Abramo guarda Dio con gli occhi delle sue azioni e riconoscendolo può camminare sui suoi sentieri; Dio guarda in Abramo l’intima realtà dell’uomo, quella realtà che Egli ha creato testandone l’anima.33 Forse nel mistero di quella `aqedàh,34 cui Abramo attivamente si abbandona, si dice ancora più forte il bisogno dell’uomo di pretendere l’amore di Dio per il mondo. Dopo averne sperimentato la dolcezza in Harran; dopo averne provocato l’abbondanza, nel nome dei giusti che in Sodoma tuttavia non furono trovati; dopo averne testato la concretezza nell’abbraccio di un figlio in cui Dio si compiace, Isacco — che vuole dire Dio ha riso, Abramo annoda indissolubilmente l’amore di Dio al destino del mondo, pretendendone l’intervento compassionevole di fronte all’incertezza del futuro. Non è quindi Isacco ad essere legato sul monte della prova; la `aqedàh interessa Dio. Una lettura al rovescio di questa mutua relazione potrebbe rivelarci infatti che è Abramo a mettere alla prova Dio continuamente, fino a raggiungere sul monte del sacrificio la visione di Jhwh che non distruggerà, come nell’era della desolazione, la nuova stirpe che in Isacco si perpetua. Solo la compassione per l’amore del mondo che Abramo impara da Dio redime così il cielo dal suo isolamento; come è detto:

Finché non venne Abramo nostro padre al mondo, era il Santo — sia Egli benedetto — re del solo cielo, come è detto: «il Signore Dio del cielo che mi ha tolto dalla casa di mio padre» (Gen 24,7); ma da quando Abramo nostro padre venne al mondo lo incoronò in cielo e in terra, come è stato detto: «e ti farò giurare per il Signore, Dio del cielo e Dio della terra» (Gen 24,3).35

Solo la stessa compassione, che Dio impara — se ciò fosse possibile — da Abramo, rende quest’ultimo e la sua discendenza, redenzione del mondo. Abramo — afferma Heschel — diede forza a Dio36 a tal punto che la compassione per l’integrità e la rettitudine di quest’uomo muove Dio alla condiscendenza; ad Abramo dirà: «Io sono El Shaddaj, cammina davanti a me e sii integro». Per un verso Dio prova il cuore dell’uomo; per altro verso è innegabile che la prova non si chiude nella prospettiva di una esperienza di durezza, quella forse sperimentata da Giobbe; piuttosto rimanda ad una dolcezza segreta di Dio che, già nel tempo di Abramo, rivela come l’incontro sia incontro compassionevole in cui Jhwh viene all’uomo per usargli misericordia, per esprimergli il suo desiderio — se così si può dire — di condividere e preparare le strade del mondo, fino alla venuta, dice invece Heschel, fino all’esilio della sua Shekinah.37 Nella `aqedàh Abramo si libera dell’angoscia del futuro mentre Jhwh si identifica con l’angoscia dell’uomo, facendosene carico.38 È la Presenza divina dunque, sulle alture della prova dove ha luogo il sacrificio, che si impiglia — come le corna dell’ariete fra i cespugli — nella storia dell’uomo (Gen 22,13).39 Paradigma di una compassione, di una relazione d’amore in cui si innesta senza fine la virtù dell’uno nella fedeltà dell’altro.


  1. Gen 11,31. Per le citazioni bibliche useremo la «La Bibbia di Gerusalemme» della CEI, Dehoniane, Bologna, 1992. Ci riserviamo di modificare la traslitterazione dei nomi propri di persona o luoghi secondo uno schema più fedele al testo ebraico. ↩︎

  2. La Ur biblica divenne «dei Caldei» non prima della fondazione dell’impero neo-babilonese nel settimo secolo a.C. Vedi in proposito C.H. Gordon, Before the Bible Collins, London 1962; Id. Il Vecchio Testamento e i popoli del Mediterraneo orientale, Morcelliana, Brescia 1959; cfr. anche N. Sarna, Understanding Genesis, Schocken, New York 1970. ↩︎

  3. Cfr. W.F. Albright, in Basor, 163, 1961, p. 44. ↩︎

  4. Gli stessi nomi di famiglia di Terah, Sarai, Milca e Labano sembrano derivare dal culto di tale divinità. Cfr. A. Parrot, Abraham et son Temps, Delachaux & Niestle, Neuchâtel 1962. ↩︎

  5. Gen 15,5-18. È interessante notare che la lettura di questo brano biblico è contemporanea, nella liturgia di rito latino della II Domenica di Quaresima, alla Lettera ai Filippesi (Fil 3,17-4,1) in cui Paolo parla di patria e di trasfigurazione del corpo, e al Vangelo di Luca (Lc 9,28b-36) che racconta della trasfigurazione di Gesù davanti ai suoi. Un’altra nota è degna di essere menzionata a proposito del torpore da cui è colto Abramo e da cui sono assaliti anche Pietro, Giacomo e Giovanni: in entrambe le circostanze la gloria dei cieli si apre su eventi futuri e si mostra a uomini che non possono reggere la rivelazione se non in uno stato di abbandono delle proprie forze, che tuttavia non è incoscienza. ↩︎

  6. Gen 11,28; Gen 15,8; Ne 9,7; Gs 24,2. ↩︎

  7. Per una analisi delle prospettive del tempo e della storia, cfr. A. Neher, L’essenza del profetismo, Marietti, Genova 1984, pp. 52-69. ↩︎

  8. Gen 11,28: «Haran poi morì alla presenza di suo padre Terach, nella sua terra natale, in Ur dei Caldei». ↩︎

  9. A. Neher, L’essenza, cit., p. 67. ↩︎

  10. Il termine è preso in prestito da Zubiri in cui si legge: «Solo chi tenta di collocare nuovamente l’esistenza nella sua radice primigenia può ristabilire con pienezza il nobile esercizio della vita intellettuale. Sin dall’antichità, tale collocazione dell’esistenza aveva un nome preciso: si chiamava religazione o religione» X. Zubiri, Nuestra situación intelectual, 1942: citato in A. Savignano, Unamuno, Ortega, Zubiri, Guida, Napoli 1989. ↩︎

  11. J. Guitton, Le temps et l’éternité chez Plotin et saint Augustin, cit. in A. Neher, L’essenza, cit., p. 66. ↩︎

  12. Su questo tema vedi anche P. Ricci Sindoni, Abramo: vocazione e provocazione al nomadismo, in E. Baccarini, (a cura) Il pensiero nomade. Per una antropologia planetaria, Cittadella Assisi 1994, pp. 132-174. ↩︎

  13. ySeqalim VI, 49d; sugli antecedenti di questa immagine cfr. l’Introduzione di G. Busi, E. Loewenthal (a cura), Mistica ebraica, Torino, Einaudi 1995, pp. xxxv ss. Cfr. anche P. De Benedetti, Sui sentieri della mistica ebraica, in «Sette e Religioni», 18, ESD, Bologna, 2/1999, pp. 22-40. ↩︎

  14. Per un’analisi comparative della narrativa omerica e quella biblica, cfr. E. Auerbach, Mimesis, Princeton University Press, Princeton, 1977, pp. 3-23. ↩︎

  15. A tal proposito Sarna usa l’espressione «biblical historiosophy» per proporre una lettura del testo biblico il cui obiettivo non è la semplice narrativa degli eventi storici, ma il loro uso per l’illuminazione e l’illustrazione della comprensione e della interpretazione bibliche del processo storico; cfr. N. Sarna, Understanding Genesis, cit., pp. 100ss. ↩︎

  16. «Wajjomer Jhwh ‘el-’Avram lekh-lekha me`artzekha umimmôladtekha umibbêth ‘avîkha ‘el-ha`aretz ‘asher ‘ar’ekka». Riportiamo il testo in ebraico, per sottolineare nel lemma centrale del verso, lekh lekhà, la doppia ripetizione del fonema «lekh», «va’», del quale si rilegge più avanti l’esegesi. ↩︎

  17. Inferno, XXVI, 119-125. ↩︎

  18. Inferno I, 72. ↩︎

  19. Inferno, XXVI, 97-99. ↩︎

  20. Cfr. P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, Messaggero, Padova 2002, pp. 91-106. ↩︎

  21. Cfr. M. Buber, On the Bible, Glatzer, New York 1968, p. 24. ↩︎

  22. Cfr. R. Pacifici, La Torah e la Creazione, in «Discorsi sulla Torah», Giuntina, Firenze, 1968 cap. I; si veda anche Derashot di J. Pacifici http://digilander.libero.it/parasha/vecchie%20parashot/5901.htm↩︎

  23. Genesis Rabbah, XIV (tr. mia) da M. H. Harris, Hebraic Literature, 1901: «Abraham deserved to have been created before Adam, but the Holy One — blessed be He! — said, "Should he pervert things as I make them, then there will be no one to rectify them; so behold I will create Adam first, and if he should make things crooked, then Abraham following him will make them straight again». ↩︎

  24. H.N. Bialik, J.H. Ravintzki, Sefer ha’aggadà, (ebr.) Dvir, Tel Aviv 1950, p. 23. ↩︎

  25. Delle ulteriori letture di lekhà si veda in particolare Rashi ad loc.; anche A.J. Heschel, La discesa della Shekinah, tr. it. a cura di P. Messori, Qiqajon, Magnano 2003, p. 38. Vedi anche P. Messori in nota 17 allo stesso testo di Heschel. ↩︎

  26. Cfr. Agostino, Confessiones, III, 6. ↩︎

  27. Ancora nella prosa di S. Agostino troviamo la differenza tra il verbo transire nelle Confessiones (X, 8) e il verbo transcendere nel De vera religione↩︎

  28. Il riferimento è a Wittgenstein; vedi in R. Rhees, Ludwig Wittgenstein: Personal Recollection, Basil Blackwell, Oxford 1981. ↩︎

  29. Cfr. Bialik e Ravintzki, Sefer, cit., p. 23. ↩︎

  30. Quel Nietzsche, fin troppo heideggerianizzato, spesso riciclato; riletto con meno disincanto da Girard in R. Girard, G. Fornari, Il caso Nietzsche, Marietti Genova, 2002. Vedi anche P. Ricci Sindoni, Heschel, cit., p. 103. ↩︎

  31. Genesi Rabbà, 30. Cfr. Bialik e Ravintzki, Sefer, cit., p. 25. Cfr. anche A.J. Heschel, La discesa, cit., p. 53. ↩︎

  32. Rashi, ad loc. Genesi Rabbà, 39. ↩︎

  33. Cfr. M. Buber, «Abraham the Seer» in On the Bible, cit., pp. 22-43. ↩︎

  34. Con il termine `aqedàh la tradizione ebraica si riferisce al racconto biblico del sacrificio di Isacco. Letteralmente `aqedàh deriva dal verbo `aqad che vuol dire «legare», perché è detto in Gen 22,10: «legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare sopra la legna». ↩︎

  35. Cfr. Bialik e Ravintzki, Sefer, cit., p. 29. ↩︎

  36. Cfr. Heschel, La discesa, cit., p. 52. ↩︎

  37. Cfr. Heschel, La discesa, cit., pp. 35-40. ↩︎

  38. Sal 91,15 «Con lui io sono in angoscia»: cosi interpreta Rabbi ‘Aqiva la compassione di Jhwh per l’uomo; vedi Heschel, La discesa, cit., p. 28-29. ↩︎

  39. Gen 22,13: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio». ↩︎